Richard W. Southern, La tradizione della storiografia medievale,
a cura di Marino Zabbia, Bologna, Il Mulino, 2002,
(Istituto italiano per gli studi storici in Napoli); pp. 228
[€ 25,00 – ISBN 88-15-08914-4]

Stefano Dall’Aglio
Università di Roma «La Sapienza»

1. La scomparsa di Richard W. Southern, avvenuta nel 2001, è stata l’occasione per la comparsa di questo libro. La fama del medievista è legata da lungo tempo a The making of the Middle Ages del 1953, ma molti dei temi a lui più cari si ritrovano anche nelle conferenze che presentò come presidente della Royal Historical Society tra 1969 e 1972. Si tratta dei quattro saggi dotti e intensi che Marino Zabbia ha raccolto – corredandoli di un’introduzione - nel volume di cui ci occupiamo. Nei vari contributi, l’interesse di Southern per gli storiografi e la cultura storiografica emerge in forme diverse, ma rappresenta comunque il tratto comune ai vari scritti. In ciascuno di essi la continuità col passato affiora come chiave di volta per la comprensione del presente, in analisi che privilegiano il periodo medievale inglese ma che non mancano di toccare diversi ambiti geografici e cronologici. 
Nel primo saggio (La tradizione classica da Eginardo a Goffredo di Monmouth, pp. 39-82) Southern prende in esame gli autori del periodo 820-1140. In quale misura la lezione classica condizionò l’opera di storici e storiografi di quell’arco di tempo? La tendenza a fare della storia una forma d’arte non ne costituiva che l’aspetto più evidente. Il dovere storico di suscitare sentimenti portò la storiografia ad abusare della retorica, privilegiando la ricchezza formale a danno della verità storica. La storia divenne una branca della letteratura e il ricorso all’immaginazione ne costituì una componente imprescindibile. Per Southern, il capofila del nuovo modo di fare storia era stato Eginardo; con la sua Vita Karoli aveva fatto del suo meglio per riattualizzare i modelli storico-artistici classici. Ripercorrendo la strada che aveva portato alla trasformazione della storia in retorica, l’autore non dimentica Widuchindo, Dudone e Richer. Il loro legame con le storie nazionali – sulla scia degli storici romani – ne aveva costituito il tratto distintivo. Chiudeva il cerchio la Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, che - pur non senza differenze – aveva quelle stesse caratteristiche.

2. Il secondo contributo (Ugo di San Vittore e l’idea dello sviluppo storico, pp. 83-127) tocca il tema del rapporto tra storiografia e teologia. L’attenzione di Southern si concentra sulla figura di Ugo di San Vittore, canonico e autore multiforme del secolo XII. Fu lui a mettere in discussione il modello cronologico proposto da Beda, che sulla scorta del primo capitolo della Genesi individuava una scansione temporale fondata sulle sei età della storia. L’aspetto più anomalo e suggestivo è rappresentato dal fatto che le opere che ci tramandano il modello storico di Ugo sono testi di esegesi biblica, teologia sistematica e religiosità personale. Ad esempio, il suo De sacramentis si fonda su una tripartizione della storia umana in età, anticipando un modello di scansione cronologica che verrà esteso dall’autore anche allo sviluppo delle arti. L’età della legge naturale aveva dovuto cedere il passo a quella della legge scritta e infine a quella della grazia. Il modello del passaggio tra le varie fasi era caratterizzato da un movimento evolutivo comune a tutti i settori della vita. Lo faranno proprio Anselmo di Havelberg e Ottone di Frisinga, ma forse è una storia universale londinese di metà Settecento lo scritto che realizza più compiutamente il sogno di Ugo da San Vittore di una storia sistematica dell’umanità.

Nel terzo saggio (Storiografia e profezia, pp. 129-174) Southern si occupa dell’influenza della profezia sull’evoluzione del pensiero storiografico. I condizionamenti non sono mancati, ma c’è da credere che siano stati sottovalutati. Lo storiografo inglese sottolinea la convinzione diffusa che la profezia fosse la fonte di conoscenza storica più sicura, e comunque l’unica che consentiva di sapere qualcosa del futuro. Nel Medioevo le profezie bibliche erano quelle più chiare e più esplicite, ma alcune di esse – come quelle relative al libro di Daniele o all’Apocalisse – erano ancora tutte da esplorare. Tra le fonti non bibliche che segnarono il pensiero del secolo XII, le profezie delle Sibille, quelle di Merlino e quelle astrologiche più di tutte consentivano di individuare una continuità tra il mondo pagano del passato e quello cristiano. L’idea del rapporto tra eventi passati e futuri non può non rimandare a una lettura profetica legata all’individuazione di un ordine storico; una concezione sviluppata proprio nel secolo XII da Anselmo di Havelberg e altri. L’autore prosegue con una riflessione sulla figura di Gioacchino da Fiore. Il monaco calabrese in qualche modo riorganizzò la storiografia profetica, sistematizzando i metodi per l’interpretazione del passato. Per primo introdusse il tema della fine del mondo, influenzando enormemente tutto il pensiero successivo. Prima che tutto il modello della storiografia profetica a fine Seicento entrasse in crisi, ci fu spazio anche per il sussulto di Newton: siamo proprio sicuri che la sua accettazione profetica fosse incompatibile con il suo approccio scientifico?

3. Nell’ultimo contributo (Il senso del passato, pp. 175-219) si parla dello studio e della conservazione del passato in due contesti storici particolarmente significativi: quello dei monasteri inglesi del secolo XI e quello dell’Inghilterra della seconda metà del Cinquecento. In entrambi i casi si attuarono delle rinascite storiografiche che combinavano rottura e unione con il passato. Soffermiamoci sulla prima situazione: i monaci sentivano minacciata la loro cultura e si diedero da fare per garantirne la conservazione. Si ebbero così trascrizioni di documenti, raccolte di scritti, repertori di materiali e edizioni di testi, che rappresentarono nel loro insieme il germe della storiografia inglese. Più degli altri eruditi, si fece notare Guglielmo di Malmesbury, che superò il diffuso ricorso alla retorica ricostruendo il passato con continui riferimenti alle fonti. Per quanto riguarda il processo storiografico cinquecentesco, Southern si occupa della figura di William Lambarde. Questi si dedicò a studi sulla storia del Kent, sull’ufficio del giudice di pace e sulla giustizia inglese. Analizzando sistematicamente cronache e documenti, accumulò un’enorme quantità di materiale che non seppe come utilizzare. Anche lui - come i monaci inglesi del secolo XI – aspirava a rendere il presente comprensibile attraverso la conoscenza del passato; solo la continuità storiografica poteva consentire di superare il senso di rottura con il passato che l’uno e gli altri avevano percepito.