Peter Burke, ed., History and Historians in the Twentieth Century,
Oxford, Oxford University Press, 2002
[£ 25.00 - ISBN: 0-19-726268-6]

Mirco Carrattieri
Università di Bologna

1. In occasione del centenario dell'Accademia Britannica P. Burke pubblica la sua ultima fatica che, pur richiamando nel titolo il classico di J. Gooch sul diciannovesimo secolo, rimanda piuttosto all'importante raccolta sulla storiografia contemporanea curata con successo dal professore di Cambridge nel 1991. Anche questo volume infatti contiene una sua densa introduzione a dieci saggi di sintesi firmati da noti studiosi; esso riprende inoltre dal precedente l'estrema varietà dei temi e degli approcci, ma anche, sfortunatamente, una certa incoerenza tra le parti. L'opera vorrebbe introdurre il lettore alla ricerca storica britannica del XX secolo, ma né la restrizione spaziale, né l'estensione cronologica incidono sulle qualità e i difetti del lavoro, che ricordano da vicino quelli già ravvisati dieci anni fa.
Nella sua acuta presentazione Burke sembra in effetti condividere questa opinione, ma cerca di anticipare le possibili critiche enfatizzando l'occasione celebrativa e la difficoltà di coprire un campo così vasto in un singolo testo. Egli è chiaramente consapevole dei rischi inerenti alle scelte compiute, ma afferma di aver voluto offrire una rassegna aperta e aggiornata del settore, approfondendo poi solo alcuni dei nodi maggiori: le peculiarità del contesto britannico; la periodizzazione del secolo; gli sviluppi più recenti; la costruzione degli oggetti e dei campi stessi di ricerca; il giudizio critico sui progressi della materia. Certo non è facile accettare che Q. Tarantino sia nominato più di M. Postan; o che non ci siano capitoli dedicati all'economia e al pensiero politico. Vale comunque la pena di analizzare meglio il volume, esaminandolo sulla base delle sue stesse premesse piuttosto che delle inevitabili carenze.

2. Una prima notazione riguarda il fatto che solo due saggi della raccolta siano dedicati ad un luogo o ad un tempo determinati, come avviene invece spesso in queste circostanze.
Nel primo di questi, tra l'altro, M. Rubin si occupa del Medio Evo senza limitarsi affatto al caso britannico. Le interessa piuttosto sottolineare le particolarità del settore relativamente al difficile apprendistato e alla sofisticazione metodologica; e soprattutto cerca di spiegare la crescita di interesse per le tematiche medievali sulla base del doppio effetto di modernità ed esotismo che esse evocano. In quanto lontano nel passato, infatti, il Medio Evo è radicalmente diverso, un altro mondo "bizzarro e meraviglioso". Ma esso esercita anche una attrazione nostalgica come radice riconoscibile del presente; e richiama addirittura il futuro, ispirando forme culturali e politiche alternative (si pensi al quadro storico europeo delineato da Le Goff sulla base dei suoi studi medievali). Secondo Rubin si potrebbe trarre giovamento da queste "rifrazioni del tempo storico" usandole come "casse di risonanza per le questioni contemporanee" nella misura in cui esse combinano virtuosamente "una pregnante familiarità con l'occasione del distacco critico".
Nella seconda parte del capitolo, l'autrice enfatizza la svolta concettuale imposta dalla diffusione di nuovi approcci, come la storia delle donne o gli studi sul modo ebraico, che contribuiscono a superare le dicotomie esasperate e a cogliere invece la straordinaria complessità del periodo (e della storia in generale). L'approccio quantitativo, dominante nel recente passato, può essere ora utilmente integrato con una nuova attenzione ai contesti, in modo che il concetto di "esperienza" diventi la nuova chiave con cui affrontare il lavoro storico. Sulla scia dell'antropologia, infatti, il concetto di "cultura" ha conquistato il centro degli studi medievali.
Rubin parla spesso in termini di "svolta testuale"o "ermeneutica" e sembra plaudire a questa "nuova storia"; ma è addirittura entusiasta riguardo alla "nuova filologia" che ritrova nei lavori di C. W. Baunum sulla storia religiosa, con il loro costante riferimento alla dimensione simbolica che non va però a scapito della puntuale analisi testuale. L'autrice conclude invitando gli storici "all'umiltà verso il testo, all'impegno critico verso i problemi personali e istituzionali, alla messa in discussione delle gerarchie e al confronto con una varietà di voci".

3. C. A. Bayly, nel suo saggio sulla storia asiatica (significativamente intitolato: "L'Oriente"), fornisce una dettagliata analisi degli studi sull'Arabia (e la Persia), sull'India e sull'Estremo Oriente. Allo scopo di respingere l'idea che prima di E. Said tutta la storiografia sull'argomento sia stata fondamentalmente imperialistica, l'autore ricorda come la prima metà del ventesimo secolo sia stata un periodo molto fruttuoso, grazie al lavoro di pionieri come E. Browne, H. Gibb e E. Havell (ma viene citato anche E. Thompson, padre del più celebre E. P.).
Oltre agli indubitabili interessi politici, altri fattori contribuiscono a dare forma all'orientalistica britannica e tra questi Bayly elenca l'arte, la religione e la razza, ma anche le opinioni locali, che si sviluppano in stretta interazione con quelle della metropoli. Il risultato è quello che viene definito "paradigma organico della redenzione", in cui il moralismo sembra prevalere sulla bruta volontà di potenza.
