La Chiesa d'Inghilterra nel secolo dei Giorgi.
Le prospettive culturali e gli studi storici dall'Ottocento a oggi

Guglielmo Sanna

I. L'interpretazione liberale

II. La prospettiva dei tractarians

III. Da Sykes ai revisionisti


I. L'interpretazione liberale

1.Solo in questi ultimi due decenni gli storici dell'Inghilterra del Settecento si sono massicciamente dedicati allo studio della Chiesa nazionale, del suo magistero politico, delle sue articolazioni sociali ed economiche e dei suoi complessi rapporti con l'establishment giorgiano e con le numerose minoranze dissidenti. Prima dei lavori di Daniel Hirschberg, Frederick Mather, Jonathan Clark, Stephen Taylor e William Gibson, in effetti, la Chiesa inglese era rimasta ai margini delle ricerche sul periodo hannoveriano. In realtà non tutto il campo della storia anglicana settecentesca era privo di adeguate trattazioni, e del resto secondo una interpretazione consolidata le avventure dell'illuminismo avevano tratto un impulso decisivo dal fermento cultural-religioso dell'Inghilterra dell'età della restaurazione e del regno guglielmino. Ma l'attenzione si concentrava prevalentemente sui temi dell'anti-conformismo e della tolleranza, della teologia razionale, del deismo e del libero pensiero, da sempre al centro dell'interesse degli studiosi anglo-americani. Il ruolo della Chiesa nazionale restava invece in ombra. Eppure quella Chiesa incoronava i re e arringava i parlamenti; egemonizzava le università e condizionava l'accesso ai diversi gradi della vita pubblica; suscitava rispetto e timore e raccoglieva intorno ai suoi altari la quasi totalità della popolazione. Come ha scritto Jonathan Clark nella sua stimolante, seppur controversa rilettura della società inglese nel XVIII secolo, che fu pubblicata la prima volta nel 1985,

"L'istituzione statale con cui [l'individuo] nella vita di ogni giorno doveva fare i conti non era [certo] il parlamento, che non si proponeva ancora come uno strumento di democrazia [...]. Le elezioni erano sporadiche, l'effettivo esercizio del voto ancora meno frequente; il numero di coloro che votavano era assai ristretto, e gli elettori non entravano quasi mai in contatto con i propri deputati. La [vera], onnipresente agenzia dello Stato era la Chiesa d'Inghilterra, che si estendeva nel paese con le sue [ben] diecimila parrocchie, e costituiva dunque una presenza assai più capillare [della fragile organizzazione parlamentare fondata su] poche centinaia di collegi elettorali. Era la Chiesa nazionale che rispondeva ai bisogni primari della popolazione. La Chiesa, che poteva contare sul suo esercito di intellettuali con la tonaca, lottava per mantenere il monopolio dell'istruzione, della carità e di tutto ciò che si poteva ritenere politicamente rispettabile"[1].

2. Ciononostante, fino a pochi decenni fa, la storia della Chiesa d'Inghilterra restava appannaggio di pochi, isolati specialisti. Si trattava per lo più di voci dall'interno, di ecclesiastici anglicani che si cimentavano con una tradizione complessa e insieme con un futuro denso di incertezze in una società sempre più secolarizzata nelle idee e nei costumi. Non sorprende pertanto che le loro ricerche avessero un impatto estremamente limitato, e d'altra parte i loro sforzi privilegiavano il genere biografico. Quel paziente scavo di fonti parrocchiali e diocesane molto spesso dimenticate incrementava in notevole misura l'esiguo patrimonio delle conoscenze storiche. Dal complesso delle biografie di diversi illustri personaggi della vita ecclesiastica inglese del Sei-Settecento non scaturiva però un quadro generale coeso ed efficace. Forse è anche per questo che gli studi sull'Inghilterra del XVIII secolo hanno ignorato per così tanto tempo l'importante universo della Chiesa nazionale; forse è anche per questo che nel mondo britannico la storia anglicana è rimasta così a lungo confinata all'interno dei seminari e delle facoltà di teologia.

In realtà la storia della Chiesa d'Inghilterra era stata trascurata per effetto di un più articolato intreccio di fattori. Vi era innanzitutto la schiacciante priorità tradizionalmente accordata dagli studiosi alle problematiche classiche del filone liberale inglese. Come spiegava John Plumb all'inizio degli anni ottanta nella introduzione ai volumi della Penguin Social History of Britain:

"Nel XIX secolo tutte le nazioni d'Europa e d'America s'interrogavano sulle rispettive origini, nel bisogno di forgiare un passato [...] che desse un senso sia al presente sia al futuro [...]. L'identità britannica sembrava inesorabilmente intrecciata allo sviluppo dei diritti costituzionali, della libertà e della democrazia. Non sorprende pertanto che così tanti storici [di lingua inglese] si siano concentrati [...] sulle tematiche costituzionalistiche, giuridiche e politiche, e che queste problematiche avessero dominato i testi universitari dacché essi avevano fatto la loro comparsa alla fine dell'Ottocento"[2].

La cultura liberale di estrazione vittoriana aveva cioè relegato in secondo piano le problematiche religiose ed ecclesiastiche. Solo le minoranze dissidenti sembravano trovare posto in un quadro storiografico che esaltava il Toleration Act del 1689 come matrice del moderno pluralismo democratico. Ma in una griglia interpretativa positivisticamente dominata dall'attenzione per le dinamiche politico-istituzionali ben poco spazio rimaneva per lo studio dei catechismi anglicani, delle omelìe o delle pratiche devozionali. E la prospettiva economico-sociale degli storici marxisti, sullo sfondo delle grandi tensioni ideali degli anni sessanta e settanta del Novecento, contribuiva a rendere quello spazio ancora più ristretto. Su un punto infatti la storiografia marxista e gli studiosi liberali erano d'accordo: l'Inghilterra costituiva un caso unico in Europa; la Riforma di Enrico VIII, una fredda operazione giuridica, l'aveva precocemente secolarizzata, mentre la smilitarizzazione della grande aristocrazia e la parallela ascesa della gentry avevano sconfitto sul nascere ogni esperimento assolutistico. Dopo tutto, affermavano gli studiosi di entrambi gli orientamenti culturali, la dottrina barocca del diritto divino dei re non aveva mai messo radici su quella sponda della Manica. Perfino il principio monarchico-ereditario, dopo la cacciata di Giacomo II Stuart, e soprattutto con la successione al trono degli Hannover, non era più tanto plausibile. Già agli inizi del Settecento, secondo le interpretazioni più accreditate, i ceti mercantili britannici detenevano significative quote di potere politico, mentre la Chiesa d'Inghilterra si macerava nella corruzione e nell'oblìo.

3. In particolare i vescovi dell'età giorgiana venivano presentati come il segno più tangibile di una vera e propria resa alla secolarizzazione dell'epoca dei Lumi. L'episcopato inglese era descritto come una presenza simbolica nella vita religiosa delle diocesi: dopo la Gloriosa Rivoluzione il parlamento si era di fatto trasformato in un organismo permanente, e anche i vescovi, che ne erano parte integrante, avevano dovuto adattarsi alla nuova situazione, trasferendosi per lunghi mesi nella capitale e trascurando così i loro doveri pastorali. Come osservava John Plumb nella sua England in the Eighteenth Century,

"I vescovi diventarono anzitutto uomini politici, e gli uomini politici sono raramente uomini pii. Nel Settecento i dignitari ecclesiastici erano animati da una mondanità, si direbbe quasi da una venalità, che nessuno sforzo apologetico potrebbe mai nascondere. Agli uffici episcopali della visita pastorale, dell'ordinazione e della cresima si adempiva ormai solo quando le incombenze dell'attività politica lo consentivano"[3].

In un contesto storiografico che rappresentava il mondo settecentesco come una moderna società del capitale e dei consumi, la Chiesa d'Inghilterra appariva insomma una mera dispensatrice di pensioni e di carriere. Rimarcava ancora Plumb:

"Sempre di più la vita ecclesiastica attraeva i cadetti della grande aristocrazia e della piccola nobiltà dei gentiluomini. Per consentirgli di mettere insieme un reddito all'altezza del loro rango, l'assenteismo veniva tollerato e il cumulo [dei benefici e delle prebende] incoraggiato [...]. La via del successo imponeva tatto e condiscendenza, e [così] le virtù terrene presero il posto delle doti spirituali"[4].

Si trattava di un giudizio che continuava a rispecchiare a distanza di tanto tempo l'accesa indole anti-clericale del radicalismo whig ottocentesco. In effetti opere come il caustico Black Book di John Wade, pubblicato per la prima volta nel 1821 e uscito in diverse altre edizioni fino al 1832, l'anno del grande Reform Act, ebbero un ruolo importantissimo nella genesi della cultura liberale d'oltremanica. Fu proprio l'energica domanda di rinnovamento politico-sociale che era stata a lungo repressa dallo spauracchio della rivoluzione francese, e che si scatenò improvvisamente nelle isole britanniche all'indomani delle guerre dell'età napoleonica, a ispirare le più fosche leggende sulla Chiesa d'Inghilterra e sul suo clero. L'universo ecclesiastico georgiano, gridavano i critici delle vecchie istituzioni hannoveriane, esibiva un desolante panorama di vizi e di marciume. A dire il vero negli anni venti dell'Ottocento il nascente mito della "old corruption" minava anche gli altri due pilastri dell'antico regime inglese, la corona e l'aristocrazia. Fatalmente l'istanza riformatrice spingeva a bollare con un marchio di infamia tutto ciò che aveva preceduto quella nuova stagione così travagliata eppure così ricca di promesse. Ma per i critici del calibro dell'anti-trinitario Wade i mali della vecchia società si annidavano soprattutto nella Chiesa nazionale, un ingordo parassita che gravava sulle spalle dei ceti produttivi senza offrire nulla in cambio.

4. La Chiesa d'Inghilterra, scriveva l'autore del Black Book, si era impadronita di gigantesche fortune, che poche famiglie avevano accentrato nelle loro mani attraverso il cumulo dei benefici (perfino di quelli con cura d'anime) e insieme attraverso uno smaccato, arrogante nepotismo. Wade puntava l'indice ad esempio contro Edward Sparke, il vescovo di Chester e poi di Ely che dopo tanti anni di oscuri intrighi si era ritrovato a capo di un autentico impero familiare, dall'esorbitante rendita annua di circa 40.000 sterline - così la stimava il Black Book, in uno slancio polemico fondato per la verità su dati molto dubbi -. Per Wade l'establishment anglicano era addirittura peggiore della Chiesa di Roma, che in termini di disciplina ecclesiastica e di formazione del personale religioso aveva tratto grande vantaggio dai deliberati del concilio tridentino. In Inghilterra, denunciava il fustigatore del clero d'oltremanica, solo le conventicole anti-conformiste potevano soddisfare il bisogno di edificazione morale, e al contempo garantire una istruzione al passo con i tempi[5].

A ben vedere il Black Book non raccontava niente di veramente nuovo. Da tempo anche nelle isole britanniche avevano iniziato a circolare torbide storie di parroci rapaci, versati nella lucrosa arte di circonvenire gli incapaci e i moribondi e dediti più a insidiare le figlie delle perpetue che a leggere la Bibbia o ad assistere le anime. In fin dei conti lo stesso clero inglese avvertiva la presenza nelle proprie fila di estese sacche di negligenza e di ignoranza, e diversi esponenti delle gerarchie anglicane segnalavano l'annoso problema del cumulo degli uffici sacri e della iniqua distribuzione delle rendite ecclesiastiche. Già nel 1671 il religioso anglicano John Eachard aveva lamentato:

"Tutto ciò [...] che al giorno d'oggi rovina la reputazione del nostro clero può essere imputato a due cause molto semplici: l'ignoranza di alcuni e la povertà di altri"[6].

