1. In occasione del centenario dell'Accademia Britannica P. Burke
pubblica la sua ultima fatica che, pur richiamando nel titolo il classico
di J. Gooch sul diciannovesimo secolo, rimanda piuttosto all'importante
raccolta sulla storiografia contemporanea curata con successo dal professore
di Cambridge nel 1991. Anche questo volume infatti contiene una sua densa
introduzione a dieci saggi di sintesi firmati da noti studiosi; esso riprende
inoltre dal precedente l'estrema varietà dei temi e degli
approcci, ma anche, sfortunatamente, una certa incoerenza tra le parti.
L'opera vorrebbe introdurre il lettore alla ricerca storica britannica
del XX secolo, ma né la restrizione spaziale, né l'estensione
cronologica incidono sulle qualità e i difetti del lavoro, che
ricordano da vicino quelli già ravvisati dieci anni fa.
Nella sua acuta presentazione Burke sembra in effetti condividere questa
opinione, ma cerca di anticipare le possibili critiche enfatizzando l'occasione
celebrativa e la difficoltà di coprire un campo così vasto
in un singolo testo. Egli è chiaramente consapevole dei rischi
inerenti alle scelte compiute, ma afferma di aver voluto offrire una rassegna
aperta e aggiornata del settore, approfondendo poi solo alcuni dei nodi
maggiori: le peculiarità del contesto britannico; la periodizzazione
del secolo; gli sviluppi più recenti; la costruzione degli oggetti
e dei campi stessi di ricerca; il giudizio critico sui progressi della
materia. Certo non è facile accettare che Q. Tarantino sia nominato
più di M. Postan; o che non ci siano capitoli dedicati all'economia
e al pensiero politico. Vale comunque la pena di analizzare meglio il
volume, esaminandolo sulla base delle sue stesse premesse piuttosto che
delle inevitabili carenze.
2. Una prima notazione riguarda il fatto che solo due saggi della raccolta
siano dedicati ad un luogo o ad un tempo determinati, come avviene invece
spesso in queste circostanze.
Nel primo di questi, tra l'altro, M. Rubin si occupa del Medio Evo
senza limitarsi affatto al caso britannico. Le interessa piuttosto sottolineare
le particolarità del settore relativamente al difficile apprendistato
e alla sofisticazione metodologica; e soprattutto cerca di spiegare la
crescita di interesse per le tematiche medievali sulla base del doppio
effetto di modernità ed esotismo che esse evocano. In quanto lontano
nel passato, infatti, il Medio Evo è radicalmente diverso, un altro
mondo "bizzarro e meraviglioso". Ma esso esercita anche una
attrazione nostalgica come radice riconoscibile del presente; e richiama
addirittura il futuro, ispirando forme culturali e politiche alternative
(si pensi al quadro storico europeo delineato da Le Goff sulla base dei
suoi studi medievali). Secondo Rubin si potrebbe trarre giovamento da
queste "rifrazioni del tempo storico" usandole come "casse
di risonanza per le questioni contemporanee" nella misura in cui
esse combinano virtuosamente "una pregnante familiarità con
l'occasione del distacco critico".
Nella seconda parte del capitolo, l'autrice enfatizza la svolta
concettuale imposta dalla diffusione di nuovi approcci, come la storia
delle donne o gli studi sul modo ebraico, che contribuiscono a superare
le dicotomie esasperate e a cogliere invece la straordinaria complessità
del periodo (e della storia in generale). L'approccio quantitativo,
dominante nel recente passato, può essere ora utilmente integrato
con una nuova attenzione ai contesti, in modo che il concetto di "esperienza"
diventi la nuova chiave con cui affrontare il lavoro storico. Sulla scia
dell'antropologia, infatti, il concetto di "cultura"
ha conquistato il centro degli studi medievali.
Rubin parla spesso in termini di "svolta testuale"o "ermeneutica"
e sembra plaudire a questa "nuova storia"; ma è addirittura
entusiasta riguardo alla "nuova filologia" che ritrova nei
lavori di C. W. Baunum sulla storia religiosa, con il loro costante riferimento
alla dimensione simbolica che non va però a scapito della puntuale
analisi testuale. L'autrice conclude invitando gli storici "all'umiltà
verso il testo, all'impegno critico verso i problemi personali e
istituzionali, alla messa in discussione delle gerarchie e al confronto
con una varietà di voci".
3. C. A. Bayly, nel suo saggio sulla storia asiatica (significativamente
intitolato: "L'Oriente"), fornisce una dettagliata analisi
degli studi sull'Arabia (e la Persia), sull'India e sull'Estremo
Oriente. Allo scopo di respingere l'idea che prima di E. Said tutta
la storiografia sull'argomento sia stata fondamentalmente imperialistica,
l'autore ricorda come la prima metà del ventesimo secolo
sia stata un periodo molto fruttuoso, grazie al lavoro di pionieri come
E. Browne, H. Gibb e E. Havell (ma viene citato anche E. Thompson, padre
del più celebre E. P.).
Oltre agli indubitabili interessi politici, altri fattori contribuiscono
a dare forma all'orientalistica britannica e tra questi Bayly elenca
l'arte, la religione e la razza, ma anche le opinioni locali, che
si sviluppano in stretta interazione con quelle della metropoli. Il risultato
è quello che viene definito "paradigma organico della redenzione",
in cui il moralismo sembra prevalere sulla bruta volontà di potenza.
Secondo Bayly un punto di svolta fondamentale è costituito dalla
Seconda Guerra Mondiale, dopo la quale i dibattiti sullo stato sociale
e sulla decolonizzazione incoraggiano l'emergere anche nella storia
asiatica di un orientamento sociale su base marxista. Storici come B.
Lewis o A. Hourani, interessati ad una nuova costruzione culturale del
passato, si preoccupano di riformare, piuttosto che semplicemente di registrare,
la cultura asiatica; grazie alle competenze linguistiche acquisite, essi
leggono la storiografia autoctona e hanno accesso anche a nuovi archivi.
