N. Parker, Revolutions and History. An essay in Interpretation (Cambridge: Polity Press, 1999) e
M. Ricciardi, Rivoluzione (Bologna: Il Mulino, 2001).

Mario Caricchio

1.Revolutions and History e Rivoluzione appartengono a tradizioni di studi e a contesti accademici e culturali differenti. Noel Parker si è formato studiando Rousseau e le idee e immagini della Rivoluzione francese, per poi spostarsi ad un approccio comparativo alle rivoluzioni nel quadro dell’idea di economia-mondo sviluppata da Immanuel Wallerstein. Gli studi di Maurizio Ricciardi hanno radice in una filosofia politica influenzata dalla storia dei concetti di matrice tedesca e il suo libro compare significativamente nella collana “lessico della politica”, edita da alcuni anni dal Mulino. I due libri, tuttavia, hanno un medesimo motivo di fondo. Entrambi nascono come riflessioni sulla “fine della rivoluzione” proclamata negli anni ’90 e si pongono come contributi sulla sua, invece, rinnovata e rinnovabile storia nel ventunesimo secolo.

2. Parker ha dato una struttura bipartita al suo “saggio”. La prima – “How Revolutions Happen” - percorre i momenti rivoluzionari che dal sedicesimo secolo ai giorni nostri hanno ritmato la storia, in una progressiva espansione spazio-temporale dall’Europa all’intero globo. Guardare ad essi come “evento” è funzionale a una classificazione entro un modello sociologico che si ispira, da una parte, alla comparazione delle grandi rivoluzioni di Theda Skocpol e agli studi di Charles Tilly e, dall’altra, al sistema centro-periferia – o meglio centri-periferie - dell’economia-mondo. Non che questi siano gli unici riferimenti dell’autore. In realtà, Parker instaura un complesso dialogo critico con la vastissima letteratura sul tema, passando senza problemi di sorta da opere di carattere strettamente storico, alla sociologia, agli studi sulle relazioni internazionali, sino a invitare il lettore, per la verità a tratti un po’ sperso, nei meandri delle riflessioni filosofiche su temporalità e mutamento e sulle filosofie della storia. Nella sintesi che ne risulta, le rivolte caratterizzate dalle esigenze e dall’impatto della Riforma - da quella ussita a quella che diede origine alle Province Unite, in particolare - segnano l’inizio della storia della modernità. Le “rivolte della Riforma” che si manifestano fondamentalmente in opposizione alle tendenze centralizzatrici delle monarchie europee, avvengono in generale alla “periferia” delle costruzioni statuali di cui fanno parte e permettono perciò soluzioni basate sulla concessione o sulla secessione permesse dalla distanza dal centro dell’autorità. Esse culminano nella Rivoluzione inglese, che si distingue però dalle altre proprio perché “colpisce il bersaglio”: lo stato monarchico, messo in discussione al centro stesso del suo potere. Tra Sette e Ottocento si hanno le “rivoluzioni costituzionali-repubblicane”, prima di tutto quella americana e quella francese, che, pur differenti, si verificano al “centro”, investendo l’ordine politico preesistente per ristrutturarlo in base a valori di giustizia e benessere pubblico. Le rivoluzioni comuniste, ispirate a programmi di democrazia sociale, avvengono in contesti deboli, indotte in gran parte dalla pressione di fattori esterni. Quelle di liberazione-nazionale, in qualche modo anticipate nei ‘caratteri di importazione’ dalle rivoluzioni dell’America Latina del secolo precedente, condividono con quella russa e cinese, al di là dei rapporti di influenza diretti analizzati nella seconda parte, la localizzazione periferica. Questa classificazione si chiude con le “rivoluzioni contemporanee”, occorse a partire dagli anni ’70 di questo secolo. La loro definizione, non più ‘di contenuto’ ma ‘temporale’, designa il carattere inedito della loro estrema diversità e frammentarietà: siamo di fronte a fenomeni - quelli della “rivoluzione iraniana”, da una parte, e della “primavera dei popoli” del 1989, dall’altra - che hanno addirittura un senso opposto, rispettivamente anti-occidentale e pro-occidentale.

