1. Personalità singole, attività individuali predominano fra il 1580 e il 1624: anzi tengono quasi tutta la scena. Sorgono dal nicodemismo, come Fausto Sozzini, ma in generale da un humus ancora non analizzato, eterogenei fra loro a prima vista, come − lasciando sullo sfondo Campanella e Bruno loro contemporanei − Francesco Pucci e Marco Antonio De Dominis: ormai non si tratta più di eretici in nessuno dei sensi che abbiamo indicato, ma di costruttori di utopie irenistiche[2].
Con questo tragico quadro di famiglia, un gruppo di esuli solitari perseguitati dall'Inquisizione, Delio Cantimori aveva chiuso la sua galleria di eretici italiani del Cinquecento, facendo rilevare che erano stati la condanna e il rogo di tali famosi personaggi a segnare la fine sofferta della Riforma in Italia. La storia di Marcantonio De Dominis è quella di un lungo processo o, meglio, di una serie di processi, intentati contro uno di questi eretici, contro i suoi scritti e la sua utopia politico-ecclesiologica, da parte della Chiesa e della corona d'Inghilterra all'inizio del Seicento. De Dominis aveva fatto la sua comparsa nel regno di Giacomo I Stuart nell'autunno del 1616, quando, lasciata la Dalmazia senza alcun preavviso, al termine di una fuga rocambolesca per vari Stati europei, inseguito da anatemi, mandati di cattura e zelanti sudditi della Serenissima, si era presentato a Londra per porsi sotto la protezione del sovrano. A corte De Dominis era atteso da tempo, da quando, cioè, qualche anno prima, aveva chiesto informalmente asilo al re e al primate George Abbott attraverso l'amico Dudley Carleton, che era stato ambasciatore inglese presso la Serenissima. Agli occhi degli inglesi, e a quelli particolarmente acuti del cronista gentiluomo John Chamberlain, quello dell'arcivescovo di Spalato altro non era stato che un banale atto di fuga per ragioni genericamente religiose, mescolate con pretese poco nobili di accrescere il proprio status o il patrimonio.
2. Con buona pace di John Chamberlain e delle Prospettive di
Cantimori, il suo caso presenta invece svariate anomalie rispetto al
paradigma dell'esiliato per ragioni religiose. Nato da nobile famiglia
dalmata sotto il pontificato di Paolo IV Carafa tra la seconda e la
terza sessione del concilio di Trento, De Dominis aveva disatteso la
promessa di diventare uno dei difensori più strenui della Controriforma.
Educato dai gesuiti, era divenuto uno dei nomi illustri della scienza
in Italia, lettore di matematica al Collegio di Padova e frequentatore
del gruppo sarpiano, autore di importanti trattati su argomenti galileiani
(le maree e l'ottica), ammirato perfino dal genio di Keplero. Aveva
però lasciato la compagnia per una diocesi di difficile governo, nella
natale Dalmazia, dove si era prodigato per lunghi mesi a mantenere sotto
il livello di guardia i rapporti tra Venezia e l'Impero, la violenza
dei pirati Uscocchi, la penetrazione delle istanze cristiano-ortodosse
miste a un radicato paganesimo di frontiera, dove suggestioni religiose
eterogenee si mescolavano con una certa facilità e con pesanti ripercussioni
sulla logica sacramentale tridentina. Era divenuto in breve tempo un
diplomatico esperto, addestrandosi per anni, nel clima non sempre amichevole
della corte di Rodolfo II, nel tessere accordi efficaci tra Venezia
e gli Asburgo. Si era poi imposto nel campo della controversia, misurandosi
con avversari di grande valore, come aveva dimostrato durante l'Interdetto,
prendendo le parti della Serenissima in una risposta di implacabile
acutezza alla Parenesis del Baronio: un trattatello che ne aveva
rivelato la dimestichezza con i Padri e gli esegeti della Scrittura,
con i canonisti, con i decreti dei concilii. Si era formato negli anni,
insomma, come un esperto comunicatore avvezzo alla scena internazionale:
quasi naturale, dunque, che dovesse diventare bersaglio dell'Inquisizione,
la quale poco apprezzava le sue conclamate idee giurisdizionaliste.
Ma nel 1616, ancorché vecchio e obeso, le era avventurosamente sfuggito
dalle mani per rinascere nella Londra dello Stuart, appunto, come uno
dei più rinomati avversari del curialismo romano.
Pochi anni più tardi, però, il repentino deterioramento dei rapporti
col sovrano inglese, che lo aveva condotto di fronte a una vera e propria
commissione d'inchiesta, il volontario rientro a Roma e il successivo
rogo avevano scosso le coscienze d'Europa, per riconfermare −
così pareva − il successo dei meccanismi di controllo e ridimensionamento
del dissenso ideologico attuati dalla Chiesa controriformistica. De
Dominis fu bruciato a Roma nel 1624, in quella che fu una delle condanne
più celebri del Seicento: condanna che ebbe grandi ripercussioni in
terra inglese, testimoniate da una quantità notevole di memoriali, resoconti
e relazioni[3] che, in buona parte, furono raccolti e archiviati
dalla congregazione dell'Inquisizione. Accanto alla sentenza del processo
e alla relazione allegata a sfondo biografico[4], numerosi fascicoli e carte stanno a testimoniare
un curioso e frenetico intreccio di informazioni, materiali e resoconti,
avvenuto in seguito alla morte di De Dominis tra Londra e Roma. L'Alter
Ecebolius di Richard Neile, stampato a Londra tra la fine del 1624
e i primi mesi del 1625, che rappresenta la relazione più completa della
commissione d'inchiesta incaricata di indagare sul possibile ritorno
di De Dominis alla Chiesa cattolica, è presente al Sant'Uffizio in una
versione manoscritta con correzioni a latere. Vi sono poi numerose
tracce di un lungo scambio epistolare tra la congregazione, nelle persone
del cardinale Garcia Millino e, soprattutto, di Roberto Bellarmino,
le università di Lovanio, Colonia e Parigi, i nunzi in Fiandra e i teologi
di massima reputazione − come l'arciprete di Anversa Laurence
Beyerlinck − impegnati a rispondere alle tesi di De Dominis[5]. Questo carteggio, durato alcuni anni, rivela che
la breve stagione della pubblicistica inglese dedominisana aveva suscitato
da parte cattolica reazioni che parrebbero quasi sproporzionate.