Così la storia asiatica procede oltre lo studio delle grandi formazioni
politiche per toccare le realtà locali; sviluppa nuove e contrastanti
interpretazioni del nazionalismo; incrocia altre tradizioni storiografiche
provenienti dall'estero, come le "Annales" o la storia
sociale americana.
Un altro mutamento di rilievo avviene negli anni '80 ed è
caratterizzato dalla proliferazione di nuovi temi, dall'internazionalizzazione
della ricerca e dall'emergere di una nuova generazione di studiosi
che vede anche i radicali degli anni '60 come conservatori. Mentre
storici di sinistra e femministe combattono contro l'esclusione
materiale, la critica del già citato Said solleva dubbi sui pregiudizi
epistemologici impliciti nella storiografia occidentale. I relativisti
postmoderni vanno ancora oltre e, innestando Foucault e Derrida su una
visione etnica della politica, reclamano l'autenticità degli
oppressi come fondamentale criterio di analisi.
Nonostante il successo di gruppi di ricerca come quello indiano di studi
subalterni, Bayly si mostra convinto che questa "nuova storia dal
basso" non possa portare ad una reale rivoluzione accademica (come
è avvenuto in Nord America o in Australia) a causa del tradizionale
conservatorismo accademico, ma anche del comprensibile timore che essa
rappresenti solo un'altra forma più subdola di essenzialismo.
Al di sotto della sua retorica sulla frammentazione e il decentramento,
infatti, essa sembra resuscitare un concetto di cultura "altrettanto
organico e indifferenziato delle vecchie categorie di razza e religione".
4. Il volume è imperniato sui tre capitoli dedicati a nazione,
classe e genere (che pure L. Jordanova definisce polemicamente "santa
trinità" della storia sociale). Il saggio di J. Breuilly
sulla nazione è forse il più persuasivo: esso fornisce infatti
un'utile rassegna degli approcci storiografici all'argomento
e mostra come la nazione sia stata vista di volta in volta come criterio
di organizzazione, come forza storica, come conquista sociale, come mito,
come concetto analitico.
Nella prima metà del ventesimo secolo la nazione è, a suo
parere, un assunto consolidato, soprattutto in Gran Bretagna, dove gli
storici si considerano membri del paese guida nel mondo. Breuilly si sofferma
quindi sul trattamento dedicato alle altre nazioni, per mostrare come
l'implicito patriottismo degli studiosi condizioni la loro opinione
positiva sulle singole cause nazionali (il lettore italiano troverà
peraltro note interessanti su Trevelyan e Seton Watson).
La Prima Guerra Mondiale rappresenta per Breuilly una svolta drammatica,
poiché il nazionalismo svela il suo lato negativo portando uomini
come L. Namier ad adottare un'ottica scettica sull'intero
concetto. Il discredito si diffonde poi pienamente nel secondo dopoguerra,
quando i nuovi valori sopranazionali sembrano assai più attraenti
e anche tra gli studiosi britannici si fa strada una visione regressiva
delle storie nazionali italiana, tedesca e polacca. La questione si pone
in termini differenti per quanto concerne le nazioni extraeuropee, verso
le quali si sviluppano approcci diversificati, tra i quali Breuilly passa
in rassegna l'occidentalista, l'irrazionale, il pragmatico
e il periferico. Fino agli anni '70 gli storici britannici non mostrano
però interessi per una generalizzazione e preferiscono concentrarsi
sul lavoro empirico intorno alle singole nazioni.
Trattando degli sviluppi più recenti, Breuilly analizza il quadro
internazionale e discute brevemente il ruolo del criterio nazionale nelle
storiografie straniere. Egli sottolinea il fatto che anche nella centralizzata
Francia il carattere nazionale non sia così definito come in Gran
Bretagna e arriva poi ad esaminare i casi altamente problematici della
Germania e della Turchia prima (come stati-nazione recenti) e dell'Impero
asburgico e dell'URSS poi (in quanto stati multinazionali). Il risultato
dell'analisi è che nonostante i dibattiti ricorrenti sulla
forma più appropriata di nazione e il ricorrere di conflitti esterni
e interni motivati dall'incerta appartenenza nazionale, la nazione
sembra rimanere una categoria fondamentale per la storia contemporanea.
Questa drastica conclusione consente a Breuilly di segnalare la rottura
imposta dalle nuove teorie che definisce, con le parole di A. Smith, "paradigma
modernista classico" del nazionalismo. Fatte salve le differenze
tra le varie versioni, infatti, tutti questi approcci considerano il nazionalismo
come un fenomeno reale (cioè effettivo) e tipicamente moderno.
L'industrialismo in E. Gellner, il capitalismo in M. Hroch, l'ideologia
in E. Kedourie, l'evoluzione dello stato e delle classi dirigenti
in A. Giddens, C. Tilly e M. Mann (ma anche nello stesso Breuilly), sono
le forze che producono e caratterizzano il nazionalismo moderno secondo
questo punto di vista.
Il maggior successo tra le correnti moderniste arride comunque a quella
cosiddetta "immaginativa", espressa in testi come L'invenzione
della tradizione o Comunità immaginarie. Queste opere
aprono però la strada agli approcci postmodernisti, che arrivano
a negare la realtà delle nazioni e concentrano invece la loro attenzione
sui processi di costruzione discorsiva dell'identità nazionale.
Senza sottovalutare gli esiti di questi studi, Breuilly ne denuncia i
gravi difetti e sostiene che essi rinviano semplicemente i problemi interpretativi
ai contesti che di volta in volta consentono alle rappresentazioni di
condizionare effettivamente la realtà. Breuilly inoltre è
scettico sulla possibilità di coordinare gli approcci essenzialisti,
modernisti e postmodernisti in una sintesi coerente e produttiva; egli
auspica piuttosto un pluralismo che, non certo negativo in quanto tale,
appare tuttavia vulnerabile alle mode accademiche e ai condizionamenti
esterni. Nello specifico l'integrazione europea e la globalizzazione
sembrano promuovere il superamento dello schema nazionale, anche se il
multiculturalismo rischia talvolta di riprodurre una separazione tra le
storie con le stesse controindicazioni del vecchio nazionalismo. La più
ovvia conseguenza, in ogni caso, è la fine degli "stili nazionali
di interpretazione storica", evidente anche nel contesto britannico.
