Ordinary men? Gli storici tedeschi durante il nazionalsocialismo (*)

Marina Cattaruzza
Università di Berna

1. Con scadenza biennale si tiene in Germania il "Congresso degli Storici" (Historikertag), dedicato, di volta in volta, ad un tema, o a un problema di metodo di particolare attualità. Il problema che nel 1998 avrebbe dovuto fare da filo conduttore tra le diverse sezioni del congresso, tenutosi a Francoforte dall’8 all’11 settembre, era "Intenzioni e realtà" . Esso, tuttavia, è stato oscurato, nella percezione del pubblico presente e nei resoconti della stampa, da un tema che, sia pure circoscritto ad una sola sezione (1), ha di fatto dominato l’Historikertag del 1998: il rapporto tra storici tedeschi e nazionalsocialismo. Neanche il concomitante centocinquantenario dell’Assemblea di Francoforte e le numerose manifestazioni culturali legate all’anniversario, tra cui conferenze all’interno della sede storica dell’Assemblea, la Paulskirche, hanno distratto l’attenzione dallo scottante argomento.

Già da alcuni anni, i risultati di una nuova stagione di ricerche avevano indotto profonde revisioni nell’immagine che, dal 1945, gli storici tedeschi avevano inteso accreditare di se stessi: quella di appartenenti ad una casta elitaria, esponenti di una tradizione storiografica egemone a livello mondiale, che durante il dodicennio nazionalsocialista erano vissuti appartati rispetto al potere politico, continuando la propria attività nel segno dell’Historismus. Nel 1959, in occasione del centenario della Historische Zeitschrift , Theodor Schieder, succeduto a Ludwig Dehio alla guida della rivista, aveva tracciato il seguente bilancio retrospettivo sulla storiografia tedesca durante il nazismo, con particolare riguardo al suo organo di maggior prestigio: nonostante alcuni inevitabili cedimenti all’ideologia corrente, "la tradizione dello studio ‘rigoroso e ben approfondito’per collegarci alla parola di Giesebrecht, non andò perduta; giustapposte ad essa e alle dichiarazioni di principio in tal senso pubblicate sulla Historische Zeitschrift, le espressioni dell’ideologia nazionalsocialista producevano quasi l’effetto di un autosmascheramento (Selbstentlarvung)" (2).

Sulla funzionalizzazione della già di per sè sospetta Ostforschung ai fini dell’espansionismo razziale nazista un contributo fondamentale era venuto dallo storico inglese Michael Burleigh, che nel 1988 aveva pubblicato lo studio Germany turns eastwards. A study of Ostforschung in the Third Reich (Cambridge UP). Una riflessione critica sulle categorie elaborate nell’ambito della Ostforschung rispetto alla realtà polacca aveva avuto luogo in occasione dell’Historikertag di Monaco del 1996, dove Hans-Henning Hahn (Università di Oldenburg) aveva sferrato un violentissmo attacco nei confronti degli Ostforscher, pienamento omologati, per quel che riguarda il giudizio sui popoli dell’Europa orientale, al punto di vista nazionalsocialista. Sulla Ostforschung pesavano poi le vicende di uno dei massimi esponenti della disciplina, Theodor Oberländer, negli anni Cinquanta ministro per i profughi presso il governo bavarese, e, successivamente, nel gabinetto Adenauer, condannato in contumacia all’ergastolo nel 1960 da un tribunale della Repubblica Democratica Tedesca, per "assassinio continuato e incitamento all’assassinio", delitti di cui si sarebbe macchiato in Unione Sovietica tra il 1941 e il 1943. Particolarmente inquietante, la vicenda accuratamente ricostruita dallo storico e pubblicista Götz Aly, che vede Oberländer a capo di un’unità speciale formata da collaborazionisti ucraini, resasi responsabile del massacro di migliaia di ebrei dopo l’ingresso delle truppe tedesche nella città polacco-ucraina di Leopoli, il 30 giugno 1941(3).