3. È vero, infatti, che la sua storia di fuga e ritorno non si discosta
molto da quella di altri imputati anche più celebri, perseguitati e
processati negli stessi anni per eterodossia e per una visione ereticale
dei rapporti tra politica e religione. Essa è tuttavia esemplare, più
di altre, per il suo valore di sintesi dello stato della lotta ideologica
tra potere politico e autorità spirituale nella prima età moderna. La
vicenda di Marcantonio De Dominis e le sue opere segnano una tappa,
un momento cruciale della questione che aveva schierato papi contro
imperatori dall'età tardo-antica: se fosse la Chiesa a dover sottostare
al diritto dello Stato o, viceversa, lo Stato in ultima istanza al volere
del capo della Chiesa. Tale conflitto si considera risolto in età medioevale
con la vittoria della plenitudo potestatis del pontefice sulla
cristianità temporale, sui re e sull'imperatore. Ma, all'epoca di De
Dominis, lo scenario politico e religioso europeo aveva già subito numerosi
stravolgimenti. Le contraddizioni scaturite dall'idea di primazia del
potere spirituale sul temporale e dai concetti di unità, omogeneità
e infallibilità della Chiesa cattolica romana; le numerose resurrezioni
tardomedioevali del conciliarismo contro l'indivisibilità del potere
del papa, che avevano fatto il gioco del giurisdizionalismo laico; infine
e soprattutto, la Riforma protestante, avevano dimostrato alle stesse
istituzioni ecclesiastiche che il problema richiedeva nuove, urgenti
soluzioni.
È comprensibile l'attenzione che tra il secolo XVI e il XVII intellettuali-teologi
come De Dominis dedicarono alle istituzioni e ai loro ingranaggi; alla
potestas iurisdictionis, ovvero il loro potere di erogare diritto,
in materia spirituale o temporale; ai meccanismi e alle modalità di
esercizio dell'autorità. Se la Chiesa cattolica, dopo secoli di egemonia
ideologica e lunghi periodi di effettivo intervento sulle decisioni
dei principi europei, aveva conosciuto con la Riforma la più dura e
vistosa crisi della secolare concezione della plenitudo potestatis
del pontefice, dell'idea di una fonte unica del potere, le nuove confessioni
avevano legato le proprie possibilità di sopravvivenza all'adozione
di una linea precisa − di alleanza, convivenza o opposizione −
nei confronti del potere politico: in particolare quello dei grandi
Stati assoluti. Il rapporto tra Chiese cristiane e istituzioni dello
Stato si era trasformato in una competizione ben più sofisticata di
quelli che in passato erano sembrati giochi a somma zero: competizione
in cui l'anelito all'autonomia si scontrava con la continua necessità
di condizionamento reciproco; in cui le scelte, le vittorie, le perdite
di un campo ricadevano ancora inevitabilmente sull'altro, ma in modo
meno prevedibile. Nel giro di pochi decenni, di conseguenza, la filosofia
politica aveva ampliato lo spettro delle combinazioni a cui il rapporto
Stato-Chiesa poteva dar vita. L'epoca moderna aveva generato modelli
di relazioni che, se pure razionalizzate e semplificate per comodità
in una serie di espressioni note fin dalla tarda antichità − come
«ierocrazia» e «cesaropapismo» −, e accompagnate da metafore di
uso antico − le due spade, i due soli, il corpo politico −,
avevano conosciuto una serie infinita di varianti, piccole o significative,
che avevano reso il panorama più complesso e di più difficile gestione.
La ricerca di un equilibrio con il potere religioso diventava il grande
problema delle dinastie sovrane che mirassero a durare nel tempo e,
al tempo stesso, le Chiese erano costrette a darsi una veste organizzativa
che imitasse quella dell'autorità civile e che fosse adatta ad affiancarla,
a interpretarne la volontà, nel caso a contrastarla. L'auctoritas,
il potere ideologico, veniva a collidere con la potestas, il
potere temporale, con un'intensità mai sperimentata, mentre si rendeva
evidente la mancanza di una teoria politica di compromesso, che potesse
essere condivisa dalla maggior parte dei cristiani.
4. A cento anni da Wittenberg, allo scoppio della guerra dei Trent'anni, l'arcivescovo di Spalato aveva proposto un'analisi della situazione e una soluzione − in una formula che potremmo definire assolutista-episcopalista − che vennero sottoposte al giudizio dell'intera cristianità. De Dominis si era reso conto, parallelamente ai suoi ospiti inglesi e ai più impazienti fra i principi protestanti d'Europa, che una proposta ideologico-politica fortemente anticurialista non poteva che passare attraverso una propaganda di larga diffusione. Egli la aveva affidata al manifesto Suæ profectionis consilium, a un nugolo di violenti pamphlet, infine a una grande opera che spiegava il disegno dell'utopia ecclesiologica. Il De republica ecclesiastica svolgeva in dieci libri la critica alla struttura della Chiesa cattolica e alla dottrina dell'infallibilità papale, metteva in discussione il ruolo del papa come caput ecclesiastico e proponeva il principe laico alla guida dei vescovi. Aggiungeva a questo una considerazione di natura ecumenica, largamente condivisa dai suoi corrispondenti internazionali (Grozio sopra tutti): che fosse possibile, cioè, la riunificazione delle Chiese protestanti e cattolica sulla base del riconoscimento di articoli fondamentali comuni. Le fasi di tale progetto erano strettamente interdipendenti: l'ecumenismo si basava sull'idea di tolleranza delle diversità dottrinali, mentre la tolleranza poneva a sua volta il problema della tradizione e della interpretazione delle Scritture, cioè il problema dell'autorità preposta all'interpretazione stessa. Approfittando dello scalpore suscitato da De Dominis in tutta Europa con la sua fuga, il sovrano inglese aveva colto al meglio la magnifica occasione, e predisposto che l'Inghilterra divenisse cassa di risonanza della lotta contro l'autorità pontificia e a favore dell'assolutismo. A coronamento dell'intera operazione, John Bill, editore principe della propaganda, aveva ricevuto dalle mani del De Dominis una clamorosa introduzione al manoscritto dell'Istoria del concilio tridentino, pubblicato a Londra nel 1619.