Breuilly dedica alcune osservazioni finali al ruolo degli storici stessi
nelle fortune del nazionalismo poi conclude delineando un approccio strettamente
epistemologico, in cui la nazione possa rappresentare un fecondo criterio
di analisi tra gli altri (ed in interazione con essi).
5. Nel suo capitolo sul "genere" L. Jordanova sembra più
impegnata a spiegare il significato di questo termine e nel sostenere
la sua utilità, piuttosto che nel ricostruirne la storia in quanto
strumento analitico, come invece ci si aspetterebbe in un volume come
questo. L'autrice esalta la ricchezza e complessità del concetto
(per esempio in relazione alla storia delle donne; o nei suoi differenti
utilizzi riguardo a tempi, spazi, temi e fonti); ma la sua insistenza
su espressioni come "elusivo", "indeterminato"
o "controverso" rischia di mostrare più le debolezze
dell'approccio che il suo ruolo (indubbio) di sollecitazione euristica.
Jordanova ricorda ripetutamente che "genere" non significa
"sesso", ma è un concetto analitico astratto, che condivide
come tale importanti proprietà con altre forme di differenza socioculturale;
ma questo concetto ha in più altre rilevanti qualità, come
ad esempio l'essere insinuante o l'esistere attraverso il
linguaggio (da cui l'importanza degli approcci letterari e psicanalitici
per gli studiosi di genere). Nella misura in cui fa riferimento ad ogni
aspetto, materiale e culturale, della posizione reciproca tra femminilità
e mascolinità, il genere è virtualmente universale, centrale
e ineludibile.
La storia di genere si occupa allora della continua rielaborazione di
questo rapporto attraverso le creazioni culturali e le pratiche sociali;
rimanda quindi frequentemente a dilemmi teorici e a quadri comparativi.
Essendosi sviluppata a partire dalle rivendicazioni di un movimento politico
come il femminismo, essa ha poi rilevanti implicazioni politiche ad almeno
tre livelli: privato, professionale e istituzionale.
La maggiore preoccupazione dell'autrice riguarda comunque il ruolo
degli studi di genere nel rinnovamento della storia generale, nella misura
in cui essi contribuiscono a mettere in discussione l'essenzialismo
e le categorie sociali consolidate; usano nuove fonti e ridefiniscono
l'approccio a quelle note, relativamente ai loro vuoti e silenzi;
rivestono un ruolo di avanguardia per gli sviluppi recenti degli studi
subalterni e omosessuali.
Jordanova ammette che queste nuove tendenze nascondano qualche insidia,
come l'anacronismo, l'eccesso di teoria o i cedimenti alle
mode; ma pensa ugualmente che, grazie alla categoria di "genere",
storiche e storici possano finalmente arricchire le loro analisi empiriche
con gli strumenti concettuali messi a disposizione da autori come Foucault,
prestando attenzione all'azione umana, ma anche agli effetti culturali.
In questo senso l'autrice promuove l'uso di "gender"
come verbo, piuttosto che come sostantivo, per sottolineare la sua fecondità
come "matrice trasformativa".
6. D. Feldman (cui, dati età e status, è stato affidato
piuttosto sorprendentemente l'impegnativo capitolo sulla "classe")
esordisce ricordando come la storia britannica rivesta un ruolo preminente
nella storiografia sulla classe a causa del fascino esercitato dalla Rivoluzione
Industriale e dal suo significato simbolico.
Egli cerca di dimostrare come questo concetto sia utilizzato già
nella prima metà del secolo da autori Whig come J. R. Butler e
M. Howell (fino agli Hammonds e ai Webb) per illuminare il significato
politico e le conseguenze dei drammatici cambiamenti occorsi alla fine
del secolo precedente. Feldman rileva quindi il ruolo della storia economica
nel tentativo di applicare un modello classista alla Gran Bretagna pre-industriale,
con storici come J. Clapham e R. Tawney; ma una rottura davvero importante
avviene solo con gli storici marxisti membri del Partito Comunista, in
seguito allo studio di C. Hill sulla Rivoluzione Inglese.
Per quanto concerne questo famoso gruppo, Feldman sostiene che dal lavoro
di Dobb sul capitalismo, incentrato sul "modo di produzione",
questi storici abbiano tratto una visione della classe come fenomeno di
second'ordine, in funzione dello sviluppo economico. In effetti
la loro eredità più feconda va collegata piuttosto alle
ricerche sulla protesta e la politica popolare; nei lavori di E. Hobsbawm
e G. Rudè i moti preindustriali, per quanto ancora primitivi e
in qualche modo prepolitici, non sono più visti come futili o irrazionali,
ma recuperati nel loro pieno significato.
A parere di Feldman, però, una ulteriore svolta è segnata
dal lavoro di E. P. Thompson, che ricostruisce il processo di formazione
della classe operaia inglese sulla base dell'esperienza dei protagonisti
e delle loro risorse culturali. Anche se riprende l'interpretazione
Whig per quanto riguarda la visione della Rivoluzione come cesura, Thompson
procede poi a rivisitarne molti episodi, rivalutando l'attività
creatrice della protesta popolare e insistendo sulla sua importanza sul
piano storico generale. Il concetto di "esperienza", in particolare,
gli permette di "muoversi con facilità tra la classe come
relazione ai mezzi di produzione e la classe concepita invece come coscienza";
ed egli fissa l'etichetta di lotta di classe ad ogni conflitto legato
alle relazioni di proprietà, in qualunque epoca si svolga. Feldman
rileva tutti i guadagni e le perdite insiti in questa visione: Thompson
riesce indubbiamente a superare la teleologia dei suoi predecessori, ma
questo concetto di classe diventa così capace da perdere articolazione.