Ma negli anni venti dell'Ottocento, quando la fine della guerra contro la Francia napoleonica aveva riportato i temi della vita politica interna al centro della pubblica attenzione, quelle vecchie denuncie, allora massicciamente riprese da accreditati periodici come il "British Critic" o il "Christian Remembrancer", l'"Observer" o la "Westminster Review", si intrecciavano alla martellante campagna per la riforma della costituzione, acquisendo così una dirompente e inedita vitalità. L'insorgente cultura liberale condannava senza appello i ritardi e le manchevolezze della Chiesa hannoveriana. E quando nel 1849 apparvero i primi volumi della History of England del grande statista whig Thomas Babington Macaulay, quella dura condanna si ritagliò un ruolo decisivo nella interpretazione del passato storico britannico e parallelamente nello sviluppo della coscienza nazionale inglese[7].

II. La prospettiva dei tractarians

5. Il ritardo nelle ricerche sulla storia della Chiesa anglicana nel Settecento è dunque connesso all'ondata di accuse che si riversò sull'establishment religioso d'oltremanica nell'ultima fase dell'antico regime hannoveriano. Sarebbe tuttavia fuorviante focalizzare l'attenzione esclusivamente sullo spirito anti-clericale del liberalismo ottocentesco. Se l'immagine della Chiesa d'Inghilterra nel Settecento ci è a lungo apparsa in una prospettiva così drasticamente e univocamente negativa, il motivo va ricercato anche nelle dure polemiche che divisero gli ambienti ecclesiastici anglicani a partire dal 1815.

In effetti nell'età delle riforme anche molti autorevoli prelati, nel tentativo di richiamare l'attenzione del re e del parlamento sui molteplici problemi che affliggevano la Chiesa nazionale, avevano finito per ribadire il punto di vista dei critici delle istituzioni ecclesiastiche dell'età giorgiana. Ovviamente ben pochi religiosi intendevano fare lega con i nemici della costituzione protestante. Il bisogno di argomentare la sua richiesta di aiuto spingeva tuttavia una parte del clero anglicano ad asserire che la situazione era forse anche peggiore di come da più parti ormai la si dipingeva. Così le prime riforme in materia ecclesiastica passavano sotto silenzio: sdegnosamente le accorate penne di Richard Yates e di Edward Berens denunciavano lo stato di abbandono di numerosi edifici religiosi, trascurando però di rammentare che l'Act for the Building of Churches del 1818 aveva già segnato una importante inversione di rotta nella politica della monarchia britannica riguardo ai luoghi di culto. Parimenti la critica di Yates e di Berens ai metodi di selezione delle alte gerarchie anglicane e ai criteri di assegnazione dei benefici e delle relative rendite non teneva nel dovuto conto le significative novità introdotte dal ministro Liverpool in materia di patronato ecclesiastico subito dopo Waterloo. Il vecchio castello di commende e di sinecure aveva anzi iniziato a crollare ancora prima, con i primi interventi del governo regio contro il cumulo delle cariche ecclesiastiche: sorprendentemente nel 1813 John Parson per diventare vescovo di Peterborough si era visto costretto a lasciare il decanato di Bristol, e nello stesso anno Edward Legge aveva dovuto rimettere ben tre uffici sacri come condizione necessaria per assumere le redini della diocesi di Oxford[8].

6. In quella temperie l'ascesa tra i ranghi episcopali di ben quattro prelati che militavano in fazioni latitudinarie ostili agli ambienti dell'amministrazione regia allora in carica (Charles Blomfield, James Monk, William Howley e William Van Mildert) era la dimostrazione che in alcuni casi anche nella Chiesa d'Inghilterra le virtù spirituali contavano più dei meriti politici. Eppure le denuncie del clero d'oltremanica ebbero un impatto fuori dal comune. Il fatto è che l'ideologia delle riforme stava generando crescenti aspettative: gli ecclesiastici inglesi s'interrogavano disorientati sul loro destino, mentre i contestatori dell'egemonia anglicana vedevano in quell'atto di accusa dall'interno una esplicita ammissione da parte dello stesso clero dei profondi mali che affliggevano la Chiesa nazionale. E in effetti quando la prima Ecclesiastical Commission fu istituita dal parlamento nel giugno del 1832, con il compito di accertare l'estensione della proprietà ecclesiastica e l'entità delle sue rendite, anche per molti religiosi d'oltremanica la Chiesa d'Inghilterra costituiva ormai un colosso inerte, isolato dal resto della società britannica del tempo e ormai a un passo dal crollare rovinosamente[9].

Ma il colpo più incisivo, destinato a incidere in modo durevole sull'immagine della Chiesa inglese del XVIII secolo, doveva arrivare di lì a poco dal movimento dei tractarians, quando sull'onda del romanticismo si affermò a Oxford una nuova sensibilità teologica, caratterizzata dalla riscoperta dell'autorità dei Padri, dalla ripresa della rivelazione come suprema fonte del sapere religioso e soprattutto dalla straordinaria enfasi riposta sul mistero dell'eucarestia. I giovani teologi oxoniensi, sebbene fossero compatti nel rifiutare la tesi della presenza ipostatica che era stata abbracciata tre secoli prima dal concilio tridentino, rivendicavano con fermezza la natura sacrificale del sacramento della cena, secondo quella linea oblazionista che era stata sostenuta dal clero nongiurante all'epoca della Gloriosa Rivoluzione e della successione hannoveriana. Inevitabilmente il loro netto rifiuto dell'interpretazione in chiave commemorativa da sempre propria del clero latitudinario gettava la basi di un formalismo liturgico che esaltava la figura del ministro del culto come unico vero tramite tra Dio e l'uomo. Alla riscoperta del valore della tradizione e all'enfasi sul ruolo sacerdotale la nuova scuola di pensiero aggiungeva poi la convinzione che la Chiesa d'Inghilterra non poteva essere soggetta alle prerogative giurisdizionali della monarchia. Per i tractarians, come tutte le altre Chiese nazionali anche la Chiesa d'Inghilterra era una componente di quella Chiesa universale che era stata istituita da Cristo, e da lui affidata ai vescovi che ne erano per successione apostolica gli unici custodi.

7. Così, quando nel 1833 le camere decisero di riformare l'ordinamento ecclesiastico, riducendo il numero delle diocesi da ventidue a dodici, il movimento teologico di Oxford insorse contro l'autorità civile. Dalle aule universitarie e dai seminari un fiume di libretti inondò il paese, e fu proprio nel vecchio principio della supremazia regia che i teologi oxoniensi individuarono il simbolo più forte di quella decadenza morale e religiosa che sembrava l'eredità del secolo dei Giorgi. Come scriveva John Henry Newman in uno dei primi Tracts for the Times:

"C'è in terra una società visibile, apostolica perché fondata dagli apostoli, cattolica perché si irradia ovunque nel mondo: si tratta della Chiesa [universale], con i suoi vescovi, i suoi preti e suoi diaconi [...]. Non dobbiamo dimenticare da dove deriva, e fin dove si estende, la nostra autorità"[10].

La levata di scudi dei tractarians contro la supremazia regia produsse esiti dirompenti per l'universo protestante inglese. Newman chiamava il clero d'oltremanica a schierarsi con la Chiesa nazionale o con la monarchia, rompendo quella salda unione che era frutto della Riforma di Enrico VIII, e che costituiva in effetti il tratto più caratteristico della complessa identità anglicana.

"Dovete scegliere da che parte stare. Rimanere neutrali equivarrà comunque a prendere posizione [...]. L'astensione non è più possibile in un'epoca tanto tormentata: chi non è con me, è contro di me"[11].

Ben poco ormai teneva insieme le diverse anime della Chiesa d'Inghilterra. Il cemento ideologico del sentimento anti-papista faceva molto meno presa che nella prima metà del Settecento, quando la minaccia giacobita e le lunghe guerre contro la casa di Borbone avevano contribuito ad attutire le polemiche interne all'establishment religioso inglese. Anche il bisogno di fare fronte comune dinanzi allo spettro dell'ateismo e al dilagare del libero pensiero non era più d'attualità. Con l'approdo al cattolicesimo di Newman divenne chiaro a tutti che il movimento di Oxford aveva irrimediabilmente compromesso la coesione degli ambienti ecclesiastici anglicani.

8. Le conseguenze sul dibattito storiografico intorno al periodo hannoveriano furono altrettanto rilevanti. Acutamente in un brillante saggio del 1860 il religioso Mark Pattison paragonava le animose critiche scagliate dai tractarians alle ruvide valutazioni di autori anti-clericali della fama di James Mill o di Thomas Carlyle. Per Pattison, che in gioventù aveva aderito anch'egli al movimento di Oxford, ma che nell'età matura si era spostato sul versante latitudinario della Chiesa d'Inghilterra, la crociata contro la supremazia regia aveva prodotto conseguenze perfino più devastanti del radicalismo anti-clericale dei whigs o delle prese di posizione degli ecclesiastici riformatori come Yates e Berens. Sentenziava infatti Pattison:

"È soprattutto con la nascita del movimento altitudinario che il richiamo alla Chiesa settecentesca assume un valore spregiativo. [Da allora] il vero anglicano preferisce glissare su quel periodo della storia della sua Chiesa. Come Carlo II datava l'inizio del suo regno dalla morte di suo padre, anziché dalla restaurazione, così [il vero anglicano] interrompe la sua catena patrum all'altezza di [Daniel] Waterland e di [Thomas] Brett, per saltare bruscamente al 1833, quando videro la luce i primi Tracts for the Times"[12].

Il misticismo tipico della religiosità romantica ottocentesca non poteva non condizionare un ambito di studi storici in cui gli ecclesiastici dominavano per numero. La storiografia anglicana avrebbe atteso molti anni prima di scrollarsi di dosso questa pesante ipoteca culturale. Ancora nel 1874 il reverendo Christopher Wordsworth etichettava la Chiesa inglese del Settecento come un logoro titano, un gigante sfinito dalle lotte di un'età in cui lo spirito del cristianesimo era parso avvolto dalle tenebre[13]. E quando agli inizi del Novecento il religioso altitudinario William Hutton si scagliò contro i vizi e le manchevolezze del clero di antico regime, il luogo comune della decadenza anglicana nell'età dei Giorgi continuava a regnare incontrastato. Come scriveva Hutton, che aveva studiato a Oxford sotto la guida dell'influente tractarian William Stubbs, "Condanniamo il Settecento come un'epoca di sterili rituali e di servili aspirazioni [...]. Il Settecento è il vuoto quasi assoluto"[14].

D'altra parte quelle critiche dall'interno trovavano ampio riscontro nei giudizi dei circoli intellettuali legati all'anti-conformismo o alle altre forme più o meno radicali di dissenso religioso. Nel 1869, nella sua polemica rassegna dei principali gruppi confessionali settecenteschi, l'evangelico John Ryle si univa al coro dei detrattori delle istituzioni ecclesiastiche del periodo hannoveriano:

"Dal 1700 alla rivoluzione francese l'Inghilterra sembrava tagliata fuori da tutto ciò che di buono vi era allora [al mondo]. Come questo stato di cose abbia potuto determinarsi in un paese di libera lettura della Bibbia e di [convinta] fede protestante, supera quasi l'umana comprensione [...]. Le prove [del declino] sono ahimè tanto numerose che è stato più difficile selezionarle che non reperirle"[15].

