Un comparatista: Juan Andrés

Franco Arato

1. Un secolo dopo il viaggio italiano di Mabillon, che aveva contribuito in maniera decisiva a risvegliare il mondo dei nostri studi, l'abate Juan Andrés, gesuita espulso dalla Spagna di Carlo III nel 1767 e come molti suoi confratelli emigrato in Italia, condusse lunghe peregrinazioni tra libri e carte d'archivio che lo portarono a Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Parma, Firenze, Roma, Napoli e in molti centri minori. Come e più del Mabillon, Andrés non trascurò di descrivere, di là dalle esperienze bibliografiche che erano la sua principale preoccupazione, gli italiani e i loro costumi. Facendo sosta a Napoli («no sabía lo que es una gran ciudad hasta que he visto a Napoli»;) ed entrato nella cattedrale il giorno del miracolo di San Gennaro, raccontò con vivacità al fratello Carlo le sorprendenti abitudini religiose di quel popolo:

Una multitud de viejas y otras gentes del pueblo daban gritos desapacibles, y para mí poco devotos, diciendo Gloria Patri, rogando al Señor, a la Virgen, a San Genaro y a todos los Ángeles del cielo que se hiciera el milagro, y dándoles gracias quando se hizo: algunos circunstantes, por la mayor parte forasteros, se reían de aquella behetría, otros más prudentes miraban con curiositad, como si observaran alguna experiencia química extraordinaria, y en ninguno se veía aquella admiración respetuosa y devota, que parece debería ser el efecto de un milagro: yo mismo por más que procuré mover en mí estos afectos, no los pude sentir en mi corazón; la gritería, la libertad de los circunstantes, la condescendencia del sacerdote, y generalmente la poca formalidad de la operación de aquel milagro enfrían la devoción, no solo de los que acuden por mera curiosidad, como comunmente sucede, sino aún la del que vá con la debida disposición interior(1).

La pagina rende al meglio lo spirito di Andrés, letterato e uomo di fede educato nel secolo dei lumi, curioso e rispettoso dell'indole altrui (proprio a Napoli gli capiterà di vivere nei suoi anni estremi), ma non sino al punto di abdicare al buon senso: di fronte a quella «behetría»;, a quel bailamme, si insinua nel gesuita il dubbio che il preteso miracolo (quella «experiencia química extraordinaria»;) dovrebbe lasciar freddo il vero devoto. Juan Andrés, che italianizzò il suo nome di battesimo in Giovanni, era approdato nell'ottobre del 1768 a Genova, alla fine di un lungo e periglioso viaggio (particolarmente duri erano stati i mesi passati in semiprigionia a Bonifacio, in Corsica). Dopo un soggiorno di cinque anni a Ferrara, s'era conquistato solida fama di insegnante e di letterato durante la lunga permanenza a Mantova (1774 - 1797): «Nadie sale de Mantua - scrisse il Moratín - sin haber visto al abate Andrés»;(2). Come molti gesuiti del suo tempo, coltivò, oltre alla letteratura, le scienze fisiche: nel 1774 partecipò con una tesi di idrodinamica a un concorso bandito dalla mantovana Accademia di scienze e belle lettere, ottenendo il secondo premio e una lunga, attenta recensione di un idraulico di professione, Giambattista Venturi(3). Nel 1776 diede alle stampe un saggio su Galileo che, se privilegiava i problemi scientifici, si allargava ad analizzare la figura del grande pisano all'interno delle drammatiche vicende del suo tempo(4): inevitabile il confronto con lo scritto di Paolo Frisi, anticipato nel 1765 sulle pagine del «Caffè»; e poi ampliato in forma di libro pochi mesi prima del lavoro di Andrés (5). Opera di eloquenza e di (cauta) polemica, prima ancora che di storia, l'Elogio di Frisi aveva fatto della figura galileiana una bandiera della moderna tradizione italiana in lotta con l'oscurantismo (6). Da parte sua Andrés spiegò preliminarmente (in controcanto rispetto al pur apprezzato Frisi) di non aver voluto scrivere un «elogio»; ma una «semplice sposizione dei meriti filosofici»; di Galileo (7); non mancò, come Frisi, di mostrare stupore per la dimenticanza, in Inghilterra e in Francia, del prótos euretés del metodo scientifico, considerato incomparabilmente superiore a Bacone: «Il vero metodo di filosofare è quello che impiegò il Galileo: disaminare i fatti particolari e non formare sistemi generali [...]. Questi sono i meriti che elevato hanno nel nostro secolo il gran Neuton ad una specie d'apoteosi; e questi pur erano un secolo prima i meriti del Galileo, ch'altro non gli acquistarono nelle scuole filosofiche che persecuzioni, odio, ed obblio»;(8). Newton e Galileo: binomio ben familiare all'illuminismo italiano, con la menzione, non indolore per un gesuita, dell'odio teologico cui Galileo era stato sottoposto. Sul punto del processo lo spagnolo se la cava con abilità: stigmatizza la «terribil sentenza»;, ma si consola argomentando che «il castigo non fu tanto severo come la sentenza»; e sottolineando la fragilità della tattica 'politica' di Galileo, che invano finse di pubblicare il suo Dialogo per «far vedere agli eretici, che i cattolici, condannando tale sistema, non operavano ciecamente, e senza cognizione delle ragioni dell'una e dell'altra parte»;(9).