Altri studiosi avevano messo in luce le linee di continuità di metodo tra la cosiddetta Volksgeschichte, in auge durante il nazismo, e la storia sociale tedesca, sviluppatasi nel secondo dopoguerra (4). Tuttavia, rimaniamo qui in ambiti settoriali e periferici della disciplina, la quale, nelle sue componenti più prestigiose non sembrava, effettivamente, aver risentito più che tanto dell’influenza dell’ideologia nazista. La storia tedesca presentava, infatti, forti linee di continuità sia con la Repubblica di Weimar che con la Repubblica Federale, nel segno di un conservatorismo nazionalistico, da cui risultavano tuttavia estranee suggestioni di tipo razziale e/o antisemita in senso biologistico.

Anche la poderosa tesi di dottorato di Karen Schönwälder (5), che parte proprio dall’ipotesi di una profonda contaminazione nazionalsocialista della storiografia tedesca, non riesce a produrre altro che un ricco florilegio di dichiarazioni ultranazionaliste, in linea, del resto, con le posizioni espresse dalla categoria durante la Repubblica di Weimar (6). La proposta storiografia nazionalsocialsta, incardinata sulla categoria della "razza" , non venne, di fatto, presa sul serio dagli storici tedeschi, i quali, almeno ai livelli superiori della corporazione, continuarono a svolgere le proprie ricerche in un’ottica di continuità con il metodo rankiano (7).

2. A scoperte più interessanti era giunto il già citato Götz Aly, che, nell’ambito di una ricerca sul genocidio degli ebrei e i reinsediamenti di tedeschi etnici nel corso della Seconda Guerra Mondiale, si imbatteva in un memorandum del 7 ottobre 1939, stilato da Theodor Schieder su incarico di un gruppo di esperti della "questione orientale" (tedesca), ansiosi di mettere al servizio dell’istanza politica le proprie competenze per il consolidamento e avanzamento del confine etnico a oriente, una volta che la Polonia era stata sconfitta e occupata. Il memorandum, inviato a funzionari del Ministero degli Esteri, degli Interni e dell’Agricoltura, suggeriva di attuare estesi reinsediamenti di tedeschi etnici nella parte della Polonia annessa al Reich, mentre la popolazione polacca della zona avrebbe dovuto venir trasferita nel Governatorato Generale polacco. Per far posto a tale flusso migratorio, l’elemento ebraico avrebbe dovuto, a sua volta, venir espulso dal Governatorato stesso. Il memoriale sosteneva la necessità di una "degiudeizzazione completa della Polonia residua (restlose Entjudung Restpolens)" , anche perchè la permanenza dell’elemento ebraico avrebbe rappresentato un pericolo costante di disordini, che si sarebbero facilmente propagati pure tra la popolazione polacca (8).

Schieder era destinato a diventare uno dei massimi esponenti della storiografia moderna e contemporanea nella Repubblica Federale; i suoi studi comparatistici sul nazionalismo in Europa sono considerati a tutt’oggi dei classici (9). Dal 1967 al 1972 ricoprì la carica di presidente dell’Associazione degli Storici Tedeschi (deutscher Historikerverband) (10).

Sempre Aly portava alla luce pure alcuni scritti di Werner Conze, padre fondatore della moderna storia sociale tedesca e successore di Schieder a capo del deutscher Historikerverband, in cui l’allora giovane storico affrontava a sua volta il tema del surplus di popolazione agricola in Polonia, suggerendo, pure lui, quale antidoto, "la degiudeizzazione delle città e dei mercati, in modo da poter collocare l’eccesso di popolazione agricola nella produzione artigiana e nell’attività commerciale" . Il saggio in questione era una relazione preparata per il congresso mondiale di sociologia di Bucarest del 1940. In un lavoro precedente, uscito nel 1938 sulla rivista "Osteuropa" sul tema Vilna e la Polonia nordorientale, Conze affermava che il nazionalsocialismo godeva di grande popolarità tra la popolazione bielorussa soprattutto per la sua chiara politica nei riguardi del problema ebraico. Ciò era comprensibile, tenendo conto che il poco che i proprietari terrieri lasciavano al contadino, "glielo toglieva di tasca l’ebreo" (11).

