1. Tra stato di natura e stato civile. La nascita della storia;
2. Il «risvegliarsi della ragione»;
3. Razionalità economica e ragione morale;
4. Mutazione antropologica e mutamento politico;
5. Il problema dell'ordine internazionale;
6. Struttura e logica del processo storico;
9. Il segreto di una «teleologia critica»;
10. L'autocreazione dell'umanità;
11. Libertà e «seconda natura»;
12. La realtà vivente.
Oggettività e cosmopolitismo.
La possibilità (razionalmente prevedibile) che la guerra cessi di insanguinare la Terra e che ci si approssimi alla pace perpetua, «fine ultimo dell'intero diritto delle genti»(1), è concepita da Kant nel quadro di una filosofia della storia che affida alla natura funzioni decisive. Ma il termine «natura» ha diversi significati negli scritti giuridici, politici e filosofico-storici kantiani. Se dunque per comprendere il pacifismo di Kant è necessario determinare la logica fondamentale della sua filosofia della storia (contesto argomentativo entro cui si colloca l'intero svolgimento della Pace perpetua), a questo fine occorre prestare particolare attenzione al senso di «natura» negli innumerevoli sintagmi in cui il termine compare (e nei quali si tratta ora del «disegno della natura» ora del suo «meccanismo»; della sua «previdenza» o della sua «organizzazione»; del suo «scopo» o del suo «occulto piano»; delle sue «disposizioni», della sua «onnipotenza» o della sua «tutela»; o, ancora, di una natura «artefice» o «saggia», o della «natura delle cose»)(2). Nelle pagine seguenti si cercherà dapprima di fornire una sommaria sintesi della concezione kantiana della storia assumendo quale filo conduttore dell'indagine il tema dello sviluppo della razionalità strategica e morale (§§ 1-6). Sulla scorta dei risultati raggiunti si proverà quindi ad analizzare i diversi significati assunti dal termine «natura» nelle diverse fasi della «storia filosofica» elaborata da Kant (§§ 7-11). In conclusione (§ 12) si formulerà una ipotesi relativa all'idea di oggettività che sembra prendere forma negli scritti kantiani sullo sfondo di una filosofia della storia concepita «dal punto di vista cosmopolitico».
In tutta la rappresentazione che Kant fornisce della vicenda umana la funzione della politica appare decisiva. Intesa in senso largo, come àmbito corrispondente alla totalità delle forme dell'interazione, essa svolge un ruolo cruciale già in uno stato di natura caratterizzato (secondo il modello lockeano) dall'assenza di un'autorità arbitrale efficace, quindi (al pari dello stato di natura hobbesiano) da insicurezza. A rendere produttiva questa condizione è proprio la sua distruttività. Le sofferenze causate dalla mancanza (o dall'inefficacia) di regole coattive sullo sfondo dei conflitti provocati (o minacciati) dal desiderio di gloria e di dominio connaturato agli esseri umani (ancora la lezione di Hobbes) determinano il diffondersi della specie umana sul pianeta. Gli uomini patiscono per i lutti e le perdite materiali causati dall'anomia, della quale cercano di parare i colpi disperdendosi «in ogni direzione, anche nelle regioni piú inospitali»(3). In questo senso si può dire che già la prima esperienza dei mali prodotti dall'assenza di un ordine civile pone premesse utili al loro superamento. Si può dire altresí che sin da questa fase originaria, eccitato da nuovi «desideri» e nuove «ansie»(4), il pungolo della necessità stimola lo sviluppo della razionalità individuale e collettiva (onde i primi progressi nell'attività produttiva). Ciò avviene tuttavia soltanto oggettivamente, senza che ai primi passi mossi dalla razionalità umana si accompagni la consapevolezza dei suoi germinali progressi. Questa fase vede lo sviluppo di una razionalità non rifiessiva (dunque puramente tecnica); ciò significa che si tratta di un processo riconoscibile soltanto ex post. Dunque il genere umano non esiste ancora, per tutta questa fase, se non «in sé», per lo sguardo esterno che ne contempla dall'alto la vicenda o la ricostruisce a posteriori. Non c'è ancora storia dell'uomo, se non per Dio o per lo storico. Questo difatti è storia umana in senso stretto: il processo di trasformazione e di ampliamento dell'orizzonte individuale e collettivo, in virtú del quale i soggetti scoprono una nuova identità via via piú inclusiva (tendenzialmente universale: dall'individuo al gruppo, alla comunità civile, alla specie) e riconoscono in se stessi gli artefici del proprio mondo e della propria vicenda. Il riferimento al secondo Discorso rousseauiano viene spontaneo a questo proposito. Kant fa tesoro dell'osservazione di Rousseau a proposito della metamorfosi dello sguardo sul mondo e su se stesso che l'uomo viene elaborando nel corso del tempo e che gli consente di conquistare gradualmente la consapevolezza della propria somiglianza con gli altri esseri umani e della comune appartenenza a una stessa specie. Considerando la prospettiva dalla quale l'uomo guarda al mondo e a sé nella prima fase della propria vicenda, Kant definisce «priva di finalità» la condizione «dei selvaggi»(5), l'epoca in cui per ciascuno la realtà non oltrepassa il perimetro dell'immediata esperienza spazio-temporale. A sua volta, la fase successiva della vicenda umana è il tempo della lunga nascita dell'umanità: della scoperta di sé che essa viene compiendo, e in virtú della quale l'animale umano si fa uomo: diviene sempre piú capace di autocomprendersi come individuo e come totalità generica, quindi come soggetto di storia in grado di procedere secondo un «piano»(6).
In stato di natura la risposta alle sofferenze causate dall'anarchia (nel senso letterale di: assenza di una «potenza» in grado di garantire l'applicazione di «leggi pubbliche»)(7) è dunque passiva: gli individui soffrono e corrono meccanicamente ai ripari, ma non sono ancora in grado di elaborare razionalmente la sofferenza: di individuarne le cause, di comprenderne la non-necessità, di scoprire antidoti idonei a ridurne stabilmente l'incidenza: in una parola, di imparare dalla sofferenza il modo di prevenirla. Il passaggio alla fase ulteriore ha inizio dal momento in cui l'accumulo delle esperienze negative genera negli individui la consapevolezza della irrazionalità dell'anarchia. A forza di subire gli effetti perversi dell'anomia, essi ne riconoscono ora i costi insostenibili (e comunque superiori ai benefici di una anche solo latente conflittualità non regolata). Dalla pura (immediata) sofferenza si è passati alla critica della sofferenza, cioè allo sforzo di scoprirne cause e contromisure. L'elaborazione razionale delle esperienze negative - per dir cosí: la cognizione del dolore - conduce gli uomini alla decisione di por fine allo stato di natura: in questo senso si può dire (ex post) che una prima fase si è già conclusa nel momento in cui i membri di una società civile nascente (o almeno una sua quota ampia abbastanza da generare effetti concreti) prendono distanza, in foro interiore, da una «libertà priva di leggi»(8) che produce una condizione di costante insicurezza. Ovviamente la politica svolge una funzione decisiva soprattutto nello sviluppo interno di questa seconda fase della vicenda umana, in senso stretto storica. Tale sviluppo è segnato dall'evoluzione delle forme propriamente politiche, cioè dalla diversa configurazione dei sistemi di potere (Stati). Si tratta, agli occhi di Kant, di uno sviluppo progressivo, segnato da un grado decrescente di violenza (arbitrio) e da un tasso crescente di razionalità (diritto, giustizia e anche moralità). Perché questo avvenga è facile a comprendersi. Quella stessa razionalità che ha consentito di fare tesoro dell'esperienza (cioè di apprendere dalla sofferenza e finalmente di uscire dallo stato di natura) continua il proprio lavoro nel corpo della società civile: da un lato modificando la forma degli egoismi individuali e collettivi (e quindi la stessa identità dei membri della collettività), costringendoli a definirsi in relazione a obiettivi sempre meglio compatibili con l'espressione dell'egoismo altrui (in relazione cioè a finalità via via piú generalizzabili e, in questo senso, piú razionali); dall'altro imponendo all'ordine politico configurazioni sempre piú coerenti con il diritto (sempre piú rispettose delle istanze individuali e collettive di autonomia e reciprocità). Al lavoro che la ragione individuale e collettiva svolge lungo queste due direttrici nel contesto della società civile si legano conseguenze di grande rilievo, che occorre analizzare con attenzione.
Consideriamo in primo luogo lo sviluppo della razionalità nel corpo della società civile. A giudizio di Kant, esso determina la trasformazione degli egoismi individuali e collettivi. Il processo si compie in due tempi, con effetti diversi nel primo e nel secondo. In una prima fase la ragione pervade il tessuto sociale (la sintassi dell'interazione), inducendo individui e gruppi ad adottare comportamenti sempre meno violenti (sempre piú rispettosi delle istanze altrui), cioè sempre piú conformi al diritto. In un secondo momento la dinamica espansiva della ragione pervade l'interiorità degli individui, la loro volontà e i fini che essi concepiscono: a questo punto la trasformazione (razionalizzazione) degli egoismi fa sí che individui e gruppi si impegnino nel perseguimento di scopi via via piú generalizzabili, cioè sempre piú conformi alla morale. La trasformazione degli egoismi individuali e collettivi in seno alla società vede dunque in un primo momento l'affermarsi della razionalità economica (strategica); quindi (grazie a questo primo risultato) lo sviluppo della razionalità morale (pratica). Vale la pena di soffermarsi sulla logica di ciascun movimento.
In un primo momento l'egoismo di individui e gruppi è fonte di uno sviluppo dialettico in conseguenza del quale l'egoismo stesso si trasforma, divenendo compatibile con la convivenza pacifica. Proprio perché egoisti, gli uomini sono non soltanto l'uno il pedagogo dell'altro (la ricerca esclusiva dell'utile da parte di ogni individuo pone limiti all'azione di ciascuno) ma anche, soprendentemente, l'uno il collaboratore dell'altro. La società è una impresa cooperativa proprio in quanto composta di individui in reciproca competizione. Kant fa qui propria un'intuizione fondamentale dell'economia politica classica: piú che l'ipotesi smithiana della mano invisibile, l'idea mandevilliana dell'effetto virtuoso dell'interesse privato, di una benevola eterogenesi dei fini che tramuta in virtú civile il vizio morale. Sono la struttura delle relazioni sociali e la logica stessa dell'interesse a promuovere le condizioni «di un ordinamento giuridico» della società(9). A mezzo tra ragione e passione, l'interesse - o l'«onore», come ha osservato Montesquieu - è levatore di un egoismo razionale, capace di autolimitarsi per amore dei propri obiettivi. L'intreccio tra le funzioni che gli individui svolgono in società (la divisione sociale del lavoro e la dipendenza reciproca che ne consegue) fa il resto: «spinto dal desiderio di onore, di potere o di ricchezza», ciascuno mira a «conquistarsi un posto tra i propri consoci, che certo egli non può sopportare, ma dei quali non può neppure fare a meno»(10). La creazione dell'ordine politico non presuppone dunque il progresso morale. L'apprendistato al rispetto dei limiti che la razionalità strategica pone alla volontà individuale è «di gran lunga piú necessario alla costituzione della società che la benevolenza e l'amore»(11). L'istituzione di un ordine giuridico non richiede che la società sia composta di virtuosi. Purché rischiarato dalla ragione, l'egoismo è una premessa sufficiente: anche «un popolo di diavoli» può ben governarsi e vivere in pace(12). Tant'è vero che quando l'interesse aguzza l'ingegno (Kant riprende l'idea humeana di un interesse che impara a frenare se stesso per amore dei suoi stessi scopi), non è piú la guerra, ma il commercio a prendere piede, e, con esso, «il reciproco vantaggio» di contraenti «di certo non mossi dagli impulsi della moralità»(13).
Quello che il sopravvento della razionalità economica determina è il trionfo dell'utile, del quale ora la ragione si serve come di un proprio strumento. Ma se per un verso il movimento si compie con la vigile complicità degli individui, è pur vero che i suoi effetti piú rilevanti (la pacificazione della società, il beneficio comune) discendono da cause che a quest'altezza i singoli ignorano e, a maggior ragione, non controllano. Le strategie individuali implicano fini circoscritti, ma la loro interazione (la loro collisione) costruisce molecolarmente una razionalità collettiva. Il nodo sociale opera questa alchimia, costringendo ciascuno a farsi strumento di quel prossimo che egli ritiene di ridurre a proprio mezzo. In questo senso si può dire che gli uomini sono qui strumenti della propria razionalità, che agisce alle loro spalle con un'«astuzia» (Hegel; ma già Mandeville e Vico) non priva d'ironia. Le scelte dei singoli coinvolgono gruppi sempre piú numerosi e ciò rende via via piú complicata la definizione di linee d'azione compatibili. La crescente rilevanza sociale dei comportamenti ne impone la razionalizzazione, innalzando di continuo la soglia della legittimità. Come si dirà, è qui contenuta (in nuce) una nuova idea della realtà sociale e storica e dell'oggettività. La storia e la società sono viste da Kant muoversi in base a una logica oggettiva loro propria, in grado di imporsi all'arbitrio individuale. D'altra parte, l'oggettività delle leggi che regolano il processo storico e le dinamiche sociali - leggi che, pure, con una metafora che oscura il suo pensiero, Kant sembra assimilare a quelle che governano «il crescere delle piante, il corso dei fiumi e altri eventi naturali»(14) - non è identica a quella del mondo extraumano. La società e la storia si muovono secondo una ratio, ma alla determinazione di questa non è estranea la volontà degli uomini. Questi sono anche, non esclusivamente natura, tant'è che «il genere umano» poté tralignare e allontanarsi «dal cammino prescrittogli dalla natura» stessa(15). Dunque si ha qui a che fare con una oggettività non priva di soggettività, ma anzi da essa risultante: costituita dall'agire di soggetti razionali e dalle loro ragioni in conflitto e in forzosa (e inconsapevole) cooperazione. Si ha qui a che fare con un'idea destinata a fare strada, quella di una materia che vive delle volontà e delle ragioni che via via incorpora in se stessa.
Sin qui la ragione si è limitata a mettere in forma i «comportamenti pubblici», lasciando da parte le motivazioni, i «sentimenti privati»(16): si è occupata dei mezzi utili ad ottenere giustizia e pace (servendosi a questo scopo delle passioni e degli stessi vizi degli uomini), non dei fini che individui e gruppi si prefiggono nella propria azione. Le volontà sono lasciate a se stesse, succubi di un egoismo che non è meno riprovevole (sul piano morale) per il semplice fatto di essere meno distruttivo (sul terreno della convivenza civile). Gli uomini sono ancora chiusi nella cerchia dei propri rispettivi interessi. L'osservanza delle leggi coattive (giuridiche) è concepita come una dura necessità: si rispettano le norme perché la convivenza pacifica procura vantaggi superiori ai costi di una conflittualità non regolata. Ma un onere resta tale anche se riconosciuto inferiore ad un altro. Kant è esplicito: «per mezzo di un piacere universalmente comunicabile e della forbitezza e raffinatezza che diffondono in società», «le belle arti e le scienze» rendono l'uomo «costumato» e «attenuano di molto la tirannia dei sensi», ma «non migliorano l'uomo sul piano morale»(17); nel progresso della civilizzazione non è in gioco «il miglioramento morale degli uomini»(18), i quali, dunque, tornerebbero a combattersi senza quartiere ove nella lotta per la vita e per la morte scorgessero il mezzo per maggiori benefici. Ma la pratica dapprincipio forzosa della giustizia viene via via coinvolgendo anche le volontà. Col mutare delle azioni (inizialmente soltanto esteriore: relativo al limite delle rispettive libertà esterne) cambiano anche le loro finalità. Il rispetto delle leggi giuridiche apre la via verso il governo della legge morale. Il primo risultato del lavoro della ragione in società (la convivenza pacifica degli arbitrî, ottenuta facendo leva sugli egoismi; quindi lo sviluppo della civiltà) appare a Kant assolutamente decisivo, in quanto media il diffondersi della moralità nella storia.
Cosí dunque si compiono i primi veri passi dalla condizione di bruti alla cultura, che di per sé consiste nel valore sociale dell'uomo; tutte le capacità via via si sviluppano, il gusto si educa, e proprio grazie ai progressi dei Lumi sono poste le basi di un modo di pensare capace, nel tempo, di trasformare in principi pratici la rozza disposizione naturale alla distinzione dei costumi e, finalmente, una unione sociale imposta da motivi patologici in un intero morale(19).
Se di per sé non procurano il miglioramento morale, i progressi della civilizzazione comunque «preparano l'uomo alla signoria assoluta della ragione», mentre, a loro volta, «i mali con cui ci affliggono in parte la natura, in parte l'insopportabile egoismo degli uomini, risvegliano, accrescono e temprano le forze dell'anima», consentendoci di «percepire l'attitudine a fini piú elevati che in noi giace nascosta»(20). L'esercitarsi della razionalità strategica (la ricerca individuale di condizioni sempre meno svantaggiose) determina dunque (in quanto posto in atto da ciascun individuo e quindi nella forma di un reciproco obbligarsi al riconoscimento delle rispettive istanze) il progressivo prender piede della ragione pratica, il suo divenire anche concretamente legislatrice. Nell'imporre l'adozione di regole per una pace sempre piú giusta, l'antagonismo porta con sé anche la «promozione della [...] intenzione morale»; il reciproco frenarsi dei «sentimenti privati» ne promuove l'affinamento e la stessa «costituzione politica» giova alla «buona formazione morale di un popolo»(21). In una parola, l'obbedienza agli imperativi ipotetici impartiti dall'egoismo razionale - in primo luogo il comando di rispettare le leggi giuridiche in quanto premesse di una convivenza ordinata - accresce l'efficacia dell'imperativo categorico che, lungi dal contenersi su un terreno di astratta normatività, vincola in modo sempre piú stringente il calcolo economico al rispetto della legge morale (pena l'improduttività delle linee d'azione individuali e collettive). È importante sottolinearlo (contro la classica tesi del «dualismo metafisico della dottrina dei due mondi»)(22): la distanza concettuale che separa l'obbligo giuridico dal dovere morale non pregiudica la loro concreta interazione. Che si debba fare il bene per il bene non toglie che praticarlo sia altresí conveniente (l'azione del «politico morale» si rivela anche piú produttiva di quella del «moralista politico», essendo «caratteristico» della morale l'accordarsi con lo «scopo proposto»(23), il facilitarne oggettivamente il raggiungimento) e tanto meno impedisce che l'esperienza dell'utilità della condotta morale favorisca la diffusione della morale stessa(24). Radicalmente distinti nel fondamento, l'interesse e la virtú (come la «pratica» e la «teoria»: mentire non è solo peccato, conduce anche a impreveduti disastri)(25) si rivelano sul piano empirico alleati. L'amore per il proprio «caro io» costringe ciascuno a scoprire in sé le ragioni degli altri e la propria comune appartenenza al tutto della specie: si compie cosí (dopo il primo mutamento prodotto dalla elaborazione razionale dell'esperienza degli effetti perversi dell'anomia) un secondo salto di qualità, in forza del quale l'umanità cessa di fare il bene solo perché utile e comincia a farlo in quanto lo vuole: comincia a compiere il proprio dovere per amore del dovere. È presente in questa teoria (contenuta già nella Idee, a dispetto di chi vi scorge una concezione puramente naturalistica dello sviluppo storico)(26) una immagine ottimistica della modernità quale luogo di progresso intellettuale e morale («illuminismo»), quale «tempo nuovo» di libertà e giustizia. Agli occhi di Kant il perfezionarsi dell'attitudine calcolante, del raziocinio, non si limita al terreno dell'efficienza ma pone, se non altro, le premesse per lo sviluppo della razionalità pratica (morale); il progresso tecnico non coinvolge esclusivamente il piano della competenza funzionale (del dominio sui mezzi): nutre la ragione nel suo intero, sospingendola verso il riconoscimento della legge (dei propri fini), della propria autonomia e responsabilità.