9. In effetti nella seconda metà dell'Ottocento quella visione apocalittica non era più monopolio esclusivo degli eredi del movimento dei tractarians, o degli epigoni della rinascita evangelica, o, ancora, dei seguaci della rivolta metodista. La tesi della "old corruption" pervadeva ormai indistintamente tutta la storiografia sulla Chiesa d'Inghilterra nel XVIII secolo. Perfino i moderati Charles Abbey e John Overton, nella loro English Church in the Eighteenth Century del 1878, finivano per attestarsi lungo quella linea. Se da un lato i due ecclesiastici mettevano in evidenza la spinta rigeneratrice della teologia latitudinaria della fine del Seicento, dall'altro rimproveravano alla Gloriosa Rivoluzione di avere posto le basi di un pesante condizionamento politico della Chiesa d'Inghilterra. Il punto era che con la fuga di Giacomo II e con l'ascesa al trono di Guglielmo III il favore regio aveva assunto un ruolo determinante nella selezione delle gerarchie anglicane. In particolare gli intransigenti fautori dell'inderogabilità del principio dell'ereditarietà della corona erano stati puniti con la perdita dei benefici, quando non con la deposizione dalle cariche religiose o addirittura con l'esilio. Per contro il clero filo-orangista era stato ricompensato con posizioni di grande responsabilità, e si era impadronito del collegio episcopale, a prezzo però di una più stretta dipendenza dalla corte. Per Abbey e Overton la cacciata dei refrattari costituiva in effetti un evento-spartiacque nella plurisecolare vicenda della Chiesa inglese. Non soltanto la comunità anglicana era stata privata dei suoi esponenti più colti e rappresentativi, ma i loro successori non avevano esitato ad anteporre le loro ambizioni terrene ai superiori doveri pastorali. In fin dei conti, sentenziavano i due studiosi, solo degli avventurieri senza scrupoli potevano giurare fedeltà al nuovo sovrano senza che il vecchio fosse ancora morto, o avesse realmente abdicato. Osservavano Abbey e Overton:

"La Chiesa [settecentesca] partecipava dello squallore morale del tempo. Era un'epoca di grande prosperità economica ma di povertà spirituale come si fatica a trovarne altre nella nostra storia".

Il Settecento appariva insomma un'epoca di scarsa pratica evangelica, una parentesi buia nella storia della Chiesa inglese, la cui causa principale veniva colta nell'asservimento dell'episcopato nazionale agli interessi della monarchia. L'opera di Abbey e Overton esercitò un influsso profondo sull'interpretazione della storia anglicana fino alla comparsa dei fondamentali studi di Norman Sykes tra le due guerre mondiali. Soltanto allora si sarebbe fatta strada la consapevolezza che quella pessimistica lettura rispondeva in realtà al bisogno del clero vittoriano di prendere le distanze da un passato ormai profondamente intorbidato[16].

10. Così anche la riscoperta del calo dei battesimi anglicani nel periodo dell'industrializzazione spingeva il clero ottocentesco a rimarcare i difetti della Chiesa hannoveriana, come se l'incrinarsi dell'antica egemonia sociale fosse diretta conseguenza della Gloriosa Rivoluzione, e non invece il risultato di un più complesso intreccio di fattori, primo fra tutti la crescita delle nuove aree urbane, roccaforti degli anti-conformisti. Nel 1887 Abbey rincarò la dose in una importante opera sui vescovi dell'età dei Giorgi:

"Con quanta flemma, e insieme con quanta evidenza, il collegio episcopale del tempo perse ogni decoro, crollando nella stima della popolazione!"

Rispetto alla English Church in the Eighteenth Century scritta qualche anno prima insieme con Overton, il fulcro dell'attenzione si spostava però dalla Gloriosa Rivoluzione all'avvento al trono di Giorgio I. Abbey spiegava adesso che era stato soprattutto con l'arrivo dei re tedeschi che la Chiesa d'Inghilterra aveva iniziato a decadere. In quest'ottica l'episcopato di Maria e di Anna veniva elogiato ancora come irreprensibile difensore della fede nazionale. Ma con l'avvento della nuova dinastia, il quadro era mutato: non soltanto Giorgio I era appena quarantottesimo nella linea di successione al trono inglese, ma diversamente dalle due regine, entrambe anglicane, era per giunta un convinto luterano. Non tutta la Chiesa d'Inghilterra lo aveva accolto con favore, sicché l'immediato profilarsi negli ambienti ecclesiastici di un tenace sentimento giacobita aveva imposto alla corte di scegliere i nuovi vertici anglicani secondo un ordine di priorità in cui la lealtà politica veniva prima delle doti spirituali.

"L'insidiosa avanzata dell'apatìa nella Chiesa d'Inghilterra sarebbe stata combattuta se i suoi vertici fossero stati scelti per le qualità che più s'addicono a un vescovo"[17].

Abbey rimpiangeva la generazione di Barlow e Sharpe, di Bull e Beveridge, di Compton e Stillingfleet. Quelle figure incarnavano la stagione aurea della Chiesa d'Inghilterra, quando all'indomani dell'Act of Uniformity del 1662 i puritani erano stati espulsi dell'establishment religioso nazionale e le diverse anime anglicane non si erano ancora trasformate nei partiti dinastico-confessionali del periodo della Gloriosa Rivoluzione e della successione hannoveriana. D'altra parte l'età della Restaurazione si era ormai configurata come un vero e proprio mito per il clero inglese, che la considerava il momento di massimo splendore nella storia della propria Chiesa. Il confronto con l'episcopato della seconda metà del Seicento non era dunque casuale: in quella prospettiva, il sentimento di condanna che aveva travolto le istituzioni ecclesiastiche inglesi negli anni del primo Reform Act poteva essere fatto risalire addirittura agli inizi del secolo dei Giorgi. Ancora alla fine dell'Ottocento gli ecclesiastici anglicani apparivano disorientati dalle massicce riforme di più di cinquant'anni prima, e del resto per la sua opera del 1887 Abbey attingeva a piene mani da quelle Lives of the Bishops di Stephen Hyde Cassan che avevano iniziato a uscire negli anni venti del XIX secolo, proprio nella fase culminante del processo di smantellamento della vecchia costituzione protestante. Fin dal loro primo apparire i repertori biografici del reverendo Cassan erano diventati un riferimento indispensabile per chiunque intendesse misurarsi con la storia della Chiesa d'Inghilterra. I capitoli sul Settecento, però, non potevano non risentire del disagio di uno studioso che stava assistendo con apprensione all'abbattimento dell'ultimo baluardo del privilegio anglicano che cadde con l'emancipazione dei cattolici nel 1829. Per Cassan, anche quell'ennesima disfatta era imputabile al lassismo e all'erastianesimo dei vescovi hannoveriani[18].

11. La storiografia anglicana ottocentesca, insomma, non era riuscita a guardare con distacco alle vicende religiose ed ecclesiastiche del secolo dei Lumi. La ferita delle riforme del parlamento era ancora aperta, a ricordo di quell'alleanza tra i vescovi erastiani e la monarchia che secondo l'ottica altitudinaria aveva portato la Chiesa d'Inghilterra a un passo dal baratro del disestablishment. Nel 1869 il disconoscimento della Chiesa irlandese da parte dell'autorità civile ammoniva gli anglicani a tenere alta la guardia in difesa di una istituzione religiosa che aveva ormai perso ogni privilegio politico, ma che conservava pur sempre la condizione giuridica di Chiesa nazionale. Non sorprende, pertanto, che il clero nongiurante dell'età della Gloriosa Rivoluzione venisse additato come esempio di virtù cristiana da molti studiosi ottocenteschi, giacché in quel delicato frangente l'ideale apostolico degli ecclesiastici refrattari degli inizi del Settecento sembrava il migliore antidoto contro i pericoli della incombente secolarizzazione[19].

Eppure nella stagione guglielmina la rivendicazione dell'autonomia della Chiesa nazionale dal potere regio si era fondata su argomentazioni di carattere dinastico-confessionale ben diverse dalle inquietudini culturali e religiose dell'età della riforme e del periodo vittoriano. In questo senso le critiche dei nongiuranti devono essere interpretate più come un manifesto politico che come un vero sintomo di crisi delle istituzioni ecclesiastiche anglicane. Basti pensare che perfino Gilbert Burnet, il celebre prelato whig fervente paladino di Guglielmo III, ebbe parole infuocate per la Chiesa d'Inghilterra del suo tempo. Nel Discourse of the Pastoral Care, apparso nel 1692 con dedica a Maria II, "protettrice della fede", l'illustre vescovo latitudinario non soltanto dipingeva il clero inglese in modo estremamente sfavorevole, ma affinché i difetti della Chiesa nazionale risultassero per contrasto ancora più evidenti, si lanciava in un autentico elogio delle virtù dei parroci cattolici.

Ovviamente sul piano dottrinario Burnet ribadiva con fermezza il punto di vista protestante sul concilio di Trento, che a suo giudizio si era spinto talmente oltre i confini stabiliti dai primi secoli cristiani, da escludere per sempre ogni ipotesi di riappacificazione con l'anglicanesimo. Nell'ambito disciplinare, però, le riforme conciliari costituivano un esempio da seguire. Come raccontava il vescovo di Salisbury,

"I loro parroci sono un'altra sorta d'uomini: conoscono a fondo la loro religione, conducono vite ordinate e adempiono ai loro doveri con la più stupefacente diligenza. Oltre a dire la messa ogni giorno insieme alle altre pubbliche funzioni, si prodigano continuamente nei più diversi campi della loro missione pastorale, istruendo i giovani, confessando i peccatori e visitando i malati. In aggiunta a tutto ciò, non derogano mai all'obbligo del breviario. In quei paesi non si sente più parlare di non-residenza, né di cumulo dei benefici"[20].

12. E tuttavia l'obiettivo del Discourse non era tanto mettere sotto accusa la Chiesa d'Inghilterra, quanto piuttosto convincere le autorità del regno a dotarla di leggi più aggiornate. I canoni anglicani risalivano addirittura al 1603, e la nuova situazione che si era determinata con la fuga di Giacomo II e con l'ascesa al trono di Guglielmo III li rendeva particolarmente obsoleti, soprattutto nelle parti riguardanti il rapporto con la monarchia. In effetti il vescovo di Salisbury non aveva dubbi sulla superiorità del protestantesimo. Prima della Gloriosa Rivoluzione aveva difeso la Riforma enriciana dagli attacchi di Bellarmino, di Maimbourg e di Le Grand; dopo il 1688 si era scagliato contro la Histoire des variations des eglises protestantes di Bossuet; e quando la diatriba con Roma aveva raggiunto temperature incandescenti, non aveva esitato un solo istante a bollare gli ecclesiastici cattolici di ignoranza, di arretratezza e di disonestà. In un soggiorno partenopeo del 1687 Burnet aveva assistito alla liquefazione del sangue di S. Gennaro, che gli era sembrato la conferma più evidente dell'oscurantismo papista: si trattava, aveva scritto poi, di un mero "succo colorato", che veniva fatto ghiacciare in una teca e che, debitamente esposto all'aria, ritornava subito allo stato originario, dando così l'illusione del miracolo[21].

Forse Burnet ammirava davvero la riforma disciplinare del concilio tridentino. Di sicuro, però, non reputava la Chiesa d'Inghilterra più corrotta della Chiesa di Roma, né riteneva l'episcopato guglielmino colpevole di particolari negligenze, o prigioniero di un patto scellerato con la monarchia. Ciononostante dalla prospettiva ottocentesca ogni voce critica sugli ambienti ecclesiastici inglesi dell'età della Gloriosa Rivoluzione diventava la riprova di un inarrestabile declino. Le storie diocesane pubblicate negli anni ottanta e novanta del XIX secolo per iniziativa della Society for the Propagation of the Christian Knowledge segnano il culmine di questa interpretazione radicalmente negativa. Per la cultura anglicana il Settecento costituiva ormai un'epoca di degrado della vita religiosa, un vero scheletro nell'armadio, da nascondere accuratamente, o da mostrare come ammonimento per le generazioni successive.

13. Trionfalmente gli ecclesiastici John Overton e Frederic Relton nella loro English Church from the Accession of George I to the End of the Eighteenth Century del 1906 annunciavano il superamento dei vecchi pregiudizi sull'età dei Giorgi:

"Sono finiti i tempi in cui il periodo compreso tra la morte di Anna e la fine del Settecento, o, più avanti ancora, gli esordi del movimento di Oxford, veniva sostanzialmente ritenuto una pagina vuota nella storia della Chiesa inglese. Ci siamo finalmente accorti che l'età che produsse ecclesiastici del valore di Joseph Butler e Samuel Johnson, di William Wilbeforce e William Stevens, è un'età che merita di essere studiata".