2. Con questo scritto storico (e con una breve appendice matematica, egualmente galileiana, pubblicata qualche anno dopo)(10) Andrés fece dunque il suo ingresso nel mondo delle lettere italiane, mostrando d'aver imparato a maneggiare con sufficiente chiarezza, se non proprio con eleganza, la nostra lingua. Nello stesso anno si gettò nell'agone delle polemiche letterarie con un opuscoletto (inviato in forma di lettera al Valenti Gonzaga) sul barocco italiano e spagnolo: questione dibattutissima e, lo abbiamo visto parlando di Tiraboschi, capace di risvegliare i più tenaci orgogli nazionali (11). Andrés, a differenza di molti emigrati spagnoli (in testa a tutti il Lampillas), sceglie di evitare qualunque fanatismo nazionalistico: dichiarata la contemporaneità della barocca licenza in Spagna e in Italia (quasi un'anticipazione della crociana «decadenza che s'abbracciava a una decadenza»;), difende, se non il teatro, almeno la prosa di Góngora e di Lope de Vega («le prose del Vega sono di ottimo gusto, lodate perfino da' signori di Porto Reale»)(12). Riserva poi parole aspre, e a dire il vero un po' convenzionali, alla poesia del Marino: osservando che, oltre tutto, centro del marinismo non fu l'Italia spagnola, ma la città dei papi («né Napoli, né Milano davano alla scuola del Marini quel favore e quella protezione che Roma ed altre città d'Italia sì prodigalmente le dispensaron»)(13). Andrés non vuole entrare in polemica diretta con Tiraboschi («troppo ben fondate - scrive - sono le ragioni che il Sig. abate Tiraboschi adduce di tale corrompimento della stessa indole dell'ingegno umano, perché vi sia bisogno di andare fino alla Spagna in cerca di altre influenze»)(14); tuttavia qualche anno dopo, quando la polemica tra italiani e spagnoli divamperà di nuovo clamorosamente, in un'ironica lettera privata allo storico bergamasco non riuscirà a nascondere un po' del suo disappunto:«Giacché ella ha fatta l'ampia confessione, io le do l'assoluzione, imponendole però la penitenza di resistere a qualunque tentazione di sparlare della Spagna»(15). Tra (moderato) patriottismo e cosmopolitismo si gioca in effetti l'intera carriera di Andrés storico della cultura: il quale al momento di rivendicare il primato della poesia degli arabi di Spagna ritroverà al suo fianco proprio l'abate Tiraboschi.
A testimonianza delle competenze di umanista e di antiquario di Andrés (competenze riconosciute da un uomo come Ennio Quirino Visconti), va annoverata tra le sue cose giovanili una dissertazione sopra un medaglione (forse dell'epoca di Caracalla) presente nel veronese Museo Bianchini e non ben inteso, giudica lo spagnolo, da Scipione Maffei(16): Andrés, utilizzando con competenza le fonti classiche, ritrova in un passo della Bibliotheca historica di Diodoro Siculo la chiave per svelare il senso della figura impressa su quel prezioso reperto numismatico(17). L'articolo pubblicato l'anno dopo intorno alla decadenza delle scienze contemporanee rientra nello stesso spirito neoumanistico(18): Andrés vede infatti nell'orgoglioso rifiuto dei moderni a leggere i testi degli antichi una delle cause dello stentato progresso delle scienze esatte. Se certamente si sbagliava nel considerare l'età sua (che è quella del trionfo delle discipline chimico-fisiche) come minacciata dalla decadenza del sapere, tuttavia costellò lo scritto di preziose osservazioni: quando stigmatizzò il «lusso letterario» che portava gli scienziati a coltivar troppo le belle lettere o (al contrario) a specializzarsi in accanite ricerche prive di applicazioni pratiche; o quando s'interrogò con sottigliezza sul discrimine tra osservazione dei fenomeni naturali e sperimentazione in laboratorio:«Nuoce [...] allo scoprimento del vero il soverchio amore delle sperienze, perché ci avvezza a considerare solamente la Natura quale si vede nelle macchine e negli sperimenti, e l'usarsi a sentire gli accenti, che sforzata e costretta dall'arte rende la Natura, fa che non bene intendasi la nativa e vera sua voce »(19). Riflessioni problematiche che rivelano (di là dalla riproposizione dei termini della 'querelle des anciens et des modernes') uno spirito indipendente, abituato a ragionare senza pregiudizi di scuola.


