1. La prospettiva migliore per leggere e apprezzare nel loro valore e significato questi saggi preparatori al sesto volume del Settecento riformatore è, credo, quella biografica. La biografia è stata per Venturi il modo di conoscenza storico per eccellenza. Studiare biograficamente Venturi è naturale, è un tentativo di leggere la sua attività di storico attraverso gli strumenti stessi che aveva creato per studiare il passato e il presente. Un modo di conoscenza del quale Venturi ancora nel 1989 rivendicava la piena validità. "L'uomo è la misura delle cose. Credo che sia assolutamente impossibile fare una storia senza biografia. La biografia è la base stessa della storia"[1]. Nel caso di questi Saggi preparatori si tratta di collocarli nell'arco intero della sua intensissima attività di storico e della rete fitta di letture ed esperienze politiche e culturali di cui Venturi costruì il tessuto stesso della sua vita di studioso.
2. Dal punto di vista della biografia di Venturi, quindi, i Saggi sono l'ultimo tassello di un lavoro paziente e ambizioso iniziato durante la reclusione confino di Avigliano, come si evince da una lettera alla madre del 20 ottobre 1941. Il giovane studioso concludeva la sua lettera con la previsione: "Scriverò (quando?) una storia del Settecento europeo"[2]. Quando Venturi lasciò cadere quelle poche parole aveva alle spalle già una solida, ancorché precocissima, produzione di storia intellettuale del Settecento sia francese (La jeunesse de Diderot e gli studi su Dom Deschamps) sia italiano (il volume sul Vasco), aveva avviato e pressoché terminato le ricerche che saranno sintetizzate nel libro sulla Origini dell'Enciclopedia, ma forse solo nella solitudine forzata ma operosa della Basilicata - dove peraltro si direbbe si occupasse prevalentemente di storia del Quattrocento e del Cinquecento italiano, da Pomponazzi a Machiavelli a Campanella e Giordano Bruno - forse solo allora si delineò questo piano di studio complessivo del Settecento europeo, al quale Venturi si è tenuto fedele con coerenza straordinaria per mezzo secolo. Non è possibile in questa sede riprendere la biografia intellettuale di Venturi, che peraltro è stata più volte affrontata egregiamente. Ma val la pena di ricordare che sin dall'inizio degli anni cinquanta Venturi iniziò a pubblicare libri e saggi, come la biografia di Radicati di Passerano e il saggio del 1953 sulla Circolazione delle idee: Venturi stesso li intendeva come parte di un progetto che voleva chiamare "Saggi sull'Europa illuminista". Come è noto, la serie dei saggi sull'Europa illuminista non fu proseguita oltre il primo, quello dedicato a Radicati di Passerano, ma il suo progetto rimase vivo e assunse forme nuove, comunque profondamente legate all'idea iniziale: prima i volumi sugli illuministi italiani all'interno della monumentale collana di Ricciardi, poi i volumi del Settecento riformatore. Ancora nel 1964, conclusa ormai la lunga fatica ricciardiana, scriveva all'amico Valiani: "Vorrei preparare il secondo volume dei saggi sull'Europa illuminista e intitolarlo Cosmopoliti settecenteschi per fare venire il più possibile di rabbia a questi idioti nazionalisti comunisti, facendo un pochino almeno vedere come alle radici ci stia proprio il cosmopolitismo". Ma insomma, anziché i Cosmopoliti settecenteschi venne fuori Settecento riformatore. Anche il Settecento riformatore che conosciamo è diverso da quello che inizialmente Venturi aveva pensato. Secondo una lettera a Valiani doveva essere una sintesi di "quel che da dieci anni si è fatto in Italia sul nostro Settecento, [...] sul nostro illuminismo italico" [3], ad uso si direbbe, soprattutto del pubblico francese. Il Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria fu scritto in realtà in gran parte a Cambridge, Massachusetts, dove presso la Harvard University Venturi trascorse l'anno accademico 1967-68. Qui, come egli raccontava sempre a Valiani, "ci sono queste biblioteche che tolgono il respiro, tante tentazioni fanno venire di leggere su mille cose importanti, tra libri che non ritroverò certo più una volta tornato in Europa" [4]. Il prodotto di questo soggiorno fu Settecento riformatore. La struttura