Ma era solo un falso allarme. Overton e Relton preferivano lasciare un solco tra sé e il periodo buio della Chiesa nazionale.

"In effetti chi ama la Chiesa d'Inghilterra non può accostarsi [al periodo hannoveriano] senza arrossire. Si tratta di un'epoca [...] di letargo, più che di operosità; di frivolezze, più che di spiritualità; di egoismo, più che di amore per il prossimo"[22].

Il nuovo secolo si era aperto sotto una vecchia luce. Come Overton e Relton, anche Alfred Plummer nella sua Church of England in the Eighteenth Century apparsa nel 1910 riteneva esagerato il quadro tradizionale che raffigurava il Settecento come un'epoca in cui il clero era ignorante e i vescovi facevano carriera esclusivamente per meriti politici. Come Overton e Relton, anche Plummer si dichiarava però dell'opinione che la storia della Chiesa inglese [nel periodo hannoveriano] era il racconto di una "continua, penosa decadenza"[23]. E in effetti per entrambe quelle opere il simbolo indiscusso dell'anglicanesimo settecentesco era sempre Benjamin Hoadly, il prelato whig che a causa di una grave menomazione fisica non adempiva regolarmente ai suoi doveri pastorali, ma che grazie ai numerosi servigi resi a Giorgio I aveva rapidamente conquistato le diocesi più ricche e prestigiose.

III. Da Sykes ai revisionisti

14. Bisogna attendere gli anni trenta del Novecento per assistere a un primo tentativo di reinterpretazione delle vicende della Chiesa anglicana nel periodo hannoveriano. In realtà, già alla vigilia della prima guerra mondiale due opere isolate erano sembrate discostarsi dalla leggenda nera che era si formata nella scia dal movimento dei tractarians. Nella sua English Church Life from the Restoration to the Tractarian Movement del 1914, John Wickham Legg aveva denunciato i limiti della vecchia prospettiva storiografia dominata dalle sensibilità politico-religiose del romanticismo, e la scelta di far iniziare il suo lavoro dalla restaurazione del 1660 anziché dalla rivoluzione del 1688 era davvero emblematica della volontà di liberarsi degli schemi culturali ereditati dal clero ottocentesco. In quest'ottica, in effetti, la Chiesa hannoveriana appariva più la continuazione della Chiesa carolina che non il suo rovesciamento, in un quadro originale che se da un lato finiva per mettere in ombra i nuovi fermenti religiosi del secolo dei Lumi, dall'altro allontanava l'età della Gloriosa Rivoluzione dalla stagione delle riforme costituzionali[24].

Anche Aldred Rowden, nel suo volume sui vescovi giorgiani del 1916, affermava il bisogno di prendere le distanze dai giudizi radicalmente negativi dell'epoca vittoriana[25]. E tuttavia nel travagliato contesto della prima guerra mondiale sia l'innovativo affresco di Wickham Legg, sia le scrupolose raccolte biografiche di Rowden passarono praticamente inosservati. In effetti, fu soltanto nel 1934 con l'apparizione del fondamentale studio di Norman Sykes sulla Chiesa inglese nel Settecento che il vecchio modello interpretativo ricevette il primo energico scossone. Come Sykes rimarcava nelle pagine iniziali del suo libro,

"La storia della Chiesa hannoveriana è uscita assai malconcia dalle mani dei protagonisti del revival altitudinario, il cui zelo [...] ha prodotto una autentica vulgata [...] sul periodo anteriore al 1833".

Rispetto a Wickham Legg e a Rowden, Sykes poteva avvalersi di una cospicua mole di fonti primarie che erano state riscoperte e talvolta perfino pubblicate negli anni venti del Novecento. Il registro delle visite dell'arcivescovo di Canterbury Thomas Herring o i diari di sconosciuti ministri del culto come James Woodford, Thomas Brockbank, William Cole, John Skinner e William Jones avevano improvvisamente proiettato squarci di luce sulla vita del clero hannoveriano, che finalmente poteva essere riesaminata senza il filtro dell'interpretazione anti-erastiana dei tractarians. A rileggere la storia della Chiesa d'Inghilterra attraverso le testimonianze dell'età dei Giorgi, Sykes ricavava infatti una visione ben diversa dal quadro drasticamente negativo tracciato dai religiosi ottocenteschi.

D'altra parte Sykes invitava a tenere a mente le particolari condizioni in cui il clero d'oltremanica si era trovato a operare dalla fine del Seicento: dal Toleration Act allo scisma nongiurante, dalla scissione metodista alle profonde trasformazioni sociali indotte dall'urbanizzazione e dall'industrializzazione, l'età dei Giorgi era stata un severo banco di prova per la Chiesa inglese, le cui debolezze avevano origine più nei vecchi parlamenti della restaurazione che nel nuovo regime guglielmino. Per Sykes il vecchio mito altitudinario del regno di Carlo II costituiva in effetti una palla al piede dello storico della Chiesa hannoveriana, giacché erano state proprio le decisioni del Parlamento-cavaliere del 1661-79 (in particolare il rifiuto di resuscitare la High Commission e insieme la scelta di adottare i canoni del 1603 anziché quelli del 1640) a indebolire l'establishment religioso nei confronti della monarchia. L'episcopato post-rivoluzionario non poteva pertanto essere accusato di tradimento, e perfino il celebre episodio della sospensione del sinodo di Canterbury, che avvenne per mano di Giorgio I nel 1717, veniva descritto da Sykes come lo stadio finale di un lungo processo di declino delle istituzioni rappresentative anglicane iniziato ben prima del 1688.

15. Parimenti Sykes mostrava come molte delle pratiche ecclesiastiche tanto invise agli autori dei Tracts for the Times fossero radicate nella Chiesa d'Inghilterra fin dal Medioevo. In particolare indicava l'abitudine della non-residenza, che risaliva addirittura all'età dei Plantageneti, quando era consuetudine per i vescovi inglesi trascorrere lunghi periodi a corte come membri della royal household. Così anche il cumulo dei benefici, assai comune tra gli esponenti più illustri di quel clero carolino che i tractarians avevano insistentemente additato come esempio di virtù cristiana. Nel raffronto con le epoche precedenti, alla luce anche dei gravi problemi politici e sociali che erano stati chiamati a fronteggiare, gli ecclesiastici hannoveriani si rivelavano insomma sorprendentemente diligenti nell'amministrazione dei sacramenti e nelle numerose altre funzioni del loro ministero religioso. Per Norman Sykes il Settecento doveva essere messo in bilancio come un periodo sostanzialmente positivo per la Chiesa inglese, che era riuscita a darsi nuovi strumenti di apostolato (come soprattutto le Religious Societies) e insieme a promuovere nuove forme di collaborazione con la monarchia.
Come rilevava lo studioso britannico,

"La trasformazione dei whigs in un partito difensore delle prerogative della Chiesa nazionale [ai tempi di Walpole e di Townshend] è uno degli snodi più importanti nell'Inghilterra della prima metà del Settecento"[26].

Con le sue pioneristiche intuizioni e con il suo stile letterario chiaro e penetrante, l'opera di Sykes rimane ancora oggi un indispensabile punto di partenza per chi si avventura nella storia anglicana del XVIII secolo. E tuttavia Church and State in England in the 18th Century non riuscì a dare una effettiva impronta ai successivi studi sulla Chiesa d'Inghilterra dell'epoca hannoveriana. Nel 1966 Gareth Bennett osservava che Sykes non aveva saputo fondare una vera scuola storiografica, anche perché - suggeriva - i suoi allievi provenivano dalle più diverse confessioni protestanti, sicché il grande studioso si era trovato a guidare numerose ricerche in campi assai lontani da quello a lui più congeniale[27].

Ma se le ricerche di Sykes non rappresentarono quel momento di rottura che i lavori di Namier determinarono invece per la storia politico-istituzionale, il motivo va ricercato anche nel limitato interesse che il tema della Chiesa d'Inghilterra continuava a riscuotere sia nelle università britanniche sia nei campus americani. A ben vedere la storia ecclesiastica restava appannaggio del clero anglicano, o tutt'al più di esponenti della Canterbury House e di altri importanti organismi laici della Chiesa inglese. Inoltre non bisogna dimenticare che al pari di molti altri ecclesiastici d'oltremanica studiosi della Chiesa d'Inghilterra, anche Sykes privilegiava nettamente il genere biografico. In effetti il libro del 1934 era più un manifesto programmatico che un autentico lavoro di scavo, com'erano invece le due fondamentali monografie sul vescovo di Londra Edmund Gibson e sull'arcivescovo di Canterbury William Wake. Non sorprende pertanto che la prospettiva dei tractarians non venisse concretamente intaccata da quei magistrali contributi, anche perché, nell'assenza di un nuovo quadro generale, sia Gibson sia Wake finivano per apparire figure eccezionali, ben poco rappresentative del clero hannoveriano complessivamente inteso[28].

16. Sta di fatto che all'indomani della seconda guerra mondiale la leggenda nera della "old corruption" era ancora in voga, e la riedizione del vecchio studio di Sydney Carter The English Church in the Eighteenth Century da parte della Church Book Room Press nel 1948 ne costituiva il segnale più evidente. Quel libretto era stato pubblicato per la prima volta nel 1910 come "un conciso, elementare profilo delle vicende della Chiesa [inglese] in un secolo così [tristemente] noto per la sua degenerazione morale e per il suo torpore religioso"[29].

A buon diritto pertanto nel 1955, nel suo volume sui parroci anglicani dell'età dei Giorgi, Arthur Hart poteva sostenere che il pregiudizio anti-clericale del radicalismo whig ottocentesco non era stato mai veramente sfatato[30]. Anche Gareth Bennett, nella biografia del vescovo di Peterborough White Kennett, del 1957, non mancava di stigmatizzare la persistente tendenza negli storici della Chiesa hannoveriana a rileggere il passato attraverso le lenti deformanti del movimento dei tractarians[31]. Lo stesso Bennett però, in un articolo sull'episcopato guglielmino pubblicato nel 1966, finiva ancora una volta per indicare nella Gloriosa Rivoluzione il più importante evento-spartiacque nella storia dell'anglicanesimo[32]. Perfino il suo convincente studio del vescovo di Rochester Francis Atterbury, che fu pubblicato nel 1975, si atteneva a quella antica impostazione, giacché se da un lato i conflitti dinastico-confessionali dell'epoca di Anna venivano interpretati acutamente come un sintomo di vitalità della Chiesa d'Inghilterra, dall'altro l'uscita di scena del movimento nongiurante intorno al 1720 seguitava a essere descritta come un duro colpo per l'establishment religioso nazionale, come se il mondo anglicano della prima metà del Settecento coincidesse davvero con la sua componente più tradizionalista[33].

A conti fatti la leggenda della "old corruption" iniziò a incrinarsi soltanto alla fine degli anni settanta del Novecento. Un impulso decisivo in questa direzione provenne nel 1980 dal lungo saggio in cui Daniel Hirschberg riassumeva i risultati della sua tesi di dottorato appena discussa presso la Michigan University negli Stati Uniti. Attraverso una accurata indagine quantitativa, il giovane studioso americano aveva ricostruito una storia sociale dell'episcopato inglese dalla restaurazione monarchica all'ascesa al trono di Giorgio III, delineando un percorso originale che sebbene escludesse la fase drammatica della crisi delle istituzioni hannoveriane, non tralasciava di mettere in evidenza tutti i passaggi cruciali dell'esperienza anglicana tra Sei e Settecento, dal ripristino dell'episcopato nel 1660 alla rivoluzione del 1688, dallo scisma nongiurante del 1689 all'avvento dei re tedeschi nel 1714, fino alle rivolte giacobite del 1715 e del 1745. L'obiettivo dichiarato era comprendere se la Chiesa dell'età dei Giorgi fosse davvero quella mera appendice del potere regio che il movimento dei tractarians aveva indicato come causa principale del degrado della vita religiosa nell'Inghilterra del XVIII secolo.