5. Quella spiegata in centinaia di pagine nel De republica ecclesiastica era, in potenza, una soluzione teorica articolata e praticabile, in grado di riscuotere grandi consensi, almeno tra le monarchie protestanti. Se Marcantonio De Dominis finì per trovarsi esposto a un consensuale disprezzo, le ragioni non riguardano il contenuto delle sue riflessioni, il valore o l'originalità del suo prodotto intellettuale. Né la sfortuna che accompagnò la sua reputazione e il suo progetto nel secolo XVII e nei successivi si può attribuire all'elaborazione di una teoria priva di grandi novità intellettuali, caratteristica per cui, a dire il vero, potè godere di illustre compagnia. Tra la miriade dei trattati sulla ragion di Stato e le riflessioni filosofico-politiche d'oltralpe, all'inizio del Seicento il rapporto Stato-Chiesa fu oggetto dell'indagine di teologi come il cardinale gesuita Roberto Bellarmino e il frate servita Paolo Sarpi, grandi sintetizzatori e sistematizzatori di un dibattito giurisdizionale vecchio di secoli, che aiutarono il potere politico e quello spirituale a fare il punto della questione, a riproporre in forme nuove soluzioni del passato. Anche le loro opere teologico-politiche contengono ben poche invenzioni e a tutti gli effetti non figurano nella storia delle idee per la loro portata innovativa. È bene quindi ricordare che la paradigmaticità di De Dominis − come quella di altri suoi contemporanei − non dipende dalla sua capacità di innovazione, categoria difficilmente applicabile ai suoi scritti. Le sue riflessioni non sono collocabili sullo stesso piano di quelle di teorici come Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes, quando essi affrontarono il problema del rapporto tra i due poteri. E non è necessariamente rilevante, a questo proposito, che Hobbes abbia tratto da lui ben più di una di quelle riflessioni sull'auctoritas che compaiono nel Leviathan, ispirandosi direttamente al De republica ecclesiastica: proprio grazie al suo lavoro di sistematizzatore di molti secoli di dibattito in merito, il dalmata fu precursore e fonte di un vasto numero di pensatori politici, in pratica tutti coloro che si occuparono di tematiche giurisdizionalistiche. Piuttosto, furono ancora una volta l'aristotelismo della scolastica e delle università laiche e il neoplatonismo di certe concezioni del principio dell'unità del potere le basi su cui pensatori come lui, Paolo Sarpi, Roberto Bellarmino reinterpretarono le tradizioni del passato: con genialità e spregiudicatezza, in qualche caso, e sempre con una certa dose di violenza e disperazione, dovuta al bisogno stringente di interpretare uno scenario mutato, in continuo divenire ed estremamente insidioso, dove lo sconfinamento nell'eterodossia rappresentava un pericolo più che plausibile. Non a caso costoro furono oggetto, in tempi diversi e con diversa fortuna, del controllo esercitato dall'Inquisizione, della censura dell'Indice.
6. A pochi anni dalla chiusura del concilio di Trento idee antiche
in campo dottrinale e politico che venissero dall'interno della Chiesa
cattolica rischiavano di suonare più minacciose del progetto di qualche
audace novator. Ben lo sapevano i cardinali e i teologi custodi
dell'auctoritas: il ruolo di figure come quella dell'arcivescovo
di Spalato e di scritti come il De republica ecclesiastica era
quello di difesa e riproposizione di una tradizione insidiosa.
La reazione della Chiesa romana di fronte a questa minaccia non era
stata, dunque, sproporzionata. Da un lato, essa doveva avere la percezione
che il caso dell'arcivescovo di Spalato costituisse il secondo tempo
di quella feroce battaglia controversistica sul «giuramento di fedeltà»,
che si era aperta tra il cardinale Bellarmino e Giacomo I venti anni
prima del rogo. Dall'altro, nell'epoca di consolidamento dello Stato
pontificio, dopo la stabilizzazione dottrinale a opera dal concilio
di Trento, un vescovo apostata che, all'unisono con Paolo Sarpi, tuonasse
dall'Inghilterra contro il «totato» papale e a favore della riunificazione
delle Chiese non era facilmente tollerabile. A maggior ragione perché
la curia ben sapeva che De Dominis era il nodo di una rete di intellettuali
irenisti, perlopiù filo-arminiani, ma che, allo stesso tempo, egli era
riuscito a raccogliere le speranze di quella parte della lega dei principi
protestanti che confidava in un intervento armato di Giacomo I per risolvere
definitivamente i conflitti confessionali. Tra Dordrecht e la «monarchia
d'Inverno», i pamphlet di De Dominis non potevano essere ignorati. La
prima risposta del papato era stata dunque una risposta politica, architettata
in prima istanza dal naturale avversario del vescovo, Roberto Bellarmino.
Le carte conservate insieme con la sentenza e i carteggi della nunziatura
di Fiandra rivelano che Scipione Borghese e Roberto Bellarmino si erano
occupati personalmente di allestire il fronte controversistico di Lovanio,
con il doppio compito di fermare − attraverso la censura, il sequestro
e la distruzione − la diffusione degli scritti di De Dominis nell'Europa
meridionale e di rispondere punto per punto alle accuse mosse al papato
dal De republica ecclesiastica. Le risposte erano, in realtà,
rivolte ancora una volta a Giacomo I e a William Barclay. Il compito
dei teologi lugduniensi incaricati era fallito, come risulta dai documenti
conservati al Sant'Uffizio, per ragioni di lentezza, disorganizzazione
e conflitti intestini, nonostante Bellarmino avesse voluto vagliare
attentamente i fogli che gli giungevano dalle Fiandre e spesso avesse
dettato la linea a cui attenersi nella controversia.
