1. Nella storia dell'Inghilterra moderna la lunga fase compresa tra la
Gloriosa Rivoluzione e la successione hannoveriana viene spesso ricordata
come l'epoca dell'avvento di un nuovo schema di governo, in cui il parlamento
non è più una presenza episodica, ma una entità permanente. Per l'Inghilterra
il periodo 1688-1714 fu però anche un'età di grave crisi dinastica, che
si protrasse ben oltre il momento dell'ascesa al trono di Guglielmo d'Orange
e Maria Stuart nei primi mesi del 1689. In effetti il problema dinastico
inglese restò drammaticamente aperto dall'istante della fuga di Giacomo
II fino alla successione di Giorgio I. Il partito giacobita non si dava
per vinto, sicché per oltre un ventennio risuonarono nelle isole britanniche
tutti i pressanti interrogativi che la Gloriosa Rivoluzione aveva suscitato.
Quale era la natura del potere regio? Quali le sue origini? Si trattava
di una creazione di Dio o di una istituzione dell'uomo? Il monarca doveva
ritenersi libero da qualunque obbligo verso i propri sudditi oppure era
vincolato al rispetto di un mandato preciso? E qualora un mandato fosse
esistito, tanto divino quanto terreno: come bisognava comportarsi se il
sovrano veniva meno agli impegni assunti?
Per tanto tempo la storiografia anglo-americana ha descritto la rivoluzione
del 1688 come un colpo mortale alla vecchia dottrina del diritto divino
dei re e dell'obbligo di obbedienza passiva per i sudditi. Non soltanto
la monarchia guglielmina veniva presentata come il risultato di una ribellione,
ma la trasformazione del parlamento in un organo permanente era esibita
come il simbolo di una nuova cultura politica fondata sui moderni valori
del consenso e della tolleranza. Com'è noto, negli ultimi trenta anni
questa visione liberale e progressista della storia inglese del Sei-Settecento
è stata oggetto di puntuali critiche. Oggi le interpretazioni più accreditate
concordano nel riconoscere che la Gloriosa Rivoluzione intaccò solo lievemente
le concezioni politiche dell'età della Restaurazione. Sono ormai innumerevoli
i lavori in cui si sottolinea che se da un lato il principio dell'inderogabile
ereditarietà della corona si dissolse come neve al sole, dall'altro il
complesso delle tradizionali dottrine monarchico-legittimiste attraversò
quasi indenne il travaglio dinastico del periodo 1688-1714[1].
2. In particolare gli storici della Chiesa d'Inghilterra sostengono che
dopo la rivoluzione del 1688 il clero d'oltremanica continuò per lungo
tempo a propugnare il tradizionale principio dell'obbligo di obbedienza
passiva per i sudditi. Alla base di questa tesi vi è l'assunto secondo
cui la cultura anglicana dell'età della Gloriosa Rivoluzione condannava
ogni forma di disubbidienza come un grave peccato contro Dio e insieme
contro gli uomini. Gli ecclesiastici anglicani ― secondo questa
tesi ― interpretavano i fatti del 1688 come se Giacomo II avesse
spontaneamente abdicato[2]; oppure
come se l'obbligo di fedeltà nei suoi confronti si fosse estinto nel momento
in cui egli, spossessato dei suoi beni, era stato privato da Guglielmo
d'Orange anche del suo regno[3].
Tra gli ecclesiastici anglicani vi era poi chi concepiva la rivoluzione
come un caso tipico di intervento diretto della provvidenza nelle vicende
umane. Le genealogie bibliche attestavano che assai frequentemente il
creatore era dovuto intervenire per modificare la linea di successione
al trono d'Israele: era stato proprio per volontà di Dio che Giacobbe,
Giuda, Saul, Davide, Salomone, etc., erano diventati re; Dio li aveva
preferiti ai rispettivi fratelli maggiori; e il popolo si era limitato
a trarne beneficio, senza svolgere mai un ruolo attivo in quelle vicende[4].
In quest'ottica, anche gli inglesi potevano ritenersi esenti dal peccato
della ribellione. Secondo la lettura anglicana, gli inglesi sarebbero
stati spettatori passivi di un'abdicazione, o di una conquista da parte
di un principe straniero, o di un evento prodigioso. In ogni caso, essi
non erano direttamente responsabili di quanto era accaduto. Non contava
che Giacomo II fosse stato costretto ad abbandonare il regno; non contava
che la sua discendenza in linea maschile fosse stata esclusa dalla successione.
L'antica regola non era mai venuta meno, sicché all'indomani della rivoluzione
del 1688 il magistero politico della Chiesa d'Inghilterra restava permeato
da una vera e propria «ideologia dell'ordine». Locke era troppo isolato
per esercitare una significativa influenza sui contemporanei. E i sudditi,
massicciamente condizionati dalla Chiesa, si sentivano tenuti a rispettare
sempre il potere della spada, mentre il potere della spada rispondeva
del suo operato solo a Dio[5].
3. Gioverà sottolineare che nell'età della Gloriosa Rivoluzione la Chiesa d'Inghilterra aveva ottimi motivi per appellarsi alle concezioni politiche più tradizionaliste. Non si trattava soltanto di difendere le gerarchie sociali consolidate. Gli anglicani dovevano fare i conti anche con il clero refrattario, il cui scisma (che si sarebbe protratto per quasi tutto il Settecento) metteva a rischio le conquiste rivoluzionarie, prima fra tutte la successione protestante, con quel deposito di libertà civili e religiose che essa alla fine del Seicento continuava più che mai a incorporare[6]. Anche in questa prospettiva per la Chiesa d'Inghilterra il periodo 1688-1714 rappresentò indubbiamente un'epoca di forte esaltazione delle prerogative regie, di vigorosa ripresa in chiave filoregalista di testi biblici come il XIII capitolo della Epistola ai romani e di massiccio ritorno agli ideali costantiniano-giustinianei propugnati nel Rinascimento[7]. Non sorprende, pertanto, che dopo il 1688 numerose coscienze anglicane trovassero conforto in quella teoria dello jus possessionis che fino a poco prima avevano avversato. E tuttavia il quadro proposto dagli studiosi della Chiesa d'Inghilterra del Sei-Settecento non convince appieno, specialmente nell'immagine che ci restituisce di una cultura anglicana racchiusa nel piccolo universo nazionale, impermeabile alle sollecitazioni provenienti dal resto dell'Europa, incapace di adattarsi a una realtà storica in continuo mutamento. Forse si insiste troppo sul carattere a sé stante della Chiesa inglese; o forse si dà eccessivo peso al trauma delle guerre civili degli anni quaranta del Seicento, come se il ricordo dei torbidi e della repubblica, di cui il clero d'oltremanica si sentiva vittima non meno del potere regio, fosse davvero in grado di soffocare ogni tensione costituzionalistica, e di relegare la cultura anglicana su posizioni di mera difesa del privilegio aristocratico e della monarchia.
4. In realtà la Chiesa d'Inghilterra della fine del Seicento non era un monolito. Si può benissimo condividere l'interpretazione revisionista secondo cui le gerarchie ecclesiastiche occupavano ancora una posizione di primo piano nella società inglese del periodo 1688-1714. Come altrove in Europa, anche in Inghilterra la Chiesa nazionale rimaneva una poderosa macchina confessionale, che incoronava i re e arringava i parlamenti; egemonizzava le università e condizionava l'accesso ai diversi gradi della vita pubblica; suscitava rispetto e timore e raccoglieva intorno ai suoi altari la quasi totalità della popolazione[8]. E tuttavia il dibattito politico tra gli ecclesiastici anglicani era molto più articolato di quanto i recenti studi hanno suggerito. In effetti dall'età della Riforma al periodo elisabettiano, dall'assolutismo carolino alla Restaurazione, nuovi stimoli, nuovi fermenti ne avevano arricchito la fisionomia, dando vita a un repertorio politico sempre più complesso, con mille scorrimenti sotterranei e altrettante rapide emersioni. Il punto è che all'indomani della rivoluzione del 1688 l'intero patrimonio culturale e ideale della Chiesa inglese, e anche le dottrine più tradizionaliste, lungi dall'essere piattamente riproposti, vennero rielaborati dagli ecclesiastici anglicani alla luce delle nuove esigenze. L'opera di due interessanti figure del mondo anglicano della fine del Seicento dimostra che la risposta della Chiesa d'Inghilterra alla Gloriosa Rivoluzione fu più complessa di quanto oggi si è soliti ritenere. Daniel Whitby (1638-1726) e Benjamin Hoadly (1676-1761) non avevano molto in comune tra loro. Soltanto Whitby aveva vissuto le tormentate stagioni dell'Interregno e della Restaurazione. Dei due, inoltre, Hoadly fu l'unico a utilizzare significativamente i testi di Locke. E tuttavia nessuna di queste due figure corrisponde al modello delineato dagli studiosi della Chiesa d'Inghilterra del regno guglielmino e dell'età della successione hannoveriana. Attraverso Whitby e Hoadly, apparirà evidente che nel mondo anglicano della fine del Seicento le tesi dell'abdicazione, del possesso e dell'intervento divino s'intrecciavano a visioni più dinamiche del rapporto tra i sudditi e la monarchia. Si osserverà che i classici testi biblici sull'obbedienza passiva venivano riletti alla luce delle nuove sensibilità scientifico-filosofiche suscitate dalle grandi trattazioni giusnaturalistiche del secolo barocco. Si comprenderà insomma che accanto all'esigenza di difendere la successione protestante, la cultura anglicana esprimeva anche il bisogno di ammonire i nuovi sovrani a non ripetere il fatale errore della tirannia.
5. Come molti religiosi inglesi degli anni cinquanta del Seicento, anche Daniel Whitby aveva accolto con favore il ritorno della monarchia. Nel 1660, in linea con le scelte del parlamento, aveva deciso di indossare la cotta, siglando così la sua adesione al nuovo corso episcopale che si sostituiva al vecchio regime presbiteriano dell'Interregno. Ma i drammatici rivolgimenti di cui era stato testimone lo spronavano a riflettere con spirito caritatevole sui motivi delle fratture che dividevano gli anglicani dagli anti-conformisti. Negli ultimi anni del regno di Carlo II, quando una nuova ondata persecutoria si era abbattuta sulle sette dissidenti, Whitby era uscito allo scoperto, con un'opera di forte ispirazione irenica, dal titolo significativo The Protestant Reconciler, che i membri del collegio teologico di Oxford si erano affrettati a condannare e a far bruciare nel celebre rogo dei libri proibiti dell'estate del 1683. Il nome di Whitby (o «Whig-by», come molti ormai sarcasticamente lo storpiavano) era finito così nell'elenco dei tradizionali nemici del re e della Chiesa d'Inghilterra, accanto a Bellarmino e Hobbes, Milton e Goodwin, Beza e Hotman, Knox e Buchanan. Soltanto la rivoluzione del 1688 aveva riabilitato lo strenuo oppositore del fanatismo religioso e dell'intolleranza. Con l'ascesa al trono di Guglielmo e di Maria, Whitby si ritagliò anzi un posto di rilievo nell'establishment politico orangista. Whitby fu infatti tra i primi ecclesiastici d'oltremanica a votarsi al delicato compito di persuadere i confratelli più titubanti a giurare fedeltà ai nuovi sovrani[9].
6. A questo scopo nel 1689 Whitby pubblicò tre scritti anonimi, che circolarono ampiamente fino alla metà del Settecento, ma che sono finora sfuggiti all'attenzione degli storici: Obedience Due to the Present King notwithstanding our Oaths to the Former (un acuto e denso ragionamento di appena otto pagine); Considerations humbly Offered for Taking the Oath of Allegiance to King William and Queen Mary (una versione più corposa e distesa delle argomentazioni del precedente contributo); Agreement betwixt the Present and the Former Government (una articolata e approfondita disamina dei caratteri della monarchia inglese, composta a quattro mani con l'altro ecclesiastico anglicano Francis Fullwood)[10]. Eppure quei tre scritti destarono notevole interesse. Anche Whitby escludeva l'ipotesi della ribellione, ma nel sostenere la tesi dell'abdicazione, la sviluppava in modo estremamente originale. A quel tempo infatti per molti ecclesiastici anglicani abdicare presupponeva un chiaro atto di volontà da parte del sovrano. L'autorità di Grozio veniva spesso invocata per confermare che un semplice gesto ― come ad esempio quello compiuto da Giacomo II, quando in fuga da Londra si era vigliaccamente disfatto del sigillo regio, gettandolo nelle acque del Tamigi ― valeva quanto una dichiarazione solenne di rinuncia al trono (non tantum verbis sed re potest). Per Whitby, invece, l'abdicazione poteva essere sia attiva sia passiva: abdicare non significava soltanto rinunciare allo scettro, ma anche perderlo; si abdicava quando si cedeva il regno, e parimenti si abdicava quando se ne violavano le leggi in aperto contrasto con gli impegni assunti nel cingere la corona. In quest'ottica, i fatti del 1688 dovevano ritenersi una diretta conseguenza della condotta tirannica del re. Per Whitby cioè l'abdicazione di Giacomo II era il risvolto di un abuso di potere: «Il governo si è dissolto per mano del monarca», osservava l'ecclesiastico anglicano[11]. E anche il giuramento di fedeltà dei sudditi, prontamente aggiungeva, doveva essere interpretato nella stessa chiave costituzionalistica.
