Giuseppe Ricuperati, a cura di, La reinvenzione dei Lumi. Percorsi storiografici nel Novecento, (Fondazione Luigi Einaudi. Torino - Studi, vol. 38), Olschki, 2000 [Lit. 49000 (Eu 25,31), ISBN 88 222 4877 5];
Id., La città terrena di Pietro Giannone. Un itinerario tra 'crisi della coscienza europea' e illuminismo radicale, (Studi e testi per la storia della tolleranza in Europa nei secoli xvi-xviii, 4), Olschki, 2001 [Lit. 42000 (Eu 21,69), ISBN 88 222 4982 8]

Alessandro Guerra
Università di Roma
"Chi è conseguente
si espone alla distruzione da parte della società"
...Thomas Bernhard, Minetti

1. Il valore di un libro di storia è sovente congiunto allo spirito del proprio tempo, alle mode passeggere, al favore compiacente del Maestro: è legato a questi fattori nell'identico destino all'oblío; altri invece hanno vita a sé, un percorso solitario che è anche confronto serrato con il proprio "oggetto" di studi, mosaico perfetto della condizione di storico. Il libro di Giuseppe Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone. Un itinerario tra "crisi della coscienza europea" e Illuminismo radicale, appartiene, senza alcun dubbio, a quest'ultima categoria perché trascende l'impegno espositivo, la elaborazione della ricerca (pure considerevoli), ogni "dialetto storiografico caratterizzante" per dirla col Cantimori, e diviene paradigma della propria esistenza come se provando a rintracciare le tappe della vita di Giannone, in realtà, l'A. esplorasse a ritroso il suo cammino intellettuale (e dunque la sua vita) e, giunto al punto, alle radici del suo impegno, se ne servisse per illuminare il presente. Presente fosco però, in cui, di nuovo, nella storiografia, si è tornati a riverire ed esaltare il Regno papale accontentandosi di studiarlo all'ombra di categorie interpretative (su tutte il «disciplinamento») che ne accettano e giustificano l'intervento nelle scelte di vita degli uomini (certo rammaricandosi per gli eccessi... comunque in ogni caso riconducibili ad una ragione...): da ciò la necessità di andare oltre, di osare un'alternativa così come Giannone che, conscio dei limiti della soluzione giurisdizionalista che di fatto accettava il piano dialogico con la chiesa, con Spinoza, provò a "smascherare il potere religioso, ripercorrendo la storia dell'umanità fin dalle origini e mostrando come si era costituito" (p. 126), dunque, destrutturandolo. Nell'interazione metastorica fra la progressività cronologica della ricostruzione biografica di Giannone e il percorso à rebours dell'Autore c'è la chiave per liberare il futuro. Michel Foucault chiedeva agio ai suoi lettori di non pretendere da lui, nel momento della composizione del testo, la riduzione a modelli, di assumere un'identità "da stato civile": è questa, sembra, la strada scelta da Ricuperati che continuamente si piega su se stesso a scandagliare la memoria per ritrovarvi la ragione del suo impegno, di quanto già detto, a dialogare con un altro sé con chiarezza poco comune, a spingerlo a confermare la tesi del Giannone illuminista radicale in contatto con il free thinking europeo (pp. 165-185) formulata tanti anni fa.

2. E dunque Giannone (nato a Ischitella nel 1676, morto nelle carceri sabaude nel 1748), la cui vita scelse di narrarla lui stesso nella sua famosa Autobiografia curata insieme alle altre opere dallo stesso Ricuperati insieme a Sergio Bertelli nel 1971 per Ricciardi. Nel 1768, da Pisa, Antonio Verney, figura chiave della convergenza fra i portoghesi illuminati e la cultura italiana descriveva un panorama chiuso sulle speranze di riforma degli uomini dotti della penisola che "si ritrovano - scriveva - fra due estremi pericolosi: da una parte vi è qualche fortezza e dall'altra il S. Uffizio. Se uno progetta qualche cosa per il pubblico bene e per riformare i disordini, muore in fortezza. Se indica fin dove si può estendere la libertà del principe e la libertà del pensare, si riduce all'Inquisizione ... dal che ne segue che in simili paesi mai si vedono fiorire le scienze, né la politica, né il commercio, né altre cose che ne sono conseguenze" (in F. Venturi, Settecento riformatore. II. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti 1758-1774, Torino, Einaudi, 1976, p. 9). Inappuntabile l'immagine fornita e che lo stesso Giannone si era trovato a sperimentare, anche se con l'aggravio di scontare entrambe le forme di coartazione; eppure, proprio con il suo esempio, con la sua testimonianza dal carcere, per il ricorso necessario alla memoria cui si doveva far affidamento, ma anche come atto che diviene "ossessiva riconquista di un'interiorità minacciata e costretta a negarsi" (p. 141; significativo il parallelismo con Gramsci), Giannone testimoniò che da quella stretta si poteva uscire, che un'altra via era percorribile, sia pur solo per i posteri e non più per se stesso, opponendo la sua 'nuda vita' alla follia del dominio.