7. Maggior successo era destinato ad avere il violento attacco ad
personam che aveva proposto la figura di De Dominis come osceno
ricettacolo dei vizi capitali: anche perché, non disdegnando i piaceri
della tavola, il lusso e il denaro, il vescovo impersonava senza difficoltà
il contraltare corrotto e crapulone dell'ascetico inquisitore gesuita.
Il nunzio in Fiandra Gesualdo, seguito a ruota dai suoi successori,
era stato, infatti, immediatamente scatenato alla ricerca di aneddoti
sgradevoli sull'equivoco «apostata».
L'azione dei detrattori cattolici aveva avuto, straordinariamente, analoghe
ripercussioni in terra inglese. Mentre anche il terzo volume del De
republica ecclesiastica veniva dato alle stampe, tra De Dominis
e il sovrano inglese era giunta a compimento la coscienza di un fraintendimento
a lungo alimentato da entrambi: l'unione delle Chiese non era tra i
progetti del sovrano, né tra i suoi possibili obiettivi di lungo periodo.
Tra la sconfitta del Palatino, gli strascichi di Dordrecht e la possibilità
di un matrimonio spagnolo per l'erede, la delicata e ambigua posizione
di De Dominis finiva per renderlo al trono inglese persona non grata.
L'ala più rigorosamente calvinista della Chiesa anglicana rappresentata
da George Abbott, che aveva avuto buon gioco a spronare De Dominis nella
scrittura della parte drasticamente antiromana della sua opera, nei
primi anni venti non poteva più permettersi di sostenerlo e, allo stesso
tempo, avvertiva in lui un accentuarsi delle istanze ecumeniche. Non
sono ancora chiari i motivi per i quali egli avesse creduto di trovare
maggiore ascolto da parte della Chiesa di Gregorio XV: la storiografia
recente esclude però essersi trattato di ragioni di mera opportunità.
È piuttosto probabile che l'ambasciatore spagnolo Gondomar (nelle vesti
di mediatore) gli avesse prospettato, non necessariamente in malafede,
che il perdono che il papa era disposto a concedergli potesse preludere
a un nuovo corso, a una politica di maggior rilassatezza dogmatica da
parte della curia.
La Chiesa era pronta effettivamente a un atto di catarsi che avesse
risonanza a livello europeo, e che rendesse noto ai detrattori dell'autorità
pontificia che l'arcivescovo di Spalato, accortosi dei propri errori,
era stato riaccolto benignamente da una madre severa ma giusta. Una
volta a Roma De Dominis sarebbe stato, del resto, il fiore all'occhiello
della strategia di controllo delle coscienze. Gli era stato caldamente
suggerito di fare ciò che gli era sempre venuto naturale: riconsiderare
gli errori passati e fare ammenda in forma scritta. Gli si era chiesto,
cioè, di combattere la nefasta influenza da lui stesso esercitata a
livello europeo con i medesimi strumenti con cui aveva propagato il
dissenso: la pubblicistica.
8. A questo periodo risalgono il cosiddetto Manifesto del ritorno,
di cui al Sant'Uffizio sono conservate le diverse redazioni con successive
correzioni, e le Retractationes, il cui titolo di agostiniana
memoria sembrava dover precedere una serissima ammenda dei peccati politici
dell'arcivescovo. Ma ciò che non aveva funzionato per l'Inghilterra
aveva fallito anche per Roma. Probabilmente coloro che ai tempi dell'exitus
lo avevano dipinto come un uomo divorato da una sfrenata ambizione
finirono per rendere alla Chiesa un cattivo servizio. La curia −
come Abbott e Giacomo I − aveva creduto forse di avere a che fare
con un uomo affatto o pochissimo pentito, ma mosso da un incrollabile
opportunismo: il che era stato, probabilmente, un tragico errore. Più
volte De Dominis aveva peccato di naïveté, ma mai di scarsa affezione
ai propri progetti irenistici.
La tesi del famoso opportunismo di De Dominis − invocata da ogni
parte in causa − fu così, probabilmente, un vero e proprio peccato
di ottimismo da parte della corona inglese e della curia romana. Esso
fu la causa di un triplo imbarazzo, rivelato dalle carte del Sant'Uffizio:
anzitutto quello di Giacomo I, che si trovò a dover fugare i sospetti
dell'ala puritana della Chiesa anglicana e di coloro che avevano pensato
che egli fosse giunto a desiderare la riunificazione con la Chiesa cattolica.
Quello degli inquisitori, poi, che si trovarono di fronte un uomo candidamente
e incrollabilmente incapace di tacere le proprie velleità di riforma.
Infine, quello dell'anziano arcivescovo, accortosi di aver riposto un'altra
volta le proprie speranze nell'istituzione sbagliata. De Dominis, fu,
come mostra la sentenza, un teorizzatore della liceità del nicodemismo,
ma suo malgrado trovò impossibile passare diligentemente alla pratica.
La sentenza e la relazione allegata al Sant'Uffizio ci restituiscono
l'immagine di un uomo che non aveva cambiato idea e che non vide fino
all'ultimo motivi validi (a parte l'ennesimo processo che si trovava
a sostenere) per ritrattare definitivamente e per impegnarsi a non diffondere
le proprie opinioni. La lettura rivela che ciò che preoccupava gli inquisitori
era il fatto che tutto quello che De Dominis confessava di credere fermamente
si risolveva in un pericoloso attacco all'autorità pontificia e, simultaneamente,
allo sforzo che nel contesto del concilio di Trento era stato fatto
per fissare le coordinate di tale autorità.