del volume, articolata al suo interno tematicamente, ma compatta nell'equilibrio cronologico tra gli anni trenta e gli anni sessanta del '700, era pensata per documentare il momento più intenso dello sforzo riformatore all'interno degli stati italiani. Saldamente inserita nella circolazione europea delle idee, la vicenda raccontata in questo volume è comunque essenzialmente italiana: il problema fondamentale è la capacità italiana, còlta trasversalmente nell'esperienza dei vari stati e delle repubbliche, di trasformarsi istituzionalmente, intellettualmente, nel sistema produttivo e fiscale, compiendo uno sforzo di acquisizione delle idee europee da pari a pari con il resto del continente. Il Settecento riformatore da progetto concluso in sé qual era inizialmente si apre nei volumi successivi. E progressivamente, in particolare a partire dal terzo volume, ingloba di fatto il progetto appena abbozzato dei Cosmopoliti settecenteschi, torna allo spirito dei saggi sull'Europa illuminista pensati negli anni cinquanta. Nei volumi conclusivi l'Italia non perde del tutto la sua centralità di spazio nel quale le riforme si discutono e si mettono in cantiere, ma diventa il luogo di formazione di un'opinione pubblica che segue attentamente le sconvolgenti trasformazioni del mondo, da Philadelphia a Odessa, da Londra a Madrid, e riscopre la forze delle identità locali. I Saggi preparatori lasciano intravedere la conclusione di un percorso che riporta, dopo un lungo tragitto, ad alcuni problemi che Venturi aveva individuato agli inizi della sua carriera di storico. Il Settecento riformatore diventa quello che si potrebbe anche chiamare un Settecento patriottico, un secolo nel quale naturalmente la circolazione delle idee è europea - su questo dato acquisito Venturi non sentiva la necessità di tornare - ma che mostra all'occhio attento la trama dei ricordi, delle stratificazioni istituzionali, giuridiche, sociali, degli orgogli locali che esprimevano equilibri raggiunti nel corso dei secoli. Non è ovviamente un tema del tutto nuovo nella ricerca di Venturi: in Utopia e riforma, come tutti ricordiamo, le repubbliche di antica, quasi immemoriale origine, sono richiamate con forza come elemento ancora vitale della politica settecentesca. Ma è chiaro che nell'interpretazione di Venturi l'incontro tra pensiero sull'uomo e sulla società e azione politica di trasformazione può avvenire se esiste una dinamica forte di creazione intellettuale e di intervento politico: questa, come mostra l'amplissimo capitolo sul grande progetto di Giuseppe II, si può ritrovare nella concentrazione del potere della monarchia assoluta, non certo nell'intricata e talvolta francamente incomprensibile distribuzione dei poteri delle vecchie repubbliche e tanto meno nella resistenza o sordità del mondo locale agli impulsi riformatori del centro. Dagli inizi degli anni ottanta sino a questi saggi Venturi dedicò proprio a queste situazioni di rifrazione del moto riformatore, non del suo mainstream, un interesse crescente: non necessariamente un'adesione emotiva immediata, ma la premura dello storico per un fattore storico di cui si doveva riscoprire la rilevanza. Così le ricerche di Venturi si erano orientate verso Ginevra, verso il turbolento mondo balcanico, verso la repubblica veneta. Insieme alle vicende delle repubbliche Venturi sottolineava la forza del patriottismo come legame costitutivo delle scelte individuali. La biografia aveva permesso a Venturi di mostrare in molte occasioni le fratture, gli scontri con l'ambiente familiare, cittadino, di ceto: ora sottolineava il radicamento profondo degli intellettuali nella situazione data, nella rete di relazioni, di memorie individuali e collettive, di implicazioni nel detto e nel non detto. Genova e la Toscana, le uniche due realtà descritte in questi capitoli postumi, offrono al lettore due esempi dell'attenzione venturiana per i freni alla riforma, per la vischiosità delle situazioni consolidate che condizionano i generosi tentativi di "riformare qualche cosa nel nostro paese", come aveva scritto, con evidente empatia e partecipazione militante, nella "Prefazione" a Settecento riformatore nel novembre del 1968.