7. Secondo le idee prevalenti nell'Inghilterra della fine del Seicento,
il giuramento di fedeltà legava i sudditi al «corpo naturale» del sovrano,
sicché soltanto la morte di quest'ultimo poteva legittimamente estinguerlo.
Per Whitby, invece, il «corpo naturale» era un mero involucro. Citando
i legisti medievali, in particolare Henry Bracton e John Fortescue, Whitby
spiegava che il «corpo naturale» era la semplice incarnazione del «corpo
politico», da cui il «corpo naturale» non poteva separarsi, se non andando
incontro agli stessi effetti della morte fisica. Era bensì vero che il
giuramento di fedeltà vincolava il suddito a entrambi i «corpi». Ma era
anche vero che se il re, con una condotta scriteriata, scindeva quella
sacra unione, i sudditi dovevano seguire il «corpo politico», poiché il
«corpo naturale» era ormai come defunto[12].
Insomma per Whitby chiunque avesse cinto la corona d'Inghilterra dopo
Giacomo II, avrebbe dovuto tenere presente che le leggi fondamentali del
regno non potevano essere violate, e che ogni loro infrazione equivaleva
in sostanza ad abdicare. Perfino Guglielmo III era tenuto a ricordarlo.
Come gli altri ecclesiastici filo-rivoluzionari, anche Whitby si appellava
allo jus possessionis per sostenere che una volta dissolto il giuramento
di fedeltà nei confronti di Giacomo II, era necessario costituire un nuovo
vincolo con Guglielmo III. E tuttavia, a differenza degli altri ecclesiastici
filo-rivoluzionari, Whitby precisava che il semplice possesso della corona
non era per nulla sufficiente a determinare quel delicatissimo passaggio
di consegne. Ci voleva il «consenso della nazione», ovverosia l'investitura
parlamentare, affinché il possesso diventasse un titolo veramente inoppugnabile.
Naturalmente la competenza del parlamento in questa materia era limitata.
Le camere non avevano alcun diritto di pronunciarsi se non nei casi incerti,
e anche allora, soltanto a favore di un membro della dinastia regnante.
Ciononostante Whitby si diceva certo che Guglielmo d'Orange non era un
conquistatore, e insisteva che il parlamento, non la forza bruta, gli
aveva conferito la corona[13].
8. In realtà la cultura anglicana era stata sempre oscillante sul tema
dello jus possessionis. In base allo Statute of Treason
del 1337 nessun suddito poteva essere processato per fellonia se il monarca
non aveva pieno controllo del regno, e anche per molti insigni giuristi
inglesi del Seicento ― primo fra tutti Edward Coke ― il possesso
dello scettro costituiva il requisito essenziale della sovranità. D'altra
parte vi era l'importante precedente di Enrico VII, che dopo la battaglia
di Bosworth del 1485 era asceso al trono d'Inghilterra più da conquistatore
che non da erede. Non sorprende pertanto che fino alla rivoluzione del
1642-1649 anche la cultura anglicana accettasse il potere di fatto come
fondamento del governo. Nei canoni del 1606, per solidarietà con le Province
Unite, che si erano da poco sottratte con le armi al dominio spagnolo,
la Chiesa inglese aveva sancito che «i governi nati da una ribellione,
purché consolidatisi, sono parimenti opera di Dio»[14].
Nell'età della Restaurazione, invece, il clero d'oltremanica aveva preso
a condannare con vigore lo jus possessionis. Non soltanto l'empio
Hobbes vi si era ispirato massicciamente per il suo capolavoro, il Leviathan,
ma i repubblicani ne avevano fatto largo uso durante l'Interregno. Per
la Chiesa d'Inghilterra «possedere la corona» era diventato dunque sinonimo
di «usurpazione». E tuttavia con la rivoluzione del 1688 l'argomento del
possesso riacquistò improvvisamente una valenza positiva in ambito anglicano.
Solo la decisione del parlamento nel 1693 di condannare al rogo il libretto
di Charles Blount, William & Mary Conquerors, sembrò imprimere
una nuova svolta nella visione politica del clero inglese. Se si accettava
l'idea della titolarità del trono come conseguenza diretta di una impresa
militare, senza bisogno dell'intermediazione delle camere, allora la nazione
doveva ritenersi alla mercé di qualsiasi condottiero, primo fra tutti
il cattolico Giacomo II, che minacciava di invadere le isole britanniche
con l'aiuto dei francesi. L'inquietudine del parlamento era motivata soprattutto
dalla circostanza che nella tradizione dello jus gentium il conquistatore
poteva rifondare il regno secondo i propri desideri, facendo piazza pulita
di tutte le istituzioni e delle leggi preesistenti. Così nel 1693, insieme
al libertino Blount, anche diversi illustri ecclesiastici d'oltremanica
finirono sotto accusa per essersi appellati allo jus possessionis
in difesa del nuovo regime guglielmino. In particolare una lettera pastorale
del celebre vescovo di Salisbury Gilbert Burnet venne data alle fiamme
nella pubblica piazza[15], e poco ci mancò che il Discourse of God's
Way of Disposing of Kingdoms del vescovo di St. Asaph William Lloyd
subisse la stessa sorte[16].
9. Forse fu proprio grazie all'opera di Whitby che l'argomento del possesso
assunse una veste nuova e rispettabile. In effetti quando nel 1709 l'ecclesiastico
William Higden lo ripropose in difesa della successione di Giorgio I[17],
un altro religioso filo-hannoveriano, Nathaniel Marshall, precisò subito
che soltanto il possesso «con approvazione del parlamento» poteva conferire
un valido diritto alla corona[18].
L'approccio costituzionalista di Whitby aveva fatto scuola negli ambienti
della Chiesa nazionale inglese.
In realtà i tre scritti del 1689 non ebbero successo esclusivamente negli
ambienti ecclesiastici anglicani. Essi furono ripubblicati in occasione
delle due rivolte giacobite del 1714 e del 1745, quando le teorie di Whitby
sembrarono il miglior antidoto contro il pericolo di una restaurazione
degli Stuart. A rileggere Whitby nella prima metà del XVIII secolo, si
ricavava infatti che né l'eventuale fuga dei re tedeschi, né la conquista
delle isole britanniche da parte dell'antica dinastia scozzese, avrebbero
giustificato un nuovo cambio di regime. Nel primo caso la vacanza del
trono sarebbe stata conseguenza di una deposizione: poiché i re tedeschi
governavano nel rispetto delle leggi, nessun suddito poteva ritenersi
sciolto dall'obbligo di fedeltà nei confronti della monarchia. Nel secondo
caso, invece, il possesso della corona sarebbe dipeso esclusivamente da
una azione militare, da cui però non poteva scaturire altro che una falsa
parvenza di governo, un semplice potere di fatto, senza una vera base
giuridica.
10. Ma il quadro del pensiero politico di Whitby non sarebbe completo
se non si ricordassero i suoi commentari paolini apparsi nel 1700, giacché
fu soprattutto grazie ad essi che la cultura anglicana dell'età di Anna
si riappropriò dell'interpretazione calvinista del XIII capitolo della
Epistola ai romani[19].
In realtà Whitby aveva sempre attinto massicciamente dagli scritti di
Calvino. Fin dall'età della Restaurazione, egli aveva preso a definire
il governo civile come un «ministero» ordinato da Dio per il bene dei
sudditi. Certo, nel 1689 l'esigenza di combattere lo scisma refrattario
prevaleva su ogni altra considerazione. Così, nell'illustrare il primo
verso del celebre testo paolino, «Ognuno si sottometta alle autorità che
gli sono superiori», Whitby aveva perentoriamente scritto, «È Dio che
depone i re, Dio che ne innalza altri sullo stesso trono; è per questo
che tutti dobbiamo giurare fedeltà [a Guglielmo III], perché ogni re [operante
in terra] è un re mandato da Dio». Nel 1700, invece, l'attenzione di Whitby
si spostò decisamente su quel passo dell'epistola che afferma, «Il magistrato
civile al servizio di Dio per il bene [dei sudditi]» (13:4). L'obbligo
di sottomettersi non era più indiscriminato, ma si limitava soltanto a
quei casi in cui il sovrano agiva nel rispetto di leggi fondamentali[20].
In effetti nei commentari del 1700 Whitby s'ispirava a una larga cerchia
di autori cristiani tra cui spiccava per importanza il Calvino degli Acta
apostolorum e delle Praelectiones sul Libro di Daniele.
Contro il patriarcalismo dei seguaci di Giacomo II, Whitby asseriva che
sebbene il potere della spada avesse origini divine, nessun particolare
individuo ne era stato investito direttamente dal creatore. Dio non nominava
uno per uno i re: quella scelta spettava esclusivamente ai sudditi. Appellandosi
all'autorità di Richard Hooker, il celebre arcivescovo di York che alla
fine del Cinquecento aveva teorizzato l'organizzazione della Chiesa inglese
in società politica, Whitby sosteneva che solo la libera volontà della
nazione, tramite un contratto spontaneamente sottoscritto, poteva assegnare
la corona[21].
11. In realtà ― come aveva già spiegato in uno dei tre scritti
del 1689 ― la nazione poteva scegliere soltanto il capostipite.
Del resto, come molti altri autori whig, anche Whitby credeva nell'esistenza
di una «antica costituzione», che non poteva essere modificata dalla volontà
degli uomini, sicché dopo quell'investitura originaria le assemblee rappresentative
si sarebbero limitate a intervenire solo nei casi contestati, comportandosi
da giudice più che da organo politico[22]. Perfino il titolo di Guglielmo e
Maria includeva pertanto un forte elemento di ereditarietà. Ma da questa
interpretazione del diritto divino dei re discendeva una particolare nozione
legalistica dell'obbligo di obbedienza passiva per i sudditi. Whitby si
rifaceva all'ultimo libro del Contra Celsum di Origene per osservare
che l'obbligo di obbedienza passiva, pur essendo un preciso dovere del
cristiano, non valeva però nei confronti dei tiranni: Dio non poteva volere
il male delle sue creature; ne conseguiva che se il monarca violava le
leggi di natura, egli non agiva più per conto dell'Onnipotente, ma da
«persona privata», e come tale bisognava contrastarlo[23].
Ovviamente Whitby stava molto attento a non spargere il seme della ribellione.
Se il re rispettava il suo mandato, nessun tipo di resistenza era giustificabile.
Il suddito non doveva astenersi soltanto dal turbare la pace sociale,
ma anche dal sindacare l'operato del sovrano. Coloro che disubbidivano
senza giusta causa, o che s'intromettevano nella sfera del governo senza
averne titolo, potevano anche sfuggire alla giustizia umana, ma sarebbero
incorsi certamente nella collera di Dio. Per questo, sottolineava Whitby,
l'obbedienza politica doveva scaturire dal profondo dello spirito. Obbedire
per «timore della spada» non era sufficiente, la sottomissione al monarca
era anche una questione di coscienza, come i teorici del diritto divino
dei re avevano sostenuto agli inizi del secolo barocco[24]. Ma se il monarca trasgrediva le
leggi di natura, allora per Whitby occorreva «seguire Dio anziché l'uomo».
12. Nell'Inghilterra dei primi anni del Settecento la vecchia formula
«seguire Dio anziché l'uomo» veniva ancora intesa da molti come un invito
al martirio per la fede. Nessuno poteva essere costretto a peccare, ma
al tempo stesso nessuno doveva levare la sua mano contro il re. Era legittimo
che un cristiano rifiutasse di eseguire un ordine perverso, e tuttavia
non solo doveva accettare la pena comminatagli per la disubbidienza, ma
da buon martire doveva sopportare in silenzio, come Gesù aveva accettato
di soffrire sulla croce. Ribaltando quella antica visione, Whitby non
escludeva invece che per «seguire Dio» si potesse essere costretti a ricorrere
alla forza. Non sempre disubbidire bastava a raggiungere la salvezza eterna,
talvolta diventava necessario agire positivamente, e ripristinare le condizioni
di una vita civile dignitosa, per consentire all'uomo di svolgere interamente
i numerosi compiti assegnatigli dal creatore[25].