Anche questo è un aspetto della "religione della verità (...) punto di partenza per una morale tutta umana basata sulla libertà, la tolleranza, il rispetto della coscienza errante, che era sempre tale da un punto di vista relativo" (p. 130). Tolleranza che contesta ogni tipo di pensiero che fa della ricerca spasmodica dell'eresia la sua ragion d'essere; opporre all'inquisire il liberare: questo è il fulcro del pensiero moderno. Non a caso il saggio di Ricuperati è ospitato nella collana diretta da Antonio Rotondò.

3. Come dunque è possibile che Giannone sia stato accusato di essere intollerante nei confronti degli eretici per aver approvato la bontà delle misure severe prese contro i patarini nel XII secolo dall'imperatore? Le accuse gli furono mosse dalla storiografia neo-guelfa di fine Ottocento ed appaiono nel loro significato paradossali quando si riflette che quello di cui lo si accusava, la chiusura intollerante verso l'alterità dogmatica, era stata la causa della sua pena; la ragione di una vita errabonda per un uomo capace di credere (e di affermare) che la religione, tutte le religioni, non devono forzare le menti ed imprigionare i corpi di chi cerca la verità. Nella pubblicazione dell'Istoria civile del Regno di Napoli (1723), che è anche l'inizio delle sue tribolazioni, il problema da analizzare era il rapporto fra la pervasiva autorità della chiesa ed il declino di quella statuale per cui, forzando la mano, Giannone arrivava sì a legittimare la punizione dell'eretico da parte dell'imperatore ma all'interno di categorie statuali, dunque, configurando l'eretico come tale perché minava la pace sociale. Era dunque all'interno di una logica tutta laica, in cui lo Stato aveva ripreso a pieno la propria autorità costringendo dentro i propri limiti ogni pretesa della chiesa, che Giannone ammetteva la liceità di punire l'eresia, per nulla Giannone interessandosi alla validità delle dispute teologiche. Il vituperoso odio dei polemisti cattolici, che avevano fermato il tempo a Trento, costrinse lo storico di Ischitella ad espatriare; fu Vienna la meta scelta per l'approdo dove il contatto con una cultura più aperta lo proiettò nell'empireo intellettuale di un' Europa già da allora unita sul senso di "un linguaggio universale della ragione e della giustizia" (p. 19), che prescindesse dunque dall'appartenenza confessionale per abilitare un potere costituente della nuova appartenenza all'umanità e come tale alternativa del presente. La formazione del regno papale, fondato sulla gerarchia e sulla pretesa universalistica di dominio degli ecclesiastici sui laici ("un potere mostruoso, che come dice icasticamente il Giannone, incatena i corpi attraverso le anime" p. 132), a lungo andare sembrò rendere magra consolazione la permanenza dorata nel chiuso delle biblioteche imperiali; Giannone rivendicando un ruolo politico (che è solo civile) per l'intellettuale, cercò di opporsi alla staticità e alle lusinghe del 'libello' di denuncia, scegliendo di tornare in Italia nel tentativo di rompere "l'incantesimo che attraverso le anime legava al potere religioso corpi e sostanze degli uomini. La libertà e la verità erano quindi il fine ultimo di una ricerca di svelamento" (p. 26). Ma a Venezia, dove si era recato, il triste destino del proscritto gli si rivelò ancora una volta tragicamente, dovendo fuggire per scampare all'imboscata tesagli da Roma con il consenso dei dogi: fu l'umanità civile di Muratori a proteggerlo nella fuga; di nuovo esule, Giannone trovò rifugio a Ginevra che 'emendatasi' dal rogo di Serveto era pronta a partorire il genio di Rousseau. Qui, nel libero dialogo interreligioso, Giannone trovò modo di esporre la sua idea che "se tutte le religioni erano forme diverse di risposta ad una esigenza che era profondamente iscritta nel meccanismo culturale dell'uomo, le condizioni essenziali diventavano la convivenza pacifica e la tolleranza assoluta" (p. 37), trovando solo in quella verità la nozione più alta di Dio. La prigionia, l'abiura estorta, gli scritti carcerari stanno lì a dimostrare la linearità di un percorso anche storiografico che delinea la prospettiva di superamento della storia sacra da subordinarsi ad una storia civile, per approdare, infine, ad una antropologia religiosa in cui la religione è solo una chiave di lettura per comprendere la natura umana seguendo la metafisica materialista di Spinoza che è, come forse per Giannone, "anomalia del materialismo vincente, dell'essere che procede e che costituendosi pone la possibilità ideale di rivoluzionamento del mondo" (cfr. T. Negri, L'anomalia selvaggia. Potere e potenza in Baruch Spinoza, Roma, Manifestolibri, 1998, p. 24).