3. Ciò che permette di parlare di tutti i momenti rivoluzionari dal ‘500 ai giorni nostri come di un insieme coerente è il rapporto ‘antagonistico’ con la modernità. Sebbene utilizzi il termine più frequentemente nelle pagine iniziali, per Parker la “rivoluzione” è sempre prima facie un fenomeno di “resistenza”: resistenza al processo di modernizzazione che agisce weberianamente dall’“esterno”, attraverso cioè i meccanismi impersonali legati alla competizione politica, economica e militare. Tale processo, nel corso dei secoli, assume una dimensione policentrica e multidirezionale, paragonabile per l’autore al movimento delle correnti marine: “onde” diverse, “modernità” diverse, che si muovono a livelli separati, come “pressioni” politiche, economiche, militari, e ideologiche; a volte, alternative e concorrenti - come nel XX secolo sono stati il mondo occidentale e quello di influenza sovietica. Come onde, appunto, “le modernità” si scontrano, si dividono, si sovrappongono e, fatto importante, incontrano per ciò stesso risposte differenti: qui si colloca la fenomenologia estremamente frammentata degli ultimi decenni, poiché la rivoluzione “fondamentalista” e quella del 1989 si sono rivolte contro le due diverse versioni della modernità del secolo. Le rivoluzioni appaiono, così, fino a tempi recentissimi, esplosioni violente a livello statuale contro versioni della modernità. Il processo della modernità stesso, d‘altra parte, sta dietro alle pressioni che hanno creato le condizioni del collasso politico in cui si inserisce l’azione per il cambiamento. Ecco perché il termine “resistenza” si rarefà con l’andare delle pagine: perché ogni rivoluzione è origine di una nuova corrente nell’‘oceano’ e di conseguenza della riscrittura delle ‘carte nautiche’ per il futuro: le rivoluzioni mutano – hanno mutato – la direzione della modernità. Parker sfida, in questo modo, l’incredulità dei lettori, perché il fondamentalismo islamico apparirà, come logica conseguenza di questa lettura, una forma di modernizzazione. A rigor d’analisi, infatti, l’89 dell’est europeo ha rappresentato “un rifiuto del rifiuto” della versione occidentale, che come tale si è concluso, da una parte, con il riproporsi del modello statuale tradizionale nel momento di sua massima crisi e, dall’altra, in una resa di fatto alle pressioni sovrastanti a livello economico e ideologico. A partire dalla rivoluzione iraniana, invece - afferma Parker sviluppando l’interpretazione proposta già da Arrighi, Hopkins e Wallerstein in Antisystemic Movements (Manifestolibri, 1992) - l’“Islam” è divenuto un complesso di correnti ideologiche che, mischiando nozioni occidentali come quella dell’autenticità culturale e dello stato-nazione a un nucleo ideologico tradizionalista e religioso, è capace di formulare prescrizioni sociali orientate al futuro in relazione alle condizioni globali della contemporaneità.

4. Nei termini della sua stessa analisi, si può dire che il 1979 iraniano appare l’unica “rivoluzione contemporanea” dotata di forza “globale”, in virtù di una propria originale “trama narrativa della rivoluzione” - tema  ispirato da letture ermeneutiche, che è il fulcro della seconda parte del libro. Per Parker, infatti, i significati investiti dalle rivoluzioni sono altrettanto importanti dei fattori “oggettivi” che le plasmano. Tali significati assumono senso solo all’interno di una struttura narrativa che organizza la sequenza temporale degli eventi e delle azioni, legando gli stati successivi l’uno con l’altro, e creando in questo modo lo spazio dei ruoli umani, delle speranze e delle esperienze. La “trama della rivoluzione” è, quindi, una forma del “terzo tempo” della coscienza di Paul Ricoeur, ponte gettato tra il tempo misurato e quello esperito, in cui si situa per gli attori storici la possibilità di identificarsi come soggetto collettivo di un mutamento che li trascende nel passato e nel futuro. Il carattere paradigmatico della Rivoluzione francese sta proprio in questo tempo dell’esperienza soggettiva della capacità creativa dell’umano, in quanto esempio per antonomasia del tentativo di una nazione di prendere in mano il proprio destino politico e sociale. Ma esso è, allo stesso tempo, in una tensione dialettica problematica con i dati oggettivi, che nel quadro comparativo delle rivoluzioni fanno di essa, invece, un’eccezione. Mentre la Rivoluzione francese ha avuto un impatto storico determinante perché è occorsa al centro del sistema economico-politico mondiale, i successivi eventi rivoluzionari sono stati sempre più periferici