1. La pubblicazione di un ricco volume di scritti su Ernesto Sestan invita a riconsiderare le Memorie dello storico di origine istriana, l'uscita delle quali fu occasione, qualche estate fa, dell'ennesimo confronto giornalistico sul rapporto fra intellettuali italiani e fascismo. Alla contrapposizione fra Nicola Tranfaglia e Giovanni Belardelli, dalle sponde opposte di Repubblica (21 giugno 1997) e del Corriere della sera (14 luglio 1997), non fa apertamente riferimento lo studio di Gabriele Turi, che preferisce concentrarsi, nel solco di anni di riflessioni dell'autore su intellettuali e regime, sulle vicende di Uno storico nelle istituzioni culturali del fascismo. In questo utile profilo non è omesso - anzi, è evidenziato sin dalle primissime battute - il "ruolo politico" degli storici in quella temperie, ma si preferisce lasciarne emergere i contorni attraverso un paziente lavoro sulle fonti. Nei suoi interventi dedicati esplicitamente al tema, lo stesso Sestan aveva sostanzialmente avallato la "tendenza" degli storici italiani a mettere in scena la propria impermeabilità al fascismo. Turi indaga le radici biografiche di tale atteggiamento: Sestan si formò politicamente sulla stampa della socialdemocrazia austriaca e fu allievo di Salvemini; poi, nel secondo dopoguerra, scrisse un libro sulla Venezia-Giulia fortemente critico dei nazionalismi; nel 1933, a metà del ventennio che separa questi due momenti, Sestan finì col tesserarsi al PNF. Convinto che questa decisione non avesse inficiato la serietà del proprio lavoro culturale, nelle sue Memorie lo storico proclama a chiare lettere la "colpa" e la "vergogna" di quel gesto, dal quale non si assolve. Nel cercarne le ragioni, indica le peculiarità del mercato del lavoro intellettuale nell'Italia fascista e la mancanza del coraggio di affrontare una vita assai disagevole (pp. 231-33 e 319), ma non lascia intravedere la percezione della responsabilità intellettuale, diluita nel "clima di supina, rassegnata accettazione" dell'epoca (p. 195).
Eppure una certa "consonanza" con alcuni elementi della politica fascista, come la revanche coloniale o la rivalutazione dell'irredentismo, emerge dall'esame degli scritti dell'epoca meno legati al «mestiere» di storico, nel lavoro redazionale per l'Enciclopedia italiana e nel percorso negli istituti culturali romani. Attorno ai problemi dell'identità nazionale si addensarono i sentori più evidenti di una sensibilità verso alcuni temi della cultura fascista, non senza un accenno all'immancabile - nel 1940 - "nota razziale" (nella voce «Europa» del Dizionario di politica del PNF: Turi, p. 142). Questo non impedì a Sestan di condurre con passione e senza piaggeria un onesto lavoro storiografico, nel quale non si ritrova la sudditanza ideologica che portò altri alla retorica o all'attualizzazione anacronistica, ma semmai spunti critici, destinati a prevalere definitivamente dopo l'8 settembre. Si materializzarono ben presto, ad esempio in un aggiornamento della voce Fascismo per l'Appendice 1948 dell'Enciclopedia italiana, destinata a venire rifiutata e a rimanere a tutt'oggi poco nota, stante la scelta di Roberto Vivarelli di non includerla nel quarto volume, dedicato alla contemporaneistica, della raccolta degli Scritti vari di Sestan (Firenze, Le Lettere 1999). La medesima separatezza fra politica e cultura, figlia dell'idea liberale di una neutralità del sapere, consentì allo studioso dell'Italia comunale di impegnarsi nelle istituzioni culturali del regime, di ritrovare un'autonomia critica e infine di sanzionare l'aproblematica continuità dell'intero arco del proprio lavoro.
2. Le note di Turi non sono le sole ad evidenziare il contesto più ampio in cui operò lo storico trentino. Su Sestan, il mondo tedesco e le aporie del principio di nazionalità insiste Simonetta Soldani (già edito in "Passato e presente", XVIII, n. 51, settembre-dicembre 2000), ad evidenziare la capacità di distinguere che informa la riflessione sestaniana, attenta alla non sovrapponibilità di nazione, coscienza nazionale e aspirazione alla statualità (Soldani p. 69). Ben oltre l'organicismo e il naturalismo assai diffusi ai suoi tempi, lo sguardo sulla Germania divenne la cifra del rapporto tormentato di Sestan con il problema-nazione. Si registrò una progressiva presa di distanza dalle giovanili simpatie irredentiste, destinata ad approdare, nel dopoguerra, all'esaltazione - anche «rivoluzionaria» - della libertà (non implicitamente racchiusa dalla sensibilità nazionale: Soldani, p. 90, a proposito del volume sul Quarantotto tedesco) e, passando attraverso la riconsiderazione degli elementi pre-politici della formazione della nazionalità e delle origini medievali delle nazioni europee, alla messa in discussione della "religione del secolo", quella della nazione (Soldani, p. 100, ricordando l'intervento del 1978 sull'Austria-Ungheria).
