S. Baron, B. Dooley (eds.), The Politics of Information in Early Modern Europe, London/New York, Routledge, 2001
[HARDBACK £68.00 - ISBN: 0415203104]

Mario Caricchio
Università di Bologna

1. Un'osservazione di Virgilio Malvezzi, riportata in questo volume, rammenta ai lettori che non è cosa nuova proteggere il segreto della politica soddisfacendo con notizie false e truccate la curiosità, altrimenti pericolosa, e comunque inestinguibile, del "popolo". Quella "curiosità" nel XVII secolo era già ben radicata. Si nutriva delle "nuove", diffuse fin dal secondo Cinquecento dai fogli manoscritti e redatte dai "nuovi professionisti della parola", dalle cui botteghe prendevano direzioni disparate e imprevedibili dentro il tessuto urbano. Il Seicento vide il passaggio degli avvisi in tipografia e la nascita delle gazzette, la cui presenza nel panorama culturale europeo si sarebbe consolidata intorno alla Guerra dei Trent'anni. L'espansione delle pubblicazioni a carattere giornalistico e dei giornali, ricordano i curatori Sabrina Baron e Brendan Dooley, sebbene con differente intensità e regolarità, interessò ogni parte d'Europa: alla fine del secolo, la stampa periodica era diventata il modo fondamentale di trasmissione dell'informazione politica. Mercificazione e manipolazione della comunicazione pubblica a fini politici trasformarono "gli scrittori in speculatori, l'informazione in opinione e i lettori in critici". Come Dooley ha argomentato in The Social History of Scepticism: Experience and Doubt in Early Modern Culture (The John Hopkins University Press, 1999), tali sviluppi si iscrivono in un campo d'indagine in cui storia del giornalismo, storia dello scetticismo e storia della storiografia potrebbero e dovrebbero congiungersi. Si tratta di un programma che informa The Politics of Information in Early Modern Europe a tratti. Laddove esso emerge con maggiore chiarezza, il volume ottiene i migliori risultati, non limitandosi semplicemente a registrare la nuova centralità del XVII secolo negli studi sulla storia dei mezzi d'informazione e dell'"opinione pubblica".

2. Un pregio della raccolta è senza dubbio costituito dall'ampiezza dello spazio geografico considerato, che porta a confronto i percorsi seguiti nelle diverse formazioni statuali. Se i quattro saggi di Stuart Sherman, Sabrina Baron, Michael Mendle e Daniel Woolf rappresentano un nucleo prevedibile, ma indispensabile, dedicato all'Inghilterra, molto meno scontati sono i contributi sui Paesi Bassi spagnoli di Paul Arblaster e su Danimarca e Svezia di Paul Ries, che introducono in territori spesso trascurati. Una lunga panoramica sulle origini della stampa periodica tedesca è data da Thomas Schröder, mentre Jean-Pierre Vittu si occupa della Francia, dalle guerre di religione a Luigi XIV. Il quadro è infine completato dai saggi su Spagna, Italia e Olanda di Henry Ettinghausen, Mario Infelise e Otto Lankhorst. La ricchezza dell'indice raggiunge, in questo senso, l'obiettivo dichiarato di questa pubblicazione, fornendo la mappa iniziale dello stato degli studi, dei riferimenti e delle materie prime per un'ampia comparazione che sia base di una storia dell'informazione politica su scala continentale. Ma in ciò sta anche la principale debolezza del volume, che si segnala per la discontinuità dei contributi. Il saggio di Lankhorst può, per esempio, difficilmente far giustizia in otto pagine allo sviluppo della stampa politica olandese, il cui ruolo, a maggior ragione in un quadro di riferimento europeo, non può essere considerato per niente periferico e secondario. L'intervento di Mendle, all'opposto, si dilunga eccessivamente nel ricapitolare le forme della presenza delle notizie nell'Inghilterra rivoluzionaria, di cui si è scritto – le petizioni di David Zaret (Origins of Democratic Culture: Printing, Petitions and the Public Sphere in Early Modern England, Princeton U. P., 2000), i newsbooks di Raymond - e di cui si deve ancora scrivere - l'archiviazione e collezione di giornali e pamphlet. Allorché la sua "cultura del pamphlet" prende vita, in un episodio di battaglia politica giocata sulle dichiarazioni ‘rilasciate alla stampa' dagli attori principali nello scenario dell'imminente restaurazione monarchica, il saggio si chiude, lasciando al lettore la sensazione di aver solo sfiorato una questione importante.