Questa dinamica - il divenire realtà della ragione, quindi il divenire razionale della realtà - non consiste, per Kant, che nel graduale affermarsi della ragione sulla passione, nella progressiva «liberazione della volontà dal dispotismo degli appetiti»(27): in ultima analisi, nel crescente dominio dell'umanità sulla natura, a cominciare dalla natura sua propria. La storia è il luogo dell'auto-ammaestramento dell'umanità, che gradualmente apprende la lezione dell'esperienza. E che, da questo apprendistato, progressivamente impara ad agire in modo non soltanto utile, ma anche giusto. Di questa lezione è importante sottolineare ancora una volta la complessità. Dall'esperienza dei propri errori gli uomini non traggono soltanto indicazioni utili a ridurre le proprie tribolazioni. Questa impresa economica (strategica) ha successo perché gli individui modificano i loro rapporti reciproci e i loro rispettivi scopi. Si tratta del processo di razionalizzazione (moralizzazione) degli egoismi di cui si diceva. La ricerca dell'utile avvicina gli uomini alla pratica del bene (della virtú); l'interesse svolge un ruolo ancillare nei confronti del dovere. Ma ciò che ciascuno è non è senza legami con quanto egli vuole. Se mutano gli obiettivi, mutano anche le identità. Cosí, se gli scopi dei singoli si modificano nel senso del loro progressivo razionalizzarsi (cioè del loro divenire compatibili con la ricerca dell'utile da parte di un numero crescente di altri individui), anche la loro identità cambia, allontanandosi dall'originaria angustia solipsistica e approssimandosi alla prospettiva universalistica, informata dall'essenziale identificarsi di individuo e specie. Tutto ciò si può dire, forse piú precisamente, in questi termini: l'elaborazione critica dell'esperienza dei costi dell'anarchia (in stato di natura) non ha il solo effetto di educare i singoli costringendoli a modificare i propri obiettivi nel senso di renderli piú razionali (piú morali). Questo processo determina una vera e propria mutazione antropologica in virtú della quale i singoli pensano diversamente se stessi nel rapporto con gli altri: pensano diversamente se stessi e cambiano il loro modo di essere perché pensano diversamente gli altri e il proprio rapporto con loro. Nella pagina di Kant filtra il tema rousseauiano (del resto di per sé sotteso al paradigma contrattualistico moderno) del moi commun quale risultato del superamento dell'atomismo caratteristico dello stato di natura. Conseguenze di questa modificazione (agli occhi di Kant appena agli inizi)(28) sono la formazione della società come sistema (e non come semplice aggregato di individui), quindi la nascita dell'umanità come soggetto unitario (consapevole della propria unità). Ciascuno duplica la propria identità, scoprendo di essere insieme singolo e parte della totalità sociale (prima) e della specie (poi): individuo e articolazione della comunità (prima) e del genere (poi), uno e tutto. Forse non si andrebbe molto lontano dal vero dicendo che la stessa filosofia critica si autocomprende come espressione storica di questo processo quando tematizza la distinzione tra l'individualità specifica (particolare e contingente) dell'homo phænomenon e l'universalità generica dell'homo noumenon.
Ciò che muta è dunque la stessa natura umana, che viene riducendo la propria connotazione di bruta animalità a vantaggio della dimensione razionale, propriamente umana. La storia vede via via venir meno «la rozzezza e la violenza» delle naturali «inclinazioni al godimento» che «piú appartengono alla nostra animalità e piú ostacolano la preparazione alla nostra destinazione piú elevata», e vede altresí procedere «lo sviluppo dell'umanità»(29). L'uomo si umanizza, e la sua storia si separa da quella naturale: stabilisce suoi scopi, sue strutture, un suo tempo radicalmente altro («transnaturale»,«de-naturalizzato»)(30). Se è tipico del realismo politico classico il riferimento a una antropologia fissista, Kant ne modifica la prospettiva: muove da premesse realistiche e pessimistiche - l'uomo è un animale «bisognoso di padrone», un «legno storto»(31), un impasto di ragione e passione, di inclinazioni patologiche e di libertà - ma prende sul serio la causalità della volontà, la sua capacità di modificare la natura costringendola a farsi carico dei fini che la ragione le impone. Parla della «immutabile osservanza delle leggi prescritte dalla natura umana per lo stato rozzo e ferino», ma anche della «tensione dell'umanità verso la propria destinazione morale»(32). C'è conflitto tra ciò che in noi è fermo e ciò che si evolve, ma se ne discende un cambiamento è perché la parte mutevole ha il sopravvento. D'altra parte, Kant è consapevole della lentezza del processo, benché mostri anche di percepire il modificarsi dei suoi ritmi evolutivi (la progressiva accelerazione del tempo storico, connessa al propagarsi della razionalità strategica e morale, che produce una reazione a catena: ogni nuovo progresso quantitativo nella diffusione della ragione potenzia la capacità espansiva della ragione stessa, che quindi si espande a velocità crescente). Anzi, proprio il sentore di questa accelerazione e la speranza che essa si rafforzi nutrono, per contrasto, la percezione della vischiosità dei quadri storici. Anche se «augurabilmente i tempi in cui si compiono progressi eguali divengono sempre piú brevi», il male morale si distrugge da sé «con un progresso lento», e «lentamente» la «vera politica» raggiungerà «lo stadio nel quale risplenderà con luce ferma»(33). Che il respiro della storia sia pesante dipende dal fatto che il progresso richiede conoscenza, esperienza e buona volontà, virtú che «molto difficilmente e, ad ogni modo, solo assai tardi e dopo molti vani tentativi possono trovarsi riunite»(34). Nel farsi strada tra gli uomini la ragione incontra gli ostacoli posti dalla costituzione antropologica: per natura l'uomo è egoista e poco razionale (sia in senso economico sia - a maggior ragione - in senso morale); il mix di egoismo e razionalità è, come ogni progresso nell'apprendimento, il risultato di «ripetuti tentativi falliti»(35), di un faticoso processo di prove ed errori.
Dunque il quadro è, agli occhi di Kant, ambivalente. Da un lato i progressi della ragione sono certi. Essa non può non incalzare individui e gruppi, imponendo loro di modellare le proprie vicendevoli relazioni secondo modelli di reciprocità (cioè in forme sempre meno violente). Dall'altro lato la natura è riottosa: l'animale umano recalcitra, resiste all'imperativo della ragione, tende a sottrarsi unilateralmente ai vincoli che essa pone(36). Per un verso la ragione non può non vincere, perché il suo progresso sul terreno della morale concreta è una conseguenza inevitabile (e una condizione necessaria) dei suoi successi sul piano economico e questi sono, a loro volta, premesse (e conseguenze) obbligate della sopravvivenza della specie sul pianeta. Per l'altro verso le vittorie della ragione sono a rischio, esposte alla reazione della passione e dell'impulso, al loro tentativo di recuperare lo spazio perduto. Ma, con buona pace di Mendelssohn e dei moderni abderiti, la situazione non è statica, come appare evidente se si distingue sul tempo. Ciò che non si può escludere, a giudizio di Kant, è che nel breve periodo la violenza prevalga, l'arbitrio abbia il sopravvento. Anche quando la critica dell'esperienza abbia appreso a individui e gruppi strategie d'azione capaci di ridurre i costi dell'attrito tra i loro egoismi contrapposti, nulla a priori garantisce che al progresso della razionalità strategica subito si accompagni - e con effetti durevoli - un progresso morale (la rielaborazione delle finalità nel senso di una loro crescente generalizzabilità, il modificarsi della stessa volontà individuale e collettiva in forme via via piú universalistiche). Ma la ragione è tenace e si giova del fatto che l'egoismo sia costretto ad allearsi con essa, anzi a subire il suo comando. Se dal breve periodo si passa al lungo (si considera la storia «nel suo insieme», si guarda all'«intera specie»)(37), la ragione vince, come dimostra proprio «il lamento per la inarrestabile e crescente decadenza dell'umanità» (lamento che proviene precisamente dal fatto che il genere umano ha raggiunto «un grado di moralità superiore»)(38) e come prova anche «l'omaggio che (almeno a parole) ogni Stato tributa al concetto del diritto», omaggio che, benché sovente ipocrita e formale, testimonia di come, a tale concetto, divenuto ormai criterio vincolante di legittimità, «gli uomini non possano sottrarsi né nei loro rapporti privati né in quelli pubblici»(39). La «storia universale» è il luogo del «costante e continuo sviluppo» delle «tendenze originarie» del genere umano, del suo pur faticoso «procedere verso la perfezione»(40). C'è - lo si è notato - un che di ironico nel nodo che si stringe intorno all'interesse e che, nel corso del tempo, ne modifica prima il profilo strategico (allorché si riconosce la necessità di rispettare il prossimo per ottenerne rispetto), poi la figura morale (quando il rispetto reciproco filtra nell'idea che ciascuno ha di sé e della comunità cui appartiene, e da semplice vincolo si muta in valore). Con un'azione lenta ma incoercibile («inevitabile»(41), benché risulti dal gioco della libertà umana), la ragione trasforma la struttura delle identità e delle relazioni intersoggettive: «la ragione pragmaticamente capace di attuare le idee giuridiche» secondo il principio morale «cresce senza posa con il costante progresso della cultura»(42). E, passo dopo passo (letteralmente: «progresso» in tedesco è Fortschritt, «passo in avanti», e sembra che proprio Kant abbia coniato il termine)(43), simile alla goccia che scava la pietra, guadagna terreno verso il governo delle volontà e della società civile.
Oltre a determinare la trasformazione (razionalizzazione strategica e morale) degli egoismi, lo sviluppo della razionalità (individuale e collettiva) contribuisce in misura decisiva al progresso politico. Qui la teoria politica kantiana dichiara l'intreccio che costitutivamente la salda alla filosofia della storia (o, se si preferisce, a una teoria del mutamento politico-storico). L'uomo di Kant è per natura un animale bisognoso di padrone. Ma è sempre meno animale e ha dunque sempre meno bisogno di un padrone. Il tasso di dispotismo indispensabile al mantenimento dell'ordine civile va via via decrescendo, sino al momento in cui diviene possibile dare allo Stato forma repubblicana. A questo punto la libertà è una necessità storica: il «padrone» deve rinunciare al comando su sudditi giunti a maturità. Se tergiversa, le risposte non si faranno attendere: «società segrete», resistenza, quindi rivoluzione (44). In relazione all'oggi (di Kant) questo significa che se da un lato (almeno in alcuni paesi) serve ancora (dunque è legittimo) un ordine ferreo (dispotico), d'altra parte già c'è (persino in taluni fra questi stessi paesi) un grado di razionalità pubblica che, come per un verso induce a rivolgere al sovrano richieste sempre piú esigenti, cosí per l'altro consente di mantenere la critica entro i limiti del rispetto dell'autorità (dell'«obbedienza»)(45), evitando che il suo esercizio generi rischi di anarchia. Questa compatibilità tra critica e ordine civile è, agli occhi di Kant, il carattere del tempo presente (di un'«età di illuminismo») (46). È ormai possibile fare pubbliche rimostranze senza che ciò víoli l'assolutezza propria di ogni potere sovrano. Si può parlare in pubblico senza commettere delitto, quindi si deve potere parlare: in quanto «innocuo», l'esercizio della critica pubblica è ormai un diritto (47).
Questo movimento progressivo è in primo luogo il risultato del processo molecolare che modifica (razionalizza, moralizza) gli egoismi individuali e collettivi. Ma se per un verso il progresso politico è la conseguenza dei progressi della ragione, dall'altra parte la ragione trova nell'ordine politico - nel ferreo valere delle leggi giuridiche - un contesto (un clima) indispensabile al proprio sviluppo:
l'intento supremo della natura, cioè lo sviluppo di tutte le sue disposizioni, può essere raggiunto dall'umanità soltanto nella società e precisamente in quella che unisce la massima libertà [...] alla piú puntuale determinazione e sicurezza dei suoi confini, dimodoché la libertà di ciascuno possa coesistere con quella degli altri (48).
In tanto la ragione può progredire, in quanto l'ordine civile è assicurato e consente di mettere al sicuro i risultati della elaborazione critica che individui e collettività vengono compiendo della propria esperienza. Lo scritto sull'Aufklärung va anche oltre, tematizzando il paradosso («quasi tutto è paradossale» nel «corso delle umane cose»)(49) della contrapposizione tra libertà civile e d'opinione.
Un grado superiore di libertà civile appare favorevole alla libertà dello spirito del popolo e tuttavia le pone limiti invalicabili; un grado inferiore della prima mette per contro la seconda in condizione di espandersi secondo tutte le sue facoltà(50).
Ciò implica una conseguenza rilevante sul piano della teoria politica (una conseguenza che rischia di essere persa di vista se i principi normativi della teoria stessa vengono enucleati dal contesto filosofico-storico entro cui Kant la concepisce). L'idea che emerge dalla pagina kantiana, pur sovente ritenuta scarsamente attenta alla concretezza storica, è che ogni forma di Stato trae legittimità dalla propria coerenza con il grado di sviluppo della ragione nella storia (in termini hegeliani: dalla propria corrispondenza allo spirito del tempo). Se il modello ideale di ordine politico è costituito dallo Stato repubblicano, la complessità dello svolgimento storico conferisce legittimità anche alle forme meno perfette e persino ai dispotismi piú autocratici (51). Se l'essenza di ogni Stato è l'«idea» del patto originario (il cui «spirito [...] contiene, per il potere costituente, l'obbligazione di adeguare a quell'idea il modo di governo [...] sí da metterlo in armonia, quanto ai suoi effetti concreti, con l'unica costituzione legittima, quella di una pura repubblica»), questo non significa soltanto che i sovrani hanno il dovere di «risolvere le antiche forme empiriche [...] nella forma originaria (razionale), che sola assume la libertà a principio [...], e di attuare quindi quell'idea anche quanto alla lettera» (cioè quanto alla «forma di governo») (52): significa anche che tale adeguazione è un processo, i cui ritmi dipendono dalla rapidità dei progressi della ragione pubblica; significa che, finché corrispondono al grado di sviluppo della razionalità individuale e collettiva, le «antiche forme statutarie» (53) svolgono una funzione progressiva, che ne attesta la legittimità storica: che quello del «padrone» è, per tutta una lunga fase storica, un còmpito indispensabile. La repubblica è «la norma eterna per ogni costituzione civile in generale», l'«ideale platonico» che «può essere realizzato soltanto a fatica, in capo a molteplici contrasti e guerre»(54). Nel frattempo («provvisoriamente») la scena della storia è calcata da «monarchi» persino «autocratici», sui quali incombe sí l'onere di «trattare il popolo secondo principi conformi allo spirito delle leggi di libertà», ma non certo quello di chiedere il «consenso» del popolo e di rinunciare a un potere assoluto, storicamente legittimo fin quando il popolo non sia in possesso di una «ragione matura» (55). «Finché il popolo non diventi gradualmente capace di subire l'influenza della semplice idea dell'autorità della legge» e «non si sia quindi mostrato all'altezza di autonomia legislativa», lo Stato dovrà reggersi su «un potere sovrano dispotico», benché, quanto a sostanza (spirito, secondo la lezione montesquieuiana che Kant sembra rievocare), possa «governarsi già in forma repubblicana» (56). Non è di poco conto il fatto che la conclusione della «guerra perpetua» abbia comportato, agli inizi della storia civile, il sacrificio della libertà (57): la storia (è questo un motivo che ritroveremo in Hegel) muove i primi passi nel segno del dispotismo, senza il quale l'agricoltura non avrebbe potuto svilupparsi; e procede inarrestabile, ma senza poter bruciare le tappe, verso il recupero della libertà originaria, resa finalmente (dalla ragione) compatibile con la pace.
Quanto piú forti sono i residui di animalità, tanto piú necessaria è l'azione di un «padrone». La quale diviene via via superflua (quindi storicamente illegittima) man mano che la razionalità individuale e collettiva si rafforza e si dimostra in grado di controllare lo svolgimento delle cose umane. Il movimento è circolare: l'esercizio di un ferreo potere coattivo da parte del sovrano riduce progressivamente il tasso di conflittualità e di insicurezza interna della società, consentendo ai suoi membri di sviluppare attività (economiche e culturali) che ne affinano la razionalità tecnica e morale; il progresso della razionalità retroagisce sulle dinamiche politiche, rendendo meno necessario e per ciò stesso meno tollerabile l'impiego autocratico della coercizione. In questo senso si può dire che se l'illuminismo delegittima l'autocrazia, a quest'ultima va tuttavia riconosciuto il merito storico di avere consentito i progressi della ragione pubblica che rendono finalmente possibile l'istituzione di repubbliche. Si può altresí cercare di sintetizzare queste osservazioni suggerendo che il riferimento al sovrano nella pagina di Kant coinvolge sempre (benché soltanto implicitamente) due figure distinte: il titolare della sovranità (il popolo, alla «volontà collettiva» del quale «soltanto» spetta il potere legislativo)(58) e colui (il monarca: re, imperatore o tiranno) che di fatto esercita il potere supremo in luogo del suo depositario. Soltanto tenendo presente questa duplicità si comprende la possibilità (da Kant tematizzata)(59) di conflitti tra popolo e legislatore, tra sovrano ex jure naturali (noumenon) e sovrano ex jure civili (phænomenon). Se da un lato la sensibilità per la lentezza dello sviluppo storico induce Kant a ribadire la legittimità (irreprensibilità, imperscrutabilità)(60) e la incontrastabilità (irresistibilità)(61) di qualsiasi struttura autoritaria efficace (l'efficacia essendo prova di corrispondenza al grado di sviluppo della ragione pubblica), dall'altro il progredire della razionalità individuale e collettiva sembra persuaderlo della incoercibile convergenza delle due figure: verso la progressiva risoluzione di ogni regime nella «sola costituzione legittima»: nella forma di Stato «originaria (razionale)» e «permanente» (la repubblica), «in cui la legge è di per sé sovrana e non dipende da alcuna persona particolare»(62).