Nonostante alcune forzature, a ragione addebitate all’autore dai suoi critici, e nonostante il tono spesso inquisitorio e un "montaggio" dei materiali d’archivio più suggestivo che convincentemente argomentativo, dalle ricerche di Götz Aly è possibile trarre le seguenti conclusioni:

Theodor Schieder era inserito, con funzioni di responsabilità, in quel reticolo di istituti e centri di ricerca che, a partire dalla sconfitta tedesca nella Prima Guerra Mondiale, avevano come compito primario la raccolta e l’elaborazione di una documentazione adatta a supportare la politica revisionista sul confine orientale. Dopo l’ascesa al potere dei nazionalsocialisti tali istituti subirono una radicalizzazione, corrispondente alla nuova politica estera del regime, prestandosi, dopo lo scatenamento della Seconda Guerra Mondiale, a elaborare "pareri" sull’estensione del confine etnico tedesco a oriente, nell’ambito dei progetti di espulsione e reinsediamento di popolazione su base razziale, di competenza delle SS.

Dal 1935 Schieder ricopriva la carica di direttore della Landesstelle Ostpreußen für Nachkriegsgeschichte, un istituto di storia contemporanea della Prussia orientale, dipendente dall’Archivio di Stato prussiano a Berlino, fondato nel primo dopoguerra a Königsberg con un’impostazione fortemente revisonista. E’provato che durante la Seconda Guerra Mondiale la Landesstelle inviò materiali utili alla "riorganizzazione" dei territori polacchi occupati a diverse istanze delle SS, collaborando con lo stesso Reichsicherheitshauptamt (RSHA), l’organo centralizzato della repressione nazionalsocialista, derivante dalla fusione di polizia e SS, con a capo Heinrich Himmler.

Più sfumata appare la posizione di Werner Conze, anche lui, comunque, impiegato dal 1937 presso la "Publikationsstelle" , sorta di centro studi semiclandestino di orientamento revisionista, strettamente legato ai Ministeri degli Interni e degli Esteri. La Publikationsstelle darà poi impulso determinante alla fondazione dell’Institut für deutsche Ostarbeit (letteralmente: Istituto per il lavoro tedesco a Oriente) di Cracovia. Allo stato attuale della ricerca sembrerebbe che Conze si fosse limitato ad "attualizzare" alcuni risultati dei suoi studi sulla struttura della popolazione nella Polonia orientale e nordorientale, collocandoli in quella che pareva essere – allora – la prospettiva di svolgimento del processo storico in atto: una gigantesca riorganizzazione degli equilibri etnici nell’area polacca, da attuarsi attraverso misure di espulsione e reinsediamento di dimensioni inaudite. Diversamente da Schieder, Werner Conze non si fece però, a quanto sembra, parte attiva di tale progetto.

Ci troviamo, qui, non di fronte a storici influenzati dal nazionalsocialismo rispetto alle proprie categorie analitiche o costretti a quegli inevitabili compromessi con le istanze del regime a cui chiunque volesse continuare ad operare in Germania doveva adattarsi, tanto più se attivo nel campo della storia moderna e contemporanea. Piuttosto ci troviamo di fronte a storici che, di propria iniziativa, forniscono una specie di supporto discorsivo ai trasferimenti di popolazione su base etnico-razziale progettati o in corso di attuazione nei territori polacchi occupati. A tale atteggiamento non era certo estraneo il vecchio vizio dell’Historismus, di interpretare il presente – qualsiasi presente! – come risultante di uno svolgimento storico di per sè razionale, provocando quindi degli appiattimenti di prospettiva che non tenevano conto nè della pluralità di sviluppi possibili nel passato, nè di un orizzonte aperto sul futuro, nè, tantomeno, di problematiche di carattere etico (12).

Götz Aly era tra i relatori della sezione "Storici e nazionalsocialismo". L’invito all’Historikertag di Francoforte segna il riconoscimento ufficiale della ineludibilità delle sue acquisizioni da parte della corporazione degli storici tedeschi, dopo che, per anni, tali risultati erano stati bollati come frutto del dilettantismo di uno storico non-professionista.