3. Si susseguono nei Saggi preparatori i cammei biografici, visti dalla prospettiva offerta da un libro, da un avvenimento, da un riferimento epistolare: non ritratti a tutto tondo, ma tessere di un mosaico rimasto largamente incompleto. Ma anche nell'ovvia frammentarietà del quadro è chiaro il predominio delle personalità attente ai rapporti con il loro ambiente, anche quando ne dissentono. Il legame cosmopolitico aggiunge intelligenza e perspicacia, non è il motore di iniziative di rinnovamento radicale. Anzi, in qualche caso, sono impetuosi conservatori a tenere il campo con la forza della loro personalità. Così la figura con cui si aprono i saggi, il prete Francesco Maria Accinelli, la cui storia di Genova fu bruciata dal boia nel 1752 per essere troppo filopopolare e antinobiliare. Ma per quanto potesse trovare inverosimile l'impostazione della storia di Accinelli, Venturi riconosceva che "le pagine di Accinelli restano viva testimonianza della passione che aveva mosso il popolo" nella rivolta contro gli austriaci del 1746 (50), in un momento in cui l'alternativa tra governo popolare e nobiliare pareva presentarsi nuovamente. E l'accanimento storiografico di Accinelli contro l'inetta oligarchia genovese non è perduto nelle pagine di Venturi che trattano dei personaggi protagonisti delle "idee di riforma", non ultima la riforma costituzionale. Ma anche questa breve galleria raccoglie essenzialmente ritratti di uomini che ripiegano sulla gioia privata, sull'erudizione raffinata piuttosto che lanciarsi nello scontro con le istituzioni patrie. Così appare la personalità di Giacomo Filippo Durazzo marchese di Gabiano, che raccolse e conservò il manoscritto delle Notte alfee di De Soria, il progetto di creazione a Genova di meccanismi partecipativi e rappresentativi, ma "non primeggiò mai politicamente", preferendo evitare troppo pesanti impegni politici. E così la figura di Agostino Lomellini, "il più colto e famoso patrizio genovese del Settecento" (67), doge dal 1760 e per due anni quindi prigioniero del Palazzo, ma abituato a frequentare gli ambienti diplomatici di tutt'Europa, appare come in una luce sfumata, avvolto nell'atmosfera ovattata della repubblica. E l'episodio nel quale Lomellini chiede a Montesquieu di correggere nell'Esprit des lois un passo ritenuto offensivo, anzi pericoloso, per la repubblica a proposito dell'influenza popolare nell'amministrazione del Banco di San Giorgio (78-79), mostra bene l'accento di Venturi sulla appartenenza profonda di Lomellini all'universo genovese. E se, come scrive Venturi, anche Lomellini percorse il tragitto che era dell'illuminismo europeo, da Montesquieu all'Encyclopédie, questo non lo portò al radicalismo della ragione e all'attivismo dell'emancipazione, ma, nelle parole del viaggiatore Du Paty, alla contemplazione distaccata e pacificata del mare tormentato dalla tempesta e del Senato genovese animato dall'ambizione (85). La cultura genovese mostra in queste pagine di Venturi, attraverso un sapiente accostamento di testi e parafrasi, il suo volto più conservatore, una sua chiusura alle innovazioni per l'incapacità di innescare innovazioni di fronte ai traumi che - piccoli e grandi - non mancarono nella seconda metà del secolo, dopo la rivolta del 1746. Da una prospettiva diversa da quella che contemporaneamente assumeva Edoardo Grendi per studiare il caso di Cervo e delle sue turbolenze e della natura contrattuale e conflittuale dei suoi rapporti con la Dominante, ma alla