Sin qui si sono considerati lo sviluppo storico e l'evoluzione delle forme politiche esclusivamente in relazione all'àmbito interno delle singole società. Si è sottolineato come gli oneri generati in stato di natura da una conflittualità sociale senza regole efficaci abbiano il merito di istruire gli individui affinandone la razionalità economica e morale e inducendoli a dar vita alla società civile prima e a interagire con l'autorità suprema nel senso di imporle limiti sempre piú rispettosi della loro libertà poi. Ma lo sguardo di Kant investe la storia nel suo complesso, concepita come processo di formazione del genere umano quale soggetto unitario e cosciente della propria unità, dunque come luogo della sua azione consapevole. La teoria politica kantiana e la filosofia della storia che ne definisce il contesto di sfondo non si limitano alle vicende interne delle singole comunità civili: coinvolgono l'insieme della specie e delle organizzazioni politiche (Stati) esistenti. La prospettiva è universale; il diritto civile è concepito da Kant come primo momento di una sequenza triadica i cui momenti ulteriori sono costituiti dal diritto internazionale e dal diritto cosmopolitico. Lungi dall'esaurire i propri còmpiti nella costruzione di identità e forme dell'interazione sociale favorevoli alla fondazione di Stati repubblicani, la ragione ha di mira la promozione di un ordine civile internazionale giusto e pacifico (giustizia e pace costituiscono del resto un'endiadi). Se si tiene conto di questa prospettiva universale (e universalistica), la seconda fase (storica) della vicenda umana si rivela molto piú complessa di quanto non sia apparsa a prima vista.
Lo sviluppo della razionalità economica e morale di individui e gruppi ha determinato la costruzione di Stati e il progresso civile delle società, giunte in alcuni casi a darsi forma repubblicana. Ma tra gli Stati vige tuttora uno stato di natura non meno calamitoso di quello che funestò la preistoria delle singole collettività civili (caratterizzato da pari ingiustizia e insicurezza) e anzi piú di esso tenace (essendo incompatibile con la sovranità degli Stati il subordinarsi a un'autorità sovraordinata). Se in molte regioni della Terra la ragione è riuscita a eliminare lo stato di guerra interno alle comunità (non cancellando ogni conflitto intestino, ma regolandone lo svolgimento), questo esito appare molto piú difficile sul piano delle relazioni internazionali. Ma anche a questo riguardo Kant vede un movimento progressivo in atto, e anche in questo caso scorge nella critica dell'esperienza lo strumento decisivo del progresso. Lo schema è analogo a quello considerato in relazione alla vicenda interna delle comunità civili. L'esperienza dei lutti e delle rovine causati dalle guerre orienta la ricerca di contromisure efficaci nella prevenzione e nella regolazione dei conflitti tra Stati (prima fra tutte la costruzione di una federazione giuridicamente normata). È stato da piú parti osservato che un aspetto di grande interesse è qui rappresentato dal nesso che Kant istituisce tra forma degli Stati e struttura delle relazioni internazionali. Piano interno e piano internazionale si intrecciano, al punto che - lo si ricordava dianzi - diritto civile, diritto internazionale e diritto cosmopolitico non sono che articolazioni del diritto pubblico (63). Sia la politica aggressiva dettata dalle «mire egoistiche» degli Stati (64), sia la ricerca di misure volte a ridurre il tasso di conflittualità internazionale impongono ai cittadini scelte conseguenti sul piano della politica interna. Nel merito dello stato di cose esistente, la convinzione che la politica bellicistica sia conseguenza del dispotismo e della concezione patrimoniale dello Stato (65) induce Kant a individuare la premessa di relazioni pacifiche tra gli Stati nella costruzione di regimi repubblicani (nei quali - conviene sottolinearlo, considerata la frequenza con cui, alquanto banalmente, si evocano presunte repliche della storia - la sovranità del popolo deve coniugarsi con la conoscenza del suo interesse beninteso)(66). Ma se ci si chiede quale sia il presupposto filosofico di questo continuum tra piano interno e àmbito internazionale, nuovamente il discorso rinvia alla struttura organica dello sviluppo storico quale terreno di formazione della specie umana consapevole della propria unità e quale processo di sviluppo della ragione. Come sul piano interno, anche per ciò che attiene alle relazioni internazionali il progressivo superamento dello stato di natura (o la progressiva regolamentazione degli antagonismi che lo costellano) è affidato - in uno spirito molto tiers état (67) - al calcolo costi-benefici. E nuovamente la razionalità strategica si rivela premessa di moralità (la tutela dell'interesse beninteso promuove la pace e il rispetto del diritto internazionale e cosmopolitico, dunque l'osservanza del dovere che via via si identifica con la volontà stessa degli attori individuali e collettivi). Le guerre tra le «grandi società» e tra i «corpi politici» hanno la stessa funzione della «discordia tra gli uomini»(68): condurre a una convivenza pacifica che non sia il prodotto del dispotismo (del «cimitero della libertà»), bensí dell'«equilibrio» di tutte le forze «nella loro piú vitale emulazione» (69). Alla base è la stessa dialettica dell'interesse, in virtú della quale la considerazione di ciò che giova alla maggiore potenza degli Stati (la loro «interna cultura» e «libertà civile»)(70) e il calcolo delle conseguenze della guerra o anche solo del riarmo («la miseria che ogni Stato ne ricava»)(71) sono, come gli antagonismi tra i membri delle singole comunità sul piano interno, il mezzo per generare «una condizione di quiete e sicurezza»(72) sul piano internazionale e, finalmente, «un universale ordinamento cosmopolitico, quale incunabolo nel quale siano sviluppate tutte le disposizioni originarie del genere umano»(73). Tanto le ragioni della fondazione degli Stati (la necessità di garantire la proprietà della terra, di porre un freno alla «discordia interna» e di difendersi dalle minacce esterne)(74), quanto quelle dell'unione tra i popoli (il «reciproco vantaggio» che anima lo «spirito del commercio»)(75) rimandano alla costituzione anche razionale della specie come a una radice portante della storia. E, di nuovo, lo sviluppo della razionalità non favorisce soltanto la soluzione del problema tecnico della instaurazione di un ordine giuridico internazionale, ma contribuisce a «preparare», se non a «stabilire», l'armonia della «legalità con la libertà degli Stati, e quindi l'unità di un sistema fondato su basi morali»(76).
Queste osservazioni schiudono una prospettiva interessante sul processo di costruzione delle società civili (sulla logica del superamento dello stato di natura) e sulla loro funzione filosofico-storica. Gli esordi della vicenda umana furono caratterizzati da antagonismi pulviscolari e pervasivi (dalla guerra di ciascuno contro tutti conseguente all'anarchia). A tale conflittualità indiscriminata (a questa altezza sarebbe impossibile distinguere tra la guerra e il conflitto intersoggettivo e sociale) risponde la costruzione della società civile quale zona pacificata, all'interno della quale la guerra è abolita (grazie al monopolio statale della violenza) e il conflitto (l'antagonismo tra i singoli) è regolato dalle leggi. La guerra è abolita all'interno delle comunità e dislocata all'esterno (verso l'altro che è straniero, nemico dal quale c'è da attendersi violenza e al quale è quindi lecito portare violenza). Le società nascono come rifugio dalla guerra. Ma in un secondo tempo questa funzione negativa assume un segno positivo. Il rifugio pretende di estendersi all'esterno, di coinvolgere l'esterno nella logica della sicurezza, del diritto e della pace. Il diritto è dotato di forza espansiva: istituisce garanzie e non tollera insicurezza. Cosí, dopo avere operato da fattore di pacificazione interna, la sintassi costitutiva delle società civili agisce da motore di pacificazione internazionale (e, in prospettiva, globale).
Proviamo ora a tirare le fila delle considerazioni sin qui svolte. Sembra possibile riassumere in due fasi la rappresentazione che Kant fornisce della vicenda umana. La prima consiste nel puro dispiegarsi della logica immanente alla stessa realtà naturale. È in questione un processo senza soggetto, al quale l'umanità concorre in qualità di «classe animale»: gli esseri umani sono qui considerati alla stregua di «macchine viventi» (77). La seconda fase (in senso stretto storica) vede l'intervento della volontà e della coscienza dell'umanità considerata come «specie [anche] morale» (78); è il campo dell'azione di una soggettività sempre piú consapevole di sé: delle proprie finalità (dei propri doveri), delle proprie capacità, dei propri limiti. Rispetto al tema della pace e della guerra (o meglio, dato il continuum tra piano interno e piano internazionale che caratterizza la prospettiva kantiana: della pace e del conflitto sociale-politico e bellico), la prima fase è connotata da una conflittualità costante e pervasiva, da Kant considerata come un fattore di civilizzazione. Il movimento è sintetizzabile in una sequenza circolare:
conflitti (guerre e antagonismi sociali) -> diffusione
dell'umanità sul pianeta e progresso tecnico -> nuovi conflitti
-> ulteriore diffusione della specie e nuovi progressi
della cultura dell'«abilità»(79)
[->...].
La seconda fase è invece caratterizzata da un movimento che potremmo definire (in termini non kantiani) dialettico. L'intervento e lo sviluppo della razionalità modificano l'essenza dell'egoismo, costringendo i soggetti (individuali e collettivi) a elaborare delle proprie finalità concezioni sempre meno anguste (cioè sempre meno inconciliabili con le finalità altrui e in questo senso sempre meno irrazionali). Viene cosí via via mutando la configurazione stessa degli antagonismi, che non costituiscono piú semplicemente uno strumento di progresso quale meccanica espressione della necessità, ma tendono invece a negare se stessi, man mano che a determinarne l'insorgenza sono obiettivi sempre piú generali (cioè sempre piú inclusivi di istanze particolari e in questo senso sempre piú razionali). In questo caso il movimento - piú simile a una spirale che a un circolo - è riassumibile nel modo seguente:
conflitti (guerre e antagonismi sociali) -> sviluppo della razionalità (individuale e collettiva) = razionalizzazione degli egoismi (individuali e collettivi) -> graduale estinzione della conflittualità (interna e internazionale).
Non è difficile rilevare il dissidio che oppone alla gradualità dello sviluppo storico reale la netta polarità dello schema (prima fase VS seconda fase: «storia della natura» VS «storia della libertà», per riprendere i termini del Muthmaßlicher Anfang)(80). La teoria presenta un movimento articolato in due quadri tra loro indipendenti; ma nella realtà dei fatti non c'è un momento in cui il genere umano passi da uno stato di natura caratterizzato da una condizione di sostanziale animalità a uno stadio di piena umanità. Non solo lo sviluppo interno a ciascuno stadio, ma anche il passaggio dalla prima alla seconda fase ha luogo in modo progressivo. Del resto, anche secondo Kant tra sviluppo filogenetico e sviluppo ontogenetico sussiste una stretta analogia. Lo svolgimento della storia umana è ai suoi occhi paragonabile a quello della vita individuale, dove il succedersi delle stagioni non conosce soluzione di continuità: di qui, nella Idee, l'esposizione della «storia universale» come biografia della specie; di qui, nello scritto sulla Aufklärung, il ricorso alle metafore della minorità e della maggiore età nel contesto del discorso filosofico-storico. Come mostra il Muthmaßlicher Anfang, il «risvegliarsi della ragione»(81) è un processo graduale (e lento). Tanto piú colpisce la scansione polare che articola lo schema teorico, nel quale il passaggio dalla prima alla seconda fase si configura nei termini di un deciso salto di qualità: la seconda fase è essenzialmente diversa dalla prima, se è vero che, come si diceva, tra le due fasi non corre una differenza minore di quella che distingue l'animale (l'umanità come puro tipo zoologico) dall'uomo. Sarebbe tuttavia sbagliato fermarsi all'impressione di una inconseguenza. Quella che a prima vista rischia di apparire una contraddizione rimanda allo scarto che separa l'indagine storico-empirica dall'analisi concettuale. La gradualità dello svolgimento storico (a Kant ben chiara, come dimostrano il resoconto dei «primi passi» della ragione nel Muthmaßlicher Anfang (82) e la ripresa di ipotesi stadiali (83) non si pone in conflitto con la schematicità del modello teorico perché l'una e l'altra attengono ad àmbiti epistemici diversi. Kant è consapevole di questo scarto e dell'esigenza di non perderlo di vista. A questo scopo sottolinea lo statuto ideale o «razionale»(84) (oggi diremmo: idealtipico) delle nozioni che articolano la sua esposizione.
Assodata la distanza che separa la realtà dai modelli che si propongono di favorirne la comprensione, è opportuno soffermarsi brevemente sulla funzione specifica da questi assolta. Nel caso di una ricostruzione storica, còmpito del modello teorico che la sottende è porre in evidenza i fattori chiave del processo, gli elementi di realtà ai quali la teoria attribuisce funzioni decisive ai fini dello sviluppo storico. Individuare la struttura del modello (ove implicita) serve dunque ad afferrare il «punto di vista» che informa la ricostruzione. Come si dirà, lo stesso Kant insiste su questo tema, in quanto è consapevole dell'incidenza delle scelte teoriche sulla concreta configurazione della narrazione storica. Tra i primi, egli tematizza struttura e implicazioni di quella «svolta trascendentale» nella quale Koselleck individua l'atto di nascita della filosofia della storia: struttura e implicazioni di quel mutamento di prospettiva che consente di riconoscere la funzione determinante dell'impianto teorico (concetti, metodologie, forme della temporalità e periodizzazioni) sotteso al discorso storiografico (85). In questo senso Kant mette l'accento sulla necessità di un criterio ordinatore a priori ai fini della ricostruzione storica (senza «filo conduttore» nessun racconto) e sulla influenza che esso esercita sulla ricostruzione stessa: l'immagine che egli fornisce della «storia universale» è un'«idea» che «ha, in qualche misura, un filo conduttore a priori», un pensiero di ciò che un'altra «mente filosofica [...] potrebbe tentare ancora da un punto di vista diverso» (86). Nel merito, il modello kantiano mira a far risaltare la funzione costruttiva della soggettività (intesa come vettore di razionalità e di crescente consapevolezza). Il salto di qualità tra il primo e il secondo quadro del modello (tra la fase in cui l'uomo è una pura specie animale e l'esordio della storia propriamente umana) può cosí intendersi: dapprincipio meramente virtuale, la soggettività (individuale e collettiva) non costituisce, per una lunga fase storica, un fattore dinamico determinante. Lo diventa nel passaggio alla fase successiva (di per se stesso conseguenza dell'accumulo di razionalità di individui e gruppi) e nell'àmbito del suo sviluppo interno (del quale l'azione consapevole delle soggettività è funzione cruciale). Nel suo complesso la storia è dunque, per Kant, il processo di formazione di una soggettività sempre piú consapevole di sé quale fattore determinante della storia stessa (e presto ci si soffermerà sulle conseguenze di questa circolarità, per cui senso e significato della storia rimandano a un soggetto che solo nel corso dello svolgimento storico acquista consistenza e coscienza di sé). Stando cosí le cose, il riferimento al ruolo dell'elemento soggettivo nelle diverse fasi dello sviluppo storico appare criterio essenziale per orientarsi tra i molteplici significati che il termine «natura» riveste negli scritti giuridico-politici di Kant e nella sua filosofia della storia.
Proviamo dunque a distinguere tra queste diverse accezioni, cominciando dal significato che «natura» assume, nel contesto della filosofia kantiana della storia, in relazione alla fase iniziale della vicenda umana, caratterizzata dall'assenza (dalla mera virtualità) della razionalità riflessiva. Sembra plausibile sostenere che, in riferimento a questa fase iniziale, il termine designi la semplice organizzazione del reale, la sua struttura costitutiva e funzionale: il «nesso di tutti i fenomeni» tenuto insieme, tuttavia, non soltanto dalla «loro conformità a leggi nello spazio e nel tempo» (secondo la definizione dell'"Analitica trascendentale")(87), ma anche dalla finalità interna che ne governa il movimento complessivo. Questo significato emerge in tutta evidenza nell'espressione (ricorrente) «meccanismo della natura». La totalità del reale - realtà materiale e organismi viventi (esseri umani compresi) - è dotata di un codice di comportamento. Il creato è un cosmo in virtú della sua logica interna, un meccanismo che funziona per virtú propria governando la riproduzione della realtà e regolando un processo che sin dalla Storia universale della natura (opera densa di echi bruniani e tolandiani, non per caso cara ai materialisti tedeschi dell'Ottocento) Kant inquadra in una prospettiva di radicale immanentismo. L'idea è quella di un movimento evolutivo autonomo, costante e infinito, destinato ad esprimersi con crescente fecondità nella creazione di «mondi senza numero e senza fine» (88). «Natura» è qui il processo della natura che liberamente e autonomamente natura se stessa (89). È il mondo senza l'uomo, nella misura in cui l'umanità (che - come si diceva in apertura - a quest'altezza esiste solo «in sé») è ancora soltanto «un anello nella catena dei fini naturali» (90), una specie vivente tra le altre. A questa umanità ancora ignara di sé e quindi incapace di prendere distanza dal puro meccanismo del creato e di interferire nella sua economia si riferisce Kant quando presenta «la situazione che la natura ha predisposto per le persone che agiscono sul suo ampio scenario», alludendo alle caratteristiche geofisiche della Terra e all'aggressività «connaturata» nell'uomo (91). Intesa come sfondo materiale della vicenda umana, come altro dall'uomo, la natura non verrà mai meno, com'è ovvio. Cesserà tuttavia di dominare incontrastata quando la ragione si risveglierà e comincerà a contendere all'istinto la guida della vicenda umana. Con il passaggio alla fase in senso stretto storica, la natura sarà allora costretta a condividere il governo del mondo con questo figlio anomalo e indisciplinato, intollerante del suo «dispotismo» (92) e desideroso di avere tra le mani il proprio destino. Siccome d'altra parte, a dispetto dei propri mutamenti, la specie umana resta natura (parte del vivente: resta natura, si potrebbe dire, benché neghi la natura sua propria e ne trasformi incessantemente il volto), Kant seguiterà a riferirsi alla natura come all'artefice del movimento, senza segnalare un cambiamento di significato pur di enorme portata.