Più sensazionale ancora la relazione di M. Fahlbusch (Basilea) sulle Volksdeutsche Forschungsgemeinschaften (centri di ricerca germanici) (13). Dal quadro tracciato dal giovane studioso svizzero emerge una fitta rete di istituti völkisch, che coprivano tutti i territori occupati e di cui fino ad ora si sospettava appena l’esistenza. Tali strutture, volte a valorizzare il ruolo storico-culturale della presenza tedesca nelle zone in questione, erano collegate in modo organico al RSHA. Non va dimenticato, in tale contesto, che a partire dalla conquista della Polonia Heinrich Himmler era al tempo stesso a capo del Reichssicherheitshauptamt e Commissario del Reich per il rafforzamento del carattere nazionale tedesco (Reichskommissar für die Festigung des deutschen Volkstums). C’è da aspettarsi, dall’approfondimento di tale filone di ricerca, finalmente una ricostruzione complessiva dell’apparato culturale nazionalsocialista attivato nei territori occupati, la cui consistenza ed importanza per il regime sono state certamente superiori a quanto finora ipotizzato. Tali strutture sono state infatti studiate in modo episodico e disorganico, subordinatamente all’approfondimento di tematiche specifiche, quali per esempio lo statuto disciplinare della Ostforschung o, appunto, la compromissione degli storici con il regime. In questo modo sono emerse, di volta in volta, solo alcune punte di iceberg, quali l’Institut für deutsche Ostarbeit di Cracovia, la Nord – und ostdeutsche Forschungsgemeinschaft, il Bund deutscher Osten ecc. Il – gigantesco – iceberg continuava a rimanere invisibile sott’acqua. E’un merito non da poco di Fahlbusch, l’aver cominciato a farlo affiorare alla superficie (14).

Peter Schöttler ha trattato del ruolo della Volksgeschichte sul confine francese, dimostrando che anche rispetto all’Europa occidentale si applicavano categorie che finora sembravano esclusive della Ostforschung, tra cui, centrale, il concetto per cui l’elemento tedesco sarebbe stato il solo ed effettivo vettore culturale (Kulturträger). Infine, Mathias Beer (Tubinga) ha ricostruito le circostanze in cui venne progettata e realizzata la monumentale Dokumentation der Vertreibung der Deutschen aus Ost-Mitteleuropa (Documentazione sull’espulsione dei tedeschi dall’Europa centro-orientale) (15), in stretto contatto con il Ministero per i Profughi. Dalla relazione esce confermato il carattere scientifico del progetto, di cui era curatore principale lo stesso Theodor Schieder, coaudiuvato da una commissione di studiosi, alcuni tra i quali sarebbero diventati esponenti di punta della storiografia della Germania Federale, come Martin Broszat e Hans-Ulrich Wehler. Risulterebbe, dall’esposizione di Beer, che la commissione si fosse opposta con decisione a forzature di carattere politico, caldeggiate invece dal Ministero. Tuttavia, mentre la commissione scientifica fu in grado di rintuzzare efficacemente le prese di posizione critiche nei confonti dell’opera da parte delle associazioni dei profughi (Vertriebenenverbände), essa fallì quando si trattò di collocare la vicenda delle espulsioni dei tedeschi nell’ambito più vasto dei movimenti di popolazione in Europa centrale e orientale successivamente alla Prima Guerra Mondiale, e, in particolare, di ricostruire i nessi tra la politica di occupazione nazionalsocialista nell’area e le successive espulsioni. Il volume che avrebbe dovuto affrontare tali tematiche non vide mai la luce, a causa dell’opposizione del Ministero committente (16).