e come tali sempre più costretti, sia nella possibilità umana di incidere sul processo, sia nei loro risultati. Più si è distanti dal centro, più è debole la possibilità di un’azione umana incisiva sul corso storico: la Rivoluzione russa, con il volontarismo che ne ha caratterizzato la ricerca di una modernizzazione accelerata sul modello occidentale, ha rappresentato una dislocazione del “soggetto collettivo rivoluzionario” dal centro alle periferie, che ha finito per dimostrare questa tesi, quando i magri risultati raggiunti, entrando in progressiva contraddizione con i proclami ideologici, ne hanno determinato il crollo. A sua volta, nessuna rivoluzione quanto il 1989, pur presentata alla luce della classica “trama della rivoluzione” come sollevamento di popolo, si è dimostrata chiaramente determinata da fattori “esterni” e sovranazionali nel suo accadere come nei suoi esiti. In sostanza, “la trama” partorita dall’esperienza francese ha fatto da costruzione mistificata del ruolo spazio-temporale delle Rivoluzioni otto-novecentesche. Ciò non vuol dire, per Parker, che idee, aspirazioni e esperienze degli attori storici rimangano inermi spettatori dinanzi al procedere incessante della modernizzazione economica e politica. La “trama della rivoluzione”, anzi, nelle sue diverse forme assunte da Babeuf a Marx a Lenin e così via, ha contribuito a  modificare le ‘onde del mare’, per rimanere alla metafora di Parker: idee e ideologie sono componenti fondamentali del processo storico. La diversità delle “correnti” della modernità, inoltre, crea nuovi spazi e nuovi limiti per la creatività socio-politica delle rivoluzioni, come è esemplificato dall’esperienza della Rivoluzione cubana, prima di tutto, e dal complesso gioco delle relazioni internazionali nei movimenti di liberazione nazionale. In definitiva, il fatto che - come molti insistono con Weber e Skocpol - i fini dei rivoluzionari hanno sempre finito per soccombere alla corrente dominante non testimonia della loro “erroneità” e insignificanza, quanto della fragilità delle costruzioni socio-politiche delle rivoluzioni “periferiche” rispetto alla forza d’urto del nucleo sistemico. Ma questo non è l’inevitabile destino della “trama della rivoluzione” nella coscienza degli uomini: essa continua ancora ad operare in maniera “anti-sistemica” partecipando in modo non secondario della nuova potenzialità politica dei “margini” nella rete del mondo globalizzato.

5. In pratica, la definizione di una “trama della rivoluzione” storicamente autonoma serve a controbilanciare la tendenza implicita ed esplicita nelle analisi strutturaliste, per cui il costante trionfo degli imperativi sistemici sulle volontà umane dimostra, per dirla con Ricciardi, la “fine della rivoluzione in quanto tale”; la fine, cioè, della possibilità di pensare un soggetto protagonista del cambiamento politico. La prospettiva analitica di Rivoluzione suona in molti sensi più familiare di quella fin qui esposta. La definizione del concetto e della sua evoluzione, legata necessariamente ad altre idee che esprimono l’azione politica collettiva - democrazia, repubblica, stato e poi sfera pubblica, costituzione e via dicendo - estendono il quadro temporale al di là dei secoli dell’età moderna e delimitano in maniera differente l’indagine complessiva. C’è un “prima della rivoluzione”, nell’antichità e nel medioevo cristiano, quando il mutamento politico non mette in discussione l’ordine complessivo, o è associato a idee di riforma e regeneratio che tengono insieme ambiguamente il tema del ritorno ai principi e del “nuovo inizio”. Prima della rivoluzione viene anche il concetto di “resistenza” all’autorità tirannica, che è limitato, però, dalla possibilità che il giudizio su di essa possa essere situato nell’individuo e viene perciò condotto ad estrema tensione dalla Riforma Protestante e dalla guerra dei contadini tedeschi. Il sedicesimo secolo vede sorgere con l’analisi politica di Machiavelli il “discorso ‘rivoluzionario’ come radicale istanza di crisi”, che, capovolgendo i principi dell’antichità, vede nel popolo e nei tumulti di cui esso è protagonista il mutamento dell’ordine politico verso il meglio. Di fronte ad esso, il concetto di sovranità sviluppatosi da Bodin a Hobbes al centro della modernità politica si pone in funzione neutralizzatrice. La Rivoluzione inglese, come “lotta per il Leviatano”, assume perciò agli occhi di Ricciardi il ruolo di prima svolta fondamentale nella storia del concetto: sia per le nuove aperture del discorso politico, in cui si individuano, riecheggiando