17. Dall'analisi dei dati emergeva al contrario che la Chiesa nazionale era stata sempre un pilastro autonomo e distinto della costituzione protestante, sia nel periodo guglielmino, sia durante i regni di Giorgio I e di Giorgio II. E del resto ben poche cariche ecclesiastiche risultavano controllate da una unica agenzia politica: come Hirschberg evidenziava, la maggior parte degli uffici sacri erano soggetti a controlli incrociati, che facevano del patronato aristocratico e dell'appoggio del resto del clero due criteri di grande rilevanza per l'ottenimento del favore regio. Insomma i vescovi del periodo hannoveriano non erano semplici burattini nelle mani del sovrano. Al contrario nel Settecento le gerarchie anglicane avevano continuato a formarsi nelle università di Oxford e Cambridge, nei capitoli delle cattedrali e nelle altre tradizionali roccaforti della Chiesa d'Inghilterra. Hirschberg sottolineava inoltre che anche a corte le doti spirituali venivano tenute in grande considerazione dai ministri della corona e dallo stesso re. Perfino Thomas Pelham-Holles, il duca di Newcastle ministro degli affari ecclesiastici di Giorgio II, non appariva più quel cinico manovratore politico che la storiografia ottocentesca aveva sempre condannato come il principale corruttore dell'establishment religioso d'oltremanica. Sentenziava infatti Hirschberg:

"Newcastle era un anglicano devoto, che si faceva vanto di promuovere incessantemente l'armonia [tra il potere regio e l'autorità ecclesiastica]. Da parte loro, le gerarchie anglicane erano consapevoli del suo sincero sentimento religioso [...]. Il duca metteva tutta la sua influenza a disposizione della Chiesa nazionale, e le sue clientele si rivelavano preziosissime ogni qualvolta i canali ufficiali [della vita pubblica britannica] erano insufficienti [a soddisfare le aspettative del clero]"[34].

Nel 1987 la tesi di dottorato di Stephen Taylor discussa nell'università di Cambridge perveniva sostanzialmente alle stesse conclusioni. Anche Taylor dimostrava che l'azione di Newcastle era finalizzata non tanto alla sottomissione del clero alla monarchia, quanto piuttosto al consolidamento dell'antica alleanza fra il trono e l'altare. La Chiesa hannoveriana, spiegava Taylor, aveva compiti e responsabilità molto diversi dalla Chiesa inglese ottocentesca, che si limitava soltanto alla cura delle anime, mentre nel Settecento i doveri del clero nazionale includevano l'istruzione, la carità e perfino - in una fase in cui i vecchi conflitti dinastici non erano ancora completamente sopiti - il catechismo politico. In quest'ottica il potere regio aveva tutto l'interesse a mantenere le gerarchie anglicane in una posizione socialmente dominante. In fin dei conti secondo la mentalità del tempo lo Stato e la Chiesa nazionale non erano entità rigidamente separate: sia per la corte sia per il clero le due sfere erano parti integranti di una medesima comunità cristiana, in cui la felicità terrena doveva necessariamente accompagnarsi alla salute spirituale. Era questa ideale simbiosi che secondo Taylor ispirava Newcastle nell'esercizio del patronato regio sulla Chiesa d'Inghilterra[35].

18. Insomma dalle ricerche di Hirschberg e Taylor il mondo anglicano emergeva come un protagonista indiscusso della storia britannica del Settecento. Era significativo che né Hirschberg né Taylor fossero ecclesiastici anglicani, ed era parimenti indicativo del superamento della vecchia prospettiva altitudinaria il fatto che entrambi facessero leva su nuove metodologie, specialmente la statistica. Ma rispetto al secondo dopoguerra, era sopratutto lo sfondo culturale a essere cambiato. D'altra parte già negli anni sessanta e settanta nel Novecento si era assistito all'impiego di tecniche quantitative da parte di quegli storici americani che si erano dedicati allo studio della Chiesa hannoveriana nella particolare prospettiva della social history. Era ad esempio il caso di Norman Ravitch, che se ne era avvalso massicciamente per la sua analisi comparata della estrazione sociale dei vescovi nella Gran Bretagna e nella Francia del Settecento[36]; era anche il caso di John Pruett, che vi aveva fatto ricorso per la sua indagine sul clero della regione del Leicestershire nel secolo dei Giorgi[37]. Ma dai primi anni ottanta, le nuove prospettive di ricerca potevano esercitare un impatto assai maggiore che in passato.

La vera novità consisteva infatti nella straordinaria importanza che l'aspetto religioso aveva assunto negli studi storici sull'Inghilterra dell'Età moderna. Come osservava Maurice Cowling in un provocatorio scritto apparso nel 1980:

"È dalla religione che la storia dell'Inghilterra moderna dovrebbe cominciare. Che [di norma] non sia così, che [la storia inglese] cominci invece dalla politica, dalla filosofia o dalla letteratura, dalla critica o dall'estetica, dall'economia o dalla pedagogia [...], dimostra la riluttanza degli storici [inglesi] a prendere seriamente in considerazione la cultura di cui sono figli"[38].

In realtà l'elemento religioso non era mai stato trascurato dagli studiosi dell'Inghilterra di Newton e di Locke, di Clarke e di Berkeley. Mentre però fino agli anni sessanta e settanta del Novecento l'attenzione degli storici si era concentrata su alcune specifiche tematiche, che venivano tradizionalmente interpretate come fattori di accelerazione nello sviluppo democratico delle istituzioni politiche britanniche (come ad esempio la tolleranza delle minoranze dissidenti, o le correnti anglicane eterodosse, o, ancora, le frequenti campagne per l'abolizione del Test Act e del Corporation Act), a partire dai primi anni ottanta la storia religiosa sembrava al contrario sovrastare la storia politica.

19. Nel riflusso culturale che caratterizzava gli anni ottanta del Novecento, erano sempre più numerosi i lavori in cui la religione veniva concretamente presentata come il linguaggio fondamentale della vita pubblica nell'Inghilterra sei-settecentesca. Niente riflette questo ribaltamento della prospettiva come il diluvio di opere sul giacobitismo nell'ultimo ventennio. Eveline Cruickshanks, Bruce Lenman, Frank J. McLynn, Paul K. Monod, Daniel Szechi, Jeremy Black, Howard Erskine-Hill, Philip Jenkins e Paul Chapman sono soltanto alcuni degli storici dell'Inghilterra del Settecento che si sono dedicati allo studio dei numerosi gruppi legittimisti che insorsero e si diffusero nelle isole britanniche all'indomani della rivoluzione del 1688. La riscoperta della forza del sentimento filo-stuartista sembrava proprio la riprova dell'assunto sul ruolo centrale della religione nelle dinamiche settecentesche, giacché il movimento giacobita non traeva origine da una istanza politico-istituzionale, bensì da un problema di coscienza, il rifiuto di revocare quel giuramento di fedeltà che i sudditi britannici avevano pronunciato dinnanzi a Dio e che solo la morte di Giacomo II senza eredi diretti poteva sciogliere davvero.

In realtà il giacobitismo era estremamente variegato nelle sue molteplici componenti, e tuttavia la sua considerevole presenza nell'Inghilterra di Giorgio I e di Giorgio II dimostrava il radicamento delle concezioni politiche più tradizionaliste, che individuavano nella monarchia e nella Chiesa nazionale - assai più che nelle assemblee parlamentari, o nelle istituzioni finanziarie - i veri centri di potere dell'antico regime inglese. Come osservava Jonathan Clark già in un articolo del 1988, la riscoperta della forza del giacobitismo ha prodotto un autentico "effetto domino", che ha condotto al superamento del vecchio schema interpretativo tutto incentrato sull'esaltazione della libertà politica e del progresso economico e civile:

"Se la Gloriosa Rivoluzione ha causato un così "gran rifiuto" da parte di così tanti letterati e uomini di cultura del tempo, allora dobbiamo necessariamente dubitare che i valori whig siano davvero la spina dorsale della nostra storia degli ultimi tre secoli [...]. Una rivoluzione che così pochi vollero, e così tanti invece condannarono, o si sforzarono di fare apparire meno traumatica di quanto realmente fu, non s'inquadra bene con il tipo di strutture sociali o di consapevolezze politiche che gli studiosi [d'ispirazione liberale] [...] reputavano l'ovvia conseguenza dei fatti del 1688"[39].

20. L'enfasi sulla importanza del trono e dell'altare negli equilibri istituzionali interni, sulla perdurante sacralità del potere politico e sul carattere elitario di una società le cui articolazioni cetuali sono sembrate più rigide di quanto fino ad allora si fosse ritenuto, ha così impresso alla storiografia anglo-americana dell'ultimo ventennio del Novecento una fisionomia radicalmente innovativa. È difficile sintetizzare in poche righe le molteplici ascendenze culturali di questa vasta revisione storiografica. La crisi dell'idea di modernità ne è di sicuro un elemento, e parimenti il declino delle grandi ideologie del "secolo breve" vi ha largamente contribuito. Ma è anche nello sfiorire "del mito dell'unicità [dell'esperienza dell'Inghilterra moderna]" - come Jeremy Black ha sottolineato in un acuto saggio del 1988 - che occorre ricercare il grembo di gestazione delle tesi dei revisionisti. Lo sfaldamento dell'impero e lo sgretolarsi della fede nella superiorità del protestantesimo sul cattolicesimo avevano già scosso la coscienza nazionale inglese; l'ardua integrazione comunitaria, e insieme l'esplosione dei nazionalismi celtici, hanno acuito il bisogno di una nuova cornice europea entro cui ricostruire le vicende storiche dei regni d'oltremanica[40].

Se le matrici culturali di questa recente tendenza storiografica sono assai complesse, i suoi tratti dominanti sono invece facilmente riassumibili. Da numerosi lavori dell'ultimo ventennio emerge che soltanto la religione può spiegare "dall'interno" i processi storici dell'Inghilterra dell'Età moderna. In quest'ottica sarebbero i contrasti religiosi, e non i conflitti tra corona e parlamento, o la precoce capitalizzazione dell'agricoltura, il vero punto di partenza delle tradizioni antagonistiche britanniche. Il radicalismo e la democrazia, la rivoluzione industriale e la coscienza di classe - puntualizzano polemicamente questi studi - sono fenomeni successivi all'antico regime hannoveriano, che avrebbero pervaso la storia britannica dell'Ottocento e del Novecento, ma che fino a tutto il Settecento erano rimasti assolutamente sconosciuti. I critici del vecchio filone liberale affermano che in Inghilterra perfino l'illuminismo era una appendice del pensiero religioso. Secondo numerose ricerche dell'ultimo ventennio, i filosofi settecenteschi cercavano di riconciliare il nuovo sapere scientifico con gli insegnamenti scritturali; da Butler a Warburton, da Priestley a Paine, la questione morale o il problema dell'anima e del rapporto dell'uomo con Dio e con la natura formavano il nocciolo dei lumi d'oltremanica, sicché la narrazione biblica non poteva non rimanere parte integrante della vita culturale e del dibattito politico[41].