9. Il Tridentino era infatti il bersaglio principale dell'ideologia
di De Dominis. Il ragionamento che sembrava trapelare dalle risposte
dell'arcivescovo era estremamente lucido: le possibilità di conciliazione
vengono necessariamente meno quando s'impone troppo rigore nelle definizioni
di ciò che è da credere. A Trento il concilio aveva scartato l'ipotesi
del riassorbimento dello scisma e, per rendere il varco incolmabile,
aveva costruito una struttura dogmatica estremamente meticolosa. De
Dominis, comprendevano gli inquisitori, aveva colto nel segno: la sostanziale
aporia tra il sostenere che il papa fosse autorità infallibile e il
sostenere che la Chiesa si fondasse su una traditio vivens, passibile
di continui aggiornamenti e correzioni. Su queste considerazioni sorgevano
le fondamenta della questione giurisdizionalista: che non fosse possibile,
cioè, trarre dagli stessi dogmi alcuna legittimazione a estendere l'autorità
del pontefice al piano temporale.
Non era presente, in questo attacco, alcun richiamo alla novità. Se
è necessario, come si è visto, scartare la categoria di innovazione,
per interpretare la vicenda biografica e intellettuale di Marcantonio
De Dominis può essere utilizzata la categoria di rivoluzione. È facile
ravvisare che il suo fu un percorso circolare, una revolutio.
Sono lineari le vicende, intellettuali o biografiche, per le quali sembra
potersi individuare una strada certa verso una qualche forma di progresso
o di sviluppo, sia questo inteso in una connotazione positiva o neutra.
Sono circolari quelle vicende che raccontano di una rivoluzione, cioè,
secondo la radice etimologica della parola, di un ritorno al punto di
partenza, logico, cronologico o spaziale che sia. Compie una rivoluzione
chi, come l'arcivescovo di Spalato, faccia un tentativo di tornare alle
origini della storia di una particolare istituzione, ai fondamenti di
una teoria politica o ecclesiologica; compie una rivoluzione chi si
richiami al passato per fondare un nuovo paradigma teorico, un nuovo
metodo di risoluzione di problemi di natura diversa, o anche per riproporre
una prospettiva dimenticata. Compie una rivoluzione, infine, un individuo
che come De Dominis consumi le suole dei calzari, che macini miglia
e miglia per recarsi fisicamente a sperimentare la validità di un dato
sistema politico − cioè di un sistema in cui, in una data modalità,
si producono valori e si esercita il potere di «allocarli» mediante
leggi e sanzioni − diverso da quello di origine; e che, per ragioni
evidenti o sconosciute, sia disposto in un dato momento a tornare al
punto di partenza e a riconsiderare la propria esperienza. Tale persona
avrà allora svolto un singolare experimentum crucis, per dirla
con Francesco Bacone, atto a confrontare due modelli diversi; una sorta
di cammino utopico alla ricerca del sistema ideale, in cui però il viaggio
fantastico diventa un viaggio reale, pieno di pericoli, di aporie, di
difficoltà concrete di comunicazione.
10. La rivoluzione costituita dalla vita e dalle opere di Marcantonio De Dominis rappresenta quindi il punto di incontro tra l'analisi di un momento storico, la valutazione di una tradizione millenaria e la relativa sintesi, cioè la proposta di un'utopia ecclesiologica. La reazione dei suoi interlocutori − la curia romana e la Chiesa e la corona anglicana − fu sempre rapida e l'utopia sottoposta continuamente a prove durissime. Egli partorì un progetto politico e un programma ecumenico; fu giudicato per questo. Partì; viaggiò; trasse altre conclusioni; fu giudicato per queste. Ritornò, al punto di partenza e sugli stessi argomenti; fu giudicato per questo, bruciò. I processi, le commissioni d'inchiesta e i verdetti di condanna scandirono la sua rivoluzione. Egli visse, operò, scrisse e arse in un lungo viaggio-esperimento all'insegna dell'eresia: ben diverso, tuttavia, rispetto a quelli degli eterodossi ed esuli cinquecenteschi. La sua storia è quella di un uomo di fede interessato ad analizzare la realtà politica in cui si sviluppano le istanze dottrinali: non quella, come voleva Delio Cantimori, dell'ultimo esule dell'ultima generazione degli eterodossi fuggiaschi per motivi religiosi, che a suo parere faceva parte degli
spiriti irrequieti e visionari, mistici e sentimentali se si vuole, che fra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento coltivavano una sorta di pacifismo illuminato nel seno della cristianità: certo, uomini fuori della realtà politica, ma voci confuse di una stanchezza, d'un bisogno di quiete, di una insofferenza per l'intolleranza e l'irrigidimento delle ortodossie con la conseguente prevalenza dell'elemento giuridico-dottrinale su quello morale ed ascetico[6].
Non una sola parte di questa affermazione sembra veramente adattarsi al percorso religioso e intellettuale di De Dominis. La sua ricerca non fu tanto spirituale, e tantomeno mistico-sentimentale, quanto politica ed ecclesiologica: una rivoluzione consumata nel ripensamento dei fondamenti dottrinali e dei meccanismi delle due istituzioni principali, la Chiesa e lo Stato; una messa in discussione dell'idea stessa di autorità e di fondamento dell'obbligazione politica e, di riflesso, di quella confessionale. De Dominis è non per caso il primo appassionato curatore dell'Istoria del Concilio. Non si può tuttavia ignorare il suo profondo interesse per l'aspetto puramente religioso delle sofferenze del mondo cristiano. Dal servita Sarpi lo separava una sincera preoccupazione, spirituale ancor prima che politica, per il futuro della cristianità, ed è innegabile che egli fosse compreso nel proprio ruolo di pastore e vescovo, di perno fondamentale della Chiesa di Cristo, che si sentisse responsabile delle sorti morali dell'istituzione. Ma questo sentimento non aveva nulla di irreale, di visionario, di apolitico. Se non l'ultimo degli esuli, fu dunque l'ultimo di una generazione fallita ed estinta: quella pre-tridentina e pre-borromeiana di vescovi militanti, votati al proprio ruolo di cavallo di Troia della riforma dell'istituzione di appartenenza.