i punti sottolineati da una vasta letteratura, le anticipazioni del partito rivoluzionario, le esigenze di pubblicità, le innovative nozioni di libertà emancipate dal riferimento al passato e concentrate sul diritto di decidere la forma del governo; sia, e soprattutto, per il configurarsi della “prospettiva hobbesiana”, in cui la rivoluzione “non è più pensabile come evento ciclico” e viene quindi a coincidere con la modernità e la sovranità moderna stessa. È la prospettiva che dal mondo delle idee cala nella realtà con la Rivoluzione francese, non prima però che una Rivoluzione senza disordine e animata ancora dalla “libertà antica”, quella americana, ponga le fondamenta della nuova temporalità: è in essa che per la prima volta il “popolo” si fa soggetto che delibera consapevolmente l’inizio di un tempo completamente differente dal passato. Nel 1789 è in pratica tutto pronto perché sia possibile individuare un preciso “soggetto rivoluzionario” e definire le prospettive politiche del mutamento. Si apre solo allora, in effetti, il ‘tempo della rivoluzione’ e - si sottintende - il tempo di un discorso politico compiutamente moderno, che diviene subito campo di un conflitto sulla sua ‘durata’: il problema della fine della rivoluzione, hobbesianamente, è presente sin dallo scontro tra giacobini e girondini, uno scontro tra la “rivoluzione permanente” e la rivoluzione che pone a suo limite il criterio di giustizia invocato da Condorcet. Tale conflitto ha come risultato la scoperta dell’“inaffidabilità del popolo” e il proclama d’imperio da parte di Napoleone che la Rivoluzione è chiusa “e fissata ai principi che l’hanno cominciata”.

6. A partire dalla Francia rivoluzionaria, la “rivoluzione” diviene, così, il concetto specifico che designa il mutamento nella politica moderna. I capitoli sull’800 e sul ‘900 tendono a dimostrare, in maniera sostanzialmente coincidente con l’analisi di Parker, come il concetto pervada tanto il discorso dei rivoluzionari quanto quello degli anti-rivoluzionari e dei contro-rivoluzionari, sino fornire anche la retorica delle destre contemporanee, attraverso la diversa declinazione del rapporto tra trasformazione di lungo periodo e incisività storica del soggetto collettivo. Si va dalla storicizzazione liberale, alla costituzionalizzazione tedesca, al nesso di continuità tra Ancién Regime e rivoluzione enfatizzato da Tocqueville, che iscrive nella ricerca della libertà democratica il pericolo del dispotismo. Tocqueville, Von Stein e Marx portano il concetto di rivoluzione nella società, individuandone chiaramente il duplice tempo, quello del mutamento di lungo periodo che la trasforma continuamente in profondità e quello del cambiamento rapido e violento. La “fine della rivoluzione” può perciò definirsi in una politica riformistica che si situi nel tempo più lungo della trasformazione politica e sociale, per indirizzarlo ed evitare il pericolo di dissolvere con la violenza la società stessa. La rivoluzione può, all’opposto, come avviene nel primo Marx, assumere una temporalità non lineare né irreversibile, che si connette alla costituzione pratica del suo soggetto, il proletariato come classe. Essa si fa poi conflitto tra il tempo dell’“evoluzione rivoluzionaria” capitalista, che riforma costantemente il mondo intensificandone lo sfruttamento, e l’accelerazione imposta dalla negazione di esso da parte di coloro che lo subiscono; sino a che, nell’apertura maggiore del concetto, Marx fa della rivoluzione un processo il cui tempo è deciso dal soggetto politico che ne è protagonista e che si troverà ad affrontare il persistere delle leggi della società capitalistica anche dopo la presa del potere. Nel campo di questa duplice temporalità che struttura la dialettica tra stato e società si battono il revisionismo di Bernstein e il soggettivismo rivoluzionario che dà forma al partito d’avanguardia leninista; su questo terreno si sviluppa la riflessione gramsciana sull’egemonia sociale, che parte dalla consapevolezza del mutato rapporto tra società civile e Stato nelle società occidentali; ed anche la critica sociale che culmina, già a metà secolo, con il riconoscimento di Horkheimer della dinamica weberiana della burocratizzazione sottesa alla “fine della rivoluzione” russa, contro la quale è necessario aprire lo spazio della “fantasia” e della critica del razionalismo moderno. È, per certi versi, prevedibile che Rivoluzione si concluda sui nuovi soggetti e percorsi aperti nel secondo ‘900 dai movimenti anticoloniali, dal Sessantotto e dalla “rivoluzione femminista”.