Il ruolo di Thompson appare in ogni caso decisivo nella misura in cui
concentra la sua analisi sulla lotta di classe; dà spazio non solo
alla politica formale delle istituzioni, ma anche alle idee e alle pratiche
della classe lavoratrice; collega la storia di classe con la storia della
protesta. Ovviamente le correnti tradizionali della storia economica continuano
a sopravvivere; così come altri autori (ad esempio H. Perkin, P.
Clarke o J. Foster) forniscono un contributo personale alla "nuova
storia di classe"; ma la figura di Thompson continua a distinguersi,
come appare evidente dal debito contratto nei suoi confronti da Hobsbawm
e G. S. Jones, ma anche dagli storici affiliati ai nuovi movimenti sociali.
Le ricerche sulla aristocrazia operaia e sui lavoratori esterni alle Unions;
gli studi sulle donne e sull'immigrazione; le indagini sui ceti
medi: tutti questi filoni, che devono molto a Thompson, finiscono per
aumentare le difficoltà del concetto di classe e aprono così
la strada ai nuovi sviluppi del settore. Il caso di Jones è particolarmente
interessante per apprezzare il passaggio progressivo da una storia strettamente
sociale ad un approccio culturale alla classe: la sua "svolta linguistica"
tenta infatti di ridiscutere la connessione tra gruppi sociali e ideologie
politiche e quella tra esperienza e coscienza, inserendo un nuovo fattore
intermedio, quello linguistico, che rappresenta a sua volta una parte
rilevante dell'essere sociale. In luogo di un rigido determinismo
materialista, studi come quelli di Jones o di D. Cannadine enfatizzano
il ruolo dello stato e dei partiti nel costruire le identità e
ripropongono quindi l'autonomia e la specificità del politico.
I postmodernisti come Joyce, portando alle estreme conseguenze questo
filone, giungono a mettere in discussione la centralità stessa
della classe a fronte delle altre formazioni discorsive.
A queste tesi provocatorie Feldman risponde che il rendimento decrescente
della classe come concetto analitico sfida "solo un certo tipo di
storia sociale", perché la dimensione sociale rimane comunque
una parte integrante e non sottovalutabile della vita umana; del resto
l'intolleranza delle rivendicazioni teoriche postmoderniste sembra
decadere nella pratica ad un condivisibile invito al pluralismo interpretativo.
Feldman spera dunque che gli storici "invece di capitolare alle
pretese del postmodernismo, lavorino per una nuova cronologia della grande
trasformazione" che dia spazio non solo ai fattori economici ma
anche a quelli culturali e politici; e conferma che, se Malthus può
essere forse il miglior riferimento per i modernisti, Marx, con il suo
concetto di classe, rimane imprescindibile per chiarire le origini e le
articolazioni del potere sociale e per scrivere un nuova e più
accurata storia della modernità.
7. Un notevole spazio è destinato alla storia urbana e demografica,
grazie a due nomi di primo piano come P. Clark e E. A. Wrigley. Il primo,
in particolare, fornisce un'utile rassegna dello sviluppo storico
degli studi urbani, dalle loro origini medievali nelle cronache cittadine
fino alle storie dell'età elisabettiana; cita poi i lavori
commissionati dalle autorità municipali e la letteratura sulle
patologie urbane del diciannovesimo secolo.
In conclusione di questo excursus egli traccia una periodizzazione della
tradizione accademica dell'ultimo secolo, definendola "più
irregolare e diseguale" dell'urbanizzazione stessa.
Clark individua una fase prebellica, nella quale i lavori di F. W. Maitland,
G. Cross e M. Bateson riflettono i mutamenti nell'amministrazione
locale e traggono ispirazione dagli storici giuridici e costituzionali
tedeschi come C. Von Savigny e O. Gierke. Negli anni '30 questa
spinta iniziale si esaurisce a causa della stagnazione delle università
e della diffusione di una corrente culturale contraria all'urbanizzazione;
di questo periodo vengono citati solo gli studi medievali di J. Tait (sul
modello di Pirenne) e il libro di D. George sulla Londra del diciottesimo
secolo.
Una nuova ondata di ricerche si manifesta negli anni '60 grazie
al libro di A. Briggs sulle città vittoriane, che inserisce il
fenomeno urbano in una prospettiva più ampia, senza perdere di
vista i diversi contesti locali. Guardando alla sociologia della scuola
di Chicago e all'esempio delle "Annales", storici come
H. Dyos e W. Hoskins pongono le basi per la storia urbana come "campo
distinto di studi storici", fondando istituzioni e riviste specializzate
e aprendo la strada a scambi con antropologi e demografi. Questo successo
ha evidenti radici nel rapido (e drastico) riassetto delle città
britanniche da parte degli architetti e dagli urbanisti modernisti; ma
anche nella crescita di visibilità di problemi come le privazioni
sociali, le carenze residenziali o i conflitti etnici. L'esplosione
della ricerca e la sua differenziazione finiscono però per creare
una crisi; anche perché nuovi sottosettori alternativi si pongono
in competizione con gli studi storici. Quando il collasso della finanza
pubblica porta i problemi urbanistici fuori controllo, ha luogo anche
una perdita di momento della storiografia.
Ma Clark individua una nuova rottura alla fine della decade, e gli anni
'80 segnano un altro ciclo fecondo di ricerca storica sulle città.