Dire che in stato di natura l'uomo è ancora sostanzialmente un animale non significa - lo si è appena notato - che lungo tutta la prima fase della sua vicenda la razionalità non si manifesti in alcun modo. Al contrario, l'uomo già progredisce, distinguendosi per questo dagli altri esseri viventi. Anche a questo proposito Kant si pone al fianco di Rousseau, del quale assume l'idea di uno stato di natura che abbraccia sia la condizione originaria (l'uomo allo «stato di bruto» (93)), sia la fase iniziale della vicenda umana, caratterizzata da una incidenza ancora trascurabile dell'artificio e della convenzione. Già nella prima fase della propria vicenda, dunque, l'uomo modifica il proprio rapporto con la natura. Ma, come si è detto, i primi progressi della razionalità sono puramente tecnici. Connotati fondamentali di tutta questa prima fase restano la mancata (o rudimentale) funzione autoriflessiva della razionalità e l'estraneità degli uomini alla guida di un processo del quale essi ignorano persino l'esistenza. In questo senso e solo in questo (non già perché Kant assuma effettivamente una prospettiva teleologica) va presa alla lettera, in relazione alla prima fase della vicenda umana, l'equivalenza tra i termini «natura», «provvidenza» e «destino». La natura di cui qui è questione è un organismo perfetto, capace di mantenere la propria armonia nel corso del tempo, regolato da un ordine immanente al quale l'uomo non contribuisce piú di qualsiasi altra componente del reale. Si adoperi il registro teologico (metafisico) o quello naturalistico, il tratto caratteristico della condizione umana in stato di natura è la passività degli uomini rispetto al ciclo naturale della riproduzione: rispetto all'essere, dell'animale uomo, «destinato» a consumare la propria esistenza in un dato ambiente o a sviluppare i «germi» (le «"disposizioni" naturali») di cui la «previdenza della natura» (94) lo ha munito.
Il significato del termine «natura» cambia profondamente con il passaggio alla seconda fase (propriamente storica) della vicenda umana: Kant prende sul serio i mutamenti verificatisi nel corso del tempo. È, anche in ciò, molto piú vicino a Rousseau che a Herder, per il quale l'intera storia umana è histoire naturelle. Si è detto poc'anzi che questo passaggio si compie per effetto dell'affermarsi della soggettività (vettore di razionalità e di consapevolezza) quale determinante fattore di sviluppo storico. Se questo è vero, il quadro precedente risulta sconvolto. La natura rimane, per un verso, il contesto di sfondo. Come si è appena sottolineato, il suo «meccanismo» comprende e informa anche la costituzione antropologica della specie, e molti dei vincoli che essa impone all'azione dell'uomo continuano a farsi valere nel corso dell'intero svolgimento storico, al pari dei limiti insuperabili della conoscenza possibile. La natura (letteralmente intesa) continua a far sentire la propria voce anche nello svolgimento dell'azione umana, interferendo nella elaborazione e nella realizzazione delle strategie razionali di individui e gruppi. Nel corso dell'intera storia si manifesta il conflitto tra l'uomo «come specie morale» e «quello come specie naturale», una «contraddizione dalla quale [...] sorgono tutti i veri mali che affliggono la vita umana e tutti i vizi che la disonorano» (95). Ma, appunto, il quadro con il quale si ha a che fare ora è costituito da una polarità o, se si preferisce, da una diarchia: natura (destino o fato; accidentalità o provvidenza; impulso e passione) e ragione (volontà e libertà; autocoscienza; cultura e moralità) cooperano e confliggono nel governo comune della storia (96). E siccome nulla in questo processo (e meno di ogni altro elemento la natura umana) si riproduce identico a se stesso, anche i termini di questa collaborazione conflittuale mutano nel tempo. Come si è accennato, si tratta, agli occhi di Kant, di un processo complesso e lento, che implica il graduale superamento o la regolazione degli antagonismi (di quelli interni alle singole comunità civili e di quelli tra gli Stati) e quindi presuppone un crescente grado di razionalità degli egoismi individuali e collettivi (di «illuminismo»). Ma se ai singoli, inclini a misurare il mondo sulla durata della propria vita, la storia può apparire immobile, il rapporto tra uomo e natura muta in realtà profondamente sin dall'inizio della seconda fase, anzi: sin dal passaggio alla fase in senso stretto storica della vicenda umana. La ragione guadagna terreno, riducendo progressivamente il campo d'azione della natura e la sua potenza determinante (97). Lo si è già detto: l'umanità si umanizza, diviene sempre piú consapevole della propria unità e delle proprie capacità, e sempre piú padrona di sé (delle proprie finalità e dei propri destini).
L'interscambio tra uomo e natura cessa di essere meccanico, immediatamente regolato dall'istinto (dai codici funzionali immanenti alla natura stessa). Ora esso è modificato dalle scelte dell'uomo, sempre piú consapevoli, quindi libere, e per questo sempre piú influenti (in grado, cioè, di generare effetti sempre piú marcati). È come se, incalzata dalla ragione, la natura (originaria) tendesse a portarsi fuori dall'umano (di un umano per ciò stesso sempre meno naturale e quindi espulso «dal seno materno della natura») (98) e a rifugiarsi nel mondo degli altri esseri viventi e delle cose inanimate. Il progresso della ragione (che è contestualmente progresso della razionalità economica, della coscienza di sé, dell'autocoscienza della specie, della ragione morale) trasferisce nelle mani dell'uomo (di singoli e gruppi, quindi delle diverse comunità civili, finalmente - in prospettiva - della specie intera) il controllo dello sviluppo storico. In apparenza, è ancora la natura a governare il processo. È la natura a venire «in soccorso della volontà [...] universale fondata sulla ragione» e a sfruttare il proprio «meccanismo» (contrapponendo tra loro le proprie «forze», di modo che «l'una blocchi l'altra nella sua azione distruttiva») per superare progressivamente la «discordia interna» alle società e le guerre tra gli Stati (99). È la natura a volere «irresistibilmente che alla fine il diritto conquisti il potere supremo» e a imporsi «da sé» se l'umanità non coopera (100). È la natura a separare «saggiamente» i popoli e ad unirli «tramite il reciproco vantaggio»; la natura a garantire la pace perpetua «con il meccanismo delle umane inclinazioni» (101). Ma la realtà è tutt'altra. A guidare ora il processo è la sua rivale. La ragione, la volontà, la soggioga e ne fa uno strumento al proprio servizio; la mette astutamente contro se stessa in modo da giovarsi delle sue contraddizioni. E, non contenta del proprio lento trionfo, la insidia nei suoi stessi dominî, si installa nelle sue fortezze, finalmente si impossessa del suo stesso nome (sta in ciò, come vedremo, la chiave di una ambiguità di cui Kant non può non avvedersi), agendo sotto la maschera di una «natura» che è ormai, sempre di piú, storia, e storia della libertà dell'uomo. In relazione alla seconda fase della vicenda umana, spesso Kant impiega il termine «natura» in senso metaforico. E qui si pone un interrogativo ineludibile. Perché egli compie questa scelta terminologica indubbiamente problematica? Perché impiega il nome del regista della fase iniziale del processo anche quando si riferisce al protagonista della successiva? Se è vero che la seconda fase (propriamente storica) della vicenda umana vede la ragione insediarsi al posto di comando, perché non indicare esplicitamente in essa il nuovo soggetto di riferimento, il nuovo principio guida della storia?
Quasi intendesse prevenire questo interrogativo, Kant conduce il lettore dietro le quinte della narrazione e lo coinvolge nelle proprie strategie costruttive. A questo scopo gli svela i motivi del ricorso a un impianto teleologico a prima vista confliggente con i vincoli posti dalla critica, e, cosí facendo, mette allo scoperto il problema cruciale della filosofia della storia, inaugurata dalla rinuncia a istanze trascendenti, perché incentrata su una concezione del processo storico come prodotto della prassi umana, ma non per questo meno bisognosa di individuare la logica del suo sviluppo, il meccanismo che fa della storia un «sistema» organico (102). Affinché la «storia della specie umana nel suo insieme» (103) possa essere oggetto di narrazione, occorre un filo conduttore che permetta di ordinarla: occorre cioè riferirne lo svolgimento alla volontà o all'azione consapevole di uno o piú soggetti. Ma il soggetto di riferimento non potrebbe essere indicato nell'umanità, poiché non si comprenderebbe come una specie dapprincipio ignara di sé e delle proprie finalità (e del resto ancor oggi lontana dalla propria compiuta autocoscienza) possa guidare con mano esperta quello svolgimento storico che è il contesto di sfondo e il presupposto del suo stesso sviluppo. Da questo circolo Kant esce ricorrendo a uno schema teleologico, tornando ad affidare la regía della storia a una entità demiurgica («artefice»)(104) che ne garantisca lo svolgimento coerente. Ora, già questo resoconto chiarisce di che tipo di teleologia si tratti. Ne pone in evidenza il carattere fittizio, di mero espediente retorico (dove non si tratta di verità, ma di semplici esigenze espositive), cosí come afferma la funzione di pura maschera assegnata all'ente posto alla guida del processo. Del resto, che si tratti di una pseudo-teleologia Kant lo dichiara in modo esplicito allorché scrive di avere «aggiunto col pensiero» (105) l'entità alla quale imputare (o meglio: nella quale raffigurare) la direzione di un movimento che, in assenza di governo, apparirebbe caotico, accidentale e privo di senso. Il subjectum fictum al quale Kant affida il còmpito di rappresentare la coerenza dello sviluppo storico è la natura.
Poiché nei loro sforzi gli uomini non si muovono in modo puramente istintivo come animali, ma nemmeno secondo un progetto prestabilito, come ragionevoli cittadini del mondo, non sembra possibile una loro storia conforme a un piano (come potrebbe essere quella delle api o dei castori)(106).
D'altra parte, poiché
negli uomini e nel loro gioco complessivo non si può supporre alcun loro proprio disegno razionale, non vi è qui per il filosofo altra via d'uscita che cercare se, in questo contraddittorio corso delle cose umane, non sia possibile scoprire un disegno della natura che consenta di scrivere, in base a un suo determinato piano, una storia di esseri che si muovono senza un piano proprio (107).
L'accenno all'esigenza espositiva (il «disegno della natura» permette di «scrivere», è uno strumento al servizio della narrazione) è una indicazione univoca. Dice che questa «scoperta» non porta alla luce alcuna realtà di fatto, che essa è una operazione costruttiva, compiuta dallo storico-filosofo nell'intento di abbracciare e rappresentare la storia umana nella sua totalità. «Scoprire un disegno della natura», «trovare un filo conduttore per una storia del genere» (108) significa di fatto «scegliere un particolare punto di vista» (109) che aiuti a comprendere la vicenda umana come un «sistema» e a porla in connessione con i fini della ragione. Questo è il còmpito della filosofia della storia, ciò che la rende «utile» (110); e qui diviene evidente anche il paradosso della «teleologia critica», puro espediente retorico al servizio di quella autonomia storica dell'umanità dalla cui negazione la teleologia divina traeva ragion d'essere. L'esposizione della storia come svolgimento di un «disegno della natura» e come esecuzione della sua «volontà» creerebbe certo non pochi ostacoli, ove si perdesse di vista la funzione retorica della «natura», dramatis persona alla quale è affidato il còmpito di rappresentare il senso (la coerenza e la conformità rispetto a un fine) della vicenda umana: ostacoli di ordine epistemologico (costituendo il riferimento a entità trascendenti una ricaduta nel dogmatismo pre-critico) e ostacoli di ordine teoretico (contraddicendo l'idea di una regía extraumana della storia al postulato della libertà dell'uomo). Ma ogni difficoltà scompare, e il resoconto kantiano ritrova una fisionomia coerente con i vincoli posti dalla critica, se si tiene presente il senso del riferimento alla natura quale demiurgo del processo. Restituita la teleologia allo statuto di fictio retorica, non fa problema dire che, per favorire la formazione della coscienza unitaria dell'umanità, la natura ha collocato la specie umana su un pianeta di limitate dimensioni (ha «rinchiuso tutti [i popoli] insieme [...] entro confini determinati»)(111) e ha instillato negli uomini sentimenti di reciproca avversione, in modo da costringerli, attraverso il «meccanismo» delle passioni e la guerra che ne deriva, a stabilire tra loro «rapporti piú o meno giuridici» (112). Ciò vale per l'àmbito civile, per la vicenda interna delle singole comunità, e vale - mutatis mutandis - anche sul piano internazionale, dove si tratta di conferire plausibilità all'idea di una «federazione di popoli». Una rappresentazione che soddisfi l'interesse della ragione non può non scorgere l'esito della storia universale nella fondazione di una lega di popoli paragonabile a un «congresso permanente degli Stati» (113). D'altra parte gli Stati sono (tuttora) individui scarsamente razionali, costantemente esposti alla tentazione di violare gli obblighi del rispetto reciproco (al «desiderio» di «giungere al duraturo stato di pace in modo tale da dominare, se possibile, tutto il mondo»)(114). Di qui: l'intervento della natura, che costringe alla pace mediante l'egoismo (e per mezzo della politica che ne riduce i guasti); la separazione degli Stati e dei popoli (e la guerra che essa procura); l'esprit de commerce (e il concerto degli interessi particolari da esso promosso)(115). Ancora una volta il ricorso alla «garanzia» della natura (116) consente di superare la contraddizione, di coprire d'un balzo la distanza (logica e cronologica) tra ciò che l'umanità ancora è (sul piano fenomenico, storico-empirico) e ciò che (verosimilmente) diverrà (già da sempre essendolo, sul piano noumenico) in capo a una storia di fatiche e di errori. «Per risolvere questo problema Kant delinea una "filosofia della storia" con intenti cosmopolitici la quale, muovendo da una segreta "intenzione della natura", dovrebbe rendere plausibile quella "concordanza tra politica e morale" che appare a prima vista inverosimile» (117).
Un problema particolarmente insidioso parrebbe tuttavia restare aperto. Si è detto che il ricorso alla finzione teleologica è stato imposto dall'assenza di un soggetto al quale imputare la direzione della storia. Ma se questo spiega l'intervento demiurgico della natura nella prima fase del processo, non aiuta invece a comprendere perché Kant ponga tutta la storia sotto la sua tutela, perché egli faccia della natura il deus ex machina dell'intera storia umana. La natura guida la specie «dal grado inferiore dell'animalità via via sino al grado supremo dell'umanità» (118); «saggia», essa provvede alla «mescolanza del bene col male» al fine di costringere il genere umano «a sviluppare tutte le sue capacità e ad avvicinarsi alla perfezione della sua destinazione» (119); poiché «sa meglio» dell'uomo «ciò che è buono per la sua specie», essa «vuole discordia» (120), quindi «vuole irresistibilmente che il diritto alla fine conquisti il potere supremo» (121), e a questo scopo produce «da sé» le rivoluzioni, «come un appello a realizzare una costituzione legale fondata su principi della libertà» (122). La domanda sorge spontanea: perché fare riferimento alla natura anche in relazione alla fase propriamente storica, nella quale, se le considerazioni sin qui svolte hanno un fondamento, l'umanità già vive come soggetto in qualche misura consapevole della propria consistenza e funzione? A rendere a prima vista particolarmente seria la questione è il fatto che l'intervento della natura quale regista (non importa se reale o fittizio) dell'intero processo parrebbe cancellare ogni differenza tra la prima e la seconda fase del processo, e con ciò revocare in dubbio l'esistenza stessa di due fasi distinte. Ma, a guardar bene, questo problema è inconsistente. È del tutto comprensibile che, pur se evocato per motivi retorici, uno schema teleologico sottometta al proprio governo la storia intera. Un resoconto in cui il demiurgo cessasse dal proprio ruolo non sarebbe convincente o lo sarebbe ad ogni modo meno di una narrazione che lo conferma nella sua funzione. D'altra parte, proprio il carattere fittizio dello schema ne favorisce un'applicazione ampia, dal momento che l'intervento virtuale di un'entità immaginaria non può costituire una minaccia alla libertà degli uomini. Il vero problema non concerne dunque l'assoggettamento di tutta la storia umana a una natura riconosciuta come nudum nomen. Il punto è un altro: si tratta di capire che cosa effettivamente significhi «natura» quando si tratta della seconda fase del processo, come questo termine vada tradotto affinché, dove è in questione la vera e propria storia umana, la pagina di Kant acquisti trasparenza. Con il passaggio alla fase propriamente storica, il significato di «natura» è infatti cambiato. Non è difficile vedere che, sotto la superficie di uno stesso nome, si muove ora un diverso elemento, una entità antagonista e questa volta ben reale, che sottrae alla natura lo scettro del comando. In questo contesto «natura» è sovente metafora del principio guida di uno sviluppo storico al quale la ragione e la volontà degli uomini contribuiscono in misura crescente. In questione non è solo l'analogia costitutiva (formale) tra il «concetto cosmologico di natura» e «le nostre capacità produttive» (123), ma anche la sempre piú influente partecipazione dell'«uomo conoscente e agente» alla sua formazione materiale. Il «disegno» di questa natura non evoca piú soltanto la logica riproduttiva immanente al reale (il suo codice naturale, benché in sempre maggior misura contaminato dagli effetti dell'azione dell'uomo), ma un «programma» costantemente riscritto dal dispiegarsi di una attività umana sempre piú libera e consapevole. In una parola, quando si tratta della seconda fase della storia, Kant dice «natura» e intende «ragione». È vero, Kant ripete persino ossessivamente che «non dipenderà tanto da ciò che noi facciamo [...], quanto da ciò che la natura umana farà in e con noi», se i progressi sin qui compiuti saranno conservati o accelerati (124); che la natura si impone implacabilmente («dispoticamente», «irresistibilmente»)(125) su quanti tentano di opporsi alla sua volontà; che la «natura delle cose [...] costringe ad andare là dove non si va di buon grado (fata volentem ducunt, nolentem trahunt)» (126); che «se io della natura dico: essa vuole che questo o quello accada, ciò non significa: essa ci prescrive il dovere di farlo (ciò è facoltà della sola ragione pratica, libera da ogni costrizione): significa che lo fa essa stessa, che noi lo si voglia o meno» (127) (e ancora torna, subito dopo, la citazione da Seneca-Cleante). Come negare che qui riemerga con tutta la sua incoercibile potenza la forza cieca delle cose, incurante dei propositi umani e dei pretesi progressi della razionalità? Ma quella «natura umana» di cui ora si tratta si è trasformata nel dialogo - nel conflitto - con la ragione, non è piú un altro da questa indipendente, cosicché la proclamazione della sua potenza si rovescia nell'apologia della rivale. L'«arte propria» con cui la natura accompagna la specie «sino al grado supremo dell'umanità» non è in realtà sua, è «estorta all'uomo» (128), il quale via via impara a «utilizzare quel meccanismo della natura» (129) come strumento per i propri fini. I «noi» dai quali il destino umano non dipende sono i singoli, con i loro disegni elaborati in base a una prospettiva locale e limitata, non gli uomini nella loro totalità (la specie): sono gli «uomini, considerati separatamente», non già «l'umanità nell'insieme della specie», la quale invece, lungi dal subire la tirannia della natura, ne sovverte i dettami, sino ad apprendere (la natura non è solo armonia, è anche violenza; e la ragione non è solo prometeica volontà di potenza, è anche coscienza del limite e sforzo di prevedere le conseguenze delle proprie scelte) la difficile arte di «rinunciare volontariamente al proprio potere» (130). Quanto ai «fata» che «nolentem trahunt», al di là della metafora provvidenzialistica a tema è proprio l'effettualità della razionalità in sviluppo, che si palesa, per esempio, nella incoercibile diffusione dei Lumi e nella relazione dialettica che essa intrattiene con il dispotismo (la terza tesi della Idee mostra come la politica di potenza degli autocrati implichi quella libertà civile che a sua volta l'avversa)(131). Il concetto è che, comunque, la storia procede lungo il percorso tracciato dalla ragione; che, per quanti ostacoli ne costellino il cammino (compresi quelli prodotti dall'egoismo irrazionale dei singoli), gli uomini finiranno per (si costringeranno via via a) conquistare il rispetto dei propri diritti.