L'autore dei commentari non specificava in quali particolari circostanze
la «resistenza attiva» era consentita, ma si limitava a dire che essa
doveva essere impiegata unicamente in casi estremi, e mai «in nome soltanto
della religione» (l'assassinio di Enrico IV di Borbone continuava a destare
sconcerto nel mondo protestante). Whitby asseriva inoltre che il diritto
di ricorrere alle armi spettava esclusivamente agli organi istituzionali
che insieme al re facevano parte integrante del governo. In quest'ottica
Whitby si differenziava radicalmente dai monarcomachi della seconda metà
del Cinquecento. Per Whitby, il «potere esecutivo della legge di natura»
era monopolio indiscusso delle assemblee parlamentari: sebbene la tirannia
estinguesse il patto tra il sovrano e la nazione, il corpo sociale rimaneva
ben coeso, con le sue tradizionali gerarchie, con le sue magistrature
e con corpi rappresentativi perfettamente funzionanti. La «resistenza
attiva» non era insomma un diritto universale. In fin dei conti gli inglesi
dovevano ritenersi già molto fortunati rispetto ai sudditi di altri sovrani
che erano stati privati di ogni possibilità di esprimersi. Su un punto
infatti Calvino era sempre stato chiaro: come Whitby puntualmente ricordava,
Soltanto laddove il popolo, anziché conferire un potere assoluto, ha conferito un potere soggetto al primato del legge, lì il popolo conserva un potere di intervenire in difesa delle leggi fondamentali dello Stato, ogni volta che esse vengono infrante dal sovrano[26].
13. Come si vede Whitby non aveva molto a che spartire con gli ambienti
whig più radicaleggianti, e perfino con Locke le differenze erano
assai più marcate delle analogie. Non bastava affidarsi ai medesimi editori
(i quasi leggendari Awnsham e John Churchill) per creare una vera concordia
di opinioni. D'altre parte anche in ambito teologico Whitby non appare
certo debitore dell'ex medico di Shaftesbury, con cui anzi polemizzò duramente
in diversi momenti della sua vita. Una cosa era sollecitare le gerarchie
anglicane a essere meno intransigenti nella difesa degli aspetti secondari
della religione; tutt'altro era asserire che la salvezza eterna dipendeva
esclusivamente dal credere in Gesù come figlio di Dio inviato sulla terra
per redimere l'umanità, sicché ogni altro articolo di fede diventava automaticamente
un orpello inutile. Diversamente da Locke, Whitby riteneva che l'avvento
di Cristo nel mondo fosse solo l'architrave di un nucleo catechetico più
ampio, comprendente quanto meno i cinque punti della fondamentale digressione
parenetica offerta da Paolo di Tarso nella Lettera agli ebrei (la
penitenza, il battesimo, la confermazione, la risurrezione dei morti e
il giudizio universale)[27].
Ciononostante la riflessione di Whitby testimonia l'emergere di una nuova
sensibilità politica nella cultura anglicana all'indomani della Gloriosa
Rivoluzione. Come i tre scritti del 1689, anche i commentari paolini del
1700 (apparsi in altre otto edizioni tra il 1703 e il 1761) divennero
un punto di riferimento importante per numerosi ecclesiastici d'oltremanica.
Nell'interpretazione di Whitby, il XIII capitolo della Epistola ai
romani non conteneva soltanto l'invito ai sudditi a ricordarsi sempre
che l'obbedienza politica era un preciso dovere del cristiano, ma includeva
anche l'esortazione ai sovrani a non dimenticarsi mai che il potere della
spada era stato ordinato da Dio per il bene dell'umanità. La fase cruciale
della successione hannoveriana si svolse anche sotto questo segno: per
molte tonache anglicane, ormai, solo i re giusti potevano veramente considerarsi
gli «unti del Signore»; ai tiranni non restava che la nomea di «usurpatori»,
con tutti i rischi che quella sciagurata condizione inevitabilmente comportava.
In particolare durante la rivolta giacobita del 1715-1716, il clero inglese
si ritrovò puntualmente a sottolineare il dovere cristiano dell'obbedienza
politica, elogiando però al contempo la nuova dinastia tedesca come protettrice
della legalità. Sebbene il diritto di ribellione non fosse quasi mai evocato,
la salvaguardia delle leggi veniva indicata sempre come il vero principio
fondatore della monarchia hannoveriana, e la destituzione di Giacomo II
si trasformava così in un severo avvertimento a governare per il bene
dei sudditi[28].
14. Se il nome di Whitby non figura quasi mai nella storiografia sull'Inghilterra del Sei-Settecento, quello di Benjamin Hoadly è praticamente onnipresente. D'altro canto fu proprio Hoadly a scatenare la controversia bangoriana, il vibrante conflitto teologico che nel 1717-1720 divise le gerarchie anglicane intorno al tema delle prerogative delle istituzioni ecclesiastiche sui fedeli. Eppure solo pochissimi studiosi hanno soffermato la loro attenzione su questo interessante personaggio della Gran Bretagna degli Hannover. Di fatto la moderna storiografia su Hoadly si limita a rari e scarni frammenti, che anziché rivisitare criticamente l'esperienza del vivace vescovo latitudinario, finiscono per riproporre le vecchie leggende settecentesche nate dalle aspre polemiche confessionali dell'età di Anna e di Giorgio I. In particolare, si è perpetuata fino a oggi l'immagine che rappresenta Hoadly come un pericoloso anti-trinitario e insieme come un instancabile divulgatore del modello giusnaturalistico lockiano. Le antipatie che Hoadly si attirò fin dagli anni venti del Settecento appaiono ben giustificate se soltanto si considera che la controversia bangoriana ebbe come diretta conseguenza la soppressione del sinodo di Canterbury, all'epoca la più importante assemblea ecclesiastica d'oltremanica, l'unica istituzione attraverso cui il basso clero inglese partecipava attivamente alla vita pubblica del regno. Non sorprende, pertanto, che Hoadly sia stato a lungo ricordato più come un corpo estraneo alla storia della Chiesa d'Inghilterra che non come una significativa espressione del travaglio dell'universo anglicano tra Sei e Settecento[29].
15. A dire il vero Hoadly era diventato inviso a molti confratelli già
qualche tempo prima dello scoppio della controversia bangoriana. Una maliziosa
incisione del 1709, dal titolo Guess at My Meaning, lo ritrae al
tavolo di lavoro intento a comporre uno dei suoi celebri attacchi al clero
più tradizionalista, con alle spalle una ricca biblioteca, comprendente
le opere di Locke, Sidney, Tindal, Toland, Hobbes, Harrington, Milton
e Baxter[30]. In effetti Hoadly fin da giovanissimo (era nato
nel 1676) si era costruito una scomoda reputazione da testa calda per
l'entusiasmo con cui dal pulpito si ergeva a paladino dei principi della
rivoluzione del 1688. E tuttavia il primo significativo intervento di
Hoadly in difesa della Gloriosa Rivoluzione si riallacciava più ai commentari
paolini di Daniel Whitby che non ai classici whig. In un sermone
pronunciato davanti alle massime autorità civili londinesi, nella chiesa
di St. Lawrence Jewry nel settembre 1705, Hoadly aveva infatti riproposto
quello schema di interpretazione filo-calvinista del XIII capitolo della
Epistola ai romani che Whitby aveva reintrodotto nel filone politico
anglicano soltanto qualche anno addietro[31].
I punti di contatto tra i due testi sono molteplici. Come Whitby, anche
Hoadly affermava che sebbene avesse istituito il potere della spada, Dio
non nominava direttamente i re. Anche per Hoadly, la lettera di Paolo
si riferiva a tutte le forme di governo immaginabili, sicché erano gli
uomini, non il creatore, a scegliersi il tipo di organizzazione politica
che più rispondeva alle loro esigenze; ed erano parimenti gli uomini ad
assegnare tutte le cariche, inclusa quella regia. A questo proposito,
Hoadly poteva appellarsi anche al II capitolo della I Lettera di Pietro:
Laddove definisce esplicitamente sia l'imperatore sia i governatori come una istituzione umana, versetto 13, l'apostolo vuole dire che tutte le diverse forme di governo sono sempre invenzione dell'uomo[32].
Hoadly seguiva Whitby soprattutto nel sostenere che il principale fine della società politica era la pubblica felicità:
Come non servono fedelmente il sovrano quei ministri che ne disattendono il volere, così non discendono da Dio, né agiscono in suo nome, quei re che trasgrediscono il mandato di governare per il bene del popolo[33].
16. Anche Hoadly esprimeva inoltre una concezione della regalità molto forte, assai lontana dalla futura evoluzione parlamentarista del sistema istituzionale inglese. Se il re governava secondo giustizia, il suo operato era insindacabile; non soltanto i sudditi non potevano ribellarsi al sovrano; ma qualunque interferenza o critica, perfino il dissenso tacito, costituiva un peccato contro Dio:
È dovere indispensabile dei sudditi sottomettersi ai loro governanti finché essi svolgono correttamente il loro compito. Ciò naturalmente vale solo per quei governanti, di cui appunto vi parlo, che non mortificano le buone azioni, e non puniscono nessuno tranne che i malvagi. [...] A questo tipo di governanti dobbiamo la più profonda reverenza e la più umile sottomissione, le due più grandi benedizioni di una società civile[34].
Come avrebbe ripetuto negli anni venti del Settecento dalle colonne del filo-walpoliano «London Journal», lo spirit of tranquillity era assolutamente necessario al benessere di una nazione, soprattutto se la sua ricchezza dipendeva in larga misura dal commercio[35]. Insomma, anche Hoadly non poneva mai il problema dell'organizzazione del governo, ma s'interrogava esclusivamente sui limiti dell'obbedienza politica. Nella lunga vindicatio del sermone del 1705 (apparsa l'anno successivo con il titolo The Measures of Submission to the Civil Magistrate), Hoadly ribadì che non era lecito ribellarsi solo perché si dissentiva dalle scelte del sovrano. Disobbedire a un re giusto provocava disordine e anarchia, e pertanto violava quella stessa legge di autoconservazione (self-defence) che nei casi estremi giustificava la resistenza nei confronti del tiranno. In effetti Hoadly rimarcava di continuo il dovere del suddito di «obbedire attivamente» a ogni ordine legittimo dei governanti, non solo «per timore della spada», ma anche «a motivo della coscienza». Come spiegava commentando la Lettera ai romani, 13:5,
L'ufficio del magistrato civile è una creazione di Dio, un suo strumento nel mondo. E poiché i veri governanti sono sempre una benedizione per i loro popoli, [...] dobbiamo sottometterci passivamente, non soltanto per interesse o per paura della loro ira, [...] ma anche per dovere verso Dio, perché l'onnipotente si dorrebbe se disobbedissimo ai suoi servitori da lui incaricati di eseguire la sua volontà nel mondo[36].
17. Per Hoadly, cioè, l'obbedienza incondizionata e la successione ereditaria
erano le regole fondamentali in tutti gli ordinary cases della
vita pubblica. Se però il monarca si trasformava in un tiranno, allora
tradiva il suo mandato, che era al contempo umano e ultraterreno. L'istituzione
regia perdeva ogni divina autorità, mentre la persona fisica del re, venute
meno le ragioni per le quali gli era stata assegnata la corona, diventava
una minaccia da neutralizzare con ogni mezzo. «Non ci si può opporre a
un re giusto senza commettere un peccato mortale» osservava perentoriamente
Hoadly; precisava però subito dopo, «quando invece si resiste a un tiranno
non si agisce mai da criminali, ma ci si comporta anzi con onore e gloria»[37].
Come Whitby nei commentari paolini del 1700, così Hoadly ammoniva che
la «resistenza attiva» poteva diventare un vero imperativo etico, ogni
qual volta fosse necessario ripristinare le condizioni di una vita civile
dignitosa, tale da consentire all'uomo di svolgere interamente i numerosi
compiti assegnatigli dal creatore. Da Whitby, Hoadly sembrava riprendere
pur senza dichiararlo anche alcune fonti, specialmente il Contra Celsum
di Origene, che nelle Measures of Submission occupava la stessa
posizione strategica dei commentari paolini composti dall'autorevole ecclesiastico
anglicano nel 1700[38].