4. L'Illuminismo al vaglio del Novecento è invece la cifra per interpretare La reinvenzione dei Lumi. Percorsi storiografici del Novecento, a cura dello stesso Ricuperati, ossia l'Illuminismo riletto e visto attraverso figure emblematiche del dibattito storiografico sui Lumi del secolo che si è appena chiuso. L'avvio è anomalo, con una riflessione (pp. 1-57) di Patrizia Delpiano su Frances Amelia Yates (1899-1981) che, a rigore, storica dell'Illuminismo non lo è stata. Cresciuta all'ombra dei maestri del Warburg Institute (la "reale comunità della ragione", p. 24) e formatasi negli anni dello sfaldamento della grande illusione britannica di compiere una missione civilizzatrice nel mondo, segnata dalle atrocità della guerra anglo-boera, la studiosa volse presto lo sguardo al passato vittoriano per poter ritrovare il senso della propria appartenenza che prendeva sostanza anche dalla sua educazione religiosa anglicana e anticattolica, senza per questo essere aliena da "un accordo spontaneo con gli ideali di pace, di tolleranza e di umanità tipici di un cristianesimo individuale e senza chiesa, e sostenuti da una religione piuttosto della natura che non di Dio" (p.7). Di fronte alla crisi del suo presente, la Yates sembrò scoprire (e non rifugiarsi) nel Rinascimento quella "cultura della ricostruzione" (p. 20) che così assunta ha nell'Illuminismo (il contingente Illuminismo "mancato" dei Rosa-Croce) l'altra polarità di riferimento, entrambe le età fondandosi sul vincolo della ragione per rileggere il passato e cavarne esperienza valida nel presente, osservando come luogo paradigmatico di questo legame Giordano Bruno, "il grande idealista propugnatore di una riforma generale dell'umanità", e non a caso considerato uno dei profeti dell'Illuminismo da Vincenzo Ferrone. Ad Arthur O. Lovejoy (1873-1962) è dedicata l'attenzione di Roberto Festa (pp. 57-88) secondo il quale lo studioso americano contrappose alla storia del pensiero come processo logico "una ricerca nella quale una parte importante spettava all'affettività, alla storia più sfuggente delle sensibilità" (p. 62) e che trovava nell'idea della grande Catena dell'Essere il legame che univa l'universalità delle cose; una "continuità, per la quale una «catena» lega tutti gli esseri presenti nell'universo, costituendo un continuum che dalle forme meno sviluppate giunge sino a quelle più complesse; il principio di ragion sufficiente, per il quale ogni cosa che esiste ha in sé la propria necessità e ragion d'essere" (p. 66). La sua formazione filosofica iniziale e l'intuizione che "nella storia del pensiero erano riconoscibili costanti che, sia pure nel mutare delle attitudini della mente, attraversavano i secoli e si presentavano puntuali all'osservazione degli uomini" (p. 58), lo avevano portato ad indagare soprattutto la storia delle idee volta a stabilire non solamente gli elementi logici ma anche quel "pathos metafisico" in cui preponderante erano le emozioni. Tutto aveva una sua ragione, una sua dignità, con l'uomo chiave di volta fra "le forme (di vita) meramente senzienti e quelle puramente intellettuali" (p. 67). L'interesse per Rousseau, la considerazione di un Illuminismo non declinabile necessariamente nel concreto operare degli uomini ma isolabile in punti nodali di fondo, la fascinazione delle teorie freudiane, gli orrori della guerra e la barbarie nazista furono le tappe di un processo di evoluzione teoretico di Lovejoy in cui l'universalismo delle soluzioni trovate dagli uomini dei Lumi, a partire da una natura razionale, non era più chiave ermeneutica del passato per leggere il presente, imponendosi piuttosto una "considerazione della natura umana come equilibrio instabile di ragione e di istinto" (p. 82) maggiormente in grado di soddisfare la realtà, e accusare il presente di aver tradito e annientato il lascito vero della stagione dei Lumi. I saggi di Barbara Maffiodo su Lester G. Crocker (pp. 89-126) e quello di Paola Bianchi su