Per la presenza, tra il pubblico, di numerosi allievi di Theodor Schieder e Werner Conze, rappresentanti tra i più prestigiosi della attuale storiografia tedesca, il dibattito si è incentrato sulle figure dei maestri, risultando alquanto riduttivo rispetto alla ricchezza delle questioni poste sul tappeto. Più che per i quesiti sollevati, gli interventi, tenuti in tono fortemente emozionale, presentano un certo interesse rispetto all’attuale immagine di sè degli storici tedeschi. Wolfgang Mommsen, per esempio, allievo di Theodor Schieder, ha accusato Götz Aly di scarsa capacità di esegesi dei documenti (in riferimento al famoso memorandum). A difesa del maestro, Mommsen ha addotto poi lo sconcertante argomento per cui i "pareri" degli storici sarebbero stati irrilevanti rispetto alla politica effettivamente praticata dai nazionalsocialisti in Polonia e negli altri paesi occupati dell’Europa orientale. Jürgen Kocka, in linea con le proprie convinzioni sul ruolo della storia come "pedagogia politica" , ha invece sottolineato la capacità dei personaggi in questione di imparare dai propri errori: gli stessi storici diventarono, nel dopoguerra, convinti sostenitori della nuova società democratica, a cui diedero un imporante contributo attraverso il loro magistero universitario. Hans-Ulrich Wehler, pure allievo di Theodor Schieder, si preoccupava, in primo luogo, di sottolineare il carattere democratico della "Neue Sozialgeschichte" , di cui lui stesso e Jürgen Kocka erano stati tra i fondatori alla fine degli anni Sessanta. Tra tutti, si distingueva per qualità l’intervento di Hans Mommsen (allievo di Werner Conze), che dopo aver ribadito come ci fosse stata, tra gli storici tedeschi, una diffusa adesione agli obiettivi nazionalsocialisti, sollevava un quesito che riportava la discussione ad un alto livello di dibattito storiografico: come è possibile che degli storici, il cui compito consiste nell’investigare e ricostruire realtà sedimentate nel tempo, si facciano fautori di uno stravolgimento violento di equilibri etnici e culturali formatisi storicamente, in seguito ad una cieca adesione al principio della "potenza" , ulteriormente pervertito dall’ideologia razziale? Non comporta, ciò, una negazione radicale della propria specifica etica professionale? (17).

Il tono e i contenuti del dibattito hanno evidenziato, tra l’altro, lo strettissimo legame tra "maestro" e "allievo" che caratterizza a tutt’oggi la storiografia tedesca, più di quella di altri paesi dell’Europa occidentale (18). Salta poi all’occhio come il dibattito si sia svolto nella forma di una "discussione tra uomini" . Nessuna donna vi ha preso parte, sebbene ci siano anche in Germania alcune cattedrattiche con competenze sul nazionalsocialismo e/o su problematiche di storia della storiografia: Helga Grebing, Gisela Bock, Ute Frevert, Adelheid von Saldner, per fare solo alcuni nomi. Anche le precedenti controversie sul passato nazionalsocialista, dall’"Historikerstreit" (sulle discusse tesi di Ernst Nolte), alla "Goldhagen Kontroverse" , si sono svolte esclusivamente tra i componenti maschili della corporazione, quasi che il ridefinire di volta in volta i criteri interpretativi generali sia rimasto l’ultimo bastione inespugnato di una dominanza di "genere" fino a pochi anni fa pressochè assoluta.

3. Il rapporto tra storici tedeschi e nazionalsocialismo, quale emerge dalle relazioni presentate, è tutt’altro che univoco e non semplice da definire. L’adesione a determinati obiettivi del regime (compresi i progetti di "ingegneria" etno-razziale nei territori conquistati) era conciliabile con il mantenimento di un’alta qualità di analisi storica, come proprio i casi di Theodor Schieder e Werner Conze documentano. Ambedue posero le fondamenta del proprio metodo storico negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, a cui non apportarono modifiche di rilievo nel dopoguerra. Otto Brunner, la cui adesione al nazismo fu esplicita ed entusiasta, pubblicò il proprio capolavoro Land und Herrschaft nel 1939, e lo ristampò più volte nei decenni successivi apportandovi solo poche modifiche di carattere lessicale (19).

Giustamente, Götz Aly ha sottolineato l’enorme capacità di integrazione sociale dispiegata dal regime: essa si realizzava per lo piu attraverso una condivisione – parziale – di obiettivi, diversi per i diversi gruppi sociali, sui quali veniva a fondarsi il consenso. Rispetto a tali meccanismi, l’adesione globale all’ideologia nazista sembra essere stata, invece, un fenomeno relativamente raro.