21. Ma è soprattutto sul versante della storia politica e costituzionale che si avvertono maggiormente le conseguenze di questa profonda rivalutazione dell'elemento religioso. Nel suo lavoro del 1985 Jonathan Clark ha offerto un quadro radicalmente differente dalla interpretazione classica ottocentesca, in cui i fattori sociali ed economici esercitano un ruolo secondario rispetto al principale impulso proveniente della religione. L'Inghilterra all'indomani della Gloriosa Rivoluzione è dipinta come un mondo arcaico, una periferia europea in cui dalla quiete delle sue tenute di campagna la grande e piccola nobiltà rurale controllava l'intera vita politica del regno. In quella società paternalistica l'universo intellettuale appariva dominato dal rassicurante magistero della Chiesa nazionale, che attraverso il Test Act e il Corporation Act (i due importanti provvedimenti del Parlamento-cavaliere del 1661-79) regolava l'accesso ai diversi gradi dell'amministrazione regia e delle corporazioni cittadine. Così, nelle pagine dell'opera di Clark, l'Inghilterra del Settecento perde d'un tratto quelle caratteristiche che gli studiosi di ispirazione liberale le avevano entusiasticamente attribuito come frutto di un singolarissimo progresso economico e civile. In particolare il parlamento vi è appena menzionato: a dire il vero Clark non trascura il problema della rappresentanza politica, ma significativamente lo analizza con riferimento pressoché esclusivo alle vicende del sinodo ecclesiastico di Canterbury. E se Westminster rimane malinconicamente sullo sfondo, dei ceti urbani si nega addirittura l'esistenza: le classi mercantili e finanziarie sono descritte come un "corpo anfibio", che si confonde con l'élite fondiaria, da cui i commercianti discendono, o di cui si sforzano di assumere i valori[42].

Per Clark, in effetti, lo Stato moderno inglese nacque con la Riforma di Enrico VIII: era stato poi distrutto dai settari nel 1649, e fu rigenerato con la restaurazione del 1660-2, prima che l'arcivescovo Sancroft e la rivolta anti-cattolica dei pulpiti lo difendessero vittoriosamente dalle mire assolutistiche di Giacomo II. Come scrive provocatoriamente Clark:

"La Gloriosa Rivoluzione assicurò l'egemonia della nobiltà anglicana sconfiggendo la minaccia del modello monarchico-burocratico di ispirazione cattolica. In quest'ottica, il 1688 non fece che preservare quella eredità che il 1660 aveva riaffermato".

Nella stessa ottica, anche le inquietudini politiche dell'età delle riforme scaturivano da matrici religiose. In particolare, la riorganizzazione del sistema elettorale nel 1832 è una diretta conseguenza dell'affrancamento politico dei dissidenti protestanti e dei cattolici. I vescovi anglicani, avallandolo pochi anni prima nella House of Lords, avevano rinunciato per sempre alla loro antica egemonia sociale: il vecchio mondo era ormai perduto, ma l'emancipazione cattolica del 1828-9, assai più del Reform Act del 1832, era l'evento-spartiacque che ne aveva segnato il definitivo tramonto[43].

22. Insomma, etichettando l'Inghilterra del Settecento come uno "Stato confessionale", Clark capovolgeva il vecchio schema interpretativo di Gardiner e di Trevelyan, di Notestein e di Lindsay Keir. Per gli storici liberali il predominio whig che si era instaurato con l'ascesa al trono di Giorgio I aveva aperto la strada al moderno sistema parlamentare inglese. Per l'autore di English Society, invece, i whigs erano sostanzialmente identici ai tories, sicché la successione hannoveriana non poteva costituire un vero snodo cruciale dell'esperienza storica britannica. L'unico vero motivo di contrasto tra i due schieramenti tradizionali riguardava il principio dell'ereditarietà della corona, a cui i tories aderivano inderogabilmente, mentre i whigs ritenevano che in circostanze eccezionali quella regola fondamentale potesse subire lievi alterazioni. Tutti si dicevano però certi dell'istituzione divina della monarchia, e conformemente al magistero politico della Chiesa nazionale proclamavano l'obbligo dei sudditi di obbedire passivamente al loro re[44].

È su questo particolare sfondo che si collocano gli studi anglicani dell'ultimo ventennio. In realtà non esiste un unico filone revisionista, giacché gli storici della Chiesa d'Inghilterra, sebbene siano uniti nel sostenere la vitalità dell'universo anglicano settecentesco, hanno idee assai diverse su come il clero d'oltremanica riuscì a conservare un ruolo da protagonista nella società britannica all'indomani della Gloriosa Rivoluzione e della successione hannoveriana.

Per alcuni studiosi la Chiesa inglese attraversò indenne il travaglio dinastico del Sei-Settecento solo perché era dominata dalle concezioni politico-religiose più tradizionaliste, che la proteggevano dagli aspetti più insidiosi dell'alleanza con il potere regio, e insieme la blindavano contro i tentativi di intromissione delle tendenze teologiche maggiormente legate al nuovo sapere scientifico-filosofico. In un importante articolo del 1985, Frederick Mather dava grande risalto alla sopravvivenza nella religiosità anglicana dell'età dei Giorgi di numerose pratiche risalenti non soltanto al periodo della restaurazione, o all'epoca di Carlo I, ma perfino al Medioevo. Si trattava, in effetti, di autentiche "usanze cattoliche", come ad esempio "fare frequentemente il segno della croce, o voltarsi a oriente nell'intonare il credo o il gloria patri, o, ancora, inginocchiarsi in direzione dell'altare ogni qualvolta si entrava o si usciva da una chiesa". Anche l'invocazione della vergine e la preghiera ai santi erano diffuse nel Settecento, specialmente nel nord-ovest dell'Inghilterra, dove l'impatto della Riforma era sempre stato particolarmente limitato.

23. Per Mather questo retaggio cattolico non riguardava esclusivamente i fedeli, ma si estendeva anche al clero. Il frequente ricorso dei religiosi ai paramenti sacri era il tratto più emblematico di una pompa magna che doveva da un lato infondere soggezione negli strati umili della popolazione, dall'altro ammonire il potere regio a rispettare l'indipendenza delle gerarchie anglicane, che affermavano di discendere da Dio esattamente al pari della monarchia. Così il piviale, che era stato messo fuori corso dal Lungo Parlamento nel 1641, tornò improvvisamente in auge nel Settecento, quando venne indossato dal decano e dai prebendari dell'abbazia di Westminster per le cerimonie di incoronazione dei sovrani. Mather dimostrava che ancora nel 1820 Giorgio IV aveva ricevuto la corona secondo quell'antico rito, mentre nel 1727, all'ascesa al trono di Giorgio II, i vescovi si erano presentati addirittura con le mitre in mano.

Ma il predominio altitudinario era testimoniato soprattutto dalla rinnovata enfasi sul mistero dell'eucarestia. Per tutto il Settecento, asseriva Mather in primo luogo, la concezione sacrificale aveva fatto numerosi proseliti tra i religiosi d'oltremanica, che avevano largamente accolto l'interpretazione oblazionista del clero nongiurante, secondo cui il sacramento della cena costituiva pur sempre una offerta interiore, anche se non una vera immolazione, come sostenevano i cattolici. Mather segnalava inoltre che nell'universo anglicano settecentesco la celebrazione eucaristica era molto più frequente di quanto gli storici avevano ritenuto. Solo in alcune regioni l'eucarestia veniva amministrata quattro volte all'anno (a Natale, a Pasqua, alla Pentecoste e dopo il raccolto) in conformità con gli insegnamenti protestanti. In altre parti del paese, la comunione veniva distribuita addirittura settimanalmente: era il caso ad esempio della collegiata di Manchester, ma anche di diversi centri del sud-est, dove al contrario del Lancashire il protestantesimo continentale aveva esercitato sempre una influenza assai marcata (Mather individuava ad esempio ben sei parrocchie londinesi per il periodo 1770-1810).

La tradizione carolina, insomma, non era andata perduta con lo scisma refrattario dell'età della Gloriosa Rivoluzione, né la successione hannoveriana aveva comportato un vera egemonia whig sulla Chiesa inglese. Come osservava Mather:

"[Dopo il 1688] le tendenze cattoliche s'indebolirono solo gradualmente. Di sicuro non svanirono con l'uscita dei nongiuranti dalla Chiesa d'Inghilterra, e parimenti i nuovi re tedeschi non poterono nulla per contrastarle. I primi segnali della ritirata emersero solo nei decenni centrali del secolo, dagli anni quaranta in poi, con una accelerazione repentina intorno al 1800".

Per Mather, cioè, l'altitudinarismo era qualcosa di più ampio e profondo che una circoscritta corrente dell'establishment religioso nazionale:

"Se proprio deve esserci una revisione storiografica, allora non ci si limiti a riscoprire l'esistenza di un agguerrito fronte altitudinario, paladino degli aspetti cerimoniali del culto, della comunione settimanale, etc., ma si ammetta finalmente che tutta la Chiesa d'Inghilterra era dominata da un comune atteggiamento conservatore. [...] Il tradizionalismo non era la parola d'ordine di una ristretta minoranza, ma bensì parte integrante del retroterra culturale di molti religiosi [apparentemente] moderati, come [Edmund] Gibson, [William] Wake, [William] Warburton, [Thomas] Secker, [Beilby] Porteus e [John] Moore, che da buoni vescovi anglicani si adoperavano per preservare ciò che a loro volta avevano ricevuto in eredità dai predecessori, pur lasciando i fedeli liberi di accostarsi a quanto di positivo vi era nel nuovo"[45].

24. Dopo l'articolo del 1985, Mather ha sviluppato le sue tesi in una corposa biografia del vescovo di St. Davids, Samuel Horsley, che è stata pubblicata nel 1992[46]. In effetti le concezioni altitudinarie sono state oggetto di particolare attenzione da parte degli storici, con interessanti contributi di Robert Cornwall e di Jeffrey Chamberlain sugli intrecci e sulle oscure complicità tra il clero refrattario e gli ecclesiastici filo-orangisti[47]. Robert Hole e James Sack, poi, hanno dimostrato la vitalità delle idee religiose tradizionaliste nella seconda metà del Settecento, quando gli assunti nongiuranti, ormai svuotati del loro originario significato anti-hannoveriano, divennero una preziosa risorsa per la salvaguardia della costituzione protestante contro le minacce che provenivano allora dalla Francia rivoluzionaria[48].

Altri autori rimarcano invece la capacità della Chiesa d'Inghilterra di rinnovarsi profondamente per rispondere alle sfide dell'età della Gloriosa Rivoluzione e della successione hannoveriana. Tina Isaacs, nel brillante saggio The Anglican Hierarchy and the Reformation of Manners del 1982, indica nella straordinaria duttilità del mondo anglicano l'arma che permise al clero d'oltremanica di non essere travolto dalle vicissitudini politico-dinastiche del Sei-Settecento. Con il Toleration Act del 1689 la Chiesa d'Inghilterra aveva dovuto rinunciare a una quota rilevante dell'universo protestante d'oltremanica. Anche l'inarrestabile erosione della giurisdizione ecclesiastica, che era cominciata fin dal regno di Carlo II, aveva contribuito ad allentare il controllo diretto sui fedeli. Infine la scomparsa del sinodo di Canterbury nel 1717 significò la perdita di un altro importante strumento per svolgere autonomamente la proprie funzioni istituzionali. Così, per rimanere al centro della vita religiosa inglese, la Chiesa anglicana favorì la nascita di capillari organizzazioni volontarie per la repressione del vizio e per la diffusione delle virtù cristiane: alle Religious Societies, che avevano iniziato a proliferare negli anni ottanta del Seicento, si aggiunsero ben presto la Society for Promoting Christian Knowledge e la Society for the Propagation of the Gospel in Foreign Parts. In realtà quei nuovi strumenti di apostolato non erano parte integrante dell'establishment religioso. E tuttavia la Chiesa d'Inghilterra non poteva non considerarli proprie articolazioni, giacché a presiedere i collegi direttivi erano quasi sempre ministri anglicani, che finivano dunque per ritrovarsi ai posti di comando di una vasta gamma di operazioni, che spaziavano dal catechismo alla distribuzione della letteratura edificante, dalla formazione scolastica alle missioni nei territori d'oltremare.