Questa terza fase è caratterizzata dagli studi comparativi tra
numerose realtà locali e dall'attenzione alla lunga durata;
per quanto riguarda i temi, si presenta più pluralista e meno concentrata,
occupandosi di ceti medi e classi dirigenti, subculture, settore terziario,
società civile e identità. Questa "nuova storia urbana"
è più salda nell'organizzazione grazie a istituzioni
come il Centro di storia urbana a Leicester e il Centro di storia metropolitana
a Londra (ma anche l'Associazione Europea di storici urbani sorta
nel 1989). E' anche meno dipendente dalle influenze d'oltreoceano,
avendo ormai sviluppato un approccio autonomo, fatto di apertura interdisciplinare
(soprattutto all'archeologia e alla linguistica) e, recentemente,
anche di un nuovo taglio storicista. Secondo Clark questo ciclo è
meno chiaramente collegabile ai dibattiti contemporanei sul ruolo delle
città, che sembrano in effetti avere meno impatto diretto sui programmi
degli storici (anche se gli studi urbani finiscono poi per concentrarsi
a loro volta proprio sui maggiori problemi strutturali: servizi, turismo
e promozione).
Clark conclude riconoscendo che la storia urbana britannica è un
settore complesso, influenzato da potenti fattori esterni e istituzionali,
per cui non può essere visto semplicemente come un'invenzione
accademica o una costruzione concettuale sviluppata a tavolino; gli storici
"hanno però ripetutamente cercato di ridefinire, ricostruire
e rinnovare il loro campo", così che i lavori più
recenti assomigliano alle città che descrivono: sono "frammentati,
disconnessi, ridotti in schegge".
8. E. Wrigley cerca di mostrare come anche lo studio della popolazione
sia un campo specificamente britannico, da Malthus in avanti. L'analisi
maltusiana della interdipendenza tra caratteri economici e demografici
della società fornisce in effetti la base per tutte le discussioni
successive. Ripercorrendone gli studi sul mondo preindustriale, Wrigley
rileva come Malthus faccia molto di più che individuare una semplice
tensione tra produzione e riproduzione o prevedere l'aumento della
mortalità. Se, dopo la Rivoluzione industriale, la produzione ha
dimostrato di superare facilmente la riproduzione, è negli studi
sul periodo precedente che hanno avuto luogo gli sviluppi più rilevanti,
e su di essi gli scritti di Malthus "continuano a stendere una lunga
ombra". Grazie alle nuovi fonti e alle nuove tecniche noi possiamo
però ridiscutere le sue conclusioni e trarne nuovo slancio per
la ricerca.
Wrigley si sofferma sulle vicende del settore nella seconda metà
del ventesimo secolo, dal metodo della ricostruzione delle famiglie di
L. Henry a quello della proiezione a ritroso di J. Oeppen, per mostrare
come gli studiosi abbiano progressivamente superato l'assenza di
fonti di massa che a bilanciamento dei dati sui flussi. Tutti questi nuovi
studi delineano un sistema matrimoniale tipicamente europeo e forniscono
nuovi dettagli su temi importanti come la mortalità infantile.
A parere di Wrigley essi concordano sostanzialmente con Malthus riguardo
alla tensione fondamentale da lui evidenziata, ma dimostrano anche che
"sebbene nessuna società possa evitare tale tensione, sia
la natura che il grado della stessa variano ampiamente; e che "è
la fertilità piuttosto che la mortalità ad essere collegata
direttamente agli indicatori economici".
Wrigley spera che i dati demografici possano essere utilizzati anche per
chiarire altri legami, come ad esempio quello tra "crescita economica,
urbanizzazione, movimenti migratori e crescente mortalità".
Egli dedica poi il paragrafo conclusivo allo status logico dei dati demografici
per sottolineare come essi siano di fatto i più consistenti e sicuri
nella storia economica, in quanto garantiti dalla cosiddetta "equazione
del bilanciamento della popolazione".
9. Il saggio di R. Porter merita qualche parola a parte, non solo per
la sua recente scomparsa (o per la ricorrente presenza a fianco di Burke).
Il fatto importante è che, molto più dei suoi colleghi,
egli superi gli stretti confini del compito assegnatogli e osi dare al
suo saggio una esplicita connotazione culturale (e politica).
Porter ci ricorda innanzitutto la tradizionale subordinazione della storia
della medicina a quella delle scienze fisiche; poi nota come i problemi
recenti, come il diffondersi dell'AIDS, abbiano mutato l'attitudine
del pubblico verso la medicina e aperto la strada ad una problematizzazione
della sua storia. Per quanto riguarda in particolare la Gran Bretagna,
egli attribuisce un ruolo fondamentale in questo senso alla Società
per la storia sociale della medicina e all'Istituto "Wellcome".
Dopo una breve introduzione concettuale Porter abbozza una storia dell'idea
di "malattia" (come distinta da quella di "malessere"
o "indisposizione") dalle origini al presente; quindi cerca
di spiegare perché la medicina occidentale, con tutti i suoi limiti,
abbia finora trionfato. La sua risposta a questo interrogativo è
che tale supremazia dipenda non solo dal dominio politico ed economico
(indiscutibile) dell'Occidente, ma anche dal suo peculiare approccio
al corpo umano e dall'interesse specifico per il sé, l'identità
e l'espressione individuale. Le sue promesse, i suoi progetti e
i suoi prodotti, dalla dissezione alla chirurgia, attraverso una continua
sperimentazione, generano sapere e potere "in sostanziale indipendenza
dalla sua reale efficacia come approccio razionale alla buona salute".
La vittoria di questa "medicina scientifica ad alta tecnologia"
produce peraltro problemi non trascurabili: stridente appare ad esempio
il paradosso tra la sua ossessiva raccolta di informazioni esteriori sulla
malattia e la progressiva cecità verso i pazienti, le persone,
la società (e in ultima istanza verso la medicina stessa). Se per
secoli l'impresa medica è stata troppo incerta per subire
critiche radicali, ora che le sue conquiste e le sue ambizioni sono pressoché
infinite, essa attira crescenti proteste, tra le quali si distinguono
quelle della nuova sociologia.
Prigioniera del proprio successo, la medicina occidentale si trova dunque
di fronte ad interrogativi cruciali circa i propri scopi e limiti, e rischia
di perdersi in una spirale viziosa, trasformandosi in una incontrollabile
macchina produttrice di malattie, paure e "medicalizzazione esasperata
dei normali eventi della vita". Contro le fantasie del perfettibilismo
tecnologico Porter denuncia il fallimento del cieco empirismo medico e
auspica invece un ruolo di primo piano per la filosofia e la storia della
medicina.