Più sopra abbiamo accennato al fatto che, per tradizione, la storioriografia tedesca tendeva, più di altre scuole storiche nazionali, a proiettare sul passato la percezione del presente, o, se vogliamo, di quello che pareva essere lo svolgimento storico in atto (20). Tale tradizione spiega tuttavia solo in parte le prese di posizione sulla Polonia, la cooperazione con il RSHA o con il Sicherheitsdienst delle SS. Piuttosto, si delinea, dai risultati ancora parziali e provvisori discussi nella sezione, una disponibilità diffusa a collaborare, sia pure a diversi livelli di responsabilità e con compiti diversi, anche ai progetti più radicali di ordine etnico e razziale. In conclusione, anche per gli storici inseriti nelle strutture di ricerca esaminate dalla sezione varrebbe l’inquietante ed irrisolto interrogativo al centro delle indagini più recenti sul nazionalsocialismo (21): come è stato possibile che migliaia di "uomini comuni" fossero così facilmente disposti a collaborare proprio al conseguimento di quegli obiettivi di politica estera e razziale, attraverso i quali il nazionalsocialismo è venuto definendosi come "il male assoluto" del nostro secolo? E come è stato possibile, che quegli stessi uomini si integrassero, nel dopoguerra, in una società democratica, retta da istituzioni "normali" , apparentemente senza grosse difficoltà di ordine psicologico o comportamentale (22) ? In tale prospettiva, le scelte e prese di posizione di quegli storici rappresentano solo un tassello di una problematica assai più ampia e complessa, in larga parte ancora da scandagliare, ovvero: quali sono stati i comportamenti e le scelte soggettive di centinaia di migliaia di uomini e donne tedeschi, una volta passata la "linea d’ombra" dell’aggressione alla Polonia, il 1 settembre 1939?

(*) Questa nota è già apparsa su "Contemporanea", II, 2 (1999): 331-340, e viene qui ripubblicata con la cortese autorizzazione della Direzione di "Contemporanea".

(1) Il titolo della sezione era: Storici tedeschi durante il nazionalsocialismo. Coordinatori: Otto Gerhard Oexle (Gottinga), Winfried Schulze (Monaco). Interventi: Peter Schöttler (Berlino), Dalla storia locale renana alla "storia del popolo" (Volksgeschichte) nazista, ovvero: "l’ineludibile voce del sangue" ; Pierre Racine (Strasburgo), Hermann Heimpel a Strasburgo; Götz Aly (Berlino), Progresso storiografico e storiografia politico-razziale; M. Fahlbusch (Basilea), Centri di ricerca germanici, un braintrust della politica nazionale (Volkstumspolitik) nazista; M. Beer (Tubinga), La documentazione sull’espulsione dei tedeschi dall’Europa centro-orientale. Discussant: Jürgen Kocka.

(2) Theodor Schieder, Die deutsche Geschichtswissenschaft im Spiegel der Historischen Zeitschrift, in "Historische Zeitschrift" , vol. 189, 1959 (pp. 1-104), p.70.

(3) Cfr. Götz Aly, Kleine Fluchten West, in Id., Macht Geist Wahn. Kontinuitäten deutschen Denkens, Berlin, 1997, pp. 99-106. Sulla carriera politico-scientifica di Theodor Oberländer nel dopoguerra, cfr. Erwin Oberländer (a cura di), Geschichte Osteuropas. Zur Entwicklung einer historischen Disziplin in Deutschland, Österreich und der Schweiz 1945-1990, Stuttgart, 1992, in particolare pp. 281-283. A Theodor Oberländer si deve, in larga misura, la fondazione del più importante istituto di ricerca sull’Europa Orientale della Repubblica Federale Tedesca, l’Osteuropa-Institut di Monaco, istituito nel 1952.

(4) Cfr. Willi Oberkrome, Volksgeschichte. Methodische Innovation und völkische Ideologisierung in der deutschen Geschichtswissenschaft 1918-1945, Göttingen, 1993.

(5) Karen Schönwälder, Historiker und Politik. Geschichtswissenschaft im Nationalsozialismus, Frankfurt/New York, 1992.

(6) Sul lavoro di Karen Schönwälder rimando alla mia recensione in"Storia della Storiografia" , 1994/26, pp. 144-151. Sulla storiografia tedesca durante la Repubblica di Weimar fondamentale Bernd Faulenbach, Ideologie des deutschen Weges. Die deutsche Geschichte in der Historiografie zwischen Kaiserreich und Nationalsozialismus, München, 1980.

(7) Più permeabili alle suggestioni del binomio "sangue e suolo" sembrano essere stati gli storici dell’antichità e gli studiosi della preistoria. Cfr. Andrea D’Onofrio, Ruralismo e storia nel Terzo Reich. Il caso "Odal" , Napoli, 1997.