Peter Gay (pp. 127-170) offrono un interessante occasione per rileggere questi due autori e le loro riflessioni sull'Illuminismo. Crocker trovò in Diderot la sua lente iniziale per indagare il Settecento, perché in lui come in nessuno trovava ragione la moltitudine dei volti dell'Illuminismo: "un'aggrovigliata commistione di «luci e ombre», di razionalismo dalle venature a tratti ancora metafisiche e di empirismo audacemente proiettato verso la negazione di ogni verità costituita, di fasi ottimistiche riguardo alla posterità e amara consapevolezza dell'inevitabilità del male nella storia e nella natura dell'uomo" (p. 92). Ma Diderot, a cui Crocker dedicò nel 1954 un'acuta biografia, fa anche da cartina di tornasole per individuare le storture del pensiero illuministico: denunciando l'irrefrenabile "istinto al dominio, sotto forma di sete di potere o di soggezione sessuale" (p. 98), Diderot illuminò anche le degenerazioni a cui Rousseau («esempio classico» della crisi dell'Illuminismo per Crocker, p. 119) e Robespierre (titolare del fallimento dei Lumi e artefice del totalitarismo novecentesco, p. 114) avrebbero dato poi spunto teorico e realizzazione concreta. Seguendo la discutibile elaborazione di Jacob Talmon sulle origini del totalitarismo del 1952, Crocker (a rischio di essere considerato "prigioniero di pregiudizi di carattere etico-emotivo", p. 113) confermò la sua idea di un Illuminismo che si dissolveva in età di crisi, di potenzialità lesive di quanto di positivo auspicato, trovando in Sade e Laclos i cantori di questa seduzione del male (p. 112), suggellata dal periodo del Terrore che si riverberava nel presente nell'esperienza sovietica, a cui Crocker guardava con la stessa acrimonia con cui partecipava alla 'guerra fredda' da "autentico figlio del suo paese" (p. 123).

5. Contro questa interpretazione dei Lumi, si scagliò Peter Gay, che trovò negli Stati Uniti quei presupposti di libertà che nella Germania nazista gli erano stati negati. Da un'iniziale attenzione all'idea socialista, Gay passò ad esaminare le problematiche connesse all'Illuminismo ma sempre provando a tener insieme i due percorsi, entrambi visti come momenti di riforme riuscite e mancate. A fornire l'approccio di Gay al '700 fu Voltaire del quale provò a rintracciarne il pensiero "effettuale", definendo il volto non di un teorico ma di un "philosophe che, senza approdare mai a un unico, fondamentale trattato, aveva via via adeguato le proprie idee a situazioni concrete" (p. 143). E' a Cassirer che Gay si richiama, ma ad una lettura "più orgogliosa" (p. 157) che individuava nel paganesimo la categoria in grado di dare all'Illuminismo il suo volto al contempo più radicale e veritiero, come si evince dal suo volume del 1966 The rise of modern paganism. Attraverso la ripresa del classicismo, considerato "primo Illuminismo", Gay rivide le ipostatizzazioni storiografiche sul pensiero del Settecento e del suo legame con gli 'antichi', connaturandolo di una pratica di tolleranza fino a quel momento sconosciuta (ma non priva di interne contraddizioni paradossali, come suggerisce A. Burgio, Il «paradosso storico» del razzismo illuminista, in L'invenzione delle razze. Studi su razzismo e revisionismo storico, Roma, ManifestoLibri, 1998, pp. 43-82), e perciò stesso in contrasto con la vulgata talmoniana dell'Illuminismo come esercizio totalitario. Il saggio di Edoardo Tortarolo (pp. 171-199) ci restituisce il volto di Franco Venturi (1914-1994) forse il maggiore studioso italiano del '700. Dall'esilio a Parigi scelto dal padre Lionello ("il celeberrimo storico dell'arte") per non dover accettare la vergogna del giuramento fascista, il giovane Venturi trasse la grande opportunità di convivere in quella eletta comunità degli spiriti che si riuniva, fino alla loro uccisione da parte degli sgherri mussoliniani, intorno ai fratelli Rosselli, mettendo insieme a punto un concetto di libertà considerato "patto di civiltà che gli uomini di