11. L'esperienza di De Dominis può essere definita, ovviamente, anche in rapporto alla rivoluzione culturale del secolo XVII. Tale fenomeno − che, per parafrasare Khun, può essere definito un periodo di crisi della cultura seguito a un periodo «normale» −, viene normalmente studiato sotto diverse specie: in termini di idee, leggi, teoremi e principi elaborati dai suoi fautori; in termini di ambienti di circolazione delle idee che lo caratterizzano (studia, collegi, accademie, laboratori, circoli privati e società). Oppure come processo di progettazione o riorganizzazione di un metodo; come paradigma che include una visione del rapporto tra l'uomo e Dio, la natura, la scienza; in termini di opposizione, rapporto dialettico, approvazione di alcune auctoritates assunte come riferimento; come nuovo linguaggio, nuova koiné. O ancora rispetto al ruolo della committenza, diretta o indiretta, il cui studio rivela la dipendenza degli intellettuali dalle finalità e dagli interessi delle varie istituzioni o di singoli individui e di quale tipo sia il controllo che si esercita sugli scienziati e sulle loro scoperte, che si riflette nella natura e nell'oggetto delle speculazioni, delle sperimentazioni. Ma una delle interpretazioni classiche dell'Illuminismo o della seconda metà del Seicento (in ambito inglese, soprattutto) può essere utilizzata anche per i primi decenni del secolo XVII: l'idea che la rivoluzione scientifica e culturale sia più di una categoria espressa in un paradigma o di un periodo culturale definito da alcune scoperte, ma sia piuttosto costituita da una rete di rapporti. La sensazione è che i nodi di tale rete siano personaggi come De Dominis, con attitudini diverse e interessi svariati, ma con un nucleo filosofico comune, fondato sul concetto di renovatio, ritorno a una condizione ideale in senso religioso, politico, cognitivo: una res publica sapientium, diversa da quella umanistica, che intendeva lasciarsi alle spalle la stagione sanguinosa delle guerre di religione per inaugurare una nuova età dell'oro all'insegna dell'ecumenismo, della tolleranza e del progresso del sapere. L'aspetto che riguarda il rapporto della rivoluzione personale dell'arcivescovo di Spalato con la rivoluzione culturale e scientifica e i suoi fautori è quello che è stato ricostruito nelle opere di Enrico De Mas, dove il motore filosofico di tale rapporto è individuato in un progetto esteso a tutte le confessioni cristiane, con forti connotazioni politiche e l'aspirazione alla cessazione dei grandi conflitti di religione. Ne viene fuori un gigantesco affresco denso di nomi più o meno famosi, di cui molti inglesi, dove però l'autore indulge all'esasperazione di istanze irenistiche che per la maggior parte dei personaggi che vengono chiamati in causa costituivano una mera facciata o non esistevano affatto. Pochi di coloro che egli ha definito ecumenisti, o per dirla con Bacone «latitudinari», possono essere considerati tali senza forzare l'interpretazione. Ma resta vero il fatto che uno straordinario numero di intellettuali − di cui molte tra le conoscenze dirette o i corrispondenti dell'arcivescovo di Spalato − si riconoscesse in un anelito all'armonia propria di epoche precedenti: le età dell'oro della politica, della Chiesa cristiana, del rapporto tra gli esseri umani e la natura, il cosmo.
12. Sebbene le molte varianti meritino di essere studiate analiticamente
nei singoli casi, il vivido intreccio dei rapporti tra le intellighenzie
europee si rifletteva in una trasversalità dei contenuti, oltre che
delle pertinenze e dei campi di interesse: mentre filosofi, letterati
e scienziati riflettevano sulla struttura ideale della società, della
comunità politica e religiosa di appartenenza, la loro concezione filosofica
del mondo, dei rapporti sociali e dell'universo politico originava un
dirompente paradigma culturale-scientifico, una determinata lettura
del mondo fisico e meccanico, metodi innovativi di indagine. È questo
è anche il nesso tra i latitudinari della prima generazione, individuati
da De Mas nelle conoscenze di De Dominis, e quelli della seconda generazione,
studiati da Margaret Jacob: il filo rosso che venne a unire, ancor più
degli studi sulla natura della luce, l'arcivescovo di Spalato al più
celebre tra i suoi lettori inglesi, Isaac Newton.
Ma la rivoluzione di De Dominis, intesa nei suoi diversi aspetti, ha
quale cornice la vicenda inquisitoriale nelle sue varie fasi, giacché
il lungo cammino di De Dominis, in un certo senso, partì da Roma e ritornò
a Roma. La sua storia di avventuriero fu un problema dei cardinali inquisitori,
prima che di qualsiasi altro. Coloro che erano formalmente i custodi
dell'ortodossia cattolica, e dunque del principio di autorità, furono
preposti a gestire il più spettacolare attacco all'autorità della Chiesa
di Roma che fosse stato inflitto dal suo interno, in un'epoca in cui
si stavano raccogliendo i frutti pratici e ideologici del disciplinamento,
della repressione del dissenso, della costruzione ideologica tridentina.
Con la fuga in Inghilterra e le sue pubblicazioni, De Dominis aveva
metaforicamente riaperto un archivio sigillato, quello dei risultati
del Concilio di Trento e delle sua effettiva opera di riassestamento
del mondo cristiano. L'apertura dell'Archivio della Congregazione per
la Dottrina della Fede ha avuto un peso notevole nella considerazione
della opportunità di riesumare De Dominis per l'ennesima volta: è ciò
che ha permesso e permetterà in futuro di dare contorni più definiti
ad analoghe vicende, a dare maggior rilievo alle grandi sintesi dottrinali,
politiche ed ecclesiologiche dell'età moderna, a riconsiderare il caso
di personaggi che, come l'arcivescovo di Spalato, per la gioia dell'Inquisizione
che si era proposta di seppellirne la memoria, hanno cessato di rappresentare
un problema storiografico. A volte, com'è accaduto a De Dominis, dopo
secoli di bizzarra fortuna.