3. Emergono, comunque, alcuni temi unificanti. Baron e Schröder riprendono l'essenziale funzione ricoperta dai notiziari a mano, seguendo una linea d'attenzione alla persistenza del manoscritto sottolineata in generale da Harold Love (Scribal Publication in Seventeenth-Century England, Clarendon Press, 1996), e sperimentata con risultati rilevanti nel campo della "pubblica informazione" da alcune recenti monografie incentrate sul caso specifico italiano (M. Infelise, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione, Laterza, 2002, e il succitato studio di Dooley). Non relegabili nella casella dei precursori, né cancellati dall'avvento delle gazzette a stampa, newsletters, avvisi, Geschriebene Zeitungen, furono fondamentali per il formarsi, entro i circoli più o meno ampi delle élite, di un'avvertita coscienza del ruolo politico dell'informazione e del polarizzarsi dell'opinione. Notiziari e dispacci manoscritti continuarono ad esistere in una posizione competitiva e concorrenziale, anche perché si sottraevano più facilmente al controllo censorio, e quindi veicolavano notizie più ‘veritiere'. D'altra parte, costituendo spesso le fonti delle versioni a stampa, contribuivano a diffondere le informazioni anche oltre i confini delle classi dirigenti cui erano originariamente destinati. Un network di scala europea collegava, attraverso la trasmissione delle notizie, le grandi corti alle città mercantili, come Amburgo o Amsterdam, Venezia, l'Inghilterra, la Danimarca e la Svezia (Baron, Ries, Infelise).

4. Molti interventi mettono in evidenza, inoltre, come gli esordi delle gazzette a stampa si collochino entro la sfera della promozione e quindi del controllo da parte dell'autorità. Tale fenomeno è evidente, per Ettinghausen, nelle prime limitate esperienze con cui la Spagna si unisce in ritardo durante gli anni '60 alla generale espansione dell'informazione stampata in Europa. Il caso francese si pone, sin dall'inizio, all'avanguardia in questo campo e fornisce un modello per le aspirazioni "assolutiste" di molti stati europei, quelli scandinavi come quelli italiani. La Francia di Luigi XIV, infatti, costruisce il proprio spazio pubblico sull'avanzata consapevolezza del rapporto tra informazione e potere di Richelieu e sulla sconfitta dell'esplosione di parole della Fronda. L'"opinione controllata", schizzata nel momento del suo formarsi dal saggio di Vittu, diviene, perciò, un quadro orientativo utile nell'analisi di molte altre situazioni della prima età moderna, un periodo in cui le autorità si accorsero che non era più possibile chiudere semplicemente le porte delle proprie stanze per proteggere una concezione ormai in rapida obsolescenza degli arcana imperii. L'"opinione controllata" francese sembrerebbe allora fornire un punto di riferimento per un'equilibrata valutazione del rapporto tra diffusione dell'informazione politica e sviluppo dell'"opinione pubblica" in un quadro comparativo europeo. Molti dei saggi, tuttavia, paiono piuttosto attestarsi sulla convinzione che la "propaganda" abbia di per sé promosso una sfera di discussione critica: le iniziali esigenze dei ceti politici e lo sviluppo delle gazzette, pur sotto il controllo delle autorità, sarebbero state di fatto trascese nella dinamica dell'informazione. Ciò assomiglia, nonostante le affermazioni di cautela dei curatori nella presentazione, ad un'applicazione troppo meccanica di "conseguenze involontarie" con le quali si ripresenta, come nelle conclusioni di Schröder, l'idea che le radici della futura "sfera pubblica" affondino in un "potenziale" di per sé antiassolutistico della stampa.