Secondo Bayly un punto di svolta fondamentale è costituito dalla Seconda Guerra Mondiale, dopo la quale i dibattiti sullo stato sociale e sulla decolonizzazione incoraggiano l'emergere anche nella storia asiatica di un orientamento sociale su base marxista. Storici come B. Lewis o A. Hourani, interessati ad una nuova costruzione culturale del passato, si preoccupano di riformare, piuttosto che semplicemente di registrare, la cultura asiatica; grazie alle competenze linguistiche acquisite, essi leggono la storiografia autoctona e hanno accesso anche a nuovi archivi. Così la storia asiatica procede oltre lo studio delle grandi formazioni politiche per toccare le realtà locali; sviluppa nuove e contrastanti interpretazioni del nazionalismo; incrocia altre tradizioni storiografiche provenienti dall'estero, come le "Annales" o la storia sociale americana.
Un altro mutamento di rilievo avviene negli anni '80 ed è caratterizzato dalla proliferazione di nuovi temi, dall'internazionalizzazione della ricerca e dall'emergere di una nuova generazione di studiosi che vede anche i radicali degli anni '60 come conservatori. Mentre storici di sinistra e femministe combattono contro l'esclusione materiale, la critica del già citato Said solleva dubbi sui pregiudizi epistemologici impliciti nella storiografia occidentale. I relativisti postmoderni vanno ancora oltre e, innestando Foucault e Derrida su una visione etnica della politica, reclamano l'autenticità degli oppressi come fondamentale criterio di analisi.
Nonostante il successo di gruppi di ricerca come quello indiano di studi subalterni, Bayly si mostra convinto che questa "nuova storia dal basso" non possa portare ad una reale rivoluzione accademica (come è avvenuto in Nord America o in Australia) a causa del tradizionale conservatorismo accademico, ma anche del comprensibile timore che essa rappresenti solo un'altra forma più subdola di essenzialismo. Al di sotto della sua retorica sulla frammentazione e il decentramento, infatti, essa sembra resuscitare un concetto di cultura "altrettanto organico e indifferenziato delle vecchie categorie di razza e religione".

4. Il volume è imperniato sui tre capitoli dedicati a nazione, classe e genere (che pure L. Jordanova definisce polemicamente "santa trinità" della storia sociale). Il saggio di J. Breuilly sulla nazione è forse il più persuasivo: esso fornisce infatti un'utile rassegna degli approcci storiografici all'argomento e mostra come la nazione sia stata vista di volta in volta come criterio di organizzazione, come forza storica, come conquista sociale, come mito, come concetto analitico.
Nella prima metà del ventesimo secolo la nazione è, a suo parere, un assunto consolidato, soprattutto in Gran Bretagna, dove gli storici si considerano membri del paese guida nel mondo. Breuilly si sofferma quindi sul trattamento dedicato alle altre nazioni, per mostrare come l'implicito patriottismo degli studiosi condizioni la loro opinione positiva sulle singole cause nazionali (il lettore italiano troverà peraltro note interessanti su Trevelyan e Seton Watson).
La Prima Guerra Mondiale rappresenta per Breuilly una svolta drammatica, poiché il nazionalismo svela il suo lato negativo portando uomini come L. Namier ad adottare un'ottica scettica sull'intero concetto. Il discredito si diffonde poi pienamente nel secondo dopoguerra, quando i nuovi valori sopranazionali sembrano assai più attraenti e anche tra gli studiosi britannici si fa strada una visione regressiva delle storie nazionali italiana, tedesca e polacca. La questione si pone in termini differenti per quanto concerne le nazioni extraeuropee, verso le quali si sviluppano approcci diversificati, tra i quali Breuilly passa in rassegna l'occidentalista, l'irrazionale, il pragmatico e il periferico. Fino agli anni '70 gli storici britannici non mostrano però interessi per una generalizzazione e preferiscono concentrarsi sul lavoro empirico intorno alle singole nazioni.
Trattando degli sviluppi più recenti, Breuilly analizza il quadro internazionale e discute brevemente il ruolo del criterio nazionale nelle storiografie straniere. Egli sottolinea il fatto che anche nella centralizzata Francia il carattere nazionale non sia così definito come in Gran Bretagna e arriva poi ad esaminare i casi altamente problematici della Germania e della Turchia prima (come stati-nazione recenti) e dell'Impero asburgico e dell'URSS poi (in quanto stati multinazionali). Il risultato dell'analisi è che nonostante i dibattiti ricorrenti sulla forma più appropriata di nazione e il ricorrere di conflitti esterni e interni motivati dall'incerta appartenenza nazionale, la nazione sembra rimanere una categoria fondamentale per la storia contemporanea.
Questa drastica conclusione consente a Breuilly di segnalare la rottura imposta dalle nuove teorie che definisce, con le parole di A. Smith, "paradigma modernista classico" del nazionalismo. Fatte salve le differenze tra le varie versioni, infatti, tutti questi approcci considerano il nazionalismo come un fenomeno reale (cioè effettivo) e tipicamente moderno. L'industrialismo in E. Gellner, il capitalismo in M. Hroch, l'ideologia in E. Kedourie, l'evoluzione dello stato e delle classi dirigenti in A. Giddens, C. Tilly e M. Mann (ma anche nello stesso Breuilly), sono le forze che producono e caratterizzano il nazionalismo moderno secondo questo punto di vista.
Il maggior successo tra le correnti moderniste arride comunque a quella cosiddetta "immaginativa", espressa in testi come L'invenzione della tradizione o Comunità immaginarie. Queste opere aprono però la strada agli approcci postmodernisti, che arrivano a negare la realtà delle nazioni e concentrano invece la loro attenzione sui processi di costruzione discorsiva dell'identità nazionale. Senza sottovalutare gli esiti di questi studi, Breuilly ne denuncia i gravi difetti e sostiene che essi rinviano semplicemente i problemi interpretativi ai contesti che di volta in volta consentono alle rappresentazioni di condizionare effettivamente la realtà. Breuilly inoltre è scettico sulla possibilità di coordinare gli approcci essenzialisti, modernisti e postmodernisti in una sintesi coerente e produttiva; egli auspica piuttosto un pluralismo che, non certo negativo in quanto tale, appare tuttavia vulnerabile alle mode accademiche e ai condizionamenti esterni. Nello specifico l'integrazione europea e la globalizzazione sembrano promuovere il superamento dello schema nazionale, anche se il multiculturalismo rischia talvolta di riprodurre una separazione tra le storie con le stesse controindicazioni del vecchio nazionalismo. La più ovvia conseguenza, in ogni caso, è la fine degli "stili nazionali di interpretazione storica", evidente anche nel contesto britannico.