La maggior parte dei contributi al volume si soffermano su aspetti storiografici, dai saggi sul Sestan medievista (Giuseppe Galasso) e modernista (Antonio Rotondò) agli approcci più specifici: la profonda conoscenza del mondo tedesco (Franco Cardini), gli studi sulla Toscana, sua terra d'adozione (Ilaria Porciani) e l'attività presso la Deputazione di storia patria e l'"Archivio storico italiano" (Giuliano Pinto). Ricordi dell'insegnamento e dell'amicizia di Sestan sono offerti da Mario Rosa, Giovanni Cherubini e Antonio La Penna. Siamo dunque di fronte ad un "uomo senza qualità", come vorrebbe insinuare melanconicamente lo storico, chiudendo le sue Memorie, che si aprono nel segno della «mediocrità» (pp. 316 e 2)? Se stupisce la tentazione autodenigratoria, è meno sorprendente il riferimento alla dispersività del proprio lavoro di "storico mediocre", per lo "svolazzare su mille temi diversi", che, a dire dello stesso Sestan, aveva implicato l'inevitabile "superficialità" di trattazioni generali (da una lettera del 1985: Pinto, p. 184 - e qui va colta una delle radici del partecipe rispetto per gli storici «eruditi»). Quel che si può condividere non è tanto la pertinenza effettiva del richiamo, che va collocato sullo sfondo della caratteristica associazione di "rigore" e "scontentezza" (così Furio Diaz, p. 8) e commisurato ad un contesto, quello dell'autobiografia, segnato dalla volontà di sminuire un contributo che, al contrario, resta tuttora fecondo. Il riferimento si può invece comprendere solo in relazione alla straordinaria capacità di Sestan di spaziare dal tardo-antico al contemporaneo (giustamente evidenziata sia nella Premessa al volume olschkiano, p. 5, sia nell'Introduzione dei curatori alle Memorie, p. X), per tacere dei multiformi interessi geografici e sociologici (Galasso, p. 12). Per averne un saggio, si sfogli la prolusione cagliaritana di mezzo secolo fa (p. 269), nella quale Sestan, nonostante dimostrasse una competenza dall'Alto Medioevo agli anni Trenta del Novecento, si scusava poiché citava da profano gli autori classici (Per la storia di un'idea storiografica: l'idea di una unità della storia italiana, ora in Scritti vari, III, Storiografia dell'Otto e Novecento, a cura di Giuliano Pinto, Firenze, Le Lettere 1991, pp. 163-181). Anche riducendone la portata cronologica, questo tratto si è oggi mantenuto in ben pochi studiosi, non a caso formatisi alla scuola di quella generazione di maestri. Il senso di dispersione ravvisato da Sestan si nutriva probabilmente anche del coinvolgimento in numerose iniziative istituzionali e dell'impegno fattivo nella vita universitaria - laddove, per altro, riemergeva la ritrosia verso le proprie ricerche (Cherubini, p. 168). O, forse, rifletteva il senso di discontinuità di una pratica storiografica che, nel lungo periodo precedente l'accesso alla cattedra, dovette fare i conti con il "terrore della disoccupazione" (pp. 190 e 208) e poi con le lunghissime giornate spese nel lavoro minuto del funzionariato culturale: non a caso, i "ritmi della fertilità scientifica" di Sestan conobbero un'intensificazione una volta che riuscì ad ottenere un insegnamento universitario, oltre le "strettezze e necessità" dei venticinque anni precedenti (Rotondò, pp. 41-42).
3. Questa svolta non è tuttavia tematizzata nelle Memorie: frutto di una selezione dalle quasi 900 facciate dattiloscritte dalla moglie Margherita e riviste dall'autore, esse raccolgono i ricordi di Sestan, la cui stesura fu avviata fra la fine del 1967 e l'inizio del 1973, e ripresi e conclusa nel 1981. Lettore vorace di memorie e di epistolari, Sestan si misurò con l'autobiografia al fine di documentare la propria vita di "uomo di levatura media o mediocre": ufficialmente per il figlio Lapo, ma di fatto per gli storici a venire (pp. 1-2 e 7-8). Maestro, nelle Memorie come negli scritti, nel tracciare ritratti di amici e colleghi, di grandi storici e personaggi minori, Sestan descrive l'itinerario esistenziale di uomo di frontiera, dalla giovinezza trentina e dalla guerra nell'imperial-regio esercito asburgico sul fronte romeno fino al terminus ad quem del 1956. Non è un'autobiografia intellettuale e, nel complesso, non abbondano le riflessioni storiografiche: sono pagine dal "tratto marcatamente moralistico" (così Riccardo Fubini nel saggio che esamina le Memorie, p. 187), ricche di aneddoti, che descrivono sapientemente un itinerario di vita, soprattutto sul piano professionale. Dominato dal "vizio" della ricerca storica (p. 320), curioso di sapere, assetato di letture, ma disciplinato e metodico: a questa dimensione di un Beruf secolarizzato - a Sestan si deve un importante saggio su Max Weber, del '33-'34 - va probabilmente ricondotta l'idea di lavoro storico alla quale si richiamò costantemente e che lo portava, passati gli ottant'anni, a trascorrere ancora ore alla Biblioteca Nazionale di Firenze (La Penna, p. 217). Distaccare un filo conduttore politico nella sua vita sarebbe un cedimento al romanzo famigliare di freudiana memoria, visti gli slittamenti di Sestan, uomo di quasi tutto il Novecento, dal socialismo «umanitario» al voto monarchico del 1946, fino alla prossimità alle posizioni del Pci. Fu l'impulso morale e civile a condurlo alla storia (pp. 148-149 e 152): lo stesso che forse riconobbe negli anni caldi della contestazione, in quegli studenti così diversi da quelli dei suoi tempi, quando da preside della Facoltà fiorentina di Lettere e Filosofia non cedette mai alla facile soluzione della repressione poliziesca (La Penna, 215).