13. Calde ancora le ceneri, al dalmata fu riconosciuto un ruolo di
chiave di volta fra due secoli e due modi di intendere l'utopia, dove
un problema religioso e dottrinale si scontrava con un problema politico-istituzionale.
Ma se De Dominis aveva sferrato al potere della Chiesa romana, dall'interno,
uno degli attacchi più micidiali dall'epoca del concilio di Trento −
che, in armonia con lo sforzo centralizzatore di Urbano VIII, andava
punito agli occhi del mondo con estremo rigore − è parimenti vero
che il suo attacco all'ideologia proposta dalla corona inglese finì
per essere altrettanto pericoloso. Nella misura in cui, al termine del
suo percorso biologico e teorico, come risulta dai verbali del processo
dell'inquisizione e nelle grottesche Retractationes, egli aveva
finito per riconoscere in qualche maniera all'autorità una natura convenzionale
e il suo adiaforismo aveva pericolosamente sconfinato in una sorta di
non-cognitivismo politico, anche il diritto divino dei re e le sue variazioni
ecclesiologiche più estremistiche si erano legittimamente sentiti bersaglio
delle conclusioni del De republica ecclesiastica. Giacomo I e
il suo establishment avevano reagito, di conseguenza, con lo
stesso livore sdegnato degli inquisitori romani. Le copiose e compiaciute
relazioni sul processo e il rogo di Marcantonio De Dominis ne sono inequivocabili
testimoni.
Roma stessa, nelle vesti dei suoi polemisti, aveva dipinto il ritratto
di De Dominis da consegnare alla posterità, e fu un'immagine tenace
nei secoli, che costituì la base della sua leggendaria fortuna storiografica.
La fama di Marcantonio De Dominis, il teologo avventuriero ricercato
per quasi un decennio dall'Inquisizione romana, bruciato due volte sul
rogo in effigie con le sue opere, di cui una insieme con i suoi resti
mortali, gli sopravvisse di molto. Contro l'arcivescovo di Spalato si
scagliarono con eguale veemenza i cattolici e gli anglicani, che per
tutto il secolo XVII continuarono a evidenziarne le doti di voltagabbana,
traditore di professione, spia al servizio degli uni e degli altri,
eresiarca per natura, servitore di più padroni, tra cui Mammona sembrava
essere stato di gran lunga il più autorevole.
14. Ma anche nei secoli successivi la cattiva fama generò un'evidente
confusione. Nell'XIX secolo la sua figura fu rivalutata da alcuni autori,
tra cui l'anglicano Newland[7],
che nella sua monografia ne fece un martire delle trame ordite dalla
Chiesa cattolica e dalla Spagna, un anonimo cattolico che ne volle invece
fare un martire della malafede anglicana e Arturo Carlo Jemolo, che
con più verisimiglianza lo considerò un esponente di spicco delle dottrine
giurisdizionaliste dei secoli precedenti[8].
La bibliografia novecentesca che riguarda la vita e le opere dell'arcivescovo
di Spalato ha seguito un percorso articolato fondamentalmente in tre
fasi, che si ferma però agli anni ottanta. La prima fase è costituita
dagli studi cantimoriani, che hanno visto nel De Dominis l'ultimo degli
esuli della Riforma italiana: di coloro che si videro costretti a cercare
in altri paesi la possibilità di diffusione delle proprie idee eterodosse.
Cantimori utilizzò addirittura la sua morte, o meglio il rogo, come
terminus ad quem dell'ultima stagione della Riforma italiana[9]. Antonio Russo, sulla scia delle sue conclusioni,
si concentrò piuttosto sull'interpretazione dei testi politico-religiosi,
e in particolare della grande opera ecclesiologica De republica ecclesiastica[10].
La seconda, di poco posteriore, è una fase che ha visto gli studiosi
di storia della Dalmazia individuare in Marcantonio De Dominis una gloria
nazionale: uno scienziato dalle geniali intuizioni nel campo dell'ottica;
un campione delle rivendicazioni della propria regione nei confronti
dell'Impero asburgico e di Venezia; addirittura, con un'esegesi un poco
peregrina, un sostenitore di una visione democratica della Chiesa plasmata
sul modello della comunità serbo-croata detta zadruga[11]. La maggior parte di queste interpretazioni,
sfociate soprattutto in articoli e brevi saggi, si è avvalsa del grande
lavoro archivistico di un altro studioso conterraneo di De Dominis,
Ljiubich[12], che già nell'Ottocento
aveva portato a termine l'edizione di una straordinaria quantità di
fonti documentarie riguardanti l'arcivescovo di Spalato.
La terza fase è probabilmente la più feconda. Essa è costituita dagli
scritti di Enrico De Mas[13]
e dal breve saggio di Noel Malcolm[14], che hanno voluto inserire il personaggio del
vescovo apostata in un contesto più ampio. De Mas descrive nei suoi
due saggi più famosi la partecipazione di De Dominis alle speranze dell'Europa
delle utopie politico-scientifiche e dei fermenti di rinnovamento culturale
e religioso.
15. Malcolm ha invece il merito di rovesciare una certa interpretazione
(di matrice controversistica cattolica), a cui persino De Mas sembra
dar parzialmente credito: quella che interpretava la figura dello spalatense
come un uomo avido e mosso dal desiderio di onori e di prestigio internazionale,
per dimostrare che in realtà le aspre contese con Roma erano inizialmente
scaturite dalla volontà di attuare una profonda riforma del ruolo vescovile
nella conduzione delle diocesi e all'interno della Chiesa stessa. Malcolm
rivaluta la sostanziale limpidezza delle sue motivazioni, leggendone
l'impresa come un sincero tentativo di preparare la strada a un rinnovato
rapporto tra potere civile e spirituale, tra Chiese cristiane e sovranità
assoluta.