25. Certo la Chiesa inglese non rinunciò d'un tratto a curare direttamente, attraverso le proprie tradizionali istituzioni, l'educazione religiosa dei fedeli. Ancora nel 1713, nel suo Codex juris anglicani, il futuro vescovo di Londra Edmund Gibson asseriva che nelle questioni morali la giurisdizione secolare doveva avere un ruolo soltanto secondario: nella loro battaglia per la riforma dei costumi le Societies avrebbero dovuto primariamente appoggiarsi ai vecchi tribunali ecclesiastici, ai quali di diritto spettava il compito di far rispettare tutte le leggi umane collegabili alla seconda tavola dei comandamenti. Anche questo estremo tentativo di ridare smalto alle istituzioni religiose tradizionali era secondo Isaacs un sintomo di vitalità da parte del clero anglicano. Ciononostante fu soprattutto per merito delle nuove organizzazioni volontarie se la Chiesa nazionale rimase "la principale agenzia preposta all'insegnamento della religione cristiana e della morale" nella società inglese del XVIII secolo.

In effetti le gerarchie anglicane erano talmente consapevoli dell'importanza delle nuove forme di apostolato da accettare di collaborare perfino con la Society for the Reformation of Manners, il sodalizio inter-confessionale che era aperto anche ai dissidenti, e che recitò una parte di primo piano nella crociata contro l'ubriachezza, la bestemmia ereticale e le altre pratiche devianti (nel 1738 la Society for the Reformation of Manners si vantava di avere portato alla sbarra ben 100.000 peccatori in poco più di 45 anni di attività). La fase cruenta della Riforma e della Controriforma era ormai lontana, e seguire l'esempio di Cristo nella vita quotidiana contava più che osservare le prescrizioni liturgiche o assentire agli articoli di fede[49].

L'elemento della trasformazione come chiave di volta del successo anglicano nel Settecento è stato messo in evidenza anche da John Gascoigne nel suo denso volume Cambridge in the Age of Enlightenment del 1989. Nel periodo hannoveriano le università erano ancora la fucina del clero d'oltremanica, sicché era soprattutto a Oxford e a Cambridge che si decidevano le strategie anglicane contro i dissidenti, i deisti e i materialisti. E proprio gli accademici e i teologi di Cambridge furono determinanti nella riformulazione di quella antica alleanza con la monarchia che il Toleration Act del 1689 aveva scalfito pericolosamente. Iniettando nella cultura anglicana tradizionale le nuove idee di Cartesio, di Newton e di Locke, essi contribuirono ad allargare i confini della Chiesa nazionale, che forse perse in compattezza, ma che di sicuro diventò sufficientemente ampia da comprendere al proprio interno diverse scuole di pensiero religioso e filosofico. Senza quella elasticità e insieme quella larghezza di confini, sostiene Gascoigne, la Chiesa d'Inghilterra avrebbe subito altri e più dolorosi scismi, fino a ridursi a una delle tante confessioni cristiane che nelle isole britanniche lottavano tra loro per accaparrarsi il favore dei fedeli. D'altra parte anche la monarchia ne trasse beneficio, giacché l'illuminismo, addomesticato dal clero, non si tramutò mai in una forza politicamente sovversiva[50].

26. In realtà la Chiesa hannoveriana è difficilmente etichettabile. A studiare gli ambienti tradizionalisti si finisce per sottolineare soltanto i motivi di continuità con il periodo della restaurazione, o con l'ancora più lontana stagione carolina, quando non addirittura con il Medioevo. Per contro, le correnti latitudinarie appaiono inevitabilmente foriere di progresso e di modernità. E tuttavia ben poche figure della storia anglicana del Settecento sono catalogabili in modo tanto univoco. Sul finire del XVII secolo la Chiesa d'Inghilterra si trovò improvvisamente catapultata nel vivo delle battaglie dinastico-confessionali della Gloriosa Rivoluzione e della successione hannoveriana. Sullo sfondo dei grandi movimenti irenici sei-settecenteschi, gli ecclesiastici anglicani dovevano poi fare i conti con i dissidenti, che da un lato minacciavano la coesione civile del paese, ma che dall'altro costituivano comunque una delle tante espressioni del variegato universo protestante europeo. Anche il conflitto sempre latente tra l'episcopato e il basso clero contribuiva ad animare lo scenario anglicano all'indomani della rivoluzione del 1688. In un quadro così movimentato, le posizioni nella Chiesa inglese erano molto più ibride e mutevoli di quanto comunemente si ritiene. Come ha acutamente osservato William Gibson, High Church e Low Church non erano autentici partiti religiosi, né in termini dottrinali né dal punto di vista della pratica ecclesiastica. Si trattava semmai di filoni culturali, entrambi espressione dell'anglicanesimo di antico regime, che molto spesso s'incrociavano, si sovrapponevano, talvolta perfino si confondevano tra loro:

"Il fatto che Robert Nelson e molti altri religiosi nongiuranti ritornarono in seno alla Chiesa d'Inghilterra, fianco a fianco con ecclesiastici eterodossi come William Whiston e Samuel Clarke, suggerisce che il loro senso di appartenenza alle gerarchie anglicane era più forte del loro rigore dottrinale"[51].

Forse, più che i partiti religiosi, erano le identità locali le vere articolazioni dell'anglicanesimo settecentesco, e alcuni recenti studi sulla vita religiosa nelle diverse diocesi d'oltremanica sembrano avvalorare proprio questa tesi[52].
Anche in quest'ottica, gli storici della Chiesa hannoveriana non possono ancora dire di essere pervenuti a una interpretazione unitaria davvero in grado di spazzare via i pregiudizi dell'età della riforme e del periodo vittoriano. A ben vedere, l'unico comune denominatore tra gli innumerevoli studi che si sono susseguiti a partire dal 1980 è la riscoperta che la Chiesa hannoveriana non era affatto quel gigante stanco che i suoi detrattori ottocenteschi pretendevano che fosse. In effetti tra i lavori dell'ultimo ventennio solo The Church in an Age of Negligence di Peter Virgin ripropone la vecchia leggenda nera della "old corruption", e d'altra parte il contributo di Virgin non richiama praticamente nessuna delle tante ricerche successive alla svolta del 1980[53].

27. Il Settecento fu dunque un'epoca di vitalità e di onestà morale e intellettuale per il clero d'oltremanica. Perfino il cumulo delle cariche e la non-residenza, come ha ricordato recentemente William Gibson, devono essere inquadrati nella loro cornice sei-settecentesca. Disposizioni troppo restrittive avrebbero infatti impedito alla Chiesa nazionale di irradiarsi capillarmente, e così raggiungere i fedeli anche nei più remoti angoli del regno. Tra le tonache anglicane vi erano certamente casi deplorevoli, ma nel complesso la Chiesa hannoveriana svolse diligentemente il proprio ruolo, conservando un sorprendente grado di autonomia da quel potere regio che era l'arbitro supremo dei suoi equilibri sia religiosi sia politici. Non soltanto i vescovi georgiani erano figure indipendenti nella House of Lords, ma il gravoso impegno in parlamento non impedì mai di adempiere puntualmente ai doveri della visita pastorale, della cresima e dell'ordinazione. Gibson documenta del resto numerosi episodi di prelati inglesi che rifiutarono la carica di vescovo nonostante la cospicua rendita ad essa collegata: segno evidente - commenta lo studioso - che il clero hannoveriano non badava esclusivamente ad arricchirsi. La storia anglicana del Settecento merita insomma di essere riletta secondo la prospettiva di un'epoca in cui la sfera secolare e la sfera spirituale erano ancora strettamente interrelate, e si sostenevano a vicenda, come due ruote di uno stesso delicatissimo ingranaggio. Conclude significativamente Gibson:

"Per gli storici vittoriani era difficile rivolgersi al passato con la distanza necessaria: tutto veniva rapportato ai criteri e alle norme vigenti nella loro epoca [...]. [Ma nel secolo dei Giorgi] la partecipazione alla lotta politica, la ricerca di prebende e l'ambizione di raggiungere cariche sempre più ricche e prestigiose, non erano affatto in antitesi con il sincero ministero religioso"[54].

 

[1] J.C.D. Clark, English Society 1688-1832. Ideology, Social Structure and Political Practice during the Ancien Régime, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, p. 277. Ogni traduzione dall'inglese è mia.

[2] J.H. Plumb, Editorial Foreword, in R. Porter, English Society in the Eighteenth Century, Harmondsworth, Penguin, 1990 [1982], p. vii.

[3] J.H. Plumb, England in the Eighteenth Century, Harmondsworth, Penguin, 1990 [1950], p. 43.

[4] Ivi, pp. 43-44.

[5] J. Wade, The Black Book; or, Corruption Unmasked! Being an Account of Places, Pensions, and Sinecures, the Revenues of the Clergy and Landed Aristocracy; the Salaries and Emoluments in Courts of Justice and the Police Department, London, Printed and Published by J. Fairburn, 1821, pp. 2, 46-48, 99, 101-132. Per la vasta risonanza di questo libretto nel mondo britannico dell'età delle riforme cfr. G.F.A. Best, The Constitutional Revolution, 1828-32, "Theology", LX (1959), pp. 229-230, e P. Harling, The Waning of "Old Corruption". The Politics of Economical Reform in Britain, 1779-1846, Oxford, Clarendon Press, 1996, pp. 144-150. La nascita del mito della "old corruption" nell'Inghilterra degli anni venti e trenta dell'Ottocento è efficacemente ricostruita da J.C.D. Clark, English Society 1660-1832. Religion, Ideology and Politics during the Ancien Regime, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 12, 42, 477, 502-511.

[6] J. Eachard, The Grounds & Occasions of the Contempt of the Clergy and Religion Enquired into, London, Printed W. G[odbid] for N. B[rooke], 1671, p. iii.

[7] Sull'anti-clericalismo della storiografia whig ottocentesca cfr. J.W. Burrow, A Liberal Descent. Victorian Historians and the English Past, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, pp. 76-81. In particolare per Macaulay cfr. R. Brent, Liberal Anglican Politics. Whiggery, Religion, and Reform 1830-1841, Oxford, Clarendon Press, 1987, pp. 47-48.

[8] Per le aspre critiche espresse dal clero anglicano negli anni venti dell'Ottocento cfr. R. Yates, Patronage of the Church of England: concisely Considered in Reference to National Reformation and Improvement, London, Printed in the Year 1823, e [E. Berens], Church Reform: by a Churchman, London, Printed by J. Murray, e Oxford, Printed by J. Parker, 1828. Sugli antecedenti delle riforme ecclesiastiche nell'Inghilterra del ministro Liverpool cfr. W. Gibson, Tory Governments and Church Patronage, 1812-1830, "Journal of Ecclesiastical History", XLI (1990), pp. 201-227.

[9] Sui lavori e sulla politica riformatrice della Ecclesiastical Commission cfr. W. Gibson, Church, State and Society, 1760-1850, London, Macmillan, 1994, pp. 112-128. Per gli ambienti ecclesiastici anglicani nell'età delle riforme cfr., oltre al vecchio ma ancora indispensabile O.J. Brose, Church and Parliament. The Reshaping of the Church of England, 1828-60, London, Oxford University Press, 1959, anche il penetrante studio di C. Dewey, The Passing of Barchester, London, Hambledon, 1991.

[10] The Catholic Church, in The Tracts for the Times. By Members of the University of Oxford, Printed for J.G.F and J. Rivington, London, and J. Parker, Oxford, 1840, 5 voll., I, n. 2, pp. 2-3. Per una aggiornata messa a fuoco del movimento dei tractarians cfr. P.B. Nockles, The Oxford Movement in Context: Anglican High Churchmanship, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.

[11] Thoughts on the Ministerial Commission, in The Tracts for the Times cit., n. 1, p. 4.

[12] M. Pattison, Tendencies of Religious Thought in England, 1688-1750, in Essays by the Late Mark Pattison, a cura di H. Nettleship, Oxford, Clarendon Press, 1889, 2 voll., II, pp. 42-43. Su Pattison cfr. le osservazioni di P. Avis, Anglicanism and the Christian Church. Theological Resources in Historical Perspective, Edinburgh, Clark, 1989, p. 252.

[13] C. Wordsworth, Social Life at the English Universities in the Eighteenth Century, London, Bell, 1874, p. 1.