7. Si vede bene che la doppia temporalità della rivoluzione, di cui Ricciardi traccia l’emergere, è su un diverso piano d’analisi un corrispettivo della dialettica tra il “senso” della modernità e la “trama narrativa della rivoluzione” esposta da Parker. Nei termini di Ricciardi, fine della rivoluzione è, infatti, costantemente la “costituzione”: tutte le “emergenze rivoluzionarie” confermano i tratti fondamentali della modernità politica. D’altra parte, però, esse mirano sempre “oltre” di essa e per questo il “discorso rivoluzionario” si riapre altrettanto costantemente in pratiche di soggettivazione che provano a superare l’esistente. Il discorso rivoluzionario è, cioè, inerente alla politica moderna e, specularmente, la profezia della sua fine costituisce l’auspicio di alcuni di metter fine alla politica. Questa dimensione è resa evidente dal filo che sottende alla sintesi, esauriente e accurata ancorché costretta nei limiti imposti dalla forma redazionale della collana, delle concettualizzazioni dei diversi momenti storici e pensatori. La “sfera pubblica” appare, per tutto il momento centrale della storia del concetto che si apre col ‘600, spazio e fine della rivoluzione, in quanto luogo della “presa di parola politica” di nuovi soggetti. Il Parlamento inglese inizia la guerra civile, si sostiene, per l’apertura di uno spazio pubblico, in cui per la prima volta accedono al politico gli “esclusi”. Kant in Se il genere umano sia in costante progresso (1798) fa della sfera pubblica il fulcro di una riforma illuminata della società dall’alto al basso: allo stesso tempo, un effetto della rivoluzione e un luogo, qualora sia consentito dallo Stato un libero confronto delle idee, in cui può essere evitata. A rileggere lo scritto del 1798 e i frammenti, che ne sono redazioni preliminari, si potrebbe anche notare che nella riflessione stessa del filosofo tedesco la “rivoluzione” va a sostituire la “guerra” come esperienza storica catalizzatrice per la tendenza umana al progresso morale. Ricciardi sottolinea come Marx e Engels abbiano rivendicato la “pubblicità” delle posizioni dei comunisti contro gli “alchimisti” della rivoluzione, vedendo nella rivoluzione proletaria “uno sfondamento della sfera pubblica” per una presa di parola collettiva, e come la critica al partito socialdemocratico e al leninismo da parte di Rosa Luxemburg si fondi sull’idea della rivoluzione quale allargamento di un spazio comunicativo libero per il dispiegarsi della creatività politica delle masse proletarie. È chiaro che i fascismi hanno rappresentato - e rappresentano - una reazione di chiusura della sfera pubblica. Come a un certo punto riassume lo stesso autore, la sfera pubblica è “uno dei luoghi privilegiati nei quali la rivoluzione dispiega i suoi effetti, sia imponendo la partecipazione agli spettatori neutrali, sia permettendo la presa di parola dei soggetti esclusi dalla storia”.