Breuilly dedica alcune osservazioni finali al ruolo degli storici stessi nelle fortune del nazionalismo poi conclude delineando un approccio strettamente epistemologico, in cui la nazione possa rappresentare un fecondo criterio di analisi tra gli altri (ed in interazione con essi).

5. Nel suo capitolo sul "genere" L. Jordanova sembra più impegnata a spiegare il significato di questo termine e nel sostenere la sua utilità, piuttosto che nel ricostruirne la storia in quanto strumento analitico, come invece ci si aspetterebbe in un volume come questo. L'autrice esalta la ricchezza e complessità del concetto (per esempio in relazione alla storia delle donne; o nei suoi differenti utilizzi riguardo a tempi, spazi, temi e fonti); ma la sua insistenza su espressioni come "elusivo", "indeterminato" o "controverso" rischia di mostrare più le debolezze dell'approccio che il suo ruolo (indubbio) di sollecitazione euristica.
Jordanova ricorda ripetutamente che "genere" non significa "sesso", ma è un concetto analitico astratto, che condivide come tale importanti proprietà con altre forme di differenza socioculturale; ma questo concetto ha in più altre rilevanti qualità, come ad esempio l'essere insinuante o l'esistere attraverso il linguaggio (da cui l'importanza degli approcci letterari e psicanalitici per gli studiosi di genere). Nella misura in cui fa riferimento ad ogni aspetto, materiale e culturale, della posizione reciproca tra femminilità e mascolinità, il genere è virtualmente universale, centrale e ineludibile.
La storia di genere si occupa allora della continua rielaborazione di questo rapporto attraverso le creazioni culturali e le pratiche sociali; rimanda quindi frequentemente a dilemmi teorici e a quadri comparativi. Essendosi sviluppata a partire dalle rivendicazioni di un movimento politico come il femminismo, essa ha poi rilevanti implicazioni politiche ad almeno tre livelli: privato, professionale e istituzionale.
La maggiore preoccupazione dell'autrice riguarda comunque il ruolo degli studi di genere nel rinnovamento della storia generale, nella misura in cui essi contribuiscono a mettere in discussione l'essenzialismo e le categorie sociali consolidate; usano nuove fonti e ridefiniscono l'approccio a quelle note, relativamente ai loro vuoti e silenzi; rivestono un ruolo di avanguardia per gli sviluppi recenti degli studi subalterni e omosessuali.
Jordanova ammette che queste nuove tendenze nascondano qualche insidia, come l'anacronismo, l'eccesso di teoria o i cedimenti alle mode; ma pensa ugualmente che, grazie alla categoria di "genere", storiche e storici possano finalmente arricchire le loro analisi empiriche con gli strumenti concettuali messi a disposizione da autori come Foucault, prestando attenzione all'azione umana, ma anche agli effetti culturali. In questo senso l'autrice promuove l'uso di "gender" come verbo, piuttosto che come sostantivo, per sottolineare la sua fecondità come "matrice trasformativa".

6. D. Feldman (cui, dati età e status, è stato affidato piuttosto sorprendentemente l'impegnativo capitolo sulla "classe") esordisce ricordando come la storia britannica rivesta un ruolo preminente nella storiografia sulla classe a causa del fascino esercitato dalla Rivoluzione Industriale e dal suo significato simbolico.
Egli cerca di dimostrare come questo concetto sia utilizzato già nella prima metà del secolo da autori Whig come J. R. Butler e M. Howell (fino agli Hammonds e ai Webb) per illuminare il significato politico e le conseguenze dei drammatici cambiamenti occorsi alla fine del secolo precedente. Feldman rileva quindi il ruolo della storia economica nel tentativo di applicare un modello classista alla Gran Bretagna pre-industriale, con storici come J. Clapham e R. Tawney; ma una rottura davvero importante avviene solo con gli storici marxisti membri del Partito Comunista, in seguito allo studio di C. Hill sulla Rivoluzione Inglese.
Per quanto concerne questo famoso gruppo, Feldman sostiene che dal lavoro di Dobb sul capitalismo, incentrato sul "modo di produzione", questi storici abbiano tratto una visione della classe come fenomeno di second'ordine, in funzione dello sviluppo economico. In effetti la loro eredità più feconda va collegata piuttosto alle ricerche sulla protesta e la politica popolare; nei lavori di E. Hobsbawm e G. Rudè i moti preindustriali, per quanto ancora primitivi e in qualche modo prepolitici, non sono più visti come futili o irrazionali, ma recuperati nel loro pieno significato.
A parere di Feldman, però, una ulteriore svolta è segnata dal lavoro di E. P. Thompson, che ricostruisce il processo di formazione della classe operaia inglese sulla base dell'esperienza dei protagonisti e delle loro risorse culturali. Anche se riprende l'interpretazione Whig per quanto riguarda la visione della Rivoluzione come cesura, Thompson procede poi a rivisitarne molti episodi, rivalutando l'attività creatrice della protesta popolare e insistendo sulla sua importanza sul piano storico generale. Il concetto di "esperienza", in particolare, gli permette di "muoversi con facilità tra la classe come relazione ai mezzi di produzione e la classe concepita invece come coscienza"; ed egli fissa l'etichetta di lotta di classe ad ogni conflitto legato alle relazioni di proprietà, in qualunque epoca si svolga. Feldman rileva tutti i guadagni e le perdite insiti in questa visione: Thompson riesce indubbiamente a superare la teleologia dei suoi predecessori, ma questo concetto di classe diventa così capace da perdere articolazione.