18. E tuttavia Hoadly non si accontentava di imitare pedissequamente Whitby, ma a differenza dell'ormai anziano confratello, che aveva difeso la resistenza attiva esclusivamente in termini teorici, si spingeva a definire la Gloriosa Rivoluzione come esemplare manifestazione del diritto dei sudditi di ribellarsi alla tirannia. Per Hoadly la scomoda circostanza che nella Epistola ai romani quel diritto non venisse neanche menzionato, non significava affatto che Paolo lo reputasse contrario allo spirito del cristianesimo. Nella Measures of Submission Hoadly spiegava che il silenzio dell'apostolo era dovuto ad altre ragioni, e innanzitutto al bisogno di indurre i primi seguaci di Cristo a sottomettersi disciplinatamente a un principe pagano. Hoadly ribadiva che la resistenza attiva non doveva mai essere impiegata in nome soltanto della religione, soprattutto se si considerava che la Chiesa delle origini era ancora troppo esile per scuotere il giogo di Roma. Cosa ne sarebbe stato se l'impero le avesse scagliato contro tutta la sua forza? Calando ancora di più l'Epistola di Paolo nel suo contesto storico, Hoadly osservava poi che le istituzioni politiche romane si fondavano sul principio dell'imperium legum. Gli studi patristici del vescovo anglicano John Pearson (che Hoadly dimostrava di conoscere a menadito) gli consentivano di datare la lettera paolina al terzo anno del regno di Nerone, quando ancora gli imperatori non avevano accentrato nelle loro mani ogni potere e la tirannia era universalmente condannata. Perché mai, si domandava Hoadly, l'apostolo avrebbe dovuto affermare un principio che nessuno a quel tempo osava mettere in discussione? Paolo stesso, nello svolgimento della sua missione evangelizzatrice, non aveva mai piegato il capo di fronte a pene ingiuste, ma aveva sempre fatto appello alla lex porcia, facendo valere pubblicamente i suoi diritti di cittadino romano (un privilegio concesso ai nativi di Tarso dagli imperatori Marco Antonio e Augusto)[39].
19. Hoadly, insomma, non si nascondeva dietro alle tradizionali tesi dell'abdicazione e del possesso, che coraggiosamente bollava come mera fictio giuridica (un sottile velo che celava una realtà di gran lunga più traumatica). Nel 1708-1709 il religioso whig fu protagonista di una vibrante polemica con il vescovo di Exeter Offspring Blackall proprio sul significato della Gloriosa Rivoluzione. Come Hoadly, anche Blackall era un sostenitore della successione hannoveriana. A differenza di Hoadly, però, Blackall era uno di quei tanti ecclesiastici anglicani che ritenevano che Giacomo II avesse spontaneamente abdicato, e che pertanto gli inglesi non avessero avuto alcun ruolo attivo nelle vicende rivoluzionarie della fine del Seicento, se non trasferire la corona a Guglielmo III una volta che il trono era rimasto vacante. Contro quella interpretazione, che reputava una vera spada di Damocle sulle libertà dei sudditi, Hoadly asseriva con forza che non c'era alcuna differenza tra chi nel 1688 aveva impugnato subito le armi, e chi invece aveva atteso la fuga del vecchio sovrano prima di unirsi al nuovo re. O nessuno si era ribellato, o per tutti la Gloriosa Rivoluzione doveva ritenersi una manifestazione esplicita di resistenza alla tirannia. Come scriveva nella sua Humble Reply to the Right Reverend the Lord Bishop of Exeter's Answer:
Mi sembra che la questione si ponga esclusivamente in questi termini, se l'intera nazione sia colpevole davanti a Dio oppure no. Se è peccato invitare un esercito di liberatori, e unirsi a esso nella resistenza, allora è peccato anche revocare il giuramento di fedeltà nei confronti del vecchio sovrano. [...] Mio signore, non vedo proprio come possano illudersi di essere esenti da colpe coloro che affermano di essersi limitati a fare da spettatori, e ad accettare passivamente il nuovo governo frutto della rivoluzione: salvo naturalmente che in cuor loro non si ripropongano di cercare di ripristinare il vecchio regime alla prima buona occasione. Perché sia chiaro, voi non siete come quella vittima che vuole mantenere le distanze dal bandito che l'ha provvidenzialmente salvata da un altro tagliagole. Voi siete semmai come quel bambino che si affida a uno sconosciuto per sfuggire a un genitore troppo duro: il padre, però, non perde i suoi diritti, e continuare a reclamare l'obbedienza del figlio, come nulla fosse successo. [...] Che cosa intendete fare davvero? Proporre alla nazione di pentirsi? Ma può esserci sincero pentimento senza restaurazione? [...] Ecco, mio signore, la ragione delle mie paure: se c'è colpa, deve esserci espiazione, e l'unica espiazione possibile, in questo caso, è il ripristino del ramo papista degli Stuart[40].
20. A dire il vero Hoadly non fu mai lineare nella sua interpretazione della Gloriosa Rivoluzione. In una delle sue opere più note, il Preservative against the Principles and Practices of the Nonjurors, del 1716, il religioso latitudinario sostenne una tesi assai più moderata:
Nel 1688 l'intera nazione protestante vide e capì che si trovava a un passo del baratro. I più in vista di noi (inclusi alcuni illustri uomini di Chiesa) implorarono l'aiuto dei vicini. Scongiurato il pericolo, rimase da erigere una barriera contro quegli stessi pericoli del papismo e della schiavitù, che si sarebbero abbattuti su di noi con maggior forza, perché accresciuti dallo spirito di vendetta. Ciò fu fatto con assoluto rispetto della costituzione del regno, deviando il meno possibile dalla regola consolidata [il principio ereditario]. I rami papisti della dinastia regnante furono esclusi dalla successione. E i più diretti eredi protestanti furono proclamati sovrani, e dopo di essi i loro discendenti, secondo l'antica consuetudine. Purtroppo dopo l'abdicazione di Giacomo II alcuni vescovi e altri ecclesiastici di grado inferiore [...] rifiutarono di giurare fedeltà al nuovo governo, schierandosi a fianco del nemico, e furono per questi privati dei loro uffici sacri[41].
Anche Hoadly finiva dunque per appellarsi alla fictio giuridica dell'abdicazione, e non è facile dire se questa brusca ritirata dagli assunti radicali di qualche anno prima fosse dovuta esclusivamente alle pesanti responsabilità da lui assunte ora con la carica di vescovo. Di sicuro la successione al trono di Giorgio I aveva contribuito a stemperare i toni della battaglia politica, che anche nell'interpretazione del recente passato sembrava meno cruenta dei feroci scontri dell'età di Anna. E tuttavia, nonostante i frequenti agganci al repertorio politico più tradizionalista, non v'è dubbio che Hoadly occupasse una posizione eccentrica nel panorama anglicano del suo tempo. Nei primi anni del Settecento l'ecclesiastico latitudinario affermò sempre che il diritto di difendersi dai pericoli mortali apparteneva a tutti i popoli, compresi quelli che apparentemente erano stati messi fuori gioco da una monarchia assoluta. Come sottolineava nella prefazione alla terza edizione delle Measures of Submission, che venne pubblicata nel 1710, la «resistenza attiva» non era un privilegio dei soli sudditi britannici, ma di tutti gli esseri umani, sebbene nelle monarchie limitate, dove vigeva il primato della legge, quel diritto fosse più radicato che nei regni soggetti esclusivamente ai capricci del sovrano. Da questo punto di vista gli scritti di Hoadly si discostavano decisamente dalla riflessione di Whitby: l'autore delle Measures of Submission camminava lungo una sottile linea di confine in cui la cultura anglicana recepiva stimoli provenienti da altre tradizioni[42].
21. L'influsso di Locke su Hoadly si manifestò apertamente in una lunga
dissertazione del novembre del 1709, dal titolo The Original
and Institution of Civil Government. Come i Treatises di Locke,
anche questa opera di Hoadly si proponeva di illustrare le caratteristiche
fondamentali della società politica, attraverso una pars destruens,
che era dedicata alla confutazione della dottrina patriarcalista filmeriana,
e una pars costruens, che delineava invece un nuovo modello di
vita civile, in cui tutti i diritti e doveri, sia dei governanti sia dei
governati, venivano fatti discendere da un patto tra liberi individui
originariamente uguali tra loro. D'altra parte la dissertazione di Hoadly
nasceva in risposta alla provocazione del leader non-giurante Charles
Leslie, un acceso fautore del principio dell'inderogabile ereditarietà
della corona, che aveva suscitato l'indignazione dei filo-hannoveriani
pubblicando nel periodico da lui diretto, «The Rehearsal» (1704-1709),
il caposaldo delle teorie assolutistiche, l'ormai celebre Patriarcha
di Robert Filmer (che era stato concepito alla vigilia della prima rivoluzione
inglese ma che apparve postumo soltanto nel 1680).
Non sorprende pertanto che Hoadly si ispirasse massicciamente a Locke,
l'autore che più di tutti si era speso per smontare le argomentazioni
dei patriarcalisti. Sulle orme del celebre filosofo, anche Hoadly sottolineava
che la Genesi era più un libro genealogico che non una storia politica;
la condanna a morte di Tamar (Genesi, 38:6-10) veniva citata come
una semplice sentenza, che non provava affatto la sovranità del patriarca
Giuda che l'aveva emessa; il caso della torre di Babele (Genesi,
11:1-9) era ripreso per dimostrare che ancora al tempo di Noè, dopo il
diluvio universale, gli uomini vagavano liberi sulla terra, senza gerarchie
sociali e quindi senza un governo. Ne conseguiva che la teoria di Filmer,
secondo cui il potere della spada era stato conferito da Dio ad Adamo,
che lo aveva trasmesso in seguito ai propri discendenti, dando inizio
così alle moderne dinastie regali, era priva di ogni serio fondamento[43].
22. E tuttavia nella pars costruens Hoadly si riaccostava precipitosamente
ai grandi classici della tradizione politica anglicana. Era dalle Laws
of Ecclesiastical Polity di Hooker, non dai Treatises di Locke,
che Hoadly diceva di ricavare tutti i segreti della difficile arte del
governo: così l'idea dello stato di natura e il principio di autoconservazione;
così anche il tema del contratto, che dava origine alla società politica,
che a sua volta aveva come fine migliorare le condizioni di vita degli
associati. Per Hoadly, che su questo punto cruciale assicurava di prendere
a modello Hooker, si usciva dallo stato di natura solo in cambio di maggiore
protezione; se il sovrano non se ne occupava come stabilito al momento
di siglare il patto, o se addirittura attentava alla saluta pubblica,
allora i sudditi erano autorizzati a difendersi da sé; i sudditi potevano
riprendersi quel potere della spada che era stato istituito da Dio per
il bene dell'uomo[44].
Come spiegare l'insistenza con cui Hoadly sosteneva di improntare la sua
pars costruens esclusivamente sulle ormai classiche teorie di Hooker?
C'era solo il tentativo di nascondere le idee di Locke dietro una maschera?
Locke era da tempo inviso alle gerarchie anglicane, che lo sospettavano
di socinianesimo. L'autore delle Laws of Ecclesiastical Polity
era invece un pilastro della Chiesa inglese, non poteva certo essere accusato
di eresia.
23. In realtà Hoadly si era molto avvicinato ad alcune tesi di Locke. In tutti i suoi scritti apparsi fino al novembre del 1709, Hoadly aveva sempre rimarcato che il diritto dei sudditi di resistere a un tiranno era uguale al diritto dei figli di opporsi a un padre che intendeva condurli alla rovina. Come osservava ancora in alcune Considerations indirizzate a Blackall agli inizi dello stesso anno, anche l'autorità paterna era stata creata da Dio per il bene dell'umanità, e benché il paterfamilias godesse di poteri enormi, egli non aveva il diritto di destinarli a scopi diversi da quelli fissati dal creatore:
Non soltanto la patria potestà deriva da Dio, ma la stessa persona del genitore è scelta direttamente dal creatore: eppure non ho mai sentito che un padre possa essere così scellerato, o folle, da attentare alla vita dei propri figli, senza che questi possano difendersi, e bloccarlo, come invece è giusto[45].
La metafora della sfera familiare costituiva in effetti un caposaldo del ragionamento politico sei-settecentesco. Ma nella Original and Institution of Civil Government della fine del 1709 Hoadly la abbandonò improvvisamente, e per la prima volta si disse dell'idea che la patria potestà non aveva niente a che vedere con il governo civile, proprio come Locke aveva suggerito:
Tutte le regole date ai figli, come obbedire, onorare e aiutare il padre e la madre, non riguardano l'obbedienza politica, poiché i genitori sono a loro volta sudditi di qualche sovrano.
Ancora imitando Locke, Hoadly spiegava adesso che neanche l'autorità del marito sulla propria moglie poteva ragionevolmente essere accostata al potere regio. Ovviamente l'ecclesiastico latitudinario sosteneva di ispirare la sua nuova linea alle Scritture, in particolare a Paolo, le cui epistole a Timoteo (2:13) e ai corinzi (14:34) gli sembravano la prova più evidente dell'errore dei patriarcalisti. È probabile, però, che fosse stata la lettura dei Treatises on Government a persuaderlo che la sfera familiare (di cui trattava l'Antico Testamento) non doveva essere confusa con la sfera politica (di cui si occupava invece il Nuovo Testamento). Hoadly poteva affermare così che era solo per efficacia retorica che i catechismi anglicani, nell'esaminare il problema del rapporto tra governanti e governati, si riallacciavano al quarto comandamento, «Onora il padre e la madre»[46].