8. In concreto, però, il “movimento” della rivoluzione cui Ricciardi si rivolge nell’ultimo capitolo muove oltre anche questa dimensione. Le rivoluzioni dei popoli colonizzati, si afferma a un certo punto sulla scorta di  Franz Fanon, non mirano alla partecipazione a un’unica sfera pubblica, ovvero rifiutano la mediazione della razionalità occidentale, vanificata irrimediabilmente dal rapporto di colonizzazione che sempre si basa sulla “differenza di razza”, e si pongono come originalità assoluta soggettivandosi nella “nazione”. In questo quadro, si spiega anche l’importanza del 1968 che indirizza la critica al cuore del processo di razionalizzazione, in cui i vecchi partiti rivoluzionari hanno continuato a concepirsi. “La rivoluzione” viene così portata “sin dentro la rivoluzione”, sino a che il femminismo guarda oltre la sfera pubblica, smascherando le illusioni che le sono congenite: in particolare, la sua chiusura verso il basso, legata al sottinteso dominio privato in cui la continuità del rapporto patriarcale è sempre stato fondativo della modernità politica. L’universalismo occidentale si rivela in questo un’ideologia fondata sul modello maschile come contrapposto a un non soggetto, quello femminile. Anche Ricciardi conclude, quindi, sul “margine”, che è in questo caso il pensiero femminista. Nelle poche righe dedicate alla scrittrice afro-americana bell hooks, si riassume perciò emblematicamente la critica all’“individualità sottintesa dal discorso rivoluzionario”, ovvero il suo limite interno, la diversità di genere, e il suo limite esterno, l’alterità umana: il pensiero femminista chiude il ventesimo secolo come altro luogo in cui pensare la trasformazione politica, perché vi si costituisce una nuova soggettività politica che si sottrae alle categorie maschili e occidentali dominanti nella modernità che abbiamo conosciuto.

9. Giunti a questo punto è possibile vedere come l’analisi di Ricciardi e il saggio di Parker descrivano, attraverso la “rivoluzione”, traiettorie parallele nei motivi di fondo, intersecantisi nelle manifestazioni concrete, ma divergenti nei rispettivi punti di fuga. La storia del concetto di rivoluzione di Ricciardi comprende l’idea, sottolineata in una linea che da Marat giunge attraverso Kant a Marx, che l’“entusiasmo” sia, nello spazio pubblico, una condizione costitutiva del soggetto politico collettivo della rivoluzione. Tale lettura risolve forse troppo semplicemente quella che nell’Illuminismo, si pensi a Diderot, è una tensione irrisolta tra il sottofondo oscuro delle passioni e il movimento della ragione; Kant, nello scritto del 1798 citato, non a caso cerca di superarla trasferendo nel campo del politico la metafora artistica del “teatro della rivoluzione”, con l’intento di preservare l’agire politico riformatore dall’ombra di fanatismo religioso con cui i controrivoluzionari iniziarono allora a circondarlo. Essa, comunque, permette di collocare in posizione centrale nel ‘900 il Sessantotto come “rivoluzione mondiale”, che anticipa l’89 dell’est europeo e la dimensione globale degli anni ’90. Anche questa è una valutazione avanzata da Arrighi e Wallerstein, che appare, tuttavia, messa in secondo piano nella prospettiva di Parker. L’impostazione del libro di Ricciardi fa così in modo che il tempo politico della rivoluzione, iniziato con la sua preistoria, si collochi adesso e nel futuro in un proseguimento degli anni ’70 e sia ricondotto, anche nelle sue critiche più radicali, all’interno del movimento intrinseco alla cultura moderna occidentale. L’approccio sin dall’inizio globale di Parker, invece, pur relativizzando il discorso sulle soggettività altre, ed oscurandole forse eccessivamente, gli permette di comprendere sino agli anni più recenti il discorso politico della rivoluzione anche in modernità alternative, come quella espressa dal fondamentalismo islamico, senza respingerlo fuori dai confini del moderno perché il suo “entusiasmo”, di natura religiosa, non si conforma alla “trama” della razionalizzazione weberiana. In questo quadro, le ipotesi habermasiane sulla democrazia comunicativa rientrano solo come possibilità, la lotta “per la grammatica delle forme di vita” - pace, ambientalismo, diritti umani (Habermas, Teoria dell’agire comunicativo) - può divenire costitutiva dei “margini” spazio-temporali in cui si muovono, sfruttando le condizioni globali della sfera pubblica contemporanea, nuovi movimenti rivoluzionari - come sono stati il sandinismo negli anni ’80, lo zapatismo nei ’90, come è forse adesso il cosiddetto movimento anti-globalizzazione. Ma l’efficacia “antisistemica” dei movimenti fondamentalisti viene riconosciuta come problema all’interno dello stesso contesto. Non essersi confrontati per tempo con esso è forse una delle ragioni dell’impreparazione e del disorientamento con cui si risponde, adesso, alla sostituzione nel campo del mutamento politico della “rivoluzione” e dei suoi soggetti con le guerre militari e i loro imperativi.