Il ruolo di Thompson appare in ogni caso decisivo nella misura in cui concentra la sua analisi sulla lotta di classe; dà spazio non solo alla politica formale delle istituzioni, ma anche alle idee e alle pratiche della classe lavoratrice; collega la storia di classe con la storia della protesta. Ovviamente le correnti tradizionali della storia economica continuano a sopravvivere; così come altri autori (ad esempio H. Perkin, P. Clarke o J. Foster) forniscono un contributo personale alla "nuova storia di classe"; ma la figura di Thompson continua a distinguersi, come appare evidente dal debito contratto nei suoi confronti da Hobsbawm e G. S. Jones, ma anche dagli storici affiliati ai nuovi movimenti sociali.
Le ricerche sulla aristocrazia operaia e sui lavoratori esterni alle Unions; gli studi sulle donne e sull'immigrazione; le indagini sui ceti medi: tutti questi filoni, che devono molto a Thompson, finiscono per aumentare le difficoltà del concetto di classe e aprono così la strada ai nuovi sviluppi del settore. Il caso di Jones è particolarmente interessante per apprezzare il passaggio progressivo da una storia strettamente sociale ad un approccio culturale alla classe: la sua "svolta linguistica" tenta infatti di ridiscutere la connessione tra gruppi sociali e ideologie politiche e quella tra esperienza e coscienza, inserendo un nuovo fattore intermedio, quello linguistico, che rappresenta a sua volta una parte rilevante dell'essere sociale. In luogo di un rigido determinismo materialista, studi come quelli di Jones o di D. Cannadine enfatizzano il ruolo dello stato e dei partiti nel costruire le identità e ripropongono quindi l'autonomia e la specificità del politico. I postmodernisti come Joyce, portando alle estreme conseguenze questo filone, giungono a mettere in discussione la centralità stessa della classe a fronte delle altre formazioni discorsive.
A queste tesi provocatorie Feldman risponde che il rendimento decrescente della classe come concetto analitico sfida "solo un certo tipo di storia sociale", perché la dimensione sociale rimane comunque una parte integrante e non sottovalutabile della vita umana; del resto l'intolleranza delle rivendicazioni teoriche postmoderniste sembra decadere nella pratica ad un condivisibile invito al pluralismo interpretativo.
Feldman spera dunque che gli storici "invece di capitolare alle pretese del postmodernismo, lavorino per una nuova cronologia della grande trasformazione" che dia spazio non solo ai fattori economici ma anche a quelli culturali e politici; e conferma che, se Malthus può essere forse il miglior riferimento per i modernisti, Marx, con il suo concetto di classe, rimane imprescindibile per chiarire le origini e le articolazioni del potere sociale e per scrivere un nuova e più accurata storia della modernità.

7. Un notevole spazio è destinato alla storia urbana e demografica, grazie a due nomi di primo piano come P. Clark e E. A. Wrigley. Il primo, in particolare, fornisce un'utile rassegna dello sviluppo storico degli studi urbani, dalle loro origini medievali nelle cronache cittadine fino alle storie dell'età elisabettiana; cita poi i lavori commissionati dalle autorità municipali e la letteratura sulle patologie urbane del diciannovesimo secolo.
In conclusione di questo excursus egli traccia una periodizzazione della tradizione accademica dell'ultimo secolo, definendola "più irregolare e diseguale" dell'urbanizzazione stessa.
Clark individua una fase prebellica, nella quale i lavori di F. W. Maitland, G. Cross e M. Bateson riflettono i mutamenti nell'amministrazione locale e traggono ispirazione dagli storici giuridici e costituzionali tedeschi come C. Von Savigny e O. Gierke. Negli anni '30 questa spinta iniziale si esaurisce a causa della stagnazione delle università e della diffusione di una corrente culturale contraria all'urbanizzazione; di questo periodo vengono citati solo gli studi medievali di J. Tait (sul modello di Pirenne) e il libro di D. George sulla Londra del diciottesimo secolo.
Una nuova ondata di ricerche si manifesta negli anni '60 grazie al libro di A. Briggs sulle città vittoriane, che inserisce il fenomeno urbano in una prospettiva più ampia, senza perdere di vista i diversi contesti locali. Guardando alla sociologia della scuola di Chicago e all'esempio delle "Annales", storici come H. Dyos e W. Hoskins pongono le basi per la storia urbana come "campo distinto di studi storici", fondando istituzioni e riviste specializzate e aprendo la strada a scambi con antropologi e demografi. Questo successo ha evidenti radici nel rapido (e drastico) riassetto delle città britanniche da parte degli architetti e dagli urbanisti modernisti; ma anche nella crescita di visibilità di problemi come le privazioni sociali, le carenze residenziali o i conflitti etnici. L'esplosione della ricerca e la sua differenziazione finiscono però per creare una crisi; anche perché nuovi sottosettori alternativi si pongono in competizione con gli studi storici. Quando il collasso della finanza pubblica porta i problemi urbanistici fuori controllo, ha luogo anche una perdita di momento della storiografia.