tutte le fedi stringono fra loro per salvare nella lotta politica gli attributi della loro umanità", come ebbe modo di ricordare lo stesso Venturi commemorando nel 1977 il quarantesimo anniversario della morte dei Rosselli (p. 174). Proprio la morte dei due fratelli servì a Venturi per intensificare la sua attività politica, che non era disgiunta da una volontà di studio, ben chiara nell'analisi del fenomeno risorgimentale che sulla scorta di Benedetto Croce, provò a sottrarre dall'attenzione pelosa degli storici fascisti, dimostrando che la voglia di nazione ben si coniugava con un'alta concezione della libertà. Parallelamente iniziava la sua ricerca su un socialismo liberale, lontano dalle formulazioni marxiste, a cui mostrò fino alla fine di credere; la paura della degenerazione cui secondo Venturi il socialismo poteva prestarsi e che aveva nella Russia sovietica la più chiara manifestazione, lo portarono ad analizzare la società russa della quale poi, al termine della guerra, fornì uno spaccato esemplare con la sua storia sui populisti. Intanto lo studio del Settecento si formalizzò in uno studio del 1939 su Diderot attraverso il quale ritrovare non solo la matrice originaria dellla tradizione socialista, ma "colui che ha dato un senso politico ai lumi, che ha trasformato cioè la sua ricerca del vero in ogni ambito dell'esperienza nella volontà di creare strumenti di emancipazione per gli uomini del suo tempo" (p. 186).

6. L'invasione tedesca della Francia, il carcere franchista, il ritorno in Italia, e il confino a Monteforte Irpino, la resistenza nelle brigate gielline della Val Pellice furono le tappe di un percorso che mai lo distrassero dalla sua volontà di analisi del passato come chiave del presente, di un socialismo come ipostatizzazione dell'illuminismo (p. 194), di un rifiuto del marxismo, dello studio dei lumi come arco di volta della democrazia e del socialismo, uniti da un filo "da ritrovare nella storia, intrecciato alle vicende, impastato con gli avvenimenti, confuso nella vita degli uomini, reciso e riannodato mille volte" (p. 197). Chiude il volume un saggio dello stesso Ricuperati in cui si prova a tessere la trama che fin qui si è dipanata. Ed i volti fin qui presentati divengono una comunità reale, che discute, combatte, si schiera ma sempre animata dalla passione di ripensare l'Illuminismo che, passate le atrocità del nazifascismo, nella caccia alle streghe dell'America maccartista, nell'italietta democristiana, pur con le debite differenze, ha sempre costituito "un riferimento per minoranze intellettuali che non accettavano né i miti facili del Paradiso sovietico, né le ottusità conservatrici e sostanzialmente anticulturali di uno schematico ed ossessivo anticomunismo" (p. 207). Ed è allora il progetto di Franco Venturi del 1954 di restituire autonomia al Settecento come circolazione di idee europee (p. 208) il modello da perseguire, cercando negli errori e nei limiti dell'Illuminismo non la risposta per invocare l'oscurità "ma semmai un ulteriore Illuminismo" (p. 211). Piegandosi su se stesso Ricuperati offre dunque la chiave per entrare nelle vite di un'intera generazione, mossa dalla convinzione che studiare il Settecento "non era solo un modo di interrogarsi sul passato, ma anche un tentativo - magari ingenuo - di capire come cambiare il mondo" (p. 217); proposta di un Illuminismo non quindi come fuga nostalgica ma come scelta militante di ricercare "il crogiuolo complesso fra passato e futuro" (p. 221), senza paura di rivelare una divisione in scuole che richiamava in fondo l'idea stessa delle varie fazioni illuministiche (la boutique holbachique, Voltaire e Rousseau che facevano scuola a sé... e tutti gli altri) ognuna con la propria passione, come è del resto nella natura dell'Illuminismo per dirla con Jean Améry, l'intellettuale a Auschwitz, con cui il libro giustamente si chiude, trovando in lui la luce della ragione che ha sconfitto l'oscurantismo e la barbarie.