24. Ciononostante Hoadly non aderì mai pienamente al modello giusnaturalistico lockiano. Per Locke, il diritto di resistere spettava a ogni singolo individuo, che concretamente se ne riappropriava nell'istante in cui la società politica si dissolveva per effetto della tirannia. Per Hoadly, invece, il «potere esecutivo della legge di natura» apparteneva fondamentalmente alla comunità nel suo complesso. Anche Hoadly enfatizzava il passo della Genesi in cui Caino esclama davanti a Dio, «Chiunque mi troverà, mi ucciderà» (Genesi, 4:14); o il passo in cui Dio rivela a Noè dopo il diluvio, «Chi sparge il sangue di un uomo, per mezzo di un uomo il suo sangue sarà sparso» (Genesi, 9:6). E tuttavia mentre Locke contemplava la possibilità che il potere della spada ritornasse in mano ai singoli, Hoadly voleva soltanto dimostrare che lo stato di natura era esistito veramente, e che pertanto la società politica era frutto di una intesa tra uomini liberi:
C'era un tempo, agli inizi del mondo, in cui tutti gli uomini viventi braccavano Caino, tutti vendicatori del sangue ingiustamente sparso, tutti ugualmente legittimati a distruggere l'omicida come un nemico comune [...]. Non c'è prova migliore che all'epoca il governo civile non esisteva ancora [...]. Dopo il diluvio universale, e la divisione delle nazioni, Dio disse a Noè e ai suoi figli, "Gli assassini devono essere puniti", senza però limitare a essi quel gravoso compito, a discapito del resto dell'umanità. Evidentemente anche allora il governo civile non esisteva ancora[47].
Era in fin dei conti questo il punto cruciale anche della vivace polemica ingaggiata con Blackall nel 1708-1709. Anche nel dibattito con Blackall, il caso di Caino veniva citato da Hoadly unicamente per difendere l'ipotesi della stato di natura, e così rinsaldare lo schema del contratto[48]. In quest'ottica, Hoadly non concepiva lo stato di natura come un espediente teorico per legittimare il tirannicidio, ma come una realtà storica precisa, che si era protratta fino all'era della divisione delle nazioni, e che trovava ampia testimonianza nella Bibbia.
25. In realtà anche Locke sembrava ammettere l'idea dello stato di natura come realtà storica concreta, laddove asseriva che gli indiani americani si scambiavano promesse «da semplici uomini, non in quanto membri di una società civile», dandosi un abbozzo di governo soltanto in caso di guerra[49]. E tuttavia Locke, nell'esigenza di smontare l'approccio storico-scritturalista di Filmer, sosteneva che lo stato di natura era una realtà universale che non aveva bisogno di dimostrazioni empiriche[50]. Hoadly, al contrario, pensava che l'unico modo di rintuzzare le argomentazioni dei patriarcalisti fosse provare che la società pre-politica era esistita veramente. Hoadly, cioè, usava gli argomenti di Locke esclusivamente per avvalorare la teoria di Hooker. Dai casi di Caino e di Noè, il religioso whig traeva una sola indicazione: gli uomini erano stati liberi e uguali tra di loro; ogni forma di governo doveva pertanto essere scaturita da un accordo, e laddove gli uomini avevano optato per la monarchia, la casa regnante era tenuta al rispetto delle condizioni sotto le quali le era stata attribuita la corona. La resistenza attiva costituiva un cardine della visione politica di Hoadly. A legittimarla, più che la salvaguardia dei diritti individuali, era però il vecchio principio frequentemente invocato del rex singulis major universis minor. Come aveva chiarito bene nelle Measures of Submission del 1706, la collettività, da cui la società politica aveva tratto origine, era l'unico soggetto davvero in grado di sostituirsi alla monarchia come supremo difensore della salute pubblica[51].
26. Di Hoadly, lo storico John Kenyon ha scritto: «Era un uomo sgradevole, fisicamente, socialmente e mentalmente. Era detestato perfino da coloro che sostenevano la sua stessa causa»[52]. Che Hoadly fosse fisicamente poco attraente è un dato incontestabile: bassottino e tracagnotto, «il piccolo Ben» (così lo chiamava affettuosamente il celebre letterato suo intimo amico Joseph Addison[53]) era costretto a camminare con le grucce per via di un grave attacco di vaiolo che da giovanissimo lo aveva quasi ucciso. Ma le altre critiche di Kenyon appaiono assai meno fondate. Certo, il sermone sulla Lettera ai Romani del settembre del 1705 fu censurato dalla Lower House del sinodo di Canterbury. Per oltre cinque anni decine di religiosi d'oltremanica si scagliarono contro quella accorata predica, che i recensori più miti si limitavano a guardare con sospetto, ma che i critici più severi ritenevano assolutamente incompatibile con i più elementari principi della difficile arte del governo. In particolare per il clero più tradizionalista non erano in gioco soltanto le prerogative regie, ma anche le libertà dei sudditi: come osservò polemicamente uno dei tanti accusatori di Hoadly, il sermone sulla epistola paolina era talmente minaccioso da spingere i re, se volevano tenersi stretta la corona, a trasformarsi in altrettanti «leviatani»[54].
27. Eppure la cultura anglicana non era assolutamente impermeabile ai principi della resistenza attiva. Nella sua History of Resistence as Practis'd by the Church of England, che fu pubblicata per la prima volta nel 1710, il polemista whig John Whiters elencò tutte le volte in cui la Chiesa d'Inghilterra si era ritrovata fianco a fianco con una armata di ribelli. Così sotto Elisabetta, quando i vescovi inglesi avevano premuto affinché la grande regina inviasse truppe in soccorso dei capi ugonotti Condé e Coligny; così anche durante il regno di Giacomo I, quando le gerarchie ecclesiastiche d'oltremanica si erano prontamente schierate al fianco delle Pronvice Unite, contro la restituzione delle fortezze di Brill, Flushing e Ramechins al re di Spagna. E alla morte di Giovanni IV di Bragança, affinché il Portogallo non ritornasse sotto il dominio spagnolo, non erano stati forse i religiosi anglicani in esilio i primi a riconoscere la validità della reggenza di Doña Luisa? Per Whiters, insomma, la difesa della costituzione protestante dalle ambizioni cattoliche di Giacomo II era soltanto l'ultimo di una lunga serie di episodi che avevano sempre visto la Chiesa d'Inghilterra lottare per la causa della libertà. In quest'ottica, concludeva l'autore della History of Resistance, Hoadly non poteva essere considerato un apostata dai suoi correligionari. In fin dei conti l'unica vera differenza era che mentre il clero altitudinario si limitava a condannare la tirannia in astratto, Hoadly aveva il coraggio di ammettere che vi erano casi disperati in cui «non si poteva concretamente contrastare il dispotismo senza con ciò fare guerra anche al tiranno»[55].
28. E in effetti non tutti nella Chiesa d'Inghilterra interpretarono il sermone sulla epistola paolina come una apertura ai principi repubblicani, o come un cedimento alla filosofica razionalistica di Hobbes e di Locke. Nel suo Treatise Concerning the Supremacy of the Civil Magistrate, che apparve all'epoca della controversia bangoriana, il rector di Exford nel Somerset Francis Squire (non certo un estremista) distingueva tre diverse tesi sulle origini del governo civile. La prima, dei commonwealthmen, affermava che la società politica era un fenomeno esclusivamente umano; la seconda, dei giacobiti, sosteneva invece che tutto era frutto della volontà di Dio; la terza, di Hooker, rimarcava infine che il potere politico discendeva dal creatore, ma che le forme in cui veniva esercitato dipendevano dall'uomo. Per Squire, soltanto questo terzo modello garantiva le libertà dei sudditi e parallelamente salvaguardava la dignità dei principi: da un lato il monarca si sentiva obbligato a mantenere i patti con i governati, dall'altro il popolo era consapevole degli effetti nefasti della disobbedienza per la vita ultraterrena. Così Squire poteva giustificare la Gloriosa Rivoluzione, e al contempo ammonire i ribelli giacobiti a deporre le armi, accettando serenamente la nuova dinastia tedesca. Sembrava quasi di rileggere il sermone di Hoadly laddove Squire sottolineava i diversi passi della Bibbia in cui gli apostoli Pietro e Paolo definiscono il governo civile come una istituzione umana e insieme anche divina. Non sorprende pertanto che tra i moderni assertori dell'ipotesi di Hooker, il religioso filohannoveriano collocasse al primo posto proprio Hoadly[56].
29. In realtà le opere politiche di Hoadly devono essere interpretate
nel contesto delle dispute dinastico-confessionali dell'Inghilterra degli
inizi del Settecento. La successione hannoveriana era ancora un bilico,
mentre sullo sfondo della guerra di Successione spagnola la Chiesa inglese
s'interrogava inquietamente sui suoi rapporti con gli anti-conformisti
e con il resto dell'universo protestante europeo. Anche il conflitto latente
tra i vescovi anglicani e il basso clero (tra le cui fila allignavano
particolarmente numerosi i seguaci degli Stuart) contribuiva a movimentare
il panorama politico britannico dell'età di Anna. In questo quadro incerto,
le posizioni nella Chiesa d'Inghilterra non erano mai così rigide e statiche
come gli studiosi finiscono spesso per rappresentarle. Quando Henry Compton
condannò il sermone sulla Lettera ai romani, Gilbert Burnet fece
osservare che proprio il vescovo di Londra era stato uno dei sette illustri
firmatari dell'invito al principe olandese, e che anzi nell'autunno del
1688 si era perfino unito all'armata dei ribelli, celebrando i servizi
religiosi nell'accampamento di Northampton. A loro volta i fautori dell'obbedienza
passiva citavano spesso quella Vindication of the Church and State
of Scotland in cui Burnet aveva attaccato per contro le idee dei calvinisti
scozzesi sul tirannicidio[57].
A rileggerne attentamente l'opera, alla luce delle vicende politico-religiose
dell'Inghilterra del periodo della successione hannoveriana, si ricava
che Hoadly non era certo quel repubblicano che gli ecclesiastici più tradizionalisti
pretendevano che fosse. Parimenti Hoadly non può essere catalogato come
un semplice divulgatore del pensiero contrattualistico lockiano, giacché
molte delle sue idee erano maturate nel quadro della cultura anglicana
della fine del Seicento. Espungerlo da quel contesto non equivale solo
a ignorare un pezzo significativo della storia della Chiesa inglese, ma
anche a precludersi ogni possibilità di capire come il filone contrattualista
d'oltremanica comprendesse diverse anime, intrecciate tra loro eppure
ben distinte. Il fatto che Locke fosse troppo isolato per dare un'impronta
rilevante al pensiero politico dell'età di Anna e di Giorgio I non implica
che altri autori a prima vista meno importanti non fossero in grado di
esercitare una considerevole influenza sui contemporanei, attraverso un
intricato processo di contaminazione, con gli strumenti del pulpito e
della letteratura religiosa.
[1] Alla fine degli anni ottanta del Novecento il tricentenario della Gloriosa Rivoluzione ha stimolato una messe di rievocazioni di questo importante snodo della storia dell'Inghilterra moderna, ma anche un significativo apporto di nuovi, interessanti studi. Accanto alle interpretazioni più classiche, come quella dell'importante monografia di W.A. Speck, Reluctant Revolutionaries. Englishmen and the Revolution of 1688, Oxford, Oxford University Press, 1988, sono emersi numerosi approcci di tipo revisionista, tra cui si segnalano H. Nenner, Constitutional Uncertainty and the Declaration of Rights, in B.C. Malament (ed.), After the Reformation: Essays in Honour of J.H. Hexter, Manchester, Manchester University Press, 1980, pp. 291-308; J. Miller, Seeds of Liberty. 1688 and the Shaping of Modern Britain, London, Souvenir Press, 1988; E. Cruickshanks (ed.), By Force or by Default? The Revolution of 1688-1689, Edinburgh, Donald, 1989; D. Szechi, Mythistory versus History: the Fading of the Revolution of 1688, in «Historical Journal», XXXIII (1990), pp. 143-153; J.I. Israel (ed.), The Anglo-Dutch Moment. Essays on the Glorious Revolution and its World Impact, Cambridge, Cambridge University Press, 1991; R. Beddard (ed.), The Revolutions of 1688, Oxford, Clarendon Press, 1991; T. Claydon, William III and the Godly Revolution, Cambridge, Cambridge University Press, 1996; E. Cruickshanks, The Glorious Revolution, Basingstoke, Macmillan, 2000.