5. Il riferirsi allo schema habermasiano, sebbene non sia l'unica ispirazione teorica presente, è iscritto nella strutturazione stessa di The Politics of Information, che divide la propria materia tra il "modello inglese" e il "continente". I contributi sull'Inghilterra, da questo punto di vista, si caratterizzano anche per il venir meno di un certo andamento descrittivo prevalente in altri saggi e per una maggiore attenzione teorica, che introduce a valutazioni in certi casi discordanti. In particolare, Sabrina Baron è fortemente critica nei confronti della cesura rappresentata secondo Joad Raymond dai newsbooks diffusisi con la Rivoluzione inglese: The Invention of the Newspaper (Oxford, Clarendon Press, 1996) di quest'ultimo li descrive infatti come risposta alla frattura della "nazione politica", con caratteristiche formali che ne facevano veicolo di una cultura di dibattito e li differenziavano dall'offerta d'informazione costituita prima del 1641 da newsletters manoscritti e corantos – i primi periodici a stampa in inglese ispirati ai modelli olandesi. Il contributo di Raymond, che ha recentemente sostituito l'ormai datata monografia di Joseph Frank (The Beginnings of the English Newspapers) come studio di riferimento sulle origini della stampa periodica inglese, è d'altra parte un punto fermo nell'impostazione di Mendle e Woolf, per i quali il momento della guerra civile risulta centrale. Il punto in questione è naturalmente se l'espansione inedita in Inghilterra della produzione stampata, l'apparizione dei newsbooks e la loro veloce affermazione come genere popolare abbiano costituito una rottura con il passato o siano piuttosto uno sviluppo nella continuità. Ciò è essenziale anche per valutare l'Inghilterra nel contesto europeo. Baron ha ragione a sottolineare la vitalità della domanda e del mercato manoscritto delle notizie prima del 1641. Eppure quanto, seguendo questa linea, dimostra riguardo all'incapacità dei sovrani Stuart di affrontare nel suo complesso la questione politica dell'informazione e delle opinioni dei sudditi sembrerebbe confermare proprio il punto centrale dell'analisi strettamente contestuale dell'"invenzione" del giornale di Raymond: i newsbooks, le prime forme di pubblicazioni periodiche e seriali continue e a stampa in Inghilterra, non solo rispondono a un contesto di inedita crisi e battaglia politica, ma proprio per questo nascono al di fuori del controllo della corona e più in generale di una qualche autorità politica definita. I giornali a stampa inglesi sorsero con il fine di mobilitare, non di controllare, l'opinione dei sudditi. La corona scoprì tardivamente la politica della stampa e, come sua prima esperienza, prese parte e perse la battaglia dell'informazione nel campo aperto auspicato da Milton. Qui la storia inglese segna una diversione dal continente, che se non giustifica alcun "eccezionalismo", certamente avvalla la distinzione del modello britannico da quello dell'"opinione contenuta". Quando la monarchia restaurata, in sintonia con le tendenze europee, s'imbarcò nell'impresa di formare le opinioni dei sudditi con un giornale in regime di monopolio, lo fece da una posizione di retroguardia, impegnata a correggere le attitudini e chiudere le falle prodottesi durante la Rivoluzione: allora, ha ragione Daniel Woolf, i buoi erano già scappati dalla stalla.