Il movimento si può riassumere con una formula paradossale: «natura» si riempie di realtà (non è piú un puro nome) nel momento in cui la natura perde qualsiasi funzione (o assume quella del semplice gregario) ai fini dello sviluppo storico reale. Se nella prima fase la natura era l'istanza regolatrice della riproduzione materiale della specie (e questa funzione fondamentale accredita la fictio teleologica), nella seconda «natura» è soltanto il termine che evoca l'azione, ben concreta ed efficace, del principio antagonista della dinamica naturale. Se in relazione alla prima fase il riferimento alla natura come demiurgo del processo storico è un espediente retorico, quando si tratta della seconda «natura» è una semplice metafora, il nome dietro cui si celano la razionalità e l'autonomia degli uomini. Certo, «la natura [...] diede all'uomo la ragione e la libertà del volere su di essa fondata»: ma il senso di questo dono è che egli doveva «ricavare tutto da se stesso» (132), autocrearsi: «dall'estrema rozzezza» raggiungere, elaborando se stesso, «la massima abilità, la perfezione interiore del pensiero e di qui (per quanto ciò è possibile sulla Terra) la felicità» (133). Rivelata dal paradosso di un comando che nega se stesso (la natura dona all'uomo quella libertà che lo affranca dal di lei dominio), la metafora serve a dichiarare che l'umanità ha tutto «il merito» delle proprie conquiste (134). Rousseau aveva scritto che la perfettibilità («questa facoltà distintiva e quasi illimitata») rende l'uomo «tiranno di se stesso e della natura» (135). Giudizi di valore a parte sul conto della civilizzazione, Kant è dello stesso avviso: «l'uomo doveva emanciparsi da sé dalla rozzezza delle proprie disposizioni naturali»; «doveva conquistare da solo» tutte le abilità - a cominciare dalla stazione eretta - che lo distinguono dagli altri esseri viventi (136). L'«insocievolezza» si autocritica e finalmente «costringe se stessa a disciplinarsi» (137). Rafforzatasi e divenuta via via piú consapevole del proprio interesse e della propria concreta potenza, la ragione subentra alla natura, promuovendo l'ordine civile e conquistando il governo delle società. Lo Stato giuridico è il risultato di una decisione razionale e la coscienza non nasce armata come Minerva dalla testa di Giove. La politica e la cultura sono frutto della fatica dell'uomo, della sua capacità di guardare lontano. A dare forma al mondo è ora la sua responsabilità: la decisione di «servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro», il suo «illuminismo» (138). Mentre la natura di cui l'uomo è figlio viene via via spinta al margine della sua vicenda, imbrigliata, costretta a farsi strumento di scelte sempre piú razionali. Non è in questione l'«azione parallela di ragione e natura umana» né, tanto meno, la loro semplice «analogia» (139); non si tratta dell'intervento divino, pur inteso quale «mero complemento» dell'azione umana (140): la ragione viene sostituendo la natura alla guida del processo storico, assumendone in prima persona le funzioni progettuali e demiurgiche (141). E mentre da un lato riduce la natura al proprio servizio (utilizzandone, come si è visto, il «meccanismo» per i propri scopi), dall'altro si appropria del suo stesso venerabile nome. Quella qui in gioco è sí una traduzione, ma non la semplice sostituzione di un linguaggio a un altro, bensí il totale sovvertimento di un codice e del suo significato. «Tutta la filosofia della storia di Kant si sforza di tradurre il progetto nascosto della natura, che pare spingere gli uomini sulla strada di un progresso illimitato, in un progetto cosciente degli uomini dotati di ragione» (142). Come si notava, il risultato è paradossale. "Natura delle cose" è ora precisamente la voce degli imperativi di una ragione che, nel propagarsi, si rafforza e, nel farsi realtà, diviene sempre piú consapevole della propria potenza, quindi sempre piú insofferente dei capricci dell'arbitrio e della violenza delle passioni. Del resto non di rado Kant esplicita la corrispondenza tra "natura" e ragione, attribuendo a questa (alla volontà consapevole, alla libertà, alla decisione razionale) il ruolo che diverse pagine affidano alla prima, e prendendo cosí nettamente posizione (contro i conservatori à la Burke) nel Kulturkampf che divampa intorno al concetto di natura (143). Nel Detto comune è «alla ragione» che «il contrapporsi delle tendenze, da cui sorge il male», consente «un libero gioco per sottometterle tutte insieme e per far trionfare, in luogo del male che distrugge se stesso, quel bene che, una volta affermatosi, si conserva da sé nel corso del tempo»(144). Sottolineando l'antitesi ragione-natura originaria, già il Muthmaßlicher Anfang addita nella ragione il regista del processo storico: «finché obbediva a questo richiamo della natura, l'uomo incolto si trovava bene: la ragione venne però presto a destarsi»(145) e cominciò ad esercitare un potere non meno «irresistibile» del dispotico dominio della natura (146). E se per un verso definisce «impotente per la pratica» la «volontà universale fondata sulla ragione» (alludendo verosimilmente alla sua incapacità di generare nell'immediato effetti concreti corrispondenti ai fini), dall'altra parte la Pace perpetua attribuisce alla ragione la prerogativa di «utilizzare» per i propri scopi («la prescrizione giuridica» e «la pace sia interna sia esterna») «il meccanismo della natura tramite le tendenze egoistiche che in modo naturale funzionano anche esteriormente l'una contro l'altra» (147). Ancor piú inequivocabilmente, la stessa capacità è riconosciuta, poche pagine oltre, alla «politica», che Kant definisce «arte di utilizzare questo [meccanismo] per il governo degli uomini» (148).
La ragione domina la natura e se ne serve per i propri fini. Pervenuta a un elevato grado di elaborazione, con somma ingratitudine riduce a strumento quella che fu dapprima sua nutrice e maestra. Ma non è solo la natura a fare le spese del progresso umano. Analoghe considerazioni valgono per la "provvidenza" e per il «destino», sinonimi di «natura» (a questo riguardo dovrebbe bastare l'insistenza di Kant sul carattere convenzionale delle diverse scelte terminologiche: la natura «viene chiamata destino» o «viene chiamata provvidenza» a seconda del «punto di vista» dal quale si guarda alla vicenda umana; e dalla prospettiva che si adotta dipende anche «l'uso della parola natura, [...] piú modesto del riferimento a una [...] provvidenza»)(149) e, come «natura», nomi che a quest'altezza hanno significati diversi da quelli assunti in relazione alla prima fase della vicenda umana. Quella «provvidenza» della quale è «giustificazione» la «visione confortante» di un «genere umano» finalmente pervenuto al «pieno sviluppo» delle proprie potenzialità (150) è, per definizione, la ragione degli uomini, celebrata per il capolavoro della crescente armonia tra libertà (volontà, virtú) e arbitrio. Quella «sapienza che non è la propria» dalla quale l'uomo doveva dapprincipio ricevere l'«educazione» è ora patrimonio di una specie che «deve e può essere creatrice della propria felicità»(151). Nato lupo, l'uomo scopre nel proprio simile (e in se stesso) Dio. E legge nel proprio destino di sofferenza il riverbero della sua stessa libertà: «la storia della natura comincia dunque dal bene, perché è l'opera di Dio; la storia della libertà dal male, perché è opera dell'uomo», di una creatura che riconosce se stessa dalla propria capacità di «eludere la voce della natura»(152). Storia della natura e (contro) storia della libertà. Sono queste le due epoche fondamentali della vicenda umana, segnate l'una dal dominio assoluto dell'ordine naturale delle cose, l'altra dalla rivolta della ragione e dal suo faticoso peregrinare in cerca di se stessa. Dei nostri mali siamo «forse l'unica causa»; la storia della civiltà è storia di una disuguaglianza (giuridica, civile, politica) alla quale «la natura non aveva certo destinato l'uomo» (153). Di questo, dunque, ora si tratta: di un «destino» che è l'esatto contrario di qualsiasi inviolabile decreto inscritto nella costituzione materiale del mondo e che è per questo ridotto a pura «fantasticheria», ad architrave di una teleologia «post-teologica» nella quale l'uomo è il «dio terreno» e la garanzia dei fini ultimi si rovescia in un programma d'azione fondato sul presupposto della capacità degli uomini di essere artefici della propria storia (154).
Possiamo cosí tornare a un nodo in precedenza appena evocato ma cruciale in Kant come in ogni filosofia della storia. Si è visto come Kant confidi nella certezza dei progressi della ragione, come ritenga «inevitabile» - inesorabile - la marcia di quest'ultima (155). A queste convinzioni altre se ne aggiungono, parimenti informate, almeno in apparenza, da accenti deterministici. Kant (che il Nachlaß ci mostra attratto dalle statistiche e dalla rilevazione di regolarità nei fenomeni sociali) evoca una necessità storica quando allude a «leggi naturali costanti» che imprimono agli avvenimenti «un corso regolare», dissimulato dal «gioco della libertà umana»(156). Si è spesso ritenuto di scorgere in queste e in altre affermazioni che riconducono il processo storico al compiersi di un «disegno» il riflesso della regressione di Kant a un'ottica deterministica (di stampo naturalistico o teleologico) contrastante al principio dell'autonomia della ragione pratica, postulato basilare della sua filosofia morale. Da ultimo, inserendosi in una linea interpretativa che corre da Lamprecht e Adler a Danto (via Popper)(157), Apel si è fatto portavoce di una simile tesi, desumendone la necessità di una «ricostruzione post-metafisica» dei «presupposti sistematici» della filosofia kantiana della storia e delle «intuizioni speculative» in essa contenute (158). L'idea è che la «metafisica kantiana dei due mondi» sia responsabile di una scissione insuperabile tra il piano empirico (governato da una causalità deterministica) e il piano etico-normativo (sul quale la ragione pratica eserciterebbe autonomamente - ma astrattamente - la propria funzione legislatrice). Ne discenderebbero l'impossibilità di qualsiasi concreta «mediazione tra teoria della storia e ragione pratica» e la necessità, per gli uomini, di limitarsi a un atteggiamento di «"speranza" puramente passiva» al cospetto di un «corso storico» inaccessibile alla ragione pratica e dominio assoluto, invece, della ferrea catena delle cause, metafisicamente trasfigurata - questo è poi il punto - nel «disegno» della natura (o nella sua «astuzia»)(159). Ma se le considerazioni sin qui svolte colgono nel segno, critiche di questo genere appaiono prive di fondamento. Al contrario, sembra di poter dire che l'istanza fondamentale sottesa alle ipotesi di riforma in senso trascendental-pragmatico (Apel) o pratico-comunicativo (Habermas) della posizione kantiana - l'esigenza cioè di superare la dimensione solipsistica della razionalità - sia già soddisfatta negli scritti kantiani di argomento giuridico-politico e filosofico-storico in virtú di una concezione del progresso della ragione - di una immagine della ragione in formazione - che rinvia all'esperienza storico-sociale quale fonte di sempre piú potenti modelli di razionalità. Se non si fraintende il riferimento di Kant a una natura che non designa ormai altro se non la logica oggettiva della prassi (logica non disponibile all'arbitrio dei singoli, ma non per questo riducibile a riflesso meccanico di piani concepiti da una volontà trascendente), non vi è motivo per ritenere che il «disegno» di cui si tratta víoli il postulato della libertà. Kant non straparla quando attribuisce alla natura la prerogativa di «garantire» il conseguimento della pace perpetua e di imporre all'uomo una «coazione» all'obbedienza della legge morale «lasciando intatta la sua libertà» (160). Semplicemente, fa riferimento a una natura nella quale si è venuta via via incorporando la ragione e che quindi (perché natura umanizzata) è sempre piú, essa stessa, strumento di libertà. In questo senso la «garanzia della natura» di cui si tratta nel «Primo supplemento» alla Pace perpetua è un assunto pratico (161).
La libertà - cosí forse si potrebbe tradurre la frase kantiana senza tradirne il senso - costringe se stessa a divenire realtà; e a questo scopo si serve della natura (del suo «meccanismo»). La necessità di cui si tratta non prende quindi corpo contro la volontà umana né al di fuori della storia. Non è la necessità trascendente del determinismo, ma (come lo stesso Apel è costretto a riconoscere)(162) una necessità ipotetica che presuppone la relativa autonomia della prassi e che per questo consente di rilevare la tendenza dello sviluppo storico, non di formulare vere e proprie previsioni. Ragionare sul futuro è possibile «se colui che formula previsioni fa e organizza egli stesso i fatti che preannunzia»; d'altra parte, proprio «poiché noi abbiamo a che fare con agenti liberi, ai quali si può certo prescrivere in precedenza ciò che debbono fare, ma non si può predire ciò che essi stessi faranno», proprio per questo non vi è alcuna certezza teoretica dei progressi a venire, né si può escludere che «a causa della costituzione fisica della nostra specie [...] inizi proprio ora il tempo del suo regresso»(163). Per formulare previsioni l'intelletto ha bisogno del «nesso secondo leggi naturali»(164), ma non di queste stricto sensu si parla quando si tratta della storia e delle sue «leggi naturali costanti»(165). «Per quanto attiene alle libere azioni future», l'uomo «deve fare a meno di questa guida o indicazione» e deve dunque accontentarsi di probabilità (166) e «segni storici», dai quali desumere «la tendenza della specie umana nella sua totalità»(167). Considerata la sua storia, rilevato in essa l'incessante lavoro della ragione, sembra sensato attendersi che diritto e pace prevarranno. Nella misura in cui ogni nuova conquista della ragione apre la strada verso conquiste ulteriori, si direbbe inevitabile un continuo progresso. Ma la libertà resta un intricato paradosso. Da un lato il suo esercizio la rende via via piú necessaria (perché fa di essa una parte sempre piú essenziale della natura umana); dall'altro, nel lasciare la storia ineluttabilmente aperta, il suo prendere piede accresce il rischio di nuove regressioni (non impedisce di «disperare della salvezza del genere umano e del suo progresso verso il meglio»)(168). L'uomo è solo. Lo stesso «padrone» di cui abbisogna «è egli stesso, come lui, un animale bisognoso di un padrone»(169). Non ci sono «garanzie» al di fuori della sua razionalità potente e fragile, fragile al cospetto della sua crescente potenza.
A questo punto possiamo finalmente tentare una mappa dei diversi significati di «natura» negli scritti giuridici e politici di Kant e nella sua filosofia della storia. In relazione alla prima fase del processo storico Kant impiega sempre «natura» in senso letterale, con riferimento alla realtà delle cose e del mondo vivente, obbediente alla ferrea necessità delle sue leggi originarie. L'unica difficoltà sorge quando il termine è inserito nei sintagmi connessi allo schema pseudo-teleologico (nei quali si tratta del «disegno della natura» o del suo «piano», della sua «volontà» e «intenzione» o della sua abilità di «artefice»). In questi casi «natura» semplicemente smarrisce qualsiasi significato concreto, divenendo, come si è cercato di documentare, un nome vuoto, privo di qualsiasi referente reale e incaricato di evocare (al pari degli altri equivalenti simbolici: destino, fato, provvidenza) la complessiva coerenza del processo storico e il suo orientamento a una meta finale. Un quadro analogo concerne la seconda fase, in senso stretto storica, della vicenda umana. Anche in questo caso il termine «natura» a sé stante designa la realtà originaria del creato e il «meccanismo» della sua riproduzione; e ancora una volta l'unica cautela si impone quando il testo accede al registro pseudo-teleologico e, al pari degli altri equivalenti testé ricordati, «natura» diviene sinonimo di ragione: la sua abilità nel dare forma alle cose («natura dædala rerum», recita la Pace perpetua)(170) richiama allora la crescente potenza della ragione strumentale; il suo «disegno» evoca il progressivo realizzarsi della ragione pratica, il suo divenire sempre piú consapevole del proprio «interesse» a incarnarsi nel mondo, a informare di sé menti, relazioni sociali, istituzioni.