ricerca del medesimo problema storico[5], Venturi offre uno rapido spaccato delle tensioni che sfociarono a San Remo nelle rivendicazioni antigenovesi e filoimperiali dal 1753 in poi. Il conflitto con San Remo si intrecciò con l'altro, ben più grave conflitto, con la Corsica, al quale Venturi aveva dedicato, val la pena di ricordarlo, un interesse costante, dalla polemica contro la storiografia nazionalista e fascista di Volpe negli anni trenta sino agli studi sulla discussione europea che la vicenda mediterranea aveva scatenato. Ma invano Venturi cerca una libera discussione: "a Genova un profondo silenzio regna negli anni '50 e '60 su tutto quanto riguarda la sorte della Corsica. Non, naturalmente, che non se ne discuta e non si senta la tragicità d'una situazione senza sbocco. Ma il dibattito non è mai pubblico, non prende mai la forma di d'un libro o di un articolo. Rimane chiuso entro le mura dei palazzi nobiliari, nelle coscienze dei singoli, nella angosciate discussioni dei diplomatici e dei governanti" (90). Per il terzo momento di travaglio attraversato da Genova nei suoi rapporti con i territori sottoposti, i ricorrenti problemi annonari, Venturi si affida, per "ascoltare" le voci dei protagonisti, soprattutto ai "biglietti di calice", sorta di voce dell'opinione pubblica che protesta e minaccia, sentenzia sull'ingiustizia della repubblica e reclama il ripristino dell'armonia sociale. Ma per quanto cresceva la consapevolezza della gravità della situazione, altrettanto si irrigidiva la risposta conservatrice delle istituzioni, dell'elite oligarchica. La politica annonaria rimase immutata, l'esempio toscano non fu seguito e la liberalizzazione del commercio dei grani rimase un'esigenza non soddisfatta. Anche sul piano della riflessione intellettuale i meccanismi della conservazione paiono a Venturi dominare: nel caso del trattato di Girolamo Gnecco, Riflessioni sopra l'agricoltura del Genovesato co' mezzi propri a migliorarla e a toglierne gli abusi e vizi inveterati del 1770, quanto spicca agli occhi di Venturi è la prudenza estrema dell'autore nel mutare il suo giudizio nei confronti dei contadini. Il miglioramento nella resa delle terre, la razionalizzazione dei rapporti proprietari, la considerazione dell'attività agricola sono tutti temi affrontati da Venturi, ma la conclusione è il rilievo dato al disprezzo e alla sfiducia dell'agronomo per il contadino: simile al malfattore Caino, "egli è pigro e vigliacco: né gl'importa di rovinare un podere purché si dia bel tempo e viva con agio a spese altrui" (116). Colpisce nella caratterizzazione di Venturi il tono perplesso, la delusione dello storico di fronte all'incomprensione ostinata di Gnecco per il mondo rurale: come se Gnecco, non diversamente d'altronde dal mondo in cui viveva, non avesse saputo mettere a frutto quella onda lunga che giunge sino all'Ottocento della "pressione dell'empirico" (la formula suggestiva è di Lepenies[6]) e che Grendi ha posto alla base della sua ricostruzione dell'interesse per il mondo rurale e dell'economia politica ligure immediatamente dopo Gnecco: da Spadoni a Viviani sino ai "frammenti storici sull'olivo e sull'olio" di G. M. Piccone e a Giorgio Gallesio e alla sua histoire du citrus nei primi anni dell'Ottocento[7]. La visione di Gnecco resta chiusa "entro la scena della vecchia repubblica" (119), aver letto Hume e l'Ami des hommes, Sebastien Mercier e Diderot non l'aveva mosso a uscire veramente dalla cerchia mentale della sua patria.