[14] W.H. Hutton, Burford Papers, London, Constable, 1905, p. 237.

[15] J.C. Ryle, Christian Leaders of the Eighteenth Century, Edinburgh, Banner, 1978 [1869], pp. 13-14. Sempre dagli ambienti dell'evangelismo ottocentesco cfr. il giudizio di J. Simon, The Revival of Religion in England in the Eighteenth Century, London, Kelly, 1907, p. 96. Il sentimento di condanna della cultura metodista era ancora palpabile in J.W. Bready, England before and after Wesley. The Evangelical Revival and Social Reform, London, Hodder & Stoughton, 1938, p. 12.

[16] C. Abbey, J. Overton, The English Church in the Eighteenth Century, London, Longmans & Green, 1878, 2 voll., II, p. 4. Nello stesso solco si muoveva anche l'interpretazione di G.G. Perry, A History of the English Church in the Eighteenth Century. Third period, from the Accession of the House of Hanover to the Present Time, London, Murray, 1890 [1887], pp. 1-10.

[17] C. Abbey, The Church of England and its Bishops, 1700-1800, London, Longmans & Green, 1887, 2 voll., I, pp. 367-369.

[18] Cassan espresse il suo disappunto per la caduta delle ultime disposizioni del vecchio Test Act rimaste ancora vigenti in alcune durissime Considerations on the Danger of any Legislative Alteration Respecting the Corporation and Test Acts, London, Printed by J. & C. Rivington, 1828. Il primo troncone delle Lives of the Bishops, per le diocesi di Sherborne e Salisbury, era stato pubblicato nel 1824.

[19] Per questa idealistica rilettura delle vicissitudini del clero refrattario dell'età di Guglielmo III e di Anna cfr. T. Lathbury, A History of the Non-Jurors: their Controversies and Writings, London, Pickering, 1845, e J.H. Overton, The Nonjurors: their Lives, Principles, and Writings, London, Smith & Elder, 1902.

[20] G. Burnet, A Discourse of the Pastoral Care, London, Printed by R.R. for R. Chiswell, 1692, pp. xi-xiii. Per un inquadramento del Discourse cfr. l'introduzione della recente edizione critica a cura di R.D. Cornwall, Lewiston, Mellen, 1997, pp. i-xii.

[21] G. Burnet, Three Letters Concerning the Present State of Italy, London, Printed in the Year 1688, p. 115.

[22] J.H. Overton, F. Relton, The English Church from the Accession of George I to the End of the Eighteenth Century (1714-1800), London, Macmillan, 1906, p. 1.

[23] A. Plummer, The Church of England in the Eighteenth Century, London, Methuen, 1910, pp. 3-4.

[24] J. Wickham Legg, English Church Life from the Restoration to the Tractarian Movement: Considered in Some of its Neglected or Forgotten Features, London, Longmans e Green, 1914, pp. vii-viii.

[25] A.W. Rowden, The Primates of the Four Georges, Murray, London 1916, p. 2.

[26] N. Sykes, Church and State in England in the 18th Century, Cambridge, Cambridge University Press, 1934, pp. 5-37.

[27] G.V. Bennett, Introduction, in Essays in Modern English Church History. In Memory of Norman Sykes, a cura di G.V. Bennett e J.D. Walsh, London, A. & C. Black, 1966, pp. vi-vii.

[28] Sykes, in effetti, continua a essere ricordato soprattutto per le due fondamentali biografie, Edmund Gibson Bishop of London 1669-1748. A Study in Politics and Religion in the Eighteenth Century, Oxford, Clarendon Press, 1926, e William Wake, Archbishop of Canterbury, 1657-1737, Cambridge, Cambridge University Press, 1957, 2 voll.

[29] C.S. Carter, The English Church in the Eighteenth Century, London, Church Book Room Press, 1948 [1910], p. i.

[30] A.T. Hart, The Eighteenth Century Country Parson, circa 1689 to 1830, Shrewsbury, Widing, 1955, p. 12.

[31] G.V. Bennett, White Kennett, 1660-1728, Bishop of Peterborough. A Study in the Political and Ecclesiastical History of the Early Eighteenth Century, London, SPCK, London, 1957, pp. iii.

[32] G.V. Bennett, King William III and the Episcopate, in Essays in Modern English Church History cit., pp. 104-131.

[33] G.V. Bennett, The Tory Crisis in Church and State, 1688-1730: the Career of Francis Atterbury, Bishop of Rochester, Oxford, Clarendon Press, 1975.

[34] D.R. Hirschberg, The Government and Church Patronage in England, 1660-1760, "Journal of British Studies", XX (1980), pp. 117, 127-138.

[35] S. Taylor, Church and State in Mid-Eighteenth Century England: the Newcastle Years 1742-1762, PhD Thesis, University of Cambridge, 1987.

[36] N. Ravitch, Sword and Mitre. Government and Episcopate in France and England in the Age of Aristocracy, The Hague, Mouton, 1966.

[37] J.H. Pruett, The Parish Clergy under the Later Stuarts. The Leicestershire Experience, Urbana, University of Illinois Press, 1978.

[38] M. Cowling, Religion and Public Doctrine in Modern England, Cambridge, Cambridge University Press, 1980, p. xii. Per un ritratto di Cowling, discusso esponente della destra filo-clericale inglese cfr. M. Bentley, Prologue: the Retiring Mr. Cowling, in Public and Private Doctrine. Essays in British History presented to Maurice Cowling, a cura di M. Bentley, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 1-13.

[39] J.C.D. Clark, On Moving the Middle Ground. The Significance of Jacobitism in Historical Studies, in The Jacobite Challenge, a cura di E. Cruickshanks e J. Black, Edinburgh, Donald, 1988, pp. 177, 179.

[40] J. Black, England's "Ancien Regime", "History Today", XXXVIII (1988), p. 49. L'eco della "doppia devoluzione" nella recente storiografia sull'Inghilterra del Sei-Settecento è criticamente discussa da J.C.D. Clark, The History of Britain: a Composite State in an Europe des Patries?, in Ideas and Politics in Modern Britain, a cura di J. Clark, London, Macmillan, 1990, pp. 32-49.

[41] Nella scia di J.G.A. Pocock, Clergy and Commerce. The Conservative Enlightenment in England, in L'età dei Lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, a cura di R. Ajello, M. Firpo, L. Guerci e G. Ricuperati, Napoli, Jovene, 1985, 2 voll., II, pp. 523-562, e Gran Bretagna, in L'Illuminismo. Dizionario storico, a cura di V. Ferrone e D. Roche, Roma e Bari, Laterza, 1997, pp. 478-497, le origini confessionali dell'illuminismo inglese sono state ampiamente evidenziate da B.W. Young, Religion and Enlightenment in Eighteenth-Century England. Theological Debate from Locke to Burke, Oxford, Clarendon Press, 1998. Sulle battaglie che impegnarono il mondo anglicano contro i deisti, gli atei e i libertini cfr. inoltre J.A.I. Champion, The Pillars of Priestcraft Shaken. The Church of England and its Enemies, 1660-1730, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.

[42] J.C.D. Clark, English Society 1688-1832 cit., pp. 70-71, 93-118, 289-299.

[43] Ibid., pp. 6-7, 349-420.

[44] Ibid., pp. 125, 178-179. Il dibattito sulla storiografia di Clark, iniziato con J. Innes, Jonathan Clark, Social History and England's Ancien Régime, "Past & Present", CXV (1987), pp. 165-200, si è articolato in diverse importanti rassegne, tra cui spiccano il vivace simposio Revolution and Revisionism di "Parliamentary History", VII (1988), pp. 328-338 (con interventi di Kevin Sharpe, Mark Kishlanski, Lois G. Shwoerer e Harry Dickinson), la corposa sezione monografica di "Albion", XXI (1989), pp. 361-474 (con ampi saggi di John A. Phillips, James E. Bradley, John Money e dello stesso Clark), e infine la penetrante retrospettiva del "British Journal for Eighteenth Century Studies", XV (1992), pp. 131-149 (con interventi di Roy Porter, William A. Speck, Jeremy Black e ancora Clark). Le critiche più aspre a English Society sono provenute da G.S. Rousseau, Revisionist Polemics: J.C.D. Clark and the Collapse of Modernity in the Age of Johnson, in The Age of Johnson. A Scholarly Annual (III), a cura di P.J. Korshin, New York, AMS Press, 1989, pp. 421-450. Sul revisionismo storiografico nei recenti studi sei-settecenteschi cfr. l'ampio e dettagliato affresco di F. Benigno, Specchi della rivoluzione: conflitto e identità politica nell'Europa moderna, Roma, Donzelli, 1999, pp. 3-59.

[45] F.C. Mather, Georgian Churchmanship Reconsidered: Some Variations in Anglican Pulpit Worship 1714-1830, "Journal of Ecclesiastical History", CXXXVI (1985), pp. 257-261, 269-272, 282.

[46] F.C. Mather, High Church Prophet: Bishop Samuel Horsley (1733-1806) and the Caroline Tradition in the Later Georgian Church, Oxford, Oxford University Press, 1992.

[47] R.D. Cornwall, Visible and Apostolic. The Constitution of the Church in High Church Anglicanism and Non-Juror Thought, Newark, University of Delaware Press, 1993, e J.S. Chamberlain, Accommodating High Churchmen: the Clergy of Sussex, 1700-1745, Chicago, University of Illinois Press, 1997. Sulle sopravvivenze cattoliche nella cultura anglicana del Settecento cfr. anche la suggestiva analisi di F. Deconinck-Brossard, Vie politique, sociale et religieuse en Grande-Bretagne d'après les sermons prêchés dans le Nord de l'Angleterre 1738-1760, Paris, Atelier nationale de reproduction des thèses, 1984.

[48] R. Hole, Pulpits, Politics and Public Order in England, 1760-1831, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, e J.J. Sack, From Jacobite to Conservative: Reaction and Orthodoxy in Britain, c. 1760-1832, Cambridge, Cambridge University Press, 1993.

[49] T. Isaacs, The Anglican Hierarchy and the Reformation of Manners 1688-1738, "Journal of Ecclesiastical History", XXXIII (1982), pp. 391-411.

[50] J. Gascoigne, Cambridge in the Age of the Enlightenment. Science, Religion and Politics from the Restoration to the French Revolution, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 71-184. Sulle trasformazioni e sulla modernità dell'universo anglicano nell'epoca dei Giorgi cfr. anche S. Taylor, Church and Society after the Glorious Revolution, "The Historical Journal", XXXI (1988), pp. 973-987.

[51] W. Gibson, The Church of England 1688-1832. Unity and Accord, London e New York, Routledge, 2001, p. iv.

[52] Sulle diverse identità locali nella Chiesa d'Inghilterra del Settecento cfr. V. Barrie-Curien, Clergé et pastorale en Angleterre au XVIIIe siècle. La diocèse de Londres, Paris, Centre nationale de la recherche scientifique, 1992; J. Jago, Aspects of the Georgian Church: Visitation Studies of the Diocese of York 1761-1776, Madison, Farleigh Dickinson University Press, 1997; D.A. Spaeth, The Church in an Age of Danger. Parsons and Parishioners 1660-1740, Cambdrige, Cambridge University Press, 2000; J. Gregory, Restoration, Reformation and Reform, 1660-1828. Archbishops of Canterbury and their Diocese, Oxford, Clarendon Press, 2000; The National Church in its Local Identities, a cura di J. Chamberlain and J. Gregory, Woodbrige, Boydell & Brewer, 2002.

[53] P. Virgin, The Church in an Age of Negligence. Ecclesiastical Structure and Problems of Church Reform, 1700-1840, Cambridge, Clarke, 1989.

[54] W. Gibson, The Achievement of the Anglican Church, 1689-1800. The Confessional State in Eighteenth Century England, Mellen, Evanston e Lampeter, 1995, pp. 64-89, 127-158, 164-178, 196-197.