Ma Clark individua una nuova rottura alla fine della decade, e gli anni '80 segnano un altro ciclo fecondo di ricerca storica sulle città. Questa terza fase è caratterizzata dagli studi comparativi tra numerose realtà locali e dall'attenzione alla lunga durata; per quanto riguarda i temi, si presenta più pluralista e meno concentrata, occupandosi di ceti medi e classi dirigenti, subculture, settore terziario, società civile e identità. Questa "nuova storia urbana" è più salda nell'organizzazione grazie a istituzioni come il Centro di storia urbana a Leicester e il Centro di storia metropolitana a Londra (ma anche l'Associazione Europea di storici urbani sorta nel 1989). E' anche meno dipendente dalle influenze d'oltreoceano, avendo ormai sviluppato un approccio autonomo, fatto di apertura interdisciplinare (soprattutto all'archeologia e alla linguistica) e, recentemente, anche di un nuovo taglio storicista. Secondo Clark questo ciclo è meno chiaramente collegabile ai dibattiti contemporanei sul ruolo delle città, che sembrano in effetti avere meno impatto diretto sui programmi degli storici (anche se gli studi urbani finiscono poi per concentrarsi a loro volta proprio sui maggiori problemi strutturali: servizi, turismo e promozione).
Clark conclude riconoscendo che la storia urbana britannica è un settore complesso, influenzato da potenti fattori esterni e istituzionali, per cui non può essere visto semplicemente come un'invenzione accademica o una costruzione concettuale sviluppata a tavolino; gli storici "hanno però ripetutamente cercato di ridefinire, ricostruire e rinnovare il loro campo", così che i lavori più recenti assomigliano alle città che descrivono: sono "frammentati, disconnessi, ridotti in schegge".

8. E. Wrigley cerca di mostrare come anche lo studio della popolazione sia un campo specificamente britannico, da Malthus in avanti. L'analisi maltusiana della interdipendenza tra caratteri economici e demografici della società fornisce in effetti la base per tutte le discussioni successive. Ripercorrendone gli studi sul mondo preindustriale, Wrigley rileva come Malthus faccia molto di più che individuare una semplice tensione tra produzione e riproduzione o prevedere l'aumento della mortalità. Se, dopo la Rivoluzione industriale, la produzione ha dimostrato di superare facilmente la riproduzione, è negli studi sul periodo precedente che hanno avuto luogo gli sviluppi più rilevanti, e su di essi gli scritti di Malthus "continuano a stendere una lunga ombra". Grazie alle nuovi fonti e alle nuove tecniche noi possiamo però ridiscutere le sue conclusioni e trarne nuovo slancio per la ricerca.
Wrigley si sofferma sulle vicende del settore nella seconda metà del ventesimo secolo, dal metodo della ricostruzione delle famiglie di L. Henry a quello della proiezione a ritroso di J. Oeppen, per mostrare come gli studiosi abbiano progressivamente superato l'assenza di fonti di massa che a bilanciamento dei dati sui flussi. Tutti questi nuovi studi delineano un sistema matrimoniale tipicamente europeo e forniscono nuovi dettagli su temi importanti come la mortalità infantile.
A parere di Wrigley essi concordano sostanzialmente con Malthus riguardo alla tensione fondamentale da lui evidenziata, ma dimostrano anche che "sebbene nessuna società possa evitare tale tensione, sia la natura che il grado della stessa variano ampiamente; e che "è la fertilità piuttosto che la mortalità ad essere collegata direttamente agli indicatori economici".
Wrigley spera che i dati demografici possano essere utilizzati anche per chiarire altri legami, come ad esempio quello tra "crescita economica, urbanizzazione, movimenti migratori e crescente mortalità". Egli dedica poi il paragrafo conclusivo allo status logico dei dati demografici per sottolineare come essi siano di fatto i più consistenti e sicuri nella storia economica, in quanto garantiti dalla cosiddetta "equazione del bilanciamento della popolazione".

9. Il saggio di R. Porter merita qualche parola a parte, non solo per la sua recente scomparsa (o per la ricorrente presenza a fianco di Burke). Il fatto importante è che, molto più dei suoi colleghi, egli superi gli stretti confini del compito assegnatogli e osi dare al suo saggio una esplicita connotazione culturale (e politica).
Porter ci ricorda innanzitutto la tradizionale subordinazione della storia della medicina a quella delle scienze fisiche; poi nota come i problemi recenti, come il diffondersi dell'AIDS, abbiano mutato l'attitudine del pubblico verso la medicina e aperto la strada ad una problematizzazione della sua storia. Per quanto riguarda in particolare la Gran Bretagna, egli attribuisce un ruolo fondamentale in questo senso alla Società per la storia sociale della medicina e all'Istituto "Wellcome".
Dopo una breve introduzione concettuale Porter abbozza una storia dell'idea di "malattia" (come distinta da quella di "malessere" o "indisposizione") dalle origini al presente; quindi cerca di spiegare perché la medicina occidentale, con tutti i suoi limiti, abbia finora trionfato. La sua risposta a questo interrogativo è che tale supremazia dipenda non solo dal dominio politico ed economico (indiscutibile) dell'Occidente, ma anche dal suo peculiare approccio al corpo umano e dall'interesse specifico per il sé, l'identità e l'espressione individuale. Le sue promesse, i suoi progetti e i suoi prodotti, dalla dissezione alla chirurgia, attraverso una continua sperimentazione, generano sapere e potere "in sostanziale indipendenza dalla sua reale efficacia come approccio razionale alla buona salute".
La vittoria di questa "medicina scientifica ad alta tecnologia" produce peraltro problemi non trascurabili: stridente appare ad esempio il paradosso tra la sua ossessiva raccolta di informazioni esteriori sulla malattia e la progressiva cecità verso i pazienti, le persone, la società (e in ultima istanza verso la medicina stessa). Se per secoli l'impresa medica è stata troppo incerta per subire critiche radicali, ora che le sue conquiste e le sue ambizioni sono pressoché infinite, essa attira crescenti proteste, tra le quali si distinguono quelle della nuova sociologia.