10. Il capitolo di S. Bann sulla "storia della storia dell'arte"
non è una ricostruzione semplice e lineare del ventesimo secolo.
All'inizio egli va a ritroso e rievoca la tradizione della critica
estetica del secolo precedente, da C. Eastlake a Ruskin e Pater; e sottolinea
come questo filone continui a scorrere sotterraneo fino ad autori contemporanei
come A. Stokes, R. Fry e F. Haskell. Ma lo scopo principale di Bann è
di approfondire gli sviluppi più recenti del settore, quindi si
sofferma in particolare sugli ultimi 50 anni e cerca di spiegare come
una disciplina sotto-istituzionalizzata come la storia dell'arte
sia divenuta un membro prestigioso degli studi umanistici.
La prima tappa di questo processo si trova probabilmente nella "svolta
storicista" prodotta dalla ricezione degli autori di lingua tedesca.
Nuovi lavori introduttivi; profili delle figure centrali della disciplina;
una selezione di importanti testi pubblicati in traduzione: tutta questa
letteratura preparatoria porta a raccolte di sintesi "che cercano
di applicare i dividendi metodologici di questo ampliamento di visione
ai compiti concreti dello studio storico-artistico". Se è
ormai opinione comune che "dal pieno riconoscimento delle basi tedesche"
si sia giunti al "tentativo di applicare le loro indicazioni sistematicamente
e ad un ampio spettro di materiali", Bann ci invita comunque ad
inserire questo passaggio nel quadro di una più ampia trasformazione
culturale, che definisce, con le parole di W. Mitchell, una "svolta
pittorica delle scienze umane".
In effetti "la crescente attrazione per l'immagine dentro
e oltre gli studi umanistici mette la storia dell'arte in primo
piano", ma la costringe anche "a ridiscutere le concezioni
già acquisite e consolidate del proprio ruolo". La questione
della rappresentazione assicura infatti alla storia dell'arte un
nuovo status dilemmatico e polarizzato, che supera il tradizionale conflitto
tra conservazione e avanguardia per toccare quello tra parola e immagine,
e in ultima istanza, il rapporto stesso tra storia e arte.
Una prima occasione di dibattito viene individuata nel 1974, con il richiamo
di T. J. Clark ad una "dissoluzione morbida" della disciplina
e la sua proposta di una nuova critica basata sulla sofisticata nozione
di "ideologia". Il suo modello teorico (ispirato a Benjamin)
e il suo libro sul 1848 aprono in effetti la strada alla cosiddetta "storia
sociale dell'arte".
Bann si sforza di distinguere quest'ultima dal concetto generale
di storia sociale, nella misura in cui si rivela molto diversa sia dalla
tradizione marxista di A. Hauser, che dagli accenni alla cultura di Hobsbawm
e di Thompson; i suoi riferimenti vanno cercati piuttosto in studiosi
come N. Z. Davis o C. Schorske.
La storia sociale dell'arte può essere inserita a sua volta
in un fenomeno più ampio e diffuso cui Bann si riferisce come "nuova
storia dell'arte". Questa definizione-ombrello copre un'ampia
varietà di nuove discipline (dagli studi sul paesaggio, a quelli
mussali fino alla storia della fotografia) accomunati dagli spiccati interssi
teorici, non più però di marca tedesca, bensì rivolti
alla filosofia e alla semiotica francesi; questa ricchezza di approcci
è accompagnata dal sorgere di nuove riviste come "Critical
Inquiry" e "Representations" (ma anche le meno note
"Journal of Garden History" e "Word & Image");
e dal rinnovamento di altre già consolidate come "Art History"
o "The Art Bulletin".
Dai mutamenti degli ultimi 25 anni (cui indubbiamente si legano fattori
generazionali) Bann giunge poi a trattare il recente dibattito sul destino
della storia dell'arte e sul suo possibile inserimento negli studi
di "cultura visiva". Bann cita varie autorevoli opinioni che
invitano gli storici dell'arte a prestare attenzione a questo slittamento;
quindi ricorda che la cultura visiva non è un fattore improvviso
e destabilizzante, ma un approccio autonomo con una lunga genealogia,
che fa sì che "la storia dell'arte in Gran Bretagna
giaccia all'intersezione di tradizioni convergenti ma in competizione,
nessuna delle quali può essere considerata canonica". Nella
metafora di Berlin, la disciplina si muoverebbe dunque, almeno in area
britannica, nello spazio (in equilibrio instabile) tra la volpe-cultura
visiva e il riccio-storia dell'arte.
11. La raccolta è conclusa dal saggio dello stesso Burke, che è
senz'altro di grande interesse per i lettori di "Cromohs",
non solo per la sua collocazione e il prestigio del suo autore, ma anche
perché si occupa specificamente di storiografia e di filosofia
della storia .
Il capitolo è abbastanza schematico, ma è molto utile per
discutere il luogo comune circa l'assenza di interesse per questo
settore di studi nel mondo inglese. Burke sembra inizialmente confermare
tale giudizio, rilevando l'assenza di riviste, ruoli accademici
e testi manualistici sull'argomento (ad eccezione del libro di Carr);
egli riprende tra l'altro l'opinione di G. Jones circa "la
peculiare miopia inglese" e quella di P. Anderson, che parla in
proposito di "peculiarità inglese". Ricorda inoltre
come la storia della storiografia britannica sia stata fatta soprattutto
da studiosi stranieri, mentre autorevoli accademici come Trevelyan si
sono sempre mostrati scettici; fenomeno che può essere legittimamente
messo in relazione con la cultura locale iper-empirista e la strutturazione
del sistema scolastico, che disgiunge storia e filosofia. A partire da
queste annotazioni però Burke cerca di riesaminare la questione
dell'individualismo e dell'insularità inglesi per verificare
meglio la loro affidabilità e coglierne con maggior precisione
il significato storico.