Nella seconda fase del processo storico «natura» è dunque ora l'una, ora l'altra cosa, ora la natura originaria, ora la razionalità umana che la contrasta e le contende il dominio sul mondo. Ma questa ambivalenza non riposa su un equilibrio immobile. Uno dei due significati è destinato a prendere il sopravvento, segnalando cosí la direzione del processo. La seconda accezione («natura» come ragione) prevale con il procedere del movimento storico. La storia è, per Kant, un movimento progressivo, la graduale vittoria della ragione (della consapevolezza e della volontà). Il rapporto tra uomo e natura (che coinvolge anche il rapporto dell'uomo con se stesso: con la natura umana) si fa sempre piú artificiale e, in questo senso, sempre piú ricco di razionalità. Quest'ultima affermazione suggerisce due brevi considerazioni. Intanto occorre tenere presente quanto si è osservato in precedenza (trattando della irruzione della soggettività all'inizio della storia) a proposito della differenza tra un modello teorico e la realtà dei processi. Un elemento di artificio è sin da subito presente nello scambio uomo-natura, che già nella prima fase della vicenda umana vede il complicarsi dell'attività produttiva attraverso l'impiego di strumenti tecnici. Quando dunque si dice che ad un certo punto dello sviluppo il rapporto uomo-natura muta in conseguenza dell'intervento del fattore razionalità (libertà), si allude a un salto di qualità negli effetti di questo intervento, tale per cui l'artificio (sino a quel momento ininfluente rispetto all'assetto originario dell'ecosistema) imprime all'ambiente naturale (e all'identità della stessa specie umana, alla costituzione antropologica) modificazioni durevoli e tendenzialmente irreversibili. Di questa potenzialità trasformativa della razionalità Kant è precocemente consapevole, come mostra un passaggio della Pace perpetua che sottolinea la cesura determinata dal radicarsi di tecniche agricole capaci di modificare la «costituzione originaria» di talune piante e di sostituirle un'altra natura, frutto dell'arte umana (171). In questo specifico contesto merita di essere problematizzata, in secondo luogo, la sinonimia tra razionale e artificiale. Dire che il rapporto uomo-natura è sempre piú ricco di razionalità in quanto è sempre meno la semplice esecuzione di dettami naturali non toglie che esso possa svilupparsi in forme perverse, gravate da errori e foriere di effetti negativi a danno dell'uomo e dell'ambiente. Al contrario, un tasso di errore è in questo caso ineliminabile, dati i limiti della razionalità umana (della conoscenza, della capacità previsionale, del grado di coerenza delle finalità via via definite). Si può sostenere che, dal momento in cui include razionalità (nel senso di artificio), il rapporto uomo-natura include inevitabilmente un tasso piú o meno elevato di irrazionalità (in quanto genera effetti perversi piú o meno rilevanti). Va tuttavia considerato che la valutazione del danno riflette sempre una determinata prospettiva, ed è evidente che dal punto di vista dell'uomo (dell'«intero» del genere (172), il solo competente a giudicare del movimento della storia) nemmeno il ricambio naturale è immune da difetti (anche in questo caso si potrebbe dire: da «irrazionalità») sia per ciò che riguarda quantità e qualità dei mezzi di sussistenza spontaneamente offerti dalla natura, sia per quanto attiene ai rischi generati dall'ambiente (dai fattori geologici, climatici, zoologici): la natura è tanto lungi dall'avere adottato l'uomo
come figlio prediletto e dall'avergli concesso il benessere a preferenza di tutti gli animali, che in realtà essa non gli risparmia, piú di quanto non faccia con qualsiasi altra specie vivente, la propria azione rovinosa: peste, fame, inondazioni, gelo, attacchi di altri animali grandi e piccoli, ed ulteriori pericoli consimili(173).
Torniamo, un'ultima volta, ai molteplici significati di «natura». Se volessimo seguire Kant nella scelta di mantenere fermo il riferimento alla natura in relazione all'intero corso della vicenda umana, potremmo dire che (per Kant) la storia si risolve nella sostituzione di una nuova natura alla natura originaria. Quest'ultima - la natura prima, a-razionale, extraumana (anche se interna all'uomo) - cede progressivamente il passo alla «seconda natura» (Kant evoca questa espressione pascaliana, destinata a solenni fasti, nella terza Critica, quando fa riferimento alla andere Natur creata dall'immaginazione (174); e vi allude nello scritto sulla Aufklärung, discorrendo della «minorità divenuta quasi la natura del singolo»)(175), razionale, artificiale, umana (anche se versata nel mondo che l'uomo abita e rende ospitale). Nella propria perfezione l'arte «ridiviene natura» e attinge «il fine ultimo della destinazione morale del genere umano»(176). Tale risultato legittima una serie di interrogativi. È, secondo Kant, il trionfo assoluto della ragione l'approdo prevedibile della storia? Cancellerà l'uomo ogni traccia della natura originaria entro di sé e ridurrà in totale servaggio quella fuori di sé? Condivide Kant l'utopia rousseauiana della palingenesi? La pace perpetua, la federazione cosmopolitica, la diffusione delle repubbliche segneranno la fine di ogni usurpazione e di ogni violenza? Sembra di poter rispondere negativamente. Quelli qui elencati sono ideali regolativi, necessari per comprendere la vicenda storica e per procedere praticamente nel progressivo adempimento del dovere. L'uomo non sarà mai santo; il male che ne limita la volontà è radicato nella sua costituzione fondamentale (nel suo essere che, pur mutevole e storicamente condizionato, mantiene fermi connotati cardinali e limiti insuperabili); la razionalizzazione dell'egoismo non giunge a trasformare appieno l'amore di sé in amore del sommo bene. Innumerevoli volte Kant ribadisce che la «soluzione perfetta» del problema politico (un'effettiva sintesi di potere e giustizia) «è impossibile»(177) esattamente come lo è (per definizione) la realizzazione di un ideale nel mondo del fenomeno; che i tentativi di «realizzare un ordine fondato sul diritto pubblico» si esauriscono «in una approssimazione progrediente all'infinito»(178); che il pieno raggiungimento della «destinazione del genere umano» è concesso solo alla specie intesa come serie infinita (questa concezione Herder paragona al «destino di Tantalo»)(179) e dunque non è che «una semplice [...] idea dello scopo verso il quale [...] dobbiamo orientare i nostri sforzi»(180); che la stessa «pace perpetua (fine ultimo di tutto il diritto delle genti) è certo un'idea inattuabile»(181). Ma se il realismo kantiano preclude la via verso l'aspettativa di una palingenesi dell'umanità, l'ideale conserva integra la propria forza. La storia è il cammino di una ragione che, in origine semplice possibilità, si è venuta propagando sulla Terra dando luogo a una incessante trasformazione del volto del pianeta, della figura dell'uomo, della forma delle identità individuali e collettive, della logica dell'interazione sociale, della struttura dei sistemi di potere e delle relazioni internazionali. La ragione ha ingaggiato una lotta per la vita e per la morte con la natura e ha vinto sin qui molte battaglie: la pace perpetua appare al realista Kant il frutto della sua possibile vittoria finale, purché non la si fraintenda come eliminazione di qualsiasi antagonismo e la si concepisca invece come cessazione della guerra, della devastante conflittualità generata da una anacronistica smania di potenza.
Queste ultime osservazioni impongono di tornare, in conclusione, su un tema al quale si è piú volte accennato. La pace non è un idillio tra santi, è la regolazione degli antagonismi. È questo l'insegnamento dell'esperienza, che ha mostrato come la sola vera pace (sia all'interno delle comunità civili sia tra gli Stati) nasca dal conflitto e da una determinata sua composizione, caratterizzata dal riconoscimento reciproco delle parti (piú precisamente: dal riconoscimento comune delle loro rispettive ragioni). Si è visto come Kant insista sulla struttura dialettica del processo. La pace tra individui e tra Stati è possibile soltanto sulla base di un accordo che non può non essere frutto del conflitto. Per questo, da una parte, la guerra è ancora ovunque. Lacera famiglie, scuote città, attraversa frontiere, lega i popoli in patti di sangue per scagliarli l'uno contro l'altro con maggiore violenza. Ma, se la pace è una terra lontana, lo stesso dilagare del conflitto autorizza la «buona speranza»(182) che un giorno la si realizzerà, in quanto gli antagonismi sono l'effetto di quel sentimento egualitario che è altresí una (anzi la sola) possibile base di una convivenza pacifica e giusta. Agli occhi di Kant la dura logica della modernità non concede scorciatoie ma nemmeno giustifica ansie apocalittiche. Se ora consideriamo questa dinamica dal punto di vista del filosofo della storia (sul piano che per Kant concerne la allgemeine Geschichte e il suo significato), comprendiamo perché Kant scorga nella pace perpetua il fine ultimo di una vicenda umana concepita come luogo della formazione della coscienza del genere umano, dell'autoriconoscimento della specie quale totalità concreta e quale soggetto unitario della storia. Il fatto che questo traguardo implichi la progressiva regolazione della conflittualità (anzi coincida con essa) consente di affermare che la costruzione della pace (riconoscimento reciproco delle diverse componenti della specie) è il tema fondamentale del processo storico e che il suo raggiungimento segna il culmine della vicenda umana. Tutto ciò può essere detto anche in questi termini: lo schema ricostruttivo che affida al conflitto la funzione della ineludibile premessa della pace si chiarisce alla luce della centralità del genere umano quale protagonista della «storia universale». La guerra sarà inevitabile finché non avrà compimento (sul piano dell'universalità) il processo del riconoscimento: essa è infatti la risposta all'esclusione - al mancato riconoscimento - di parti della comunità civile e del genere umano. A sua volta, la pace è il riconoscimento reciproco universale: il prevalere della «volontà universale data a priori (in un popolo o nel rapporto reciproco di diversi popoli)»(183), dunque il solo stato di cose coerente con l'autocoscienza dell'umanità come soggetto unitario. Per questo Kant considera il consenso universale una condizione necessaria della pace perpetua. Non è sufficiente che a volere «vivere in una costituzione legale secondo principi di libertà» siano «tutti i singoli» quali membri di una semplice «unità distributiva del volere di tutti»: la pace richiede che la costruzione di uno Stato di diritto sia frutto della volontà che «tutti insieme» gli individui esprimono uti universi, quali membri della «unità collettiva della volontà unificata»(184) (ennesima citazione da Rousseau, del quale Kant riprende la polarità volonté générale-volonté de tous).
In quanto effetto, anzi sinonimo del compiuto autoriconoscimento della specie quale soggetto unitario della storia, la pace è dunque il fine della vicenda umana. Il suo avvento segnerà una cesura epocale, in virtú della quale la storia sarà definitivamente divenuta anche per sé storia umana, storia di una umanità riconosciutasi quale totalità concreta. Tale concezione della «storia universale» si ricollega a quella nuova idea di oggettività cui ci si è riferiti piú volte nelle pagine precedenti. Rileggendo alcuni passi nei quali Kant evoca la potenza incoercibile della natura-provvidenza, si è ritenuto di cogliervi l'affermazione della capacità della ragione, divenuta realtà, di imporre le proprie regole a quanti resistono in una irrazionale difesa del proprio «particulare». Poco prima si è pensato di scorgere nel termine "natura" impiegato in riferimento alla fase in senso stretto storica della vicenda umana un sinonimo della logica oggettiva dell'azione collettiva (sociale), non disponibile ai singoli benché risultato della sinergia delle loro decisioni. In questo modo si è creduto di potere dare evidenza alle implicazioni contenute nella ripresa del modello economico-politico, dal quale - come si era ricordato in precedenza - Kant desume spunti decisivi per la comprensione della dinamica sociale. L'idea è che il «disegno della natura» o l'«ordine» stabilito da «un saggio Creatore»(185) al quale Kant fa riferimento contemplando gli effetti benèfici delle passioni, non siano altro che dispositivi retorici utili a saldare il divario tra la coerenza complessiva dell'agire sociale collettivo e il carattere contraddittorio (reciprocamente inconsistente) delle azioni individuali. Di ciò, come pure si è sottolineato analizzando il carattere fittizio dello schema teleologico messo in campo dai suoi scritti filosofico-storici, Kant è del tutto consapevole. Dinanzi al dilemma di una coerenza che nasce dall'intrecciarsi di linee d'azione tra loro inconciliabili, «per il filosofo non c'è altra via d'uscita»(186) che evocare l'intervento pianificatore di un regista trascendente: non certo perché lo si ritenga un dato di realtà (prima ancora che vanificare il programma di comprendere la storia juxta sua propria principia, ciò farebbe saltare in aria l'intero castello delle Critiche), ma con il solo scopo di nominare una logica (meccanismi strutturali, leggi, sequenze funzionali) della quale si percepiscono gli effetti ma non si è ancora in grado di compiere un'analisi scientifica che ne ripercorra il concreto dispiegarsi e ne metta allo scoperto le basi determinanti. «Natura», «destino», «provvidenza» sono simboli della coerenza e legalità (struttura nomologica) della storia: della logica complessiva che la governa e permette di declinarne al singolare il concetto, di pensarla come un sistema, come una totalità. In questo senso inserire Kant nella linea di sviluppo della riflessione moderna sulla politica e la storia che muove da Mandeville, Smith e Montesquieu e, attraverso Hegel, approda a Marx non implica riproporre consunti cliché storiografici né adottare il discutibile canone dell'«anticipazione». Significa segnalare il sorgere, inevitabilmente impacciato, di una nuova consapevolezza teorica grazie alla quale la logica del processo storico - la sua «astuzia» - è ricondotta alla concretezza delle dinamiche sociali. Questo lo storico della filosofia non può non fare, benché ciò rischi di esporlo al sospetto dell'anacronismo. Nelle ricerche dei classici dell'economia politica Kant coglie lo sforzo di scoprire il meccanismo segreto che conferisce coerenza ai processi riproduttivi. Vi scorge cioè precisamente l'elemento che lo Hegel della Filosofia del diritto (teorico della dimensione sistematica delle relazioni sociali) considererà massimo punto d'onore dell'economia politica classica; e che rappresenterà poi uno dei fondamentali presupposti del programma marxiano, del suo tanto spesso frainteso naturalismo metodologico. Kant non intuisce soltanto l'obiettivo che i classici cercano di raggiungere: dichiara di farlo suo. La dinamica sociale e la storia non costituiscono ai suoi occhi il risultato del cieco gioco del caso. D'altra parte, gli individui non si muovono ancora (se non in minima parte) come «cittadini ragionevoli del mondo», cioè secondo un piano da essi stabilito(187). C'è una logica della prassi collettiva, ma essa sfugge agli attori sociali, che «inconsapevolmente» si muovono secondo un «filo conduttore»(188). In questo senso comprendere i processi sociali implica coglierne la logica oggettiva, la riposta legalità. Lo studio della storia raggiungerà la propria maturità (diverrà scienza) quando scoprirà questa logica, quando nascerà «l'uomo» in grado di ripetere, per la storia e per l'analisi delle dinamiche sociali, l'impresa compiuta da Keplero e da Newton in relazione alle «orbite eccentriche dei pianeti»(189). Come si è visto, Kant tiene sempre presente che è qui in questione una legalità essenzialmente diversa da quella che governa la natura, ma proprio questo rende tanto piú significativo il fatto che tale differenza rimanga ora in secondo piano. Benché gli enti dei quali si tratta di comprendere il movimento siano esseri liberi, in grado di autogovernarsi, ogni sforzo deve tendere a scoprire le «leggi determinate»(190) che ne regolano i comportamenti. Già per Kant, dunque, studiare la società significa impegnarsi a svelare l'arcano di una oggettività che prende forma nel dispiegarsi della prassi collettiva e che, circolarmente, costituisce il presupposto di quest'ultima: il fondamento e il contesto determinante di una prassi che - fonte della realtà entro cui si sviluppa - afferma se stessa come attività ad un tempo oggettiva e soggettiva. Analogamente, anche per Kant comprendere la storia significa afferrare il «filo» che viene dipanandosi col divenire realtà delle ragioni soggettive e che queste stesse ragioni costringe a configurarsi in forma coerente, pena il loro risolversi in una sterile astrattezza.
Se a questo punto ci si chiede come si presenti il processo storico agli occhi di chi, come Kant, coglie, per cosí dire, la struttura vivente della realtà (di chi, come si sarebbe espresso Hegel evocando Spinoza, riconosce in essa una «sostanza che è soggetto»), non sembra fuori luogo parlare di una concezione partecipativa della storia, dove questa appare il luogo della stratificazione dell'attività svolta, nel corso del tempo, dalle diverse comunità civili (dai corpi sociali che le costituiscono) nel contesto piú generale della specie (considerata a sua volta come una totalità concreta). La realtà vive (prende forma e si modifica incessantemente) in quanto incorpora i risultati della prassi collettiva: ed evidentemente non rileva, a questo proposito (dove è in gioco la logica del processo storico), il fatto che Kant abbia una nozione ristretta della cittadinanza e della sfera pubblica. Nient'altro che questo significa dire che la ragione diviene realtà: vi si riversa, in essa si incarna, la informa di sé trasformandola in un mondo. Ciò aiuta a comprendere per quale via Kant giunga a questa prospettiva. In prima approssimazione si può suggerire che egli scopre la vita della realtà (viene elaborando un'idea di essa nella quale oggettività e soggettività si legano in un rapporto di reciproca costituzione) perché adotta una prospettiva universalistica. Kant vede la soggettività immanente nella realtà oggettiva in quanto considera la storia come attività complessiva del genere umano (o, specularmente: in quanto vede nella specie il soggetto unitario della storia). La realtà storico-sociale gli si rivela nella sua dinamicità organica, nella sua essenziale plasticità, in quanto altro non è, ai suoi occhi, che il mondo vitale della specie, il suo ambiente, che prende vita e forma esso stesso man mano che la specie si sviluppa, accresce le proprie potenzialità, acquista consapevolezza di sé. La scoperta kantiana della soggettività dell'oggettività è il frutto della considerazione della storia come vicenda unitaria della «totalità di una serie di generazioni che vanno all'infinito»(191), prospettiva tipica di tante apologie della modernità (e - lamenterà Herder (192) - non priva di una certa crudeltà: poiché nel corso della storia il genere umano afferma la propria libertà, l'uscita dallo stato di natura è un bene, benché per l'individuo costituisca una «perdita» grave)(193).