Prigioniera del proprio successo, la medicina occidentale si trova dunque di fronte ad interrogativi cruciali circa i propri scopi e limiti, e rischia di perdersi in una spirale viziosa, trasformandosi in una incontrollabile macchina produttrice di malattie, paure e "medicalizzazione esasperata dei normali eventi della vita". Contro le fantasie del perfettibilismo tecnologico Porter denuncia il fallimento del cieco empirismo medico e auspica invece un ruolo di primo piano per la filosofia e la storia della medicina.

10. Il capitolo di S. Bann sulla "storia della storia dell'arte" non è una ricostruzione semplice e lineare del ventesimo secolo. All'inizio egli va a ritroso e rievoca la tradizione della critica estetica del secolo precedente, da C. Eastlake a Ruskin e Pater; e sottolinea come questo filone continui a scorrere sotterraneo fino ad autori contemporanei come A. Stokes, R. Fry e F. Haskell. Ma lo scopo principale di Bann è di approfondire gli sviluppi più recenti del settore, quindi si sofferma in particolare sugli ultimi 50 anni e cerca di spiegare come una disciplina sotto-istituzionalizzata come la storia dell'arte sia divenuta un membro prestigioso degli studi umanistici.
La prima tappa di questo processo si trova probabilmente nella "svolta storicista" prodotta dalla ricezione degli autori di lingua tedesca. Nuovi lavori introduttivi; profili delle figure centrali della disciplina; una selezione di importanti testi pubblicati in traduzione: tutta questa letteratura preparatoria porta a raccolte di sintesi "che cercano di applicare i dividendi metodologici di questo ampliamento di visione ai compiti concreti dello studio storico-artistico". Se è ormai opinione comune che "dal pieno riconoscimento delle basi tedesche" si sia giunti al "tentativo di applicare le loro indicazioni sistematicamente e ad un ampio spettro di materiali", Bann ci invita comunque ad inserire questo passaggio nel quadro di una più ampia trasformazione culturale, che definisce, con le parole di W. Mitchell, una "svolta pittorica delle scienze umane".
In effetti "la crescente attrazione per l'immagine dentro e oltre gli studi umanistici mette la storia dell'arte in primo piano", ma la costringe anche "a ridiscutere le concezioni già acquisite e consolidate del proprio ruolo". La questione della rappresentazione assicura infatti alla storia dell'arte un nuovo status dilemmatico e polarizzato, che supera il tradizionale conflitto tra conservazione e avanguardia per toccare quello tra parola e immagine, e in ultima istanza, il rapporto stesso tra storia e arte.
Una prima occasione di dibattito viene individuata nel 1974, con il richiamo di T. J. Clark ad una "dissoluzione morbida" della disciplina e la sua proposta di una nuova critica basata sulla sofisticata nozione di "ideologia". Il suo modello teorico (ispirato a Benjamin) e il suo libro sul 1848 aprono in effetti la strada alla cosiddetta "storia sociale dell'arte".
Bann si sforza di distinguere quest'ultima dal concetto generale di storia sociale, nella misura in cui si rivela molto diversa sia dalla tradizione marxista di A. Hauser, che dagli accenni alla cultura di Hobsbawm e di Thompson; i suoi riferimenti vanno cercati piuttosto in studiosi come N. Z. Davis o C. Schorske.
La storia sociale dell'arte può essere inserita a sua volta in un fenomeno più ampio e diffuso cui Bann si riferisce come "nuova storia dell'arte". Questa definizione-ombrello copre un'ampia varietà di nuove discipline (dagli studi sul paesaggio, a quelli mussali fino alla storia della fotografia) accomunati dagli spiccati interssi teorici, non più però di marca tedesca, bensì rivolti alla filosofia e alla semiotica francesi; questa ricchezza di approcci è accompagnata dal sorgere di nuove riviste come "Critical Inquiry" e "Representations" (ma anche le meno note "Journal of Garden History" e "Word & Image"); e dal rinnovamento di altre già consolidate come "Art History" o "The Art Bulletin".
Dai mutamenti degli ultimi 25 anni (cui indubbiamente si legano fattori generazionali) Bann giunge poi a trattare il recente dibattito sul destino della storia dell'arte e sul suo possibile inserimento negli studi di "cultura visiva". Bann cita varie autorevoli opinioni che invitano gli storici dell'arte a prestare attenzione a questo slittamento; quindi ricorda che la cultura visiva non è un fattore improvviso e destabilizzante, ma un approccio autonomo con una lunga genealogia, che fa sì che "la storia dell'arte in Gran Bretagna giaccia all'intersezione di tradizioni convergenti ma in competizione, nessuna delle quali può essere considerata canonica". Nella metafora di Berlin, la disciplina si muoverebbe dunque, almeno in area britannica, nello spazio (in equilibrio instabile) tra la volpe-cultura visiva e il riccio-storia dell'arte.

11. La raccolta è conclusa dal saggio dello stesso Burke, che è senz'altro di grande interesse per i lettori di "Cromohs", non solo per la sua collocazione e il prestigio del suo autore, ma anche perché si occupa specificamente di storiografia e di filosofia della storia .
Il capitolo è abbastanza schematico, ma è molto utile per discutere il luogo comune circa l'assenza di interesse per questo settore di studi nel mondo inglese. Burke sembra inizialmente confermare tale giudizio, rilevando l'assenza di riviste, ruoli accademici e testi manualistici sull'argomento (ad eccezione del libro di Carr); egli riprende tra l'altro l'opinione di G. Jones circa "la peculiare miopia inglese" e quella di P. Anderson, che parla in proposito di "peculiarità inglese". Ricorda inoltre come la storia della storiografia britannica sia stata fatta soprattutto da studiosi stranieri, mentre autorevoli accademici come Trevelyan si sono sempre mostrati scettici; fenomeno che può essere legittimamente messo in relazione con la cultura locale iper-empirista e la strutturazione del sistema scolastico, che disgiunge storia e filosofia. A partire da queste annotazioni però Burke cerca di riesaminare la questione dell'individualismo e dell'insularità inglesi per verificare meglio la loro affidabilità e coglierne con maggior precisione il significato storico.