[2] Tra le prime ricerche sulla dimensione dinastico-confessionale della Gloriosa Rivoluzione figurano l'articolo di C.F. Mullet, Religion, Politics, and Oaths in the Glorious Revolution, in «Review of Politics», X (1948), pp. 462-474, e il volume di G.M. Straka, Anglican Reaction to the Revolution of 1688, Madison, University of Wisconsin Press, 1962. La centralità del tema dell'abdicazione nelle interpretazioni sei-settecentesche della seconda rivoluzione inglese è stata efficacemente messa in luce da J.P. Kenyon, The Revolution of 1688: Resistance and Contract, in N. McKendrick (ed.), Historical Perspectives: Studies in English Thought and Society in Honour of J.H. Plumb, Europa Publications, London, 1974, pp. 47-50. L'intensa polemica innescata dalle osservazioni di Kenyon si può ripercorrere attraverso i contributi di T.P. Slaughter, Abdicate' and Contract' in the Glorious Revolution, e J. Miller, The Glorious Revolution: Contract' and Abdication' Reconsidered, entrambi in «Historical Journal», rispettivamente XXIV (1981), pp. 323-337, e XXV (1982), pp. 541-555. Per il dibattito parlamentare sulla formula dell'abdicazione cfr. D.L. Jones (ed.), A Parliamentary History of the Glorious Revolution, HMSO, London, 1988, pp. 251-308. Più in generale sulla rivoluzione del 1688 nel pensiero dei contemporanei, oltre all'ormai classico lavoro di J.P. Kenyon, Revolution Principles. The Politics of Party, 1689-1720, Cambridge University Press, Cambridge, 1992 [1977], cfr. anche i bei saggi di G.M. Straka, Sixteen Eighty-Eight as the Year One: Eighteenth Century Attitudes towards the Glorious Revolution, in «Studies in Eighteenth Century Culture», I (1971), pp. 143-167; H.T. Dickinson, The Eighteenth Century Debate on the Glorious Revolution', in «History», LXI (1976), pp. 28-45; H. Horwitz, 1689 (and All That)', in «Parliamentary History», VI (1987), pp. 23-32. Un'ampia rassegna e un accurato resoconto dei trattati politici apparsi in Inghilterra nella scia della Gloriosa sono offerti da M. Goldie, The Revolution of 1689 and the Structure of Political Argument. An Essay and Annotated Bibliography of Pamphlets on the Allegiance Controversy, in «Bulletin of Research in the Humanities», LXXXIII (1980), pp. 473-564.
[3] Sulle dottrine dello jus possessionis nel fermento della Gloriosa Rivoluzione cfr. C.F. Mullet, A Case of Allegiance: William Sherlock and the Revolution of 1688, in «Huntington Library Quarterly», X (1946-1947), pp. 83-103; C. Cragg, From Puritanism to the Age of Reason. A Study of Changes in Religious Thought in the Church of England 1660 to 1700, Cambridge, Cambridge University Press, 1950, pp. 177-182; G.M. Straka, Anglican Reaction cit., pp. 30-64; H. Horwitz, Revolution Politicks': the Career of Daniel Finch, Second Earl of Nottingham, 1647-1730, Cambridge, Cambridge University Press. 1968, pp. 82-83; M. Goldie, Edmund Bohun and Ius Gentium in the Revolution Debate, 1689-1693, in «Historical Journal», XX (1977), pp. 569-586; M.P. Thompson, The Idea of Conquest in Controversies over the 1688 Revolution, in «Journal of the History of Ideas», XXXVIII (1977), pp. 33-46.
[4] Per la rielaborazione del diritto divino dei re all'indomani della seconda rivoluzione inglese cfr. G.M. Straka, The Final Phase of Divine Right Theory in England 1688-1702, in «English Historical Review», LXXVII (1962), pp. 638-658, e J.C.D. Clark, English Society 1688-1832. Ideology, Social Structure and Political Practice during the Ancien Régime, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 119-161. Per l'interpretazione della Gloriosa Rivoluzione come intervento diretto di Dio nella vicende umane cfr. T. Claydon, William III cit., pp. 31-52. Sulla provvidenza divina nella cultura politico-religiosa inglese dell'Età moderna cfr. A. Walsham, Providence in Early Modern England, Oxford, Oxford University Press, 2001.
[5] Sul tema dell'obbedienza passiva nell'universo anglicano settecentesco cfr. J.C.D. Clark, English Society cit., pp. 216-235; R.E. Sullivan, The Transformation of Anglican Political Theology, c. 1716-1760, in G. Schochet (ed.), Politics, Politeness and Patriotism. British Political Thought in the Age of Walpole, Washington, Folger Institute, 1993, pp. 47-58; G. Mischler, English Political Sermons 1714-1742. A Case Study in the Theory of the Divine Right of Governors' and the Ideology of Order, in «British Journal for Eighteenth Century Studies», XXIV (2001), pp. 33-61. In realtà il dibattito sull'importanza di Locke nel pensiero politico inglese del Sei-Settecento è iniziato ben prima del recente filone di studi sulla Chiesa hannoveriana. Già il fondamentale lavoro di J.G.A. Pocock, The Ancient Constitution and the Feudal Law: A Study of English Historical Thought in the Seventeenth Century, Cambridge, Cambridge University Press, 1959, aveva dimostrato che la cultura politica britannica del secolo barocco si nutriva più di riflessioni storico-empiriche che non di considerazioni razional-filosofiche. In seguito J. Dunn, The Politics of Locke in England and America in the Eighteenth Century, in J.W. Yolton (ed.), John Locke: Problems and Perspectives, Cambridge, Cambridge University Press, 1969, pp. 45-80, sostenne per primo che i Treatises of Government di Locke erano stati inizialmente ignorati, successivamente fraintesi, e solo dopo molto tempo, una volta attenuatasi la loro dirompente carica rivoluzionaria, accolti nel repertorio degli scritti in difesa del sistema di governo parlamentare. Quando infine M.P. Thompson, The Reception of Locke's Two Treatises of Government' 1690-1705, in «Political Studies», XXIV (1976), pp. 184-191, analizzò la letteratura whig del periodo guglielmino alla ricerca di chiare influenze lockiane, si scoprì che il celebre filosofo inglese veniva citato assai di rado dai contemporanei, e quasi sempre per il First Treatise, la pars destruens che i difensori delle libertà dei sudditi reputavano la migliore confutazione del principio dell'inderogabile ereditarietà della corona. Come ha scritto bene M. Tedeschi, La libertà religiosa nel pensiero di John Locke, Torino, Giappichelli, 1990, pp. 28-29, «Locke [...] non è né il teorizzatore della monarchia assoluta, né di quella costituzionale o dello Stato repubblicano, al quale imputa molti mali; non sposa mai pienamente né le posizioni anglicane né quelle dissidenti; simpatizza solo in parte [...] con latitudinari, sociniani, arminiani [...]. Locke [...] sia che lo si consideri da un punto di vista politico che da quello esegetico-scritturale, [...] non si allinea a nessuna corrente né fa scuola». Sull'assenza del Second Treatise nella trattatistica politica d'oltremanica agli inizi del Settecento cfr. M.P. Thompson, Significant Silences in Locke's Two Treatises of Government': Constitutional History, Contract and Law, in «Historical Journal», XXXI (1987), pp. 275-294. Su Locke tra i due poli del contrattualismo storico e del contrattualismo filosofico cfr. D. Resnick, Locke and the Rejection of the Ancient Constitution, in «Political Theory», XII (1984), pp. 97-114, e J. Farr, C. Roberts, John Locke on the Glorious Revolution. A Rediscovered Document, in «Historical Journal», XXVIII (1985), pp. 385-398. Sulle complesse relazioni tra Locke e gli ambienti whig cfr. J.H. Franklin, John Locke and the Theory of Sovereignty, Cambridge, Cambridge University Press, 1978, pp. 87-126. Per il problema di Locke negli studi storici sull'Inghilterra del Sei-Settecento cfr. infine le acute osservazioni di J.G.A. Pocock, The Myth of John Locke and the Obsession with Liberalism, in J. G. A. Pocock, R. Ashcraft (eds.), John Locke. Papers Read at a Clark Library Seminar, 10 December 1977, Los Angeles, William Andrews Clark Memorial Library, 1980, pp. 45-91, e dello stesso, Recent Scholarship on John Locke and the Political Thought of the Late Seventeenth Century, in «Theoretische Geschiedenis», XI (1984), pp. 251-261.
[6] Come suggerisce J.C.D. Clark, On Moving the Middle Ground. The Significance of Jacobitism in Historical Studies, in E. Cruickshanks, J. Black (eds.), The Jacobite Challenge, Edinburgh, Donald, 1988, pp. 177-185, i massicci studi sul legittimismo giacobita condotti negli anni settanta e ottanta del Novecento hanno prodotto un autentico «effetto domino», che può essere ritenuto la principale causa della crisi del vecchio schema interpretativo basato sull'esaltazione delle libertà politiche e civili. Per un quadro sintetico delle tesi politiche dei seguaci degli Stuart cfr. G.L. Cherry, The Legal and Philosophical Position of the Jacobites, 1688-1689, in «Journal of Modern History», XXII (1950), pp. 309-321. Anche gli storici della Chiesa d'Inghilterra si sono concentrati sugli ambienti filo-giacobiti e altitudinari, con importanti contributi di F.C. Mather, Georgian Churchmanship Reconsidered: Some Variations in Anglican Pulpit Worship 1714-1830, in «Journal of Ecclesiastical History», CXXXVI (1985), pp. 255-283, e, dello stesso, High Church Prophet: Bishop Samuel Horsley (1733-1806) and the Caroline Tradition in the Later Georgian Church, Oxford, Oxford University Press, 1992; J.J. Sack, From Jacobite to Conservative: Reaction and Orthodoxy in Britain, c. 1760-1832, Cambridge, Cambridge University Press, 1993; R.D. Cornwall, Visible and Apostolic. The Constitution of the Church in High Church Anglicanism and Non-Juror Thought, Newark, University of Delaware Press, 1993; P. Nockles, The Oxford Movement in Context. Anglican High Churchmanship 1760-1857, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; J.S. Chamberlain, Accommodating High Churchmen: the Clergy of Sussex, 1700-1745, Chicago, University of Illinois Press, 1997.
[7] Per la crisi del modello costantiniano dopo l'Interregno cfr. J.R. Collins, The Restoration Bishops and the Royal Supremacy, in «Church History», LXVIII (1999), pp. 549-580. Per la sua energica riproposizione all'indomani della Gloriosa cfr. M. Goldie, The Nonjurors, Episcopacy, and the Origins of the Convocation Controversy, in E. Cruickshanks (ed.), Ideology and Conspiracy. Aspects of Jacobitism 1689-1759, Edinburgh, Donald, 1982, pp. 15-35.
[8] L'opera che più di tutte ha sottolineato l'egemonia anglicana nella vita politica, sociale e culturale dell'Inghilterra del Settecento è J.C.D. Clark, English Society cit. Il lavoro di Clark, benché abbia monopolizzato l'attenzione della storiografia, è però soltanto uno dei numerosi contributi alla riscoperta dell'universo anglicano settecentesco apparsi nei due ultimi decenni. Sulla Chiesa d'Inghilterra nell'arco di tempo 1688-1832, oltre al volume collettaneo di J. Walsh et al. (eds.), The Church of England c. 1689-c. 1833: from Toleration to Tractarianism, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, cfr. anche W.T. Gibson, The Achievement of the Anglican Church, 1689-1800: the Confessional State in Eighteenth Century England, Evanston, Mellen, 1995, e, dello stesso autore, The Church of England 1688-1832. Unity and Accord, London e New York, Routledge, 2001. Per il patronato regio sulla Chiesa inglese cfr. D.R. Hirschberg, The Government and Church Patronage in England, 1660-1760, in «Journal of British Studies», XX (1980), pp. 109-138. Sulla vita religiosa nelle diocesi e nelle parrocchie cfr. T. Isaacs, The Anglican Hierarchy and the Reformation of Manners 1688-1738, in «Journal of Ecclesiastical History», XXXIII (1982), pp. 391-411; V. Barrie-Curien, Clergé et pastorale en Angleterre au XVIIIe siècle. La diocèse de Londres, Paris, Centre nationale de la recherche scientifique, 1992; J. Jago, Aspects of the Georgian Church: Visitation Studies of the Diocese of York 1761-1776, Madison, Farleigh Dickinson University Press, 1997; D.A. Spaeth, The Church in an Age of Danger. Parsons and Parishioners 1660-1740, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; J. Gregory, Restoration, Reformation and Reform, 1660-1828. Archbishops of Canterbury and their Diocese, Oxford, Clarendon Press, 2000; J. Chamberlain, J. Gregory (eds.), The National Church in its Local Identities, Woodbrige, Boydell & Brewer, 2002. Sulla cultura politico-religiosa anglicana come emerge dai catechismi, dai sermoni e dai trattati teologici del Settecento cfr. F. Deconinck-Brossard, Vie politique, sociale et religieuse en Grande-Bretagne d'après les sermons prêchés dans le Nord de l'Angleterre 1738-1760, Paris, Atelier nationale de reproduction des thèses, 1984, e R. Hole, Pulpits, Politics and Public Order in England, 1760-1831, Cambridge, Cambridge University Press, 1989. Per il primato anglicano nelle università cfr. inoltre J. Gascoigne, Cambridge in the Age of the Enlightenment. Science, Religion and Politics from the Restoration to the French Revolution, Cambridge, Cambridge University Press, 1989. Sul confronto con la cultura libertina e con i lumi cfr. infine J.A.I. Champion, The Pillars of Priestcraft Shaken. The Church of England and its Enemies, 1660-1730, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, e B.W. Young, Religion and Enlightenment in Eighteenth-Century England. Theological Debate from Locke to Burke, Oxford, Clarendon Press, 1998. A ben vedere tra gli studi recenti solo P. Virgin, The Church in an Age of Negligence. Ecclesiastical Structure and Problems of Church Reform, 1700-1840, Cambridge, Clarke, 1989, ripropone la vecchia tesi del declino anglicano nel Settecento.