È significativa a questo riguardo l'insistenza di Kant sul tema del «punto di vista» e (lo si è notato) della scelta di un proprio «punto di vista» che ogni filosofo della storia inevitabilmente compie. La storia che l'autore della Idee racconta sarebbe diversa se concepita «da un altro punto di vista»(194). La «giustificazione» della «provvidenza» è il motivo che ha indotto Kant a «scegliere un particolare punto di vista per la concezione del mondo»(195), ed egli è consapevole che i suoi eventuali errori potrebbero «dipende[re] anche da una scelta sbagliata del punto di vista dal quale consideriamo il corso delle cose umane»(196). Lo Standpunkt dal quale si guarda ha una grande influenza su ciò che si vede. La realtà ne è in qualche modo il prodotto, come la Critica della ragione pura ha mostrato tematizzando lo scarto tra ciò che la realtà è in se stessa e la sua immagine visibile. Ma ora si tratta di capire se questa «scelta» sia frutto di una decisione individuale e in questa misura arbitraria (come Weber e, sulla sua scia, Popper avrebbero sostenuto, considerando l'uno la conoscenza della «realtà culturale» il risultato di una selezione decisa da una opzione «personale» di valore(197), l'altro la narrazione storica come l'immediata proiezione degli «interessi» del singolo storico)(198), o non sia invece la conseguenza in qualche modo obbligata del diverso configurarsi della società nel corso del tempo. Kant propende senza dubbio per quest'ultima ipotesi, incompatibile con il relativismo caratteristico della prima. Il paragone con l'astronomia appare in proposito molto significativo, ed è interessante che Kant con esso evochi proprio quel modello di «conoscenza »astronomica« dei processi vitali» che invece Weber considererà del tutto inadeguato(199). Nella misura in cui è concesso in un'ottica critica, Kant mostra di ritenere indispensabile che il «punto di vista» in base al quale una ricostruzione storica è compiuta riposi su un fondamento oggettivo. Il fatto che la realtà prenda forma attraverso lo sguardo dell'osservatore non fa di quest'ultimo il suo signore assoluto. La ragione non è l'arbitrio, cosí come il filosofo della storia non è un «poeta», libero di «allontanarsi dalla catena delle cause naturali» (200). Egli deve, al contrario, «esser molto competente sul terreno storico» e tenere sempre saldo tra le mani «un filo conduttore connesso all'esperienza per il tramite della ragione»(201). Non è molto diverso dal dire che una «storia filosofica»(202) è tanto piú vera quanto meno la personalità del filosofo incide sulla sua configurazione: quanto piú stretto è il rapporto tra il «punto di vista» in base al quale essa è costruita e l'idea che di se stessa viene elaborando la società (e l'intera umanità, via via che sviluppa la coscienza della propria unità). È probabile, in altri termini, che Kant si riconoscerebbe in quanto Lewis Namier osserva a proposito del mutamento delle prospettive storiografiche:
In ciascun periodo l'argomento della storia è determinato dall'interesse dei suoi autori e lettori. Quando gli ecclesiastici costituivano il grosso del pubblico dei lettori, la storia religiosa era il soggetto dominante; nelle Corti l'interesse si spostò sui príncipi e sui loro regni, la diplomazia e le guerre; nell'èra parlamentare, il tema obbligato fu fornito dagli statisti e dalle loro carriere; col sorgere delle classi medie, la storia economica passò in primo piano (203).
Ma se questo è vero (almeno per Kant), comprendere come Kant giunga a intuire la nuova idea di oggettività alla quale si è fatto riferimento poc'anzi impone di capire perché egli adotti il «punto di vista» universalistico che di questa intuizione costituisce la premessa fondamentale: impone cioè di intendere che cosa lo induca a ritenere tale «punto di vista», oltre che necessario a cogliere la coerenza complessiva della vicenda umana (il suo senso), anche plausibile, empiricamente (scientificamente) fondato.
Forse la posizione di questo interrogativo è di per sé sufficiente a indirizzare la ricerca di una risposta. A prima vista Kant non dice mai perché ai suoi occhi la specie costituisca in realtà una totalità, un «sistema» e non un semplice «aggregato» di individui (per riprendere ancora i termini della polemica con Herder) (204). Spiega che solo adottando questa prospettiva è possibile considerare gli uomini universi, quali componenti di un unico soggetto, e non come un insieme accidentale singulorum (205): ma questa spiegazione non risolve il problema, in quanto evoca un fine, non dimostra la possibilità (né, tanto meno, la necessità) di raggiungerlo. Lo stesso vale per la chiusa della Idee. Kant scrive che il «punto di vista» adottato è l'unico in grado di informare una «storia universale» coerente con la «prospettiva cosmopolitica»(206): ma se non si assume tale prospettiva perché non si ritiene plausibile una concezione universalistica della storia, cade anche la necessità del «punto di vista» corrispondente. Il discorso sembrerebbe aggirarsi in un circolo, con l'effetto di riabilitare quella posizione relativistica che, come si diceva, Kant considera errata. In realtà, le cose stanno diversamente. Kant pensa che, oltre ad avere valore pratico (ad essere «utile» al perseguimento del fine morale), la concezione cosmopolitica sia anche teoreticamente fondata. E non soltanto ritiene che sussistano prove empiriche dell'unità morale (oltre che fisica)(207) del genere umano (prove della crescente consapevolezza che la specie ha della propria unità essenziale), ma ne adduce almeno una, ai suoi occhi particolarmente significativa. Il riferimento concerne ovviamente le sorprendenti considerazioni che, nella seconda parte del Conflitto delle Facoltà, Kant svolge a proposito delle reazioni dell'opinione pubblica europea al cospetto della rivoluzione francese. Considerazioni sorprendenti in particolare per una ragione. Com'è noto, nella «partecipazione [...] universale» del pubblico al «gioco dei grandi rivolgimenti» e in particolare agli eventi francesi - in una partecipazione che, benché «disinteressata», «rasenta l'entusiasmo» - Kant scorge nientemeno che un avvenimento rivelatore della «tendenza morale della specie umana», una «esperienza» che autorizza la fiducia nel «chiliasmo» in quanto mostra la «disposizione» e «capacità» del genere umano «a essere causa del proprio progresso verso il meglio»(208). Ora, Kant scrive queste pagine tra il 1796 e il '97 (209). Ha cioè dinanzi a sé il quadro completo degli avvenimenti, e sullo sfondo di questo quadro, con tutto il suo carico di drammatica violenza, formula le proprie valutazioni. D'altra parte, sembra difficile sostenere (210) che il giudizio sulle reazioni suscitate da un evento non coinvolga l'evento medesimo. Dunque il Terrore non deturpa la rivoluzione, non ne oscura il valore etico e politico. Questo è un fatto. Comunque se ne interpreti l'atteggiamento complessivo riguardo alle rivoluzioni e in particolare nei confronti degli eventi successivi all'89, appare incontrovertibile che Kant non considera la violenza rivoluzionaria di per sé immorale e non la ritiene capace di delegittimare l'aspirazione di un popolo a «non essere ostacolato da altre potenze nella sua volontà di darsi la costituzione civile che esso giudica buona»(211).
Ma torniamo al nostro ragionamento. Ciò che agli occhi di Kant l'entusiasmo «universale» per gli eventi d'oltrereno dimostra è la realtà del genere umano quale soggetto di storia ormai (sempre di piú) consapevole della propria unità. La partecipazione spassionatamente appassionata degli «spettatori» della rivoluzione, quel loro «simpatizzare» che può sorgere solo dall'interesse della ragione per il concreto affermarsi del diritto e della virtú, non costituisce soltanto il segno di una «disposizione morale»(212). È altresí la testimonianza della crescente consapevolezza del genere umano di costituire una totalità, ed è anche, a maggior ragione, la prova empirica dell'esistenza di quest'ultima: è la manifestazione di un «dovere» che il «pubblico» riconosce nei riguardi della «specie umana come intero» (diversamente non si spiegherebbe una «partecipazione tanto universale e disinteressata»)(213) e il riconoscimento del quale di tale «intero» attesta l'esistenza. Nell'adesione agli eventi rivoluzionari parla direttamente l'«interesse dell'umanità», che si riconosce solidalmente coinvolta in «quell'avvenimento»(214). Di qui la fondatezza del «punto di vista» universalistico e la necessità di assumerlo a «filo conduttore» di una ricostruzione all'altezza dell'andamento reale dello sviluppo storico; di qui la possibilità e il bisogno di concepire la vicenda umana nei termini di una «storia universale»; e di qui anche la plausibilità e l'esigenza di una idea della realtà come incarnazione della prassi umana complessiva: come oggettivazione dell'attività di una specie sempre piú consapevole della propria unità e della propria funzione di unico soggetto di storia.
Sembra difficile sopravvalutare la grandezza di queste pagine. Còmpito della filosofia non è inventare la realtà ma comprenderla: intenderne il significato riposto, celato dalla superficie degli eventi. Kant questo fa, nel momento in cui legge sullo sfondo del processo di formazione dell'unità consapevole del genere umano un avvenimento che altri (da altri «punti di vista») avrebbero potuto ricondurre a una moda culturale o ridurre ad episodio di cronaca politica. Per ciò stesso còmpito della filosofia è anche formulare prognosi razionali (non semplici profezie) sulla storia a venire. Gli eventi rimandano allo svolgersi di processi governati da leggi nelle quali si riflette la razionalità del genere umano: sono, di tali processi, la manifestazione epidermica. Comprenderne la logica consente dunque di formulare «predizioni filosofiche» alla luce della «tendenza del genere umano» colta «in base ai segni e ai presagi dei giorni nostri»(215). Kant fa anche questo («a dispetto degli increduli», primo fra tutti, forse, quel Friedrich Schlegel che aveva lamentato la mancanza, nella Pace perpetua, di chiari indizi del progresso interiore dell'umanità)(216), decifrando nel disinteressato interesse dell'opinione pubblica europea per la rivoluzione francese gli indizi premonitori del diffondersi della «costituzione repubblicana»(217). E còmpito della filosofia è, ancora, agevolare il riconoscimento pubblico dell'interesse della ragione e cosí favorirne l'affermazione. Cercando di sottrarre il lavoro teorico alla sua tradizionale astrattezza, Kant si assume dichiaratamente questo ulteriore còmpito, quello del prophète philosophe che mette la propria intelligenza teorica al servizio del movimento storico nella speranza di accelerarne il ritmo. La filosofia deve tentare di contribuire a che le leggi della ragione pratica trovino «accesso nell'animo umano» ed esercitino una concreta «influenza sulle sue massime»(218). Anche per questo Kant ritiene giusto narrare una «storia filosofica» nella quale il genere umano si muove verso la costruzione di una «perfetta unione civile»(219): questo racconto «può accelerare» il conseguimento del fine e rendere anche praticamente «utile» il lavoro teorico (220).
Tutto ciò - è lo stesso Kant a sottolinearlo - costituisce il risultato dell'adozione del «punto di vista cosmopolitico» (221). Ai suoi stessi occhi la capacità di cogliere il senso degli avvenimenti e di antivederne gli sviluppi è frutto della sola prospettiva che gli pare adeguata alla comprensione della storia, quella universalistica, il cui diffondersi è responsabile, nella Germania dell'ultimo trentennio del Settecento, di un mutamento lessicale (e concettuale) molto significativo, del quale non per caso si ha traccia già nel testo della Idee (222): la «contaminazione» tra i concetti di Historie e Geschichte e la sempre piú decisa prevalenza di quest'ultimo, segno dell'affermarsi di una concezione sistematica della storia quale «connessione razionale» degli eventi (223). L'ottica universalistica, weltgeschichtlich, permette a Kant di cogliere rapidamente e con sensibilità quasi profetica il significato essenziale delle tendenze in atto. Se ne ha un'ulteriore dimostrazione proprio nelle pagine della Pace perpetua, dove egli presenta come un dato di fatto acquisito quella interdipendenza universale che appena oggi, e con lo stupore degli uomini nuovi, noi riconosciamo. «Con l'ormai ovunque prevalente (piú o meno stretta) comunanza tra i popoli della Terra si è arrivati al punto che la violazione di un diritto in un punto del globo viene avvertita in tutti»(224). Di nuovo la concezione universalistica della storia consente di spezzare la catena del tempo e di riferirsi all'avvenire come a un presente, intuendo la «storia futura del genere umano»(225). La logica è ancora una volta quella che ha permesso di pensare la vicenda umana come lavoro della razionalità (un tema che vedremo centrale in Hegel) e di scoprire le tracce di questa fatica nella realtà delle cose. È questa la prospettiva che consente a Kant di concepire per la prima volta la pace come un concreto obiettivo politico. La pace è possibile perché, costringendo al rispetto reciproco, l'egoismo diviene costruttore di comunità sempre piú vaste e persino maestro di virtú: perché (finché), da cieco "meccanismo", la natura diviene, col tempo, ragione, luogo dell'autoriconoscimento della specie come totalità.
* Il presente saggio costituisce il primo capitolo del volume Strutture e catastrofi. Kant Hegel Marx di imminente pubblicazione presso gli Editori Riuniti (Roma 2000, pp. 21-75, 237-46); una prima versione del testo è apparsa (con il titolo «Natura», ragione e tempi della storia in Kant) nel volume Un «progetto filosofico» della modernità. Per la pace perpetua di Immanuel Kant, a cura di Lorenzo Bianchi e Alberto Postigliola, Liguori, Napoli 2000, pp. 173-231.
(1) Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre (1797), in Kants gesammelte Schriften. Herausgegeben von der Königlich Preußischen [poi Deutschen] Akademie der Wissenschaften (KGS), 29 voll. (in 35), Berlin (poi Berlin-Leipzig), Reiner (poi de Gruyter), 1910-83, vol. VI, p. 350.
(2) Cfr. nell'ordine: Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), in KGS, vol. VIII , p. 18; Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf (1795), ivi, p. 362; Von der verschiedenen Racen der Menschen (1777), in KGS, vol. II , p. 434; Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 29; Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte (1786), in KGS, vol. VIII, p. 114; ivi, p. 117n.; Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 27; ivi, p. 25; Zum ewigen Frieden, cit., p. 365; Der Streit der Facultäten (1798), in KGS, vol. VII , p. 89; Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 115; Zum ewigen Frieden, cit., p. 360; Von der verschiedenen Racen der Menschen, cit., p. 431; Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis (1793), in KGS, vol. VIII, p. 313.
(3) Zum ewigen Frieden, cit., p. 363.
(4) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., pp. 111-12.
(5) Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 25.
(6) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 118n.
(7) Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., p. 312.
(8) Zum ewigen Frieden, cit., p. 363.
(9) Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 20. Su questi temi cfr. P. Salvucci, L'uomo di Kant, Urbino, Argalía, 1975, pp. 438 sgg.; P. Vincieri, Natura umana e dominio. Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Ravenna, Longo, 19872, pp. 172 sgg.; piú in generale sulla riflessione antropologica kantiana, P. Manganaro, L'antropologia di Kant, Napoli, Guida, 1983.
(10) Ivi, p. 21; per il riferimento a Montesquieu, cfr. Esprit des Lois, III.VII («l'onore fa muovere tutte le parti del corpo politico; le connette tra loro in forza della propria azione; e càpita allora che ciascuno si muova in direzione del bene comune ritenendo di favorire i propri interessi particolari»); sul tema L. Althusser, Montesquieu. La politique et l'histoire (1959), trad. it. (di A. Burgio), Montesquieu, la politica e la storia, a cura di A. Burgio, Roma, manifestolibri, 1995, pp. 109 sgg.
(11) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 114.
(12) Zum ewigen Frieden, cit., p. 366.
(13) Ivi, p. 368; per il riferimento a Hume, cfr. A Treatise of Human Nature: being an Attempt to introduce the Experimental Method of reasoning into Moral Subjects (1739), a cura di T.H. Green e T.H. Grose, 2 voll., London, Longmans, Green, and Co., 1886, vol. II, p. 265 (III.II.2; cfr. III.II. 6 e 8). Vale la pena di sottolineare al riguardo come anche Hegel focalizzi il problema dell'eterogenesi dei fini in riferimento alla struttura dialettica dell'interesse (per sé soltanto egoistico, in sé anche generale), tema centrale dell'analisi della «società civile» nella Filosofia del diritto (cfr. in part. i §§ 182, 186-87, 189); l'osservazione torna nell'«Introduzione» alle lezioni sulla filosofia della storia, dove Hegel índica nella «smisurata massa di voleri, interessi, attività» particolari «gli strumenti e i mezzi di cui lo spirito del mondo si serve per attuare il proprio scopo», che si viene dunque realizzando attraverso l'azione di individui «inconsapevoli» del fine da essi oggettivamente perseguito (Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte (1822-31), I (Die Vernunft in der Geschichte), a cura di J. Hoffmeister (1955), Hamburg, Meiner, 1994 [sesta ed.], p. 87); un ragionamento analogo è dato rintracciare nel primo Marx, del quale si veda in proposito Das Elend der Philosophie (1847), in K. Marx - F. Engels, Werke (MEW), 43 voll., Berlin, Dietz, 1956-90, vol. IV, pp. 161-62. Cfr. in merito A.O. Hirschman, The Passions and the Interests. Political Arguments for Capitalism before its Triumph, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1977; Id., Interests, in J. Eatwell - M. Milgate - P. Newan (a cura di), The Invisible Hand, «The New Palgrave», New York - London, Norton, 1989, pp. 156-67; A. Burgio, Eguaglianza Interesse Unanimità. La politica di Rousseau, Napoli, Bibliopolis, 1989, pp. 394 sgg.; M. Geuna - M.L. Pesante (a cura di), Passioni, interessi, convenzioni. Discussioni settecentesche su virtú e civiltà, Milano, Franco Angeli, 1992.
(14) Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 17.
(15) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 120.
(16) Zum ewigen Frieden, cit., p. 366.
(17) Kritik der Urtheilskraft (1790), in KGS, vol. V, p. 433 (§ 83).
(18) Zum ewigen Frieden, cit., p. 366.
(19) Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 21.
(20) Kritik der Urtheilskraft, cit., pp. 433-34 (§ 83).
(21) Zum ewigen Frieden, cit., pp. 365-66.
(22) Cosí K.-O. Apel, Kants «Philosophischer Entwurf: Zum ewigen Frieden» als geschichtsphilosophische Quasi-Prognose aus moralischer Pflicht, in R. Merkel - R. Wittmann (a cura di), «Zum ewigen Frieden». Grundlagen, Aktualität und Aussichten einer Idee von Immanuel Kant, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1996, p. 98; sul tema del kantiano «sdoppiamento del mondo» resta fondamentale É. Weil, Sens et fait, in Id., Problèmes kantiens, Paris, Vrin, 19702.
(23) Zum ewigen Frieden, cit., p. 378.
( 24) Su questo nesso svolge considerazioni interessanti N. Pirillo, L'uomo di mondo fra morale e ceto. Kant e le trasformazioni del Moderno, Bologna, il Mulino, 1987, del quale si vedano in particolare, a questo proposito, i capp. I e VI; cfr. J. Habermas, Publizität als Prinzip der Vermittlung von Politik und Moral (Kant), in Z. Batscha (a cura di), Materialien zu Kants Rechtsphilosophie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1976, pp. 175 sgg.; ma su tutta la questione del rapporto moralità-legalità cfr. ora quanto scrive S. Landucci, Sull'etica di Kant, Milano, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - Guerini, 1994 (in part. al cap. IV).
(25) Cfr. Über ein vermeintes Recht aus Menschenliebe zu lügen (1797), in KGS, vol. VIII, p. 427.
(26) Cfr. P. Guyer, Nature, Morality and the Possibility of Peace, in H. Robinson (a cura di), Proceedings of the Eighth International Kant Congress (Memphis 1995), vol. I.1, Milwaukee, Marquette University Press, 1995; contra: G. Geismann, World Peace: Rational Idea and Reality. On the Principles of Kant's Political Philosophy, in H. Oberer (a cura di), Kant. Analysen - Probleme - Kritik, vol. II, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1996, pp. 309 sgg.
(27) Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 432 (§ 83).
(28) Cfr. Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? (1784), in KGS, vol. VIII, p. 40.
(29) Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 433 (§ 83).