Nel primo paragrafo si sofferma quindi sulla storiografia, riportando alla luce alcuni maestri della prima metà del secolo come F. M. Cornford, G. P. Gooch o D. Douglas. Quindi colloca un punto di svolta negli anni '50, grazie al ruolo di I. Berlin e A. Momigliano, ma anche alle lezioni di H. Butterfield a Cambridge, H. Trevor Roper a Oxford e D. Hay a Edimburgo.
Per quanto riguarda l'ultima generazione, Burke contrappone allo stretto empirismo di J. Kenyon lavori più ambiziosi come quelli di J. Burrow o di S. Bann. L'apertura ad approcci differenti al passato e il contributo delle altre discipline contribuiscono ad ampliare e approfondire gli studi storiografici, che ora sono meno confinati ai grandi nomi e toccano invece la cultura storica diffusa.
Il secondo paragrafo è dedicato alla metodologia storica e Burke dedica qui spazio soprattutto a Collingwood. A parte alcune famose lezioni inaugurrali, come quella di R. Tawney del 1932, è solo nei testi di Collingwood che riecheggiano in Gran Bretagna i dibattiti sui pregiudizi nella storia o sullo status della disciplina (arte o scienza?).
Dal suo approccio idealistico (apprezzato da M. Oakeshott e I. Berlin., ma criticato da A. Toynbee) scaturisce l'importante filone della filosofia analitica applicata alla storia, che rimane peraltro meno sviluppato del corrispondente americano, se si eccettuano gli apporti di W. Walsh e P. Gardiner. Le riflessioni metodologiche del dopoguerra vengono invece dai praticanti di nuove sottodiscipline: dagli storici intellettuali (del pensiero politico, come Q. Skinner, o della scienza) agli storici economici (con il loro interesse per il "controfattuale", recentemente recuperato, in altri contesti, come gusto per la storia virtuale). Ma è il postmodernismo, sollevando problemi propriamente epistemologici, a sollecitare le maggiori discussioni e a favorire la pubblicazione di molte nuove introduzioni al metodo storico.
Burke passa quindi a trattare della "filosofia della storia sostanziale" ed esamina figure eccentriche come H. G. Wells e A. Toynbee. Riguardo a Study of history egli nota come quest'opera sia stata soggetta a critiche di segno opposto: troppo empirica per filosofi come Collingwood o W. Dray e non abbastanza per storici come P. Geyl. Vale la pena ricordare come altri studiosi autorevoli, quali R. Pares e A. Momigliano, pur denunciandone la tendenza alla teodicea, siano rimasti favorevolmente impressionati dal lavoro di Toynbee per il suo ampio respiro ed i suoi effetti sprovincializzanti.
La sfiducia nelle generalizzazioni peraltro è vista da Burke come una delle cause principali dei sospetti britannici per la sociologia, come appare evidente dal caso di N. Elias (in questo senso viene rilevata una notevole differenza con l'antropologia, che deve probabilmente il suo maggior successo alle origini "sul campo"). A parte il dibattito su Toynbee, Burke vede nel marxismo la sola filosofia davvero influente sulla storiografia britannica; ma rileva anche come tale filone appaia completamente separato dalle altre correnti accademiche e assuma a sua volta, nel contesto inglese, innegabili sfumature empiriste, come dimostrano gli argomenti utilizzati da E. P. Thompson contro P. Anderson.
Burke rileva però come una filosofia della storia sia implicita anche nella storiografia britannica, dal riferimento al progresso nella storia Whig, fino ai differenti sviluppi della visione conservatrice. Ciò è particolarmente evidente nel dibattito sulla periodizzazione dell'età moderna. L'anno 1500 come punto di partenza tradizionale della modernità è infatti messo in discussione dagli sviluppi della storia economica e della scienza (con le loro rispettive -e sfasate- rivoluzioni) tanto che si assiste alla comparsa di nuovi concetti come quello di "prima età moderna" o di "postmoderno".
Burke termina il suo intervento proponendo gli anni '50 come migliori candidati in qualità di soglia della contemporaneità disciplinare e ammettendo la perdurante validità di alcuni degli stereotipi iniziali circa l'empirismo britannico.
L'assenza di critiche pungenti e una certa sottostima del postmodernismo nel mondo accademico britannico sono equilibrati in questo saggio da varie annotazioni interessanti, come l'archeologia dei termini "postmoderno" e "metastoria" o i precedenti britannici della microstoria; ma i lettori italiani apprezzeranno anche il fatto che Burke sia l'unico autore a ricordare il ruolo di primo piano svolto dagli storici del nostro paese, come A. Momigliano o C. Ginzburg.

12. Se in conclusione cerchiamo di dare uno sguardo d'insieme alla raccolta, dobbiamo necessariamente rifarci agli scopi annunciati nell'introduzione e utilizzare come riferimento per la loro verifica le posizioni espresse da Burke.
Per quanto concerne l'esistenza di uno "stile britannico" nella storiografia del XX secolo, la maggior parte degli storici intervenuti condivide l'idea che l'internazionalizzazione della ricerca forzi il superamento dei confini nazionali, così che è sempre più difficile (e meno significativo) descrivere le tendenze nazionali a fronte di quelle globali. Si può comunque notare come alcuni autori offrano una rassegna propriamente internazionale, con solo un limitato accenno alla Gran Bretagna (Jordanova), mentre altri inseriscono la situazione britannica in una prospettiva europea (Rubin) o atlantica (Bann).