6. Il saggio dedicato alla "costruzione del presente" di Woolf è, d'altra parte, quello che all'interno della raccolta pare indicare prospettive più originali e proficue nello studio dell'"opinione pubblica" e del mutamento della cultura politica durante il Seicento. Lo sviluppo dell'informazione a stampa avrebbe generato una percezione del presente diversa da quella medievale, schiacciata tra la memoria del passato e l'attesa del futuro. Avrebbe dato forma, cioè, a un presente esteso nella durata, alla contemporaneità, una zona "detemporalizzata" tra passato e futuro in cui le "nuove" perdono la dimensione di eventi in sé conchiusi e trasmessi in modo intermittente all'esperienza delle persone comuni. È in questa "zona" che si crea lo spazio della discussione nel quale esse cessano di essere meraviglie e miracoli e divengono materia di dibattito e di interesse attivo e costante. Tale processo è descritto in termini d'incremento del flusso – la cadenza regolare con cui iniziarono a giungere le notizie - della densità - la molteplicità e conflittualità di resoconti disponibili - e del grado di condivisione dell'informazione. In questo modo, non viene sottovalutata l'esistenza e l'importante funzione di altri mezzi e altre forme di comunicazione politica prima della diffusione di giornali a stampa e pamphlet, cominciata in Inghilterra con il 1641; ma si sottolinea il mutamento sostanziale cui si assiste a partire da quella data che si pone a fondamento di una cultura politica moderna. L'obiettivo posto sulla densità del discorso pubblico e sul flusso di notizie è utile, inoltre, ad evitare la consunta metafora dell'"emergere" della "sfera pubblica" – una prospettiva suggerita anche da Tim Harris nell'ambito specifico della "politica popolare". Pur facendo riferimento al modello di Habermas, la proposta di Woolf sembra così permettere di sottrarre la storia dei mezzi d'informazione ad una trama invariabilmente emancipatrice e sottoporla ad una più attenta disciplina del contesto. Se è vero che i "torchi" ebbero un impatto importante sull'informazione, non si tratta di affermare una semplice superiorità insita nella tecnologia della stampa rispetto alla comunicazione orale o manoscritta. Nella forma della percezione del tempo e della storia viene, infatti, al centro dell'attenzione la relazione, in determinati contesti storici, tra generi e lettori – grandi assenti, fino a un recente passato, dagli studi sull''"opinione pubblica" nel Seicento. Lo spazio della discussione che si apre nell'Inghilterra degli anni '40 è quello di un presente in cui i lettori (e semplici ‘ascoltatori') vivono, che condividono a livello di esperienza, e nel quale, quindi, possono intervenire, divenendo soggetti di una presa di parola politica.

7. L'intensa esperienza della diffusione delle notizie, inoltre, modificò gli stessi interessi storiografici verso la contemporaneità: ci si mosse, rileva Woolf, verso lo studio di quegli eventi recenti attraverso cui il passato è diventato presente. Ma essa contribuì anche a ingenerare la crisi scettica nei confronti dello statuto della storia nella seconda metà del Seicento, di cui Brendan Dooley dà un brevissimo saggio nel suo intervento finale dedicato a un gruppo di lettori di periodici della élite culturale europea. Anche il dubbio, che nasceva nella relazione di amore-odio con gli "errori" e le "falsità" della stampa, diede un apporto nella definizione della nuova epistemologia che, consapevole delle narrazioni concorrenti della realtà terrena, non andò più alla ricerca dell'assoluta certezza e indicò in questo modo la via fuori dalla "crisi della coscienza europea". Lettori come Malvezzi, Leti, Siri, Bayle ci ricordano, conclude allora Dooley, che "i nuovi media non sempre aiutano la formazione di una sfera pubblica", cioè di uno spazio di informazione e discussione critica sui problemi riguardanti la collettività; e, allo stesso tempo, che tale discussione è possibile pur in mezzo a un mare di dubbi. Se Paul Hazard poteva guardare attraverso il suo oggetto di studio al proprio tempo, confidando che si potesse uscire dalla crisi con la forza della "ragione", adesso, dinanzi alla contemplazione di un presente già scritto in cui sembra sublimarsi una scissione tra politica e opinione pubblica, resta il dubbio che la fiducia nella "ragione" non risponda agli interrogativi posti dall'informazione globalizzata.