[9] Laureato al Trinity College di Oxford, fin da giovane Whitby fu un autore assai polemico e prolifico. La sua conversione all'arianesimo, maturata in vecchiaia dopo avere letto la Scripture Doctrine of the Trinity di Samuel Clarke, sorprese molto i contemporanei, giacché per anni Whitby si era distinto come uno dei difensori più accaniti del credo di Atanasio. Per la clamorosa censura del 1683 cfr. Judicium & decretum Universitatis Oxoniensis latum in convocatione abita Jul. 21. an. 1683. Contra quosdam perniciosos libros & propositiones impias, quae capitibus sacratissimorum principium, eorum statui & regimini, & omni humanae societati exitium intentant, (Oxford), E Theatro Sheldoniano, 1683, p. 6. Il clima politico-religioso che fece da sfondo al rogo dei libri proibiti è efficacemente ricostruito da T. Harris, Politics Under the Later Stuarts. Party Conflict in Divided Society 1600-1715, London e New York, Longman, 1993, pp. 119-123.
[10] Obedience Due to the Present King notwithstanding our Oaths to the Former, London, Printed for A. Churchill, 1689; Considerations humbly Offered for Taking the Oath of Allegiance to King William and Queen Mary, London, Printed by J. Leake for A. Churchill, 1689; Agreement betwixt the Present and Former Government: or, a Discourse of this Monarchy, whether Elective or Hereditary? Also, of Abdication, Vacancy, Interregnum, Present Possession of the Crown, and the Reputation of the Church of England. With an Answer to Objections, thence Arising, against Taking the New Oath of Allegiance. For the Satisfaction of the Scrupulous, London, Printed for A. Churchill, 1689.
[11] Obedience Due to the Present King cit., p. 7, e Agreement betwixt the Present and the Former Government cit., pp. 32-37. In realtà anche Whitby si appellava al De iure belli ac pacis, lib. IV, cap. IV, § 2. Subito dopo precisava però che oltre all'abdicazione attiva, esistente nelle due diverse specie dell'abdicazione formale (cession) e dell'abdicazione di fatto (non-use), il diritto al trono si estingueva in almeno altri due casi ben distinti dai primi: il difetto dei requisiti necessari per possedere la corona (insufficiency o non-qualification), e l'abdicazione passiva (da lui definita forfeiture, ovvero «perdita», in conseguenza di un abuse). Sui fondamenti e sui limiti del potere regio nella cultura politico-istituzionale inglese del Sei-Settecento cfr. la penetrante analisi di H. Nenner, The Right to be King. The Succession to the Crown of England, 1603-1714, Chapel Hill, University of Carolina Press, 1995.
[12] Obedience Due to the Present King cit., pp. 2-3, e Considerations humbly Offered cit., pp. 8-9. La tradizionale dottrina dell'obbedienza politica trovava un preciso riscontro nel celebre Calvin's Case, la vecchia sentenza secondo cui i sudditi scozzesi nati dopo il 1603 non dovevano essere considerati stranieri in Inghilterra, essendo uguali ai sudditi inglesi nella loro fedeltà personale a Giacomo I. Per la dottrina dei «due corpi» del re, che consentiva a Whitby di reinterpretare il Calvin's Case in chiave costituzionalistica, cfr. il magistrale studio di E. Kantorowicz, The King's Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Thought, Princeton, Princeton University Press, 1957, trad. it. I due corpi del re. L'idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989. Sul giuramento politico nel mondo inglese del Seicento cfr. D.M. Jones, Conscience and Allegiance in Seventeenth Century England. The Political Significance of Oaths and Engagements, Rochester, University of Rochester Press, 1999. Per una inquadratura del problema in prospettiva europea cfr. P. Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell'Occidente, Mulino, Bologna, 1992.
[13] Obedience Due to the Present King cit., pp. 7-8, e Agreement betwixt the Present and the Former Government cit., pp. 15-27.
[14] G. Bray (ed.), The Anglican Canons 1529-1947, Bury St. Edmunds, Boydell Press, 1998, p. 464.
[15] G. Burnet, A Pastoral Letter Writ by the Right Reverend Father in God, Gilbert, Lord Bishop of Sarum, to the Clergy of his Diocess, Concerning the Oaths of Allegiance and Supremacy to K. Williams and Q. Mary, London, Printed for J. Starkey and R. Chiswell, 1689.
[16] W. Lloyd, A Discourse of God's Ways of Disposing of Kingdoms, London, Printed by H. Hills for T. Jones, 1691. Per la condanna degli scritti di Burnet e Lloyd cfr. W. Cobbett, The Parliamentary History of England. from the Norman Conquest, in 1066, to the Year 1803, London, Hansard 1806-1820, V, col. 756.
[17] W. Higden, A View of the English Constitution, with Respect to the Sovereign Authority of the Prince, and the Allegiance of the Subject, London, Printed for S. Keble, 1709, passim.
[18] N. Marshall, A Defence of our Constitution in Church and State, London, Printed by H. Parker for W. Taylor and H. Clements, 1717, pp. 68-78.
[19] A Paraphrase and Commentary upon All the Epistles of the New Testament, London, Printed by W. Bowyer for A. and J. Churchill, 1700, pp. 82-84.
[20] Per l'interpretazione dell'Epistola ai romani offerta da Whitby all'indomani della Gloriosa Rivoluzione cfr. soprattutto Obedience Due to the Present King cit., pp. 4-5. Sul problema dell'obbedienza politica nella cultura della Riforma cfr. il fondamentale Q. Skinner, The Foundations of Modern Political Thought. The Age of Reformation, Cambridge, Cambridge University Press, 1978, trad. it. Le origini del pensiero politico. L'età della Riforma, Bologna, Mulino 1989, pp. 271-342. Sul tema delle leggi fondamentali nel pensiero giuridico-politico inglese cfr. il classico J. W. Gough, Fundamental Law in English Constitutional History, Oxford, Clarendon Press, 1955, e, in prospettiva più ampia, l'efficace affresco di M. P. Thompson, The History of Fundamental Law in Political Thought from the French Wars of Religion to the American Revolution, in «American Historical Review», XCI (1986), pp. 1103-1128.
[21] A Paraphrase and Commentary cit., p. 82. In effetti Whitby si limitava a citare testualmente Hooker, The Laws of Ecclesiastical Polity, lib. I, cap. X, § 4.
[22] Agreement betwixt the Present and the Former Government cit., pp. 27-30. Whitby aveva espresso la sua interpretazione della Gloriosa come semplice restaurazione della «costituzione degli antenati» violata da Giacomo II in An Historical Account of some Things Relating to the Nature of the English Government, and the Conceptions which our Fore-Fathers had of It, London, Printed for A. Churchill, 1690. Ma come ha osservato giustamente J.G.A. Pocock, Virtue, Commerce, and History. Essays on Political Thought and History, chiefly in the Eighteenth Century, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, p. 226, «Non vi può essere errore più grande del ritenere che la dottrina dei diritti naturali tende di per sé al radicalismo, mentre l'appello alla storia è intrinsecamente conservatore». Tra gli studi più recenti sul mito seicentesco della «antica costituzione» inglese si segnalano P.C. Christianson, Ancient Constitution in the Age of Sir Edward Coke and John Selden¸ in E. Sandoz (ed.), The Roots of Liberty: Magna Charta, Ancient Constitution, and the Anglo-American Tradition of Rule of Law, Columbia, University of Missouri Press, 1993, pp. 89-146; C.C. Weston, England: Ancient Constitution and Common Law, in J.H. Burns, M. Goldie (eds.), The Cambridge History of Political Thought 1450-1700, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 374-411; G. Burgess, The Politics of the Ancient Constitution, Basingstoke, Macmillan, 1992; W. Klein, The Ancient Constitution Revisited, in N. Phillipson, Q. Skinner (eds.), Political Discourse in Early Modern Britain, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 23-44. Per i risvolti radical-rivoluzionari di questo importante filone cfr. J. Greenberg, The Confessor's Laws and the Radical Face of the Ancient Constitution, in «English Historical Review», CIV (1989), pp. 611-637.
[23] A Paraphrase and Commentary cit., p. 82.
[24] Ibid., pp. 82-83.
[25] Ibid., pp. 83-84. Sull'ideale della «resistenza passiva» che innervò il pensiero politico anglicano nelle fasi più travagliate del breve regno di Giacomo II cfr. M. Goldie, The Political Thought of the Anglican Revolution, in R. Beddard (ed.), The Revolutions of 1688 cit., pp. 102-136.
[26] A Paraphrase and Commentary cit., p. 83. Per Calvino cfr. Institutio Christianae religionis, lib. IV, cap. XX, § 31. Per le idee sul tirannicido negli ambienti whig più radicali dell'età della seconda rivoluzione inglese cfr. M. Goldie, The Roots of True Whiggism, 1688-94, in «History of Political Thought», I (1980), pp. 195-236.
[27] Per la polemica con la dottrina religiosa lockiana cfr. A Paraphrase and Commentary cit., pp. 627-647. Il complesso retroterra culturale della Reasonableness of Christianity di Locke è magistralmente ricostruito nella nuova edizione critica a cura di J. Higgins-Bibble, Oxford, Clarendon Press, 1999, pp. xv-cxv.
[28] In questa linea cfr. i sermoni di T. Sherlock, A Sermon Preach'd before the Honourable House of Commons, at St, Margaret's Westminster, on Monday, March 8. 1713/4. Being the Day of her Majesty's Happy Accession to the Throne, London, Printed for J. Pemberton, 1714; W. Talbot, A Sermon Preach'd at the Coronation of King George, in the Abbey-Church of Westminster, October the 20th, 1714, London, Printed by W. Wilkins for J. Churchill, 1714; J. Harris, A Sermon Preach'd in the ParishChurch of Stroud, near Rochester in Kent, on August 1. 1715. Being the Day of Thanksgiving Appointed for King George's Happy Accession to the Crown, London, Printed for B. Cowse, 1715; F. Hare, A Sermon Preach'd at the Cathedral Church of Worcester, on the 1st of August, 1716, being the Anniversary of His Majesty's Happy Accession to the Crown, London, Printed by S. Buckley, 1716; T. Blennerhaysett, Legal Obedience, in Opposition to Unlimited; the Subjects Necessary Duty, and a Prince's Best Security. A Sermon Preached January the 30th, 1715/16, at Barwick Chappell In the Parish of St. James, Westminster, London, Printed by J. Downing for the Author and Sold by S. Crouch and B. Couse, 1716; R. Skerret, The Subjects Duty to the Higher Powers. Set forth in a Sermon Preach'd before the Right Honourable the Lord Mayor the Aldermen, and the Citizens of London, in the Cathedral Church of St. Paul, on Munday the 30th of January, 1715, London, Printed for J. Phillips and Sold by E. Symon and J. Roberts, 1716; T. Pyle, The Heinous Sin and Danger of Prevaricating with God and the Government. A Sermon Preached at Lyn Mart, Feb. 5. 1715/16, London, Printed for J. Wyat, 1716; L. Atterbury, A Sermon Preach'd at Whitehall on Thursday, June 7. 1716. Being the Day of Publick Thanksgiving to Almighty God, for Suppressing the Late Unnatural Rebellion. And at the Chapel at Highgate, June 10, London, Printed for J. Roberts, 1716; [G. Nelson], King George's Right Asserted, and The Church of England Vindicated from the Charge of Schism, London, Printed for the Author and Sold by J. Harrison, R. Burleigh, and A. Ashworth, 1717; C. Lambe, Steadfastness to the Protestant Religion and to the King, Recommended upon the Alarm of an Invasion from Sweden. In a Sermon Preach'd at Richmond, Sunday March 24. and at Rygate, Thursday March 28. the Day of General Assize for the Country of Surry, London, Printed for W. Hinchliffe and J. Walthoe and Sold by J. Roberts, 1717; M. Stanhope, The Clergy of the Church of England not Guilty of the Schism Charg'd upon them by the Nonjurors. In a Sermon Preach'd in the Parish Church of St. Martin in the Fields: on Sunday, December the 19th. 1716, London, Printed for J. Wyat, 1717; J. Baldwin, The Present Government the Ordinance of God. A Sermon Preach'd at the Cathedral Church of Norwich, On Monday, October 20th, 1718. Being the Anniversary of the Coronation of his Sacred Majesty, King George, Norwich, Printed and Sold by W. Chase, 1718.