Se gli studiosi più giovani denunciano chiaramente un certo provincialismo britannico, i più maturi cercano invece di difendere la tradizione nazionale in settori come la storia urbana o quella dell'arte, nonostante l'importanza degli apporti ricevuti dall'estero. Burke stesso ama ricordare in ogni circostanza le priorità britanniche e conclude il suo saggio (e la raccolta) sostenendo che "per quanto la globalizzazione stia minando alla base l'insularità, gli storici britannici rimangono distinti -se non peculiari- nel loro approccio alla materia". Nessuno, a parte Bayly, prende invece in seria considerazione le distinzioni interne alla Gran Bretagna.
Agli occhi del lettore italiano è notevole riscontrare come il suo paese sia stato al centro degli interessi di alcuni tra i più famosi storici inglesi; ma risulta poi abbastanza deludente che la medievalistica del nostro paese venga citata solo in riferimento alla politica della Lega.
Per quanto riguarda il problema della periodizzazione, la tendenza è quella di dividere il secolo in due metà con la Seconda Guerra Mondiale, segnando poi altre due rotture intermedie in corrispondenza del primo conflitto e degli anni '60. L'idea di storia implicita nel lavoro è certamente quella discontinuista kuhniana, infatti tutti gli autori risultano affascinati dalle "grandi svolte"; ma ne danno poi una interpretazione assai diversa.
Non tutti sembrano dare il giusto spazio alla prima metà del secolo (anche se alcuni, come Clark e Porter, risalgono ben oltre). La maggior parte preferisce invece concentrarsi sulla seconda metà e soprattutto sull'ultima generazione, vista non solo come una fase di passaggio tra le altre, ma come una vera e propria soglia del contemporaneo.
Le diverse opinioni sull'ultima decade riflettono però un disaccordo più generali circa le impostazioni epistemologiche. Mentre gli studiosi più giovani (e le donne in particolare) apprezzano la svolta postmodernista e sentono di farne parte, i nomi più consolidati si sforzano invece di mostrarne le debolezze e preferiscono rivalutare invece alcuni elementi trascurati del passato, allo scopo di costruire un approccio più integrato e complesso (che rimane tuttavia assai instabile).
Un dibattito aperto riguarda in particolare il concetto di "costruzionismo" socio-cultrale, che Rubin e Jordanova valutano positivamente nei suoi effetti antiessenzialistici e antideterministici, mentre i loro colleghi riprovano per lo più le sue derive nichiliste. Burke ci avverte con il consueto equilibrio a non sopravvalutare le sirene del nuovo perché il costruzionismo (ma anche lo scetticismo o il ricorso alla teoria) hanno antecedenti anche lontani. Egli cerca quindi di sviluppare meglio il giudizio, distinguendo le varie sottodiscipline e riarticolando la questione generale, sull'esempio di I. Hacking, attorno a tre interrogativi: costruzione di cosa (perché concetti, modelli, fonti – ed anche campi- non possono essere posti allo stesso livello); da parte di chi (perché le costruzioni hanno sempre alla base delle intenzioni precise); e a partire da cosa (perché ogni costruzione opera all'interno di limiti e vincoli che segnano le differenze tra queste intenzioni e i risultati).
Anche la costruzione, del resto, è un fenomeno storico, tanto che Burke preferisce parlare di processo di "continua ricostruzione". Nella misura in cui la popolarità del termine sembra oggi isterilire la ricerca piuttosto che stimolarla, Burke auspica una decostruzione-ricostruzione del concetto stesso di "costruzione" e mostra tutte le ambivalenze di tendenze recenti come il declino della storia quantitativa o la frammentazione disciplinare.

13. Le opinioni sfumate del curatore e il suo invito ai lettori a "farsi la propria idea e a tracciare autonomamente delle distinzioni" di fronte al pluralismo della raccolta, non persuadono del tutto e lasciano aperto il problema. A parte il merito delle singole questioni, il volume ondeggia pericolosamente tra un enciclopedismo neutrale e qualche implicita concessione alle mode intellettuali (ed editoriali).
Certo l'opera può essere utile, in particolare al lettore straniero, per fare il punto su alcuni argomenti e approfondirne di nuovi; e ovviamente può aiutarlo ad ampliare la sua bibliografia. Ma è quantomeno dubbio che gli possa fornire "una chiara e ponderata rassegna critica" come Burke auspica nella prefazione (e come il titolo e la copertina maliziosamente promettono). Ancora più improbabile è che il volume, concentrandosi sulla storiografia accademica, offra un'immagine della "cultura storica britannica", come lo stesso Burke sostiene in conclusione; e non è solo un problema di spazio. Il fatto è che approcci diversi alla storiografia sono rappresentati qui senza un serio tentativo di sintesi o almeno un criterio esplicito di scelta.
Ciononostante, si possono trarre dalla raccolta alcuni spunti utili a sviluppare meglio l'argomento. Un buon punto di partenza potrebbe essere il tentativo di Porter di "navigare tra due piani: "ismi" e "logie" da una parte, e minuzie (e eccesso di acribia) dall'altra. Anche gli altri autori sembrano in effetti condividere la sua intenzione di "trattare alcuni snodi delle grandi questioni" per evitare la superficialità, ma anche l'indigestione intellettuale.
Un altro elemento importante da tenere in considerazione è l'interazione virtuosa tra gli sviluppi interni alla storia della disciplina e i fattori esterni di rilievo generale. Questi storici riescono a non degenerare nel determinismo, senza però confondere l'autonomia della storia con un'impossibile indipendenza.
Infine, possiamo trovare in quest'opera un coraggioso tentativo di applicare alla storiografia gli stessi strumenti e le stesse tecniche disponibili per la storia generale: è infatti evidente l'attenzione alla scala, alla comparazione e alla riflessività.
Dunque, per quanto questa raccolta appaia meno convincente della precedente e conceda forse troppo alla sua origine celebrativa, si può dire che l'intelligente lavoro di Burke abbia prodotto un altro risultato di valore.