Nel primo paragrafo si sofferma quindi sulla storiografia, riportando
alla luce alcuni maestri della prima metà del secolo come F. M.
Cornford, G. P. Gooch o D. Douglas. Quindi colloca un punto di svolta
negli anni '50, grazie al ruolo di I. Berlin e A. Momigliano, ma
anche alle lezioni di H. Butterfield a Cambridge, H. Trevor Roper a Oxford
e D. Hay a Edimburgo.
Per quanto riguarda l'ultima generazione, Burke contrappone allo
stretto empirismo di J. Kenyon lavori più ambiziosi come quelli
di J. Burrow o di S. Bann. L'apertura ad approcci differenti al
passato e il contributo delle altre discipline contribuiscono ad ampliare
e approfondire gli studi storiografici, che ora sono meno confinati ai
grandi nomi e toccano invece la cultura storica diffusa.
Il secondo paragrafo è dedicato alla metodologia storica e Burke
dedica qui spazio soprattutto a Collingwood. A parte alcune famose lezioni
inaugurrali, come quella di R. Tawney del 1932, è solo nei testi
di Collingwood che riecheggiano in Gran Bretagna i dibattiti sui pregiudizi
nella storia o sullo status della disciplina (arte o scienza?).
Dal suo approccio idealistico (apprezzato da M. Oakeshott e I. Berlin.,
ma criticato da A. Toynbee) scaturisce l'importante filone della
filosofia analitica applicata alla storia, che rimane peraltro meno sviluppato
del corrispondente americano, se si eccettuano gli apporti di W. Walsh
e P. Gardiner. Le riflessioni metodologiche del dopoguerra vengono invece
dai praticanti di nuove sottodiscipline: dagli storici intellettuali (del
pensiero politico, come Q. Skinner, o della scienza) agli storici economici
(con il loro interesse per il "controfattuale", recentemente
recuperato, in altri contesti, come gusto per la storia virtuale). Ma
è il postmodernismo, sollevando problemi propriamente epistemologici,
a sollecitare le maggiori discussioni e a favorire la pubblicazione di
molte nuove introduzioni al metodo storico.
Burke passa quindi a trattare della "filosofia della storia sostanziale"
ed esamina figure eccentriche come H. G. Wells e A. Toynbee. Riguardo
a Study of history egli nota come quest'opera sia stata soggetta
a critiche di segno opposto: troppo empirica per filosofi come Collingwood
o W. Dray e non abbastanza per storici come P. Geyl. Vale la pena ricordare
come altri studiosi autorevoli, quali R. Pares e A. Momigliano, pur denunciandone
la tendenza alla teodicea, siano rimasti favorevolmente impressionati
dal lavoro di Toynbee per il suo ampio respiro ed i suoi effetti sprovincializzanti.
La sfiducia nelle generalizzazioni peraltro è vista da Burke come
una delle cause principali dei sospetti britannici per la sociologia,
come appare evidente dal caso di N. Elias (in questo senso viene rilevata
una notevole differenza con l'antropologia, che deve probabilmente
il suo maggior successo alle origini "sul campo"). A parte
il dibattito su Toynbee, Burke vede nel marxismo la sola filosofia davvero
influente sulla storiografia britannica; ma rileva anche come tale filone
appaia completamente separato dalle altre correnti accademiche e assuma
a sua volta, nel contesto inglese, innegabili sfumature empiriste, come
dimostrano gli argomenti utilizzati da E. P. Thompson contro P. Anderson.
Burke rileva però come una filosofia della storia sia implicita
anche nella storiografia britannica, dal riferimento al progresso nella
storia Whig, fino ai differenti sviluppi della visione conservatrice.
Ciò è particolarmente evidente nel dibattito sulla periodizzazione
dell'età moderna. L'anno 1500 come punto di partenza
tradizionale della modernità è infatti messo in discussione
dagli sviluppi della storia economica e della scienza (con le loro rispettive
-e sfasate- rivoluzioni) tanto che si assiste alla comparsa di nuovi concetti
come quello di "prima età moderna" o di "postmoderno".
Burke termina il suo intervento proponendo gli anni '50 come migliori
candidati in qualità di soglia della contemporaneità disciplinare
e ammettendo la perdurante validità di alcuni degli stereotipi
iniziali circa l'empirismo britannico.
L'assenza di critiche pungenti e una certa sottostima del postmodernismo
nel mondo accademico britannico sono equilibrati in questo saggio da varie
annotazioni interessanti, come l'archeologia dei termini "postmoderno"
e "metastoria" o i precedenti britannici della microstoria;
ma i lettori italiani apprezzeranno anche il fatto che Burke sia l'unico
autore a ricordare il ruolo di primo piano svolto dagli storici del nostro
paese, come A. Momigliano o C. Ginzburg.
12. Se in conclusione cerchiamo di dare uno sguardo d'insieme alla
raccolta, dobbiamo necessariamente rifarci agli scopi annunciati nell'introduzione
e utilizzare come riferimento per la loro verifica le posizioni espresse
da Burke.
Per quanto concerne l'esistenza di uno "stile britannico"
nella storiografia del XX secolo, la maggior parte degli storici intervenuti
condivide l'idea che l'internazionalizzazione della ricerca
forzi il superamento dei confini nazionali, così che è sempre
più difficile (e meno significativo) descrivere le tendenze nazionali
a fronte di quelle globali. Si può comunque notare come alcuni
autori offrano una rassegna propriamente internazionale, con solo un limitato
accenno alla Gran Bretagna (Jordanova), mentre altri inseriscono la situazione
britannica in una prospettiva europea (Rubin) o atlantica (Bann).