(8) G.Aly, Rückwärtsgewandte Propheten, in Id., Macht, Geist, Wahn, pp. 179-183. Sul retroterra concettuale e ambientale di simili riflessioni cfr. Burleigh, Germany turns eastwards, pp. 166 sgg. L’iniziativa a cui aveva partecipato Theodor Schieder non rappresentava un caso isolato. Dopo l’occupazione della Polonia, analoghi "pareri" , stesi da quelle componenti del mondo accademico tedesco che erano più coinvolte nelle problematiche dell’Europa Orientale, raggiungevano numerosi – e non richiesti! – il Ministero degli Esteri e quello degli Interni.

(9) Cfr. per es. Theodor Schieder, Nationalismus und Nationalstaat. Studien zum nationalen Problem im modernen Europa, a cura di Otto Dann, Göttingen, 1991.

(10) Sul cursus honorum di Theodor Schieder cfr. la voce Schieder a cura di Rüdiger vom Bruch in vom Bruch/Müller, Historiker Lexikon. Von der Antike bis zum 20. Jahrhundert, München, 1991, pp. 274 sgg. Una ricostruzione complessiva del profilo di storico di Theodor Schieder fornisce Jörn Rüsen, Continuity, Innovation, and Self-Reflection in Late Historicism: Theodor Schieder (1908-1984), in Hartmut Lehmann, James Van Horn Melton (a cura di), Paths of Continuity. Central European Historiography from the 1930s to the 1950s, New York, 1994, pp. 353-388.

(11) G.Aly, Werner Conze und die "Judenfrage" , in   Id., Rückwärtsgewandte Propheten, pp. 161-169. Sulla figura intellettuale di Werner Conze e sul suo ruolo di innovatore della storiografia tedesca nella Germania federale cfr. Reinhard Kosellek, Werner Conze. Tradition und Innovation, in "Historische Zeitschrift" , 245 (1987): 529-543.

(12) Sulle tendenze attualizzanti dell’Historismus cfr. per es. le prefazioni apposte da Friedrich Meinecke a Weltbürgertum und Nationalstaat rispettivamente nel marzo 1915, nel 1917 e nel 1922. Tali prefazioni sono state allegate alla traduzione italiana dell’opera Friedrich Meinecke, Cosmopolitismo e stato nazionale. Studi sulla genesi dello stato nazionale tedesco, Perugia/Venezia, 1930 (1922) (2 voll.), vol. I, pp. VII-X. Sul problema etico sollevato dal relativismo storicista cfr. le riflessioni dello stesso Meinecke: Friedrich Meinecke, La storia e il presente, in Id., Senso storico e significato della storia, Napoli, 1948 (1933), pp. 5-18. Posizioni assai più critiche sul "nihilismo etico e filosofico" dello storicismo, in Geoffrey Barraclough, Atlante della storia 1945-1975, Roma-Bari, 1984 (1976), p. 22.

(13) Il termine volksdeutsch è letteralmente intraducibile. Esso sta a indicare l’elemento germanico al di fuori dei confini dello stato tedesco.

(14) Sul tema Michael Fahlbusch ha intanto pubblicato un amplissimo studio, frutto di un lavoro di ricerca quindicennale. Cfr. Michael Fahlbusch, Die "Volsdeutschen Forschungsgemeinschaften" von 1931-1945, Baden-Baden, 1999.

(15) Dokumentation der Vertreibung der Deutschen aus Ost- Mitteleuropa, bearbeitet von Theodor Schieder, herausgegeben vom Bundesministerium Für Vertriebene, München, 1954 sgg.

(16) Cfr. l’esposizione di Theodor Schieder sui criteri metodologici dell’opera: Theodor Schieder, Die Vertreibung der Deutschen aus dem Osten als wissenschaftliches Problem, in "Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte" , a. VIII, 1960, pp. 1-16. Per una versione ampliata della relazione di Beer cfr. Mathias Beer, Im Spannungsfeld von Politik und Zeitgeschichte. Das Großforschungsprojekt "Dokumentation der Vertreibung der Deutschen aus Ost-Mitteleuropa" , in "Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte" , 46 (1998/3): 345-389.