(30) R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten (1979), trad. it. (di A. Marietti Solmi), Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti, 1986, pp. 47-48, 113.
(31) Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 23.
(32) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 116n.; sull'antropologia filosofica sottesa al paradigma del «realismo politico» classico, cfr. P.P. Portinaro, Il realismo politico, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 69, 72 sgg.
(33) Zum ewigen Frieden, cit., pp. 386, 379-80.
(34) Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 23.
(35) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 118n.
(36) Cfr. Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 23; Zum ewigen Frieden, cit., p. 366.
(37) Idee zu einer allgemeinen Geschichte, cit., p. 17.
(38) Über den Gemeinspruch, cit., p. 310.
(39) Zum ewigen Frieden, cit., pp. 355, 375-76.
(40) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 17; Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 115.
(41)Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 24.
(42) Zum ewigen Frieden, cit., p. 380.
(43) Cfr. R. Koselleck, Vergangene Zukunft, trad. it. cit., p. 314.
(44) Cfr. Über den Gemeinspruch, cit., pp. 305-6; Zum ewigen Frieden, cit., p. 373n.
(45) Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, cit., p. 37.
(46) Ivi, p. 40.
(47) Ivi, p. 36.
(48) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 22.
(49) Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, cit., p. 41.
(50) Ibidem.
(51) Sul rapporto tra idea repubblicana e realtà storica in Kant, cfr. K. Herb - B. Ludwig, Kants kritisches Staatsrecht, in «Jahrbuch für Ethik und Recht/Annual Review of Law and Ethics», 2 (1994); H. Dreier, Demokratische Repräsentation und vernünftiger Allgemeinwille, in «Archiv des öffentlichen Rechts», 113 (1988).
(52) Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., pp. 340-41.
(53) Ivi, p. 340.
(54) Der Streit der Facultäten, cit., p. 91.
(55) Ibidem.
(56) Zum ewigen Frieden, cit., p. 372.
(57) Cfr. Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 120.
(58) Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., p. 313.
(59) Cfr. Über den Gemeinspruch, cit., pp. 297 sgg.; Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., pp. 318 sgg.
(60) Cfr. Über den Gemeinspruch, cit., p. 299; Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., p. 318.
(61) Cfr. Über den Gemeinspruch, cit., pp. 299-300; Zum ewigen Frieden, cit., pp. 382-83.
(62) Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., pp. 340-41.
(63) Cfr. Zum ewigen Frieden, cit., p. 365.
(64) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 27.
(65) Cfr. Zum ewigen Frieden, cit., pp. 344, 351.
(66) Cfr. ivi, pp. 351, 356; Der Streit der Facultäten, cit., pp. 85-86, 91.
(67) R. Brandt, Historisch-kritische Beobachtungen zu Kants Friedensschrift, in R. Merkel - R. Wittmann (a cura di), «Zum ewigen Frieden». Grundlagen, Aktualität und Aussichten, cit., p. 55.
(68) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 24.
(69) Zum ewigen Frieden, cit., p. 367.
(70) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 27.
(71) Ivi, p. 24.
(72) Ibidem.
(73) Ivi, p. 28.
(74) Zum ewigen Frieden, cit., pp. 363, 365.
(75) Ivi, p. 368.
(76) Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 433 (§ 83).
(77) Zum ewigen Frieden, cit., pp. 365, 378.
(78) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 116.
(79) Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 431 (§ 83).
(80) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 115.
(81) Ibidem.
(82) Ivi, pp. 111-14.
(83) Ivi, pp. 118-20; Zum ewigen Frieden, cit., pp. 363-64.
(84) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 30; Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., p. 312.
(85) Cfr. R. Koselleck, Die Herausbildung des modernen Geschichtsbegriffs, s.v. Geschichte, in O. Brunner - W. Conze - R. Koselleck (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politischen und sozialen Sprache in Deutschland, 8 voll. (in 9), Stuttgart, Klett-Cotta, 1972-97, vol. II, pp. 647 sgg.; Id., Vergangene Zukunft, trad. it. cit., pp. 38, 53, 227, 300-3, passim; su Kant, in part. pp. 47, 121, 229, 277.
(86) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 30.
(87) Kritik der reinen Vernunft. 2. Auflage (1787), in KGS, vol. III, pp. 126-27
(88) Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels (1755), in KGS, vol. I, p. 314.
(89) Cfr. F. Kaulbach, Welchen Nutzen gibt Kant der Geschichtsphilosophie?, in «Kant-Studien», LXVI (1975) 1, pp. 71 sgg.
(90) Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 430 (§ 83).
(91) Zum ewigen Frieden, cit., pp. 362, 365.
(92) Ivi, p. 364.
(93) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 115.
(94) Von der verschiedenen Racen der Menschen, cit., pp. 435, 434.
(95) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 116.
(96) Cfr. C. De Pascale, Natura umana, antropologia e criticismo in Kant, in «Filosofia politica», IV (1990) 2, pp. 287-88.
(97) Y. Yovel, Kant and the Philosophy of History, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1980, pp. 175, 194-96.
(98) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 114.
(99) Zum ewigen Frieden, cit., pp. 365-66.
(100) Ivi, p. 367.
(101) Ivi, p. 368.
(102) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 29.
(103) Ivi, p. 27.
(104) Zum ewigen Frieden, cit., p. 360.
(105) Ivi, p. 362 («hinzufügen»).
(106) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 17.
(107) Ivi, p.18
(108) Ibidem.
(109) Ivi, p. 30.
(110) Ivi, p. 29.
(111) Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., p. 352.
(112) Zum ewigen Frieden, cit., p. 363.
(113) Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., p. 350.
(114) Zum ewigen Frieden, cit., p. 367.
(115) Cfr. ivi, pp. 367-68.
(116) Ivi, p. 360.
(117) J. Habermas, Kants Idee des ewigen Friedens. Aus dem historischen Abstand von 200 Jahren (1995), trad. it. (di L. Ceppa), L'idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo, in Id., L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 183; sul tema cfr. P. Laberge, Von der Garantie des ewigen Friedens, in I. Kant, Zum ewigen Frieden, a cura di O. Höffe, Berlin, Akademie Verlag, 1995, pp. 152 sgg.
(118) dee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 25.
(119) Von der verschiedenen Racen der Menschen, cit., p. 431.
(120) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 21.
(121) Zum ewigen Frieden, cit., p. 367.
(122) Ivi, p. 373n.
(123) Cosí V. Gerhardt, Immanuel Kants Entwurf «Zum ewigen Frieden». Eine Theorie der Politik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1995, pp. 113, 118.
(124) Über den Gemeinspruch, cit., p. 310.
(125) Zum ewigen Frieden, cit., pp. 364, 367.
(126) Über den Gemeinspruch, cit., p. 313.
(127) Zum ewigen Frieden, cit., p. 365.
(128) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 25.
(129) Zum ewigen Frieden, cit., p. 362.
(130) Über den Gemeinspruch, cit., p. 312.
(131) G. Cavallar, Pax kantiana. Systematisch-historische Untersuchung des Entwurfs «Zum ewigen Frieden» (1795) von Immanuel Kant, Wien-Köln-Weimar, Böhlau, 1992, pp. 282-84.
(132) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 19.
(133) Ivi, p. 20.
(134) Ibidem.
(135) Discours sur l'origine et les fondemens de l'inégalité parmi les hommes (1755), in J.-J. Rousseau, uvres complètes, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond, 5 voll., Paris, Gallimard, 1959-95, vol. III, p. 144.
(136) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., pp. 118n., 110.
(137) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 22.
(138) Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, cit., p. 35.
(139) R. Brandt, Historisch-kritische Beobachtungen, cit., p. 48; J.-M. Muglioni, La philosophie de l'histoire de Kant. Qu'est-ce que l'homme?, Paris, Puf, 1993, p. 57.
(140) G. Cavallar, Pax kantiana, cit., pp. 318-19; sul tema, P.-F. Dietrich,Kants Friedensphilosophie im Spannungsfeld von Vernunft und Glauben, in A. Buchholz (a cura di), Kant und der Frieden in Europa. Ansätze zur geistigen Grundlegung künftiger Ost-West-Beziehungen. Bericht über eine Tagung der Ostsee-Akademie, Baden-Baden, Nomos, 1992, pp. 190-1.
(141) Vede bene questo movimento (dove la storia è la «continuazione della natura con altri mezzi») R. Denker, Kants Theorie des dreifachen Weges zum Weltfrieden - oder: Die Absichten der Natur in der Geschichte, in E. Gerresheim (a cura di), Immanuel Kant 1724/1974. Kant als politischer Denker, Bonn-Bad Godesberg, Inter Nationes, 1974, pp. 8-9.
(142) R. Koselleck, Vergangene Zukunft, trad. it. cit., p. 229.
(143) R. Brandt, Historisch-kritische Beobachtungen, cit., p. 46n.
(144) Über den Gemeinspruch, cit., p. 312.
(145) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 111.
(146) Ivi, p. 115.
(147) Zum ewigen Frieden, cit., pp. 366-67.
(148) Ivi, p. 372.
(149) Ivi, pp. 361-62.
(150) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 30.
(151) Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, cit., p. 328.
(152) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., pp. 115, 112.
(153) Ivi, pp. 121,118n.
(154) Cfr. R. Koselleck, Vergangene Zukunft, trad. it. cit., p. 233; sulla dimensione pratico-politica e progettuale dei concetti fondamentali della filosofia kantiana della storia («repubblicanesimo» e «pace perpetua» in primis), ivi, pp. 292, 319-20.
(155) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 24.
(156) Ivi, p. 17.
(157) Cfr. A.C. Danto, Analytical Philosophy of History (1965), trad. it. (di P.A. Rovatti), Filosofia analitica della storia, Bologna, il Mulino, 1971, p. 11; da Popper Apel riprende (pp. 95, 110) l'attacco portato alle pretese «profetiche» dello «storicismo» nella Miseria dello storicismo e ne La società aperta e i suoi nemici; il riferimento a Lamprecht e ad Adler concerne ovviamente i saggi Herder und Kant als Theoretiker der Geschichtswissenschaft e Kant und der Sozialismus, rispettivamente del 1897 e del 1904.
(158) K.-O. Apel, Kants «Philosophischer Entwurf: Zum ewigen Frieden» als geschichtsphilosophische Quasi-Prognose, cit., pp. 93, 108.
(159) Ivi, p. 111.
(160) Zum ewigen Frieden, cit., p. 365, c.m.
(161)P. Kleingeld, Fortschritt und Vernunft. Zur Geschichtsphilosophie Kants, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1995, p. 64; ma già É. Weil, Histoire et politique, in Id., Problèmes kantiens, cit., pp. 131-32. Sul tema, H. Timm, Wer garantiert den Frieden? Über Kants Schrift «Zum ewigen Frieden», in G. Picht - H.E. Tödt (a cura di), Studien zur Friedensforschung, vol. I, Stuttgart , Klett, 1969, in part. pp. 225-33.
(162) Cfr. Kants «Philosophischer Entwurf: Zum ewigen Frieden» als geschichtsphilosophische Quasi-Prognose, cit., p. 95; commentando un passaggio della terza tesi della Idee [Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 20], Apel sottolinea quindi che per Kant «la realizzazione di un ordinamento cosmopolitico legale e pacifico» non può essere frutto «soltanto di un meccanismo causale del tutto indipendente dall'uomo, di un "disegno della natura" che lo governa» dall'alto, in quanto un tale «disegno» deve «essere portato a compimento dall'uomo stesso, quale disegno della ragione» (p. 103).
(163) Der Streit der Facultäten, cit., pp. 80, 83.
(164) Ivi, p. 84.
(165) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 17.
(166) F. Kaulbach, Welchen Nutzen gibt Kant der Geschichtsphilosophie?, cit., pp. 66-67, 84; A. Philonenko, La théorie kantienne de l'histoire, Paris, Vrin, 1986, pp. 28-29.
(167) Der Streit der Facultäten, cit., p. 84.
(168) Ivi, p. 93.
(169) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 23.
(170) Zum ewigen Frieden, cit., p. 360.
(171) Ivi, p. 363.
(172) Der Streit der Facultäten, cit., p. 213.
(173) Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 430 (§ 83).
(174) Ivi, p. 314 (§ 49); per il riferimento a Pascal, cfr. Pensées (ed. Chevalier), 120 («J'ai grand peur que cette nature ne soit elle-même qu'une première coutume, comme la coutume est une seconde nature»).
(175) Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, cit., p. 36.
(176) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., pp. 117-18.
(177) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 23.
(178) Zum ewigen Frieden, cit., p. 386.
(179) J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-91), in Id., Sämtliche Werke, a cura di B. Suphan, 33 voll., Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1877-1913 (ristampa anastatica, Hildesheim-Zürich-New York, Olms, 1994), vol. XIV, p. 208.
(180) Recensionen von J.G. Herders Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1785), in KGS, vol. VIII, p. 65.
(181) Die Metaphysik der Sitten. I. Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, cit., p. 350.
(182) Zum ewigen Frieden, cit., p. 371.
(183) Ivi, p. 378.
(184) Ivi, p. 371.
(185) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 22.
(186) Ivi, p. 18.
(187) Ivi, p. 17.
(188) Ibidem.
(189) Ivi, p. 18.
(190) Ibidem.
(191) Recensionen von J.G. Herders Ideen, cit., p. 65.
(192) Cfr. Ideen zur Philosophie der Geschichte, VIII.5, in J.G. Herder, Sämtliche Werke, cit., vol. XIII, pp. 338-39.
(193) Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 115.
(194) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 30.
(195) Ibidem.
(196) Der Streit der Facultäten, cit., p. 83.
(197) M. Weber, Die "Objektivität" sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis (1904), in Id., Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre (1922), quarta edizione riveduta, a cura di J. Winckelmann, Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1973, p. 181; sul «decisionismo dei fini» quale matrice irrazionalistica della teoria weberiana della scienza insiste T.W. Adorno, del quale cfr. Zur Logik der Sozialwissenschaften (1961), trad. it., Sulla logica delle scienze sociali, in H. Maus - F. Fürstenberg (a cura di), Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie (1969), trad. it. (di A. Marietti Solmi), Dialettica e positivismo in sociologia, Torino, Einaudi, 19722, p. 138; dello stesso Adorno si veda in proposito anche l'Introduzione al medesimo volume, alla p. 38; cfr. ancora C. Luporini, Marxismo e scienze umane (1965), in Id., Dialettica e materialismo, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 365.
(198) K.R. Popper, The Poverty of Historicism (1957), London, Routledge & Kegan Paul, 19613, pp. 150-52; Id., The Open Society and its Enemies (1945), 2 voll., London, Routledge & Kegan Paul, 19624 , vol. II, p. 364n.; sottolinea la valenza relativistica della posizione popperiana, che a sua volta sottoscrive, H. Albert, Der Mythos der totalen Vernunft. Dialektische Ansprüche im Lichte undialektischer Kritik (1964), trad. it., Il mito della ragione totale. Pretese dialettiche alla luce di una critica adialettica, in H. Maus - F. Fürstenberg (a cura di), Dialettica e positivismo in sociologia, cit., pp. 206 sgg.
(199) M. Weber, Die "Objektivität" sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, cit., p. 172.
(200) Von der verschiedenen Racen der Menschen, cit., p. 440.
(201) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 30; Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, cit., p. 110.
(202) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 31.
(203) L.B. Namier, History and Historiography (1952), trad. it. (di R. Gay Cialfi), Storia e storiografia, in Id., La rivoluzione degli intellettuali e altri saggi sull'Ottocento europeo, Torino, Einaudi, 1957, p. 281; una impostazione analoga al tema dell'influenza del «punto di vista» sul resoconto storico dà W.J. Mommsen, Social Conditioning and Social Relevance of Historical Judgments, trad. ingl. (di R. e R. Kimber), in «History and Theory. Studies in the Philosophy of History», XVII (1978) 4, Beiheft 17 (Historical Consciousness and Political Action); cfr. al riguardo A. Burgio, Geschichtswissenschaft oder Geschichtsphilosophie? , in D. Losurdo (a cura di), Geschichtsphilosophie und Ethik, Frankfurt a.M.-Bern-New York-Paris, Peter Lang, 1998 («Annalen der Internationalen Gesellschaft für dialektische Philosophie - Societas Hegeliana», X), pp. 511 sgg.
(204) Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, cit., p. 328.
(205) Der Streit der Facultäten, cit., p. 87.
(206) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 31.
(207) Von der verschiedenen Racen der Menschen, cit., p. 429-30; Bestimmung des Begriffs einer Menschenrace (1785), in KGS, vol. VIII, pp. 98-99.
(208) Der Streit der Facultäten, cit., pp. 85, 84, 81.
(209) Cfr. G. Landolfi Petrone, L'ancella della ragione. Le origini di Der Streit der Fakultäten di Kant, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - La Città del Sole, 1997, pp. 193 sgg.
(210) Come pure, in questo caso, si è sovente fatto: cfr., da ultimo, P.P. Nicholson, Kant, Revolutions and History, in H. Williams (a cura di), Essays on Kant's Political Philosophy, Cardiff, University of Wales Press, 1992, pp. 262-63.
(211) Der Streit der Facultäten, cit., p. 85.
(212) Ivi, pp. 87, 85.
(213) Ivi, p. 87.
(214) Ivi, p. 88.
(215) Ivi, pp. 88, 84.
(216) Cfr. R. Brandt, Historisch-kritische Beobachtungen, cit., p. 56.
(217) Der Streit der Facultäten, cit., p. 88.
(218) Kritik der praktischen Vernunft (1788), in KGS, vol. V, p. 151.
(219) Idee zu einer allgemeinen Geschichte cit., p. 29
(220) Ivi, pp. 27, 29.
(221) vi, p. 15.
(222) Ivi, p. 30.
(223) Cfr. R. Koselleck, Vergangene Zukunft, trad. it. cit., pp. 38 sgg., 121, 225 sgg.; Id., Die Herausbildung des modernen Geschichtsbegriffs, cit., pp. 653 sgg.; B. Binoche, Les trois sources des philosophies de l'histoire (1764-1798), Paris, Puf, 1994, pp. 163 sgg.; sul contesto culturale di sfondo resta fondamentale L. Marino, I maestri della Germania. Göttingen 1770-1820, Torino, Einaudi, 1975 (ed. tedesca parzialmente aggiornata: Præceptores Germaniæ. Göttingen 1770-1820, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1995), parte terza.
(224) Zum ewigen Frieden, cit., p. 360.
(225) Worin besteht der Fortschritt zum Besseren im Menschengeschlechte? (Vorarbeiten zum Streit der Fakultäten [Vorarbeiten zum zweiten Abschnitt]), in KGS, vol. XXIII, p. 458.