[29] Grazie al sostegno della nuova dinastia tedesca, Hoadly divenne vescovo di Bangor nel 1715, di Hereford nel 1721, di Salisbury nel 1723, e infine di Winchester (la più ricca diocesi anglicana) nel 1734. Sull'attività di controvertista politico cfr. N. Sykes, Benjamin Hoadly, Bishop of Bangor, in F.J.C. Hearnshaw (ed.) The Social and Political Ideas of Some English Thinkers of the Augustan Age, London, Harrap, 1928, pp. 116-156; E.R. Bingham, The Political Apprenticeship of Benjamin Hoadly, in «Church History», XVI (1947), pp. 31-52; H.T. Dickinson, Benjamin Hoadly: Unorthodox Bishop, in «History Today», XXV (1975), pp. 348-352; R. Browning, Political and Constitutional Ideas of the Court Whigs, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1982, pp. 67-88. Come H.T. Dickinson, Benjamin Hoadly cit., p. 354, e R. Browning, Political and Constitutional Ideas cit., pp. 79-87, anche W.A. Speck, Stability and Strife. England 1714-1760, London, Arnold, 1977, p. 21, considera il pensiero politico di Hoadly una piatta riproposizione dell'opera di Locke. Per la controversia bangoriana, su cui non esistono studi recenti, cfr., oltre ai pionieristici L. Stephen, History of English Thought in the Eighteenth-Century, London, Smith & Elder, 1902 [1876], II, pp. 152-167, e J. Hunt, Religious Thought in England. From the Reformation to the End of the Last Century, London, Strahan, 1870-1873, III, pp. 31-51, anche il succinto esame di N. Sykes, Church and State in England in the 18th Century, Cambridge, Cambridge University Press, 1934, pp. 332-350, e, limitatamente a un particolare fronte del dibattito, H.D. Rack, Christ's Kingdom not of this World': the Case of Benjamin Hoadly versus William Law Reconsidered, in D. Baker (ed.), Church, Society and Politics, Oxford, Blackwell, 1975, pp. 275-291. Per il rapporto di Hoadly con le eterodossie trinitarie degli inizi del Settecento cfr. G. Sanna, How Heterodox was Benjamin Hoadly?, in W.T. Gibson, R. Ingram (eds.), God and Britons. Religion, Politcs, and Identity 1660-1832, Ashgate, Aldershot, in corso di pubblicazione. La reputazione di Hoadly come cinico sinecurista è criticamente discussa da R.K. Pugh, Bishop Hoadly: a Plea in Mitigation, in «Proceedings of Hampshire Field Club and Archaeological Society», XLI (1985), pp. 243-252.
[30] Catalogue of Political and Personal Satires Preserved in the Department of Prints and Drawning in the British Museum, London, British Museum Publications, 1978, II, pp. 282-283.
[31] In The Works of Benjamin Hoadly, D. D., successively Bishop of Bangor, Hereford, Salisbury, and Winchester. Published by his Son John Hoadly, London, Printed by W. Bowyer and J. Nichols, 1773, II, pp. 18-25.
[32] Ibid., pp. 18-19.
[33] Ibid., p. 19.
[34] Ibid., pp. 20-21.
[35] «The London Journal», nn. 280 e 282, rispettivamente, from Saturday, November 21, to Saturday, November 28, e from Saturday, December 5, to Saturday, December 12, 1724.
[36] Works cit., II, p. 39.
[37] Ibid., p. 22.
[38] Ibid., p. 85.
[39] Ibid., pp. 41-47. La lex porcia proibiva di sottoporre un cittadino romano alla flagellazione. Dagli Atti degli apostoli Hoadly riprese sia la vicenda di Filippi, 16:19-40 (Paolo, flagellato per avere esorcizzato una schiava che arricchiva i padroni con i suoi vaticini, aveva preteso pubbliche scuse), sia l'episodio di Gerusalemme, 21:27-40 e 22:1-29 (Paolo, rinchiuso in prigione, si era dichiarato cittadino di Roma, e gli era stato così risparmiato il supplizio). In particolare, il secondo racconto biblico fu alla base di un altro celebre sermone, St. Paul's Behaviour towards the Civil Magistrate, pronunciato da Hoadly davanti alle assizes di Hertford nel luglio 1708 (Works, II, pp. 118-125). Sugli studi patristici di Pearson cfr. N. Sykes, From Sheldon to Secker. Aspects of English Church History 1660-1768, Cambridge, Cambridge University Press, 1959, pp. 111-113.
[40] Works cit., I, pp. 65-66.
[41] Ibid., p. 560.
[42] Ibid., II, p. 12.
[43] Ibid., pp. 197-198, 205-209, 210-214 (cfr. J. Locke, Two Treatises of Government, I, §§ 129, 143, 146-148, 152). Su Leslie cfr. il bel profilo di G.J. Schochet, Patriarchalism in Political Thought. The Authoritarian Family and Political Speculation and Attitudes, especially in Seventeenth Century England, Oxford, Clarendon Press, 1975, pp. 220-224. Per le concezioni filmeriane nella cultura politica inglese del Sei-Settecento cfr. invece l'ampio affresco di J. Daly, Sir Robert Filmer and English Political Thought, Toronto, University of Toronto Press, 1979. In particolare la storiografia americana ha tentato di restituire a Locke un ruolo preminente nell'universo politico settecentesco. In questa linea cfr. I. Kramnick, Republican Revisionism Revisited, in «American Historical Review», III (1982), pp. 629-664; R. Ashcraft, M.M. Goldsmith, Locke, Revolution Principles, and the Formation of Whig Ideology, in «Historical Journal», XXVI (1983), pp. 773-800; R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke's Two Treatises of Government', Princeton, Princeton University Press, 1986; L. Handlin, O. Handlin, Who Read John Locke? Words and Acts in the American Revolution, in «American Scholar», LVIII (1989), pp. 545-556; L.G. Schwoerer, Locke, Lockean Ideas, and the Glorious Revolution, in «Journal of the History of Ideas», LI (1990), pp. 531-548; S. Dworetz, The Unvarnished Doctrine. Locke, Liberalism and the American Revolution, Durham, Duke University Press, 1990; E.J. Harpham (ed.), John Locke's Two Treatises': New Interpretations, Lawrence, University Press of Kansas, 1992; G.A.J. Rogers (ed.), Locke's Philosophy: Content and Context, Oxford, Oxford University Press, 1994; J. Marshall, John Locke. Resistance, Religion and Responsibility, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.
[44] Works cit., II, pp. 251-255. La pars costruens di Hoadly s'intitolava significativamente A Defense of Mr. Hooker's Judgement, Concerning the Original, and Nature, of Civil Government.
[45] Ibid., I, p. 129. Per un analogo ragionamento cfr. anche le Measures of Submission del 1706 (II, p. 62).
[46] Ibid., II, pp. 192-193, 199-200. Cfr. Locke, Two Treatises of Government, I, §§ 44-49. Sulla centralità del quarto comandamento nella cultura politica anglicana dell'età della Restaurazione cfr. H.T. Dickinson, Liberty and Property. Political Ideology in Eighteenth Century Britain, Methuen, London, 1977, p. 19.
[47] Works cit., II, pp. 260-263. Per Locke, Two Treatises of Government, §§ 13, 20, gli esempi di Caino e di Noè dimostrano che ogni individuo è naturalmente titolare del «potere esecutivo della legge di natura», che entrando nella società politica gli uomini delegano ai loro governanti, senza però mai cederlo definitivamente, e anzi riappropriandosene se il re, con la sua condotta scellerata, dissolve l'ordine legittimo.
[48] Works, I, p. 162.
[49] Two Treatises of Government, II, §§ 14, 102. Locke basava le sue osservazioni sugli amerindi sulla prima parte dei Comentarios Reales di Garcilaso de la Vega.
[50] Ibid., § 4. Sullo stato di natura nel pensiero di Locke cfr. H. Aarsleff, The State of Nature and the Nature of Man in Locke, in J.W. Yolton (ed.) John Locke cit., pp. 99-136. Per il modello giusnaturalistico lockiano, oltre all'importante lavoro di J. Dunn, The Political Thought of John Locke: An Historical Account of the Argument of the «Two Treatises of Government», Cambridge, Cambridge Univerisity Press, 1969, e ai vecchi studi di R. Singh, John Locke and the Theory of Natural Law, in «Political Studies», IX (1961), pp. 105-118, e M. Seliger, Locke's Natural Law and the Foundation of Politics, in «Journal of the History of Ideas», XXIV (1963), pp. 337-354, cfr. anche la suggestiva analisi di J. Simmons, The Lockean Theory of Rights, Princeton, Princeton University Press, 1992. Per un quadro delle concezioni giusnaturalistiche dell'Età moderna cfr. R. Tuck, Natural Rights Theories: their Origin and Development, Cambridge, Cambridge University Press, 1979.
[51] Works cit., II, p. 62.
[52] J.P. Kenyon, Revolution Principles cit., pp. 116-117.
[53] Lettera a Joseph Kelly, 13 aprile 1710, in The Letters of Joseph Addison, Oxford, Clarendon Press, 1941, p. 211.
[54] An., Mr. Hoadly's Measures of Submission to the Magistrate Enquired into, and Disprov'd, London, Printed for R. Smith and W. Taylor, 1711, preface, s. p. Secondo C. Leslie, The Best Answer Ever was Made. And to which no Answer ever will be Made, London, Printed and Sold by the Booksellers of London and Westminster, [1709], p. 22, la dottrina del sermone sulla Lettera ai Romani aveva una chiara ascendenza deista, per via di quell'appello al diritto di legittima difesa che secondo lo scrittore non-giurante era un elemento caratteristico dei Rights of the Christian Church Asserted di Matthew Tindal. Nella polemica sulle origini del governo civile Leslie pubblicò anche, entrambi anonimamente, Best of All. Being the Student's Thanks to Mr. Hoadly, London, Printed and Sold by the Booksellers of London and Westminster, 1709, e The Finishing Stroke. Being a Vindication of the Patriarchal Scheme of Government, London, Printed and Sold by the Booksellers of London and Westminster, 1711. Per la replica del clero più tradizionalista al sermone del 1705 cfr. inoltre An., The Plea of Publick Good not Sufficient to Justifie the Taking up Arms against our Rightful and Lawful Sovereigns, London, Sold by the Booksellers of London and Westminster, 1706; F. Atterbury, An Enquiry into the Nature of the Liberty of the Subject, and of Subjection to the Supreme Powers, London, Printed for J. Nutt, 1706; [J. Haslewood], St. Paul, no Mover of Sedition: or, a Brief Vindication of that Apostle, from the False and Disingenous Exposition of Mr. Hoadly, London, Printed 1706; [W. Oldisworth], A Vindication of the Right Reverend the Lord Bishop of Exeter, London, Printed for A. Baldwin, 1709; [L. Milbourne], Tom of Bedlam's Answer to his Brother Ben Hoadly, St. Peter's Poor Parson, near the Exchange of Principals, London, Printed for T. King, 1709; An., The Revolution no Rebellion: or, Serious Reflections Offered to the Reverend Benjamin Hoadly, London, Printed for J. Bowyer, 1709; An., A Letter of Advice, Presented to Mr. Hoadly, with Abundance of that Modern Sort of Humility, for which his own Writings are Remarkable, London, Printed for J. Bowyer, 1709; An., Jura regiae majestatis in Anglia: or, the Rights of the English Monarchy, London, Printed in the Year 1711.
[55] J. Withers, The History of Resistance, as Practis'd by the Church of England, London, Printed for R. Robinson, 1715 [1710], p. 17.
[56] F. Squire, A Treatise Concerning the Supremacy of the Civil Magistrate, Exford, Printed by G. Bishop for J. March and Sold by J. Roberts, London, 1717, pp. 4-9.
[57] G. Burnet, A Vindication of the Authority, Constitution, and Laws of the Church and State of Scotland, Glasgow, Printed by R. Sanders, 1673, p. 68. Per l'episodio di Compton cfr. E. Calamy, An Historical Account of my own Life, London, Colburn & Bentley, 1829, II, p. 40.