Se gli studiosi più giovani denunciano chiaramente un certo provincialismo
britannico, i più maturi cercano invece di difendere la tradizione
nazionale in settori come la storia urbana o quella dell'arte, nonostante
l'importanza degli apporti ricevuti dall'estero. Burke stesso
ama ricordare in ogni circostanza le priorità britanniche e conclude
il suo saggio (e la raccolta) sostenendo che "per quanto la globalizzazione
stia minando alla base l'insularità, gli storici britannici
rimangono distinti -se non peculiari- nel loro approccio alla materia".
Nessuno, a parte Bayly, prende invece in seria considerazione le distinzioni
interne alla Gran Bretagna.
Agli occhi del lettore italiano è notevole riscontrare come il
suo paese sia stato al centro degli interessi di alcuni tra i più
famosi storici inglesi; ma risulta poi abbastanza deludente che la medievalistica
del nostro paese venga citata solo in riferimento alla politica della
Lega.
Per quanto riguarda il problema della periodizzazione, la tendenza è
quella di dividere il secolo in due metà con la Seconda Guerra
Mondiale, segnando poi altre due rotture intermedie in corrispondenza
del primo conflitto e degli anni '60. L'idea di storia implicita
nel lavoro è certamente quella discontinuista kuhniana, infatti
tutti gli autori risultano affascinati dalle "grandi svolte";
ma ne danno poi una interpretazione assai diversa.
Non tutti sembrano dare il giusto spazio alla prima metà del secolo
(anche se alcuni, come Clark e Porter, risalgono ben oltre). La maggior
parte preferisce invece concentrarsi sulla seconda metà e soprattutto
sull'ultima generazione, vista non solo come una fase di passaggio
tra le altre, ma come una vera e propria soglia del contemporaneo.
Le diverse opinioni sull'ultima decade riflettono però un
disaccordo più generali circa le impostazioni epistemologiche.
Mentre gli studiosi più giovani (e le donne in particolare) apprezzano
la svolta postmodernista e sentono di farne parte, i nomi più consolidati
si sforzano invece di mostrarne le debolezze e preferiscono rivalutare
invece alcuni elementi trascurati del passato, allo scopo di costruire
un approccio più integrato e complesso (che rimane tuttavia assai
instabile).
Un dibattito aperto riguarda in particolare il concetto di "costruzionismo"
socio-cultrale, che Rubin e Jordanova valutano positivamente nei suoi
effetti antiessenzialistici e antideterministici, mentre i loro colleghi
riprovano per lo più le sue derive nichiliste. Burke ci avverte
con il consueto equilibrio a non sopravvalutare le sirene del nuovo perché
il costruzionismo (ma anche lo scetticismo o il ricorso alla teoria) hanno
antecedenti anche lontani. Egli cerca quindi di sviluppare meglio il giudizio,
distinguendo le varie sottodiscipline e riarticolando la questione generale,
sull'esempio di I. Hacking, attorno a tre interrogativi: costruzione
di cosa (perché concetti, modelli, fonti – ed anche campi-
non possono essere posti allo stesso livello); da parte di chi (perché
le costruzioni hanno sempre alla base delle intenzioni precise); e a partire
da cosa (perché ogni costruzione opera all'interno di limiti
e vincoli che segnano le differenze tra queste intenzioni e i risultati).
Anche la costruzione, del resto, è un fenomeno storico, tanto che
Burke preferisce parlare di processo di "continua ricostruzione".
Nella misura in cui la popolarità del termine sembra oggi isterilire
la ricerca piuttosto che stimolarla, Burke auspica una decostruzione-ricostruzione
del concetto stesso di "costruzione" e mostra tutte le ambivalenze
di tendenze recenti come il declino della storia quantitativa o la frammentazione
disciplinare.
13. Le opinioni sfumate del curatore e il suo invito ai lettori a "farsi
la propria idea e a tracciare autonomamente delle distinzioni" di
fronte al pluralismo della raccolta, non persuadono del tutto e lasciano
aperto il problema. A parte il merito delle singole questioni, il volume
ondeggia pericolosamente tra un enciclopedismo neutrale e qualche implicita
concessione alle mode intellettuali (ed editoriali).
Certo l'opera può essere utile, in particolare al lettore
straniero, per fare il punto su alcuni argomenti e approfondirne di nuovi;
e ovviamente può aiutarlo ad ampliare la sua bibliografia. Ma è
quantomeno dubbio che gli possa fornire "una chiara e ponderata
rassegna critica" come Burke auspica nella prefazione (e come il
titolo e la copertina maliziosamente promettono). Ancora più improbabile
è che il volume, concentrandosi sulla storiografia accademica,
offra un'immagine della "cultura storica britannica",
come lo stesso Burke sostiene in conclusione; e non è solo un problema
di spazio. Il fatto è che approcci diversi alla storiografia sono
rappresentati qui senza un serio tentativo di sintesi o almeno un criterio
esplicito di scelta.
Ciononostante, si possono trarre dalla raccolta alcuni spunti utili a
sviluppare meglio l'argomento. Un buon punto di partenza potrebbe
essere il tentativo di Porter di "navigare tra due piani: "ismi"
e "logie" da una parte, e minuzie (e eccesso di acribia) dall'altra.
Anche gli altri autori sembrano in effetti condividere la sua intenzione
di "trattare alcuni snodi delle grandi questioni" per evitare
la superficialità, ma anche l'indigestione intellettuale.
Un altro elemento importante da tenere in considerazione è l'interazione
virtuosa tra gli sviluppi interni alla storia della disciplina e i fattori
esterni di rilievo generale. Questi storici riescono a non degenerare
nel determinismo, senza però confondere l'autonomia della
storia con un'impossibile indipendenza.
Infine, possiamo trovare in quest'opera un coraggioso tentativo
di applicare alla storiografia gli stessi strumenti e le stesse tecniche
disponibili per la storia generale: è infatti evidente l'attenzione
alla scala, alla comparazione e alla riflessività.
Dunque, per quanto questa raccolta appaia meno convincente della precedente
e conceda forse troppo alla sua origine celebrativa, si può dire
che l'intelligente lavoro di Burke abbia prodotto un altro risultato
di valore.