Una rilettura dell'esperienza biografica e intellettuale di Marcantonio
De Dominis dovrebbe prendere le mosse dalle tesi sostenute nelle ultime
interpretazioni, anche nel tentativo di riconsiderare criticamente le
osservazioni cantimoriane sulle biografie dei riformati italiani. La
corrispondenza dell'arcivescovo, le lettere di Paolo Sarpi e quelle
di Fulgenzio Micanzio a William Cavendish[15],
i documenti reperibili in Inghilterra, tra la biblioteca Bodleian di
Oxford, la British Library e il Public Record Office di Londra, le carte
dell'Inquisizione veneziana e i documenti pubblicati da Ljubich costituiscono
una massa ingente di fonti, quelle su cui finora si sono basati gli
studi su De Dominis. Ad esse si sono aggiunti i documenti conservati
all'Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, l'ex Sant'Uffizio,
riguardanti il caso inquisitoriale dell'arcivescovo di Spalato e contenenti,
oltre ad alcuni dei suoi scritti e ad altro materiale di vario tipo
raccolto dagli inquisitori, la sentenza del processo finale, letta davanti
al suo cadavere a Santa Maria sopra Minerva. Tali documenti possono
costituire il filo rosso che tiene insieme le varie indicazioni che
provengono dalla storiografia del XIX secolo, fino a delineare a tratti
più chiari una figura paradigmatica: non più quella di un'esule solitario,
quanto quella di uno scrittore politico, di un viaggiatore irenista,
di un costruttore di reti utopico-scientifiche, di uno dei grandi sistematizzatori
e collettori della tradizione politica ed ecclesiologica della cristianità
occidentale. E, come tale, di uno dei primi a riconsiderare gli esiti
del concilio di Trento sub specie auctoritatis. La fortuna incontrollabile
dell'Istoria del Concilio Tridentino, a cui egli come curatore
aveva dato la stura, ne proseguì lo sforzo, ne rintuzzò le pagine bruciate
insieme con le vecchie ossa, attribuì un significato di lotta politica
e religiosa alle sue ceneri infelici.
[1] Questo testo è la rielaborazione dell'introduzione al volume Potestas e auctoritas: Marcantonio De Dominis tra l'Inquisizione e Giacomo I, Torino, Franco Angeli, 2003.
[2] D. CANTIMORI, Prospettive di storia ereticale, Torino, Einaudi 1958, 30-31.
[3] Cfr. il memoriale del rogo, contenuto in S. LJUBICH, Prilozi za zivotopis Markantuna de Dominisa Rabljanina, spljetskoga nadbiskupa, «Starine na sviet izdaje jugoslavenska akademija znanosti i umjetnosti», II, 1870, 215 e BOD [Bodleian Library Oxford], 4° Rawlinson, 118, 109. Cfr. anche le relazioni anonime: A Relation sent from Rome of the Processe, Sentence and Execution of Marcus Antonius de Dominis, London, John Bill 1624, 3 e Newes from Rome: Spalato's Doome. An Epitome of the Life and Behaviour of Marcus Antonius De Dominis, London, printed by John Haviland for Richard Whitaker 1624, attribuita a Thomas Horne.
[4] I due testi sono pubblicati in E. BELLIGNI, Sentenza e condanna postuma di Marcantonio De Dominis, «Il pensiero politico», XXXIII, 2, 2001, 278-279.
[5] Cfr. ACDF [Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede], Index, Diarii, II e S. O., St. St., E-6-b. Cfr. anche le corrispondenze dei nunzi Gesualdo, Morra e Sanseverino (1615-1621); Bagno (1621-1627), in Nonciature de Flandre: Gesualdo, Morra e Sanseverino (1615-1621), a cura di Lucienne van Meerbeck, Bruxelles, Palais des Académies 1937; IBID., Bagno (1621-1627), a cura di Bernard de Meester, Bruxelles, Palais des Académies 1938.
[6] ID., L'utopia ecclesiologica di Marco Antonio De Dominis, in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, atti del convegno di Storia della Chiesa in Italia (Bologna, 2-6 settembre 1958), Padova, Antenore 1960, 107-108.
[7] Cfr. H. NEWLAND, The Life and Contemporaneus Church History of Antonio de Dominis, Archbishop of Spalatro, Oxford and London, John Henry & James Parker 1859.
[8] Cfr. A. C. JEMOLO, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Sei-Settecento, Napoli, Morano 1971.
[9] Cfr. CANTIMORI, Prospettive di storia ereticale cit., e ID., Eretici italiani del Cinquecento, Torino, Einaudi 1992.[10] Cfr. A. RUSSO, Marc'Antonio De Dominis, Arcivescovo di Spalato e apostata (1560-1624), Napoli, Istituto della Stampa 1965.
[11] Cfr. soprattutto D. NEDELJKOVICH, Marc-Antoine De Dominis en science et utopie à l'ouvre, Beograd, Académie Serbe des Sciences et des Arts, 1979 (Marko Dominis u nauci i utopiji na delu, Beograd 1975).
[12] Cfr. LJUBICH, Prilozi cit., e ID., O Markantunu Dominisu Rabljaninu, historicko-kriticko istrazivanje navlastito po izvorih mletachkoga Arkiva i Knjiznice Arsenala parizkoga, «Rad jugoslavenske akademije znanosti i umjetnosti», X, 1870.
[13] Cfr. E. DE MAS, L'attesa del secolo aureo (1603-1625). Saggio di storia delle idee del secolo XVII, Firenze, Olschki 1982 e ID., Sovranità politica e unità cristiana nel Seicento anglo-veneto, Ravenna, Longo 1975.
[14] Cfr. N. MALCOLM, De Dominis 1560-1624. Venetian, Anglican, Ecumenist and relapsed Heretic, London, Strickland & Scott Academic Publications 1984.
[15] Cfr. F. MICANZIO, Lettere a William Cavendish (1615-1628), a cura di Roberto Ferrini, Roma, Istituto Storico O. S. M. 1987.