4. A ben vedere, è difficile considerare un trionfo dei lumi anche la seconda esperienza presentata nel volume. La Toscana dei Saggi preparatori è una piccola patria, che soffre dolorosamente il passaggio da dominio mediceo alla sovranità lorenese, nel quale "le vieux mot de patrie" torna ad avere un significato e una funzione politica. Il lorenese Duval, dopo un lungo soggiorno in Toscana, rimpianse l'eccellenza del sovrano naturale come perfetto capo politico: ben sapendo che né Francesco Stefano né Pietro Leopoldo, che pure Duval aveva servito con fedeltà, erano sovrano naturali, ma frutto di una politica che tratta, come scrisse, i popoli e le nazioni come oggetti di commercio, che si vendono e si scambiano come qualunque altra mercanzia (127). Né, a dir la verità, i fisiocrati che tanto amavano l'esperimento liberista di Pietro Leopoldo mostravano più rispetto per i toscani. Dove trova Venturi gli accenti più sinceri per descrivere l'età straordinaria di riforme degli anni 60 e 70? Non nei cenni, peraltro divertiti, riferiti alla personalità del sovrano, non nel ritratto della famiglia Cocchi, dove alla fine trionfa un "eccesso di coltura", di riflessione e sapienza, ma piuttosto nella rivalutazione esplicita della tradizione repubblicana cittadina che si trasforma "nel nuovo patriottismo senese" (129) e dà vita al lungo sforzo di riforma della Maremma disegnato da Sallustio Bandini, e nel ritratto di Ferdinando Paoletti, il parroco appassionato di agricoltura che, nel silenzio impostogli dalla gerarchia ecclesiastica, continua a studiare scrivere e operare, proiettando "la propria figura di parroco interamente dedicato al bene materiale e morale del suo gregge".
5. Difficile dire dove la ricerca avrebbe condotto Venturi nella sua interpretazione della vita italiana alla vigilia della rivoluzione, così come indicare se il modello di trasformazione politica forte, incisiva, consapevole della propria ragion d'essere, sarebbe stato il filo conduttore della sua interpretazione complessiva, come si direbbe a partire da alcune delle pagine dedicate alla Toscana e all'azione di Pietro Leopoldo, o se, viceversa, il Settecento patriottico si sarebbe rivelato la categoria più adatta a capire uomini che operavano in paesi dove, come scriveva Paoletti nel 1772, esistevano "già stabiliti ed invecchiati politici sistemi" (p. 163). Resta il documento di una straordinaria costanza di interesse e di volontà di approfondimento che seppe rimanere identica nello sforzo, trasformarsi a contatto con il progredire della ricerca nel corso del Novecento, di vivere profondamente il principio enunciato da Raymond Aron nel 1937, negli anni dell'esilio di Venturi a Parigi: "La storia implica la presa di coscienza con la quale il passato è riconosciuto come tale, nel momento in cui la coscienza gli restituisce una forma di presenza" [8].
[1] «Introduzione» a Dal trono all'albero della libertà. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di Sardegna dall'antico regime all'età rivoluzionaria. Atti del convegno, Torino 11-13 settembre 1989 (Roma, 1991), I, 24.
[2] Cfr. Il coraggio della ragione. Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita, acura di Luciano Guerci e Giuseppe Ricuperati (Torino, 1998), 107.
[3] Leo Valiani-Franco Venturi, Lettere 1943-1979, a cura di Edoardo Tortarolo. Introduzione di Giorgio Vaccarino (Firenze, 1999), 331.
[4] Valiani-Venturi, Lettere, 346.
[5] Edoardo Grendi, Il Cervo e la repubblica. Il modello ligure di antico regime (Torino, 1992).
[6] La fine della storia naturale (Bologna, 1991).
[7] Grendi, «La statistique e il "genere" storia», in Storia di una storia locale (Venezia, 1996), 31-50.
[8] Introduction à la philosophie de l'histoire. Essai sur les limites de l'objectivité (Paris, 1948), 85.