(17) Le relazioni e i contributi al dibattito sono stati intanto pubblicati in una versione riveduta dai partecipanti. Cfr. Winfried Schulze, Otto Gerhard Oexle, Deutsche Historiker im Nationalsozialismus, Frankfurt, 1999.

(18) Al riguardo è interessante rilevare come l’indulgenza manifestata nei confronti di Theodor Schieder e Werner Conze non sia stata applicata, a suo tempo, a storici quali Andreas Hillgruber ed Ernst Nolte, a cui pure non è possibile addebitare qualsivoglia compromissione con il nazionalsocialismo (Hillgruber, nato nel 1925, proveniva dall’antifascismo cattolico della Prussia orientale). Si assiste così al paradosso per cui esponenti di punta della storiografia "progressista" della Germania federale (Kritische Geschichtswissenschaft) come Hans-Ulrich Wehler si ergano a difensori d’ufficio di Theodor Schieder dopo aver condotto una polemica ferocemente distruttiva nei confonti di Hillgruber, che non si attenuò neanche in prossimità della morte dello stesso. Sugli aspetti più grossolanamente demagogici dell’"Historikerstreit" cfr. l’ironico pamphlet di Imanuel Geiss, Der Hysterikerstreit. Ein unpolemischer Essay, Bonn/Berlin, 1992. Allo stesso Geiss, allievo di Fritz Fischer, si deve un importante contributo sui piani di annessione di striscie di territorio polacco da parte delle autorità civili e militari tedesche nel corso della Prima Guerra Mondiale. Tali piani prevedevano già l’espulsione dell’elemento polacco ed ebreo dai territori in questione la loro "germanizzazione" con tedeschi provenienti dal Reich, dalla Russia e addirittura da oltremare. Cfr. Imanuel Geiss, Die polnischen Grenzstreifen 1914-1918. Ein Beitrag zur deutschen Kriegszielpolitik im Ersten Weltkrieg, Luebeck/Hamburg, 1960.

(19) Su Brunner cfr. James Van Horn Melton, From Folk History to Structural History: Otto Brunner (1898-1982) and the Radical-Conservative Roots of German Social History, in Lehmann, Van Horn Melton, Paths of Continuity, pp. 263-292.

(20) Sulla tradizionale contiguità tra storiografia tedesca e politica cfr. Bernd Faulenbach, Die "nationale Revolution" und die deutsche Geschichte. Zum zeitgenössischen Urteil der Historiker, in Wolfgang Michalka (a cura di), Die nationalsozialistische Machtergreifung, Padeborn/München/Wien/Zürich, 1984, pp. 357-371. Il saggio di Faulenbach si occupa in primo luogo dell’atteggiamento degli storici di fronte all’andata al potere dei nazionalsocialisti. Sebbene nessuno degli storici tedeschi di fama avesse aderito in precedenza al nazionalsocialismo, la maggioranza vide nella Machtergreifung un fenomeno positivo, in una linea di continuità con le migliori tradizioni della storia prussiano-tedesca. Il consenso degli storici non passò attraverso un’adesione di tipo ideologico, ma, sostanzialmente, attraverso la condivisione dell’obiettivo di una ripresa della politica di potenza.

(21) Tra le opere più significative di questo filone di ricerca: Christopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e ‘soluzione finale’in Polonia, Torino, 1995 (1992); Daniel Jonah Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Milano, 1997 (1996).

(22) In un importante intervento nel corso del dibattito, Ulrich Herbert ha sottolineato come i nuovi filoni di ricerca sulla Seconda Guerra Mondiale abbiano evidenziato un coinvolgimento di tedeschi nelle operazioni di sterminio di ebrei e di altra popolazione civile assai più consistente, in termini numerici, di quanto si fosse ritenuto fino a solo pochi anni fa. Non si rileva, inoltre, una diretta corrispondenza tra convinzioni nazionalsocialiste e disponibilità a pratiche genocide. Cfr. anche l’intervista a Ulrich Herbert in "Welt im Gespräch" , edizione straordinaria di "Die Welt" , in occasione del 42. Historikertaf di Francoforte: Der Judenmord war das Kernereignis des Jahrhunderts.