3. Alla fine degli anni Settanta Andrés comincia a lavorare alla sua grande opera sulla letteratura universale, che lo impegnerà almeno per un ventennio e cui deve la fama: impresa 'temeraria' (come egli stesso riconobbe) e fino ad allora intentata, in Italia o altrove. E' vero che il Quadrio cinquant'anni prima aveva provato a dar fondo, mescolando accertamenti storici e propositi precettistici, alla «storia e ragione d'ogni poesia»; ma Andrés, da vero figlio dell'età enciclopedica (ancorché fedelissimo alla Compagnia, a differenza del confratello Quadrio), ebbe in mente un lavoro di tutt'altro genere, e cioè, come spiega nella prima pagina del libro, «un'opera filosofica, che prendendo di mira tutta la letteratura, i progressi ne descriva criticamente, e lo stato in cui ella oggidì si ritrova, ed alcuni mezzi proponga onde poterla avanzare»(20). Storia dunque teleologica che ha le sue radici, oltre che in Bacone e nell'Encyclopédie, nell'inglese Universal History(21). Il disegno è netto: nel primo tomo (1782), forse il più ricco di idee e suggestioni, è offerto un quadro generale delle letterature in ordine cronologico, dagli autori biblici ai contemporanei, non esclusi i viventi; nel secondo e nel terzo tomo (1785-1787) le stesse vicende, come in una sorta di twice-told tale, vengono riaffrontate più analiticamente per generi, dalla poesia epica alla lirica, al teatro, all'eloquenza, alla storiografia; i tomi quarto e quinto (che escono subito dopo la rivoluzione, tra il 1790 e il 1794) trattano con insolita ampiezza delle scienze matematiche e fisiche, non senza un'appendice, a dire il vero un po' frettolosa, dedicata alla filosofia; nel sesto e nel settimo tomo, pubblicati proprio allo scadere del secolo, l'abate si innalza infine verso gli aridi cieli delle scienze ecclesiastiche (ma avverte: «io credo, che il ridurre ad un aspetto storico e filosofico le vicende dell'ecclesiastiche discipline sia ancor un soggetto affatto nuovo»)(22). Benché il suo intento non sia fornire una trattazione specialistica ma piuttosto un'opera di larga divulgazione (non priva di sottolineature moralistiche), risulta evidente al lettore quanto lavoro erudito stia dietro le pagine dell'Origine: dove non manca qualche audacia interpretativa, là dove si tratta di sovvertire alcuni luoghi comuni storiografici (23).
L'interesse comparatistico, così tipico dello spagnolo, è per certi versi una ripresa di suggestioni presenti già nell'opera di Denina (vale dunque, in via indiretta, ancora il modello dell'Essai sur les moeurs di Voltaire); per altri versi è un'anticipazione degli spunti di storia delle civiltà che si ritroveranno in età romantica negli scritti di madame de Staël, A.W. Schlegel, J.J. Ampère, P.L. Ginguené e Simonde de Sismondi: proprio questi ultimi due studiosi utilizzarono le importanti pagine di Andrés sulla poesia araba e sul fiorire degli studi nella Baghdad del califfato abbasside (24). Voltaire, temuto e ammirato, è pur sempre la presenza più incombente, sia quando lo spagnolo ne imita tacitamente il metodo, sia quando lo cita per lodarlo o per criticarlo: «la penetrante finezza - scrive nel primo tomo -, i piccanti sali, i delicati scherzi, l'amena piacevolezza del Voltaire hanno un nuovo e sconosciuto fascino, capace di sedurre le menti più avvedute»(25). Come resistere a tanta virtù seduttiva? L'abate sembra alla ricerca del contravveleno e si chiede se è possibile combattere il «libertinaggio»; filosofico non annoiando il lettore ma adottando, «senza discapito della religione», « il fino gusto di Voltaire, l'eloquenza di Rousseau, e l'erudizione di Fréret, anziché i mediocri talenti di gran parte de' loro avversarj» (26). Su un punto particolare, vale a dire sul problema dell'antica sapienza indiana, Andrés tenta di correggere il grande filosofo: « il Voltaire e molti altri - scrive - non cessano di portare alle stelle il Benarès di Bengala, l'Atene dell'India, la più antica università di tutto il mondo», ma tale « prodigiosa antichità» secondo lo spagnolo « merita piuttosto le risa de' dotti che non una seria confutazione»(27). Di là dal caso specifico, Andrés distingue la sua erudizione (che per l'Asia s'appoggia quasi sempre sulle relazioni dei missionari della Compagnia di Gesù) dall'informazione, qualche volta non irreprensibile, della storiografia filosofica che proviene dalla Francia. Sono da porre sullo stesso piano le dure critiche alla Histoire de l'astronomie ancienne e alle Lettres sur l'origine des sciences del Bailly, giudicato troppo credulo (ma questo l'aveva ben visto anche Voltaire) nel supporre il primato scientifico, nonché l'esistenza, degli «antichi atlantidi»: «per combinare la cronologia - osserva - troppo arbitrariamente si prendono i periodi, e gli anni si fanno alle volte di quattro mesi, altre volte d'un giorno solo [...]; per sostenere la scienza del popolo sconosciuto qualunque fatto è bastevole, e per appoggiare un fatto è valida la più debole autorità»(28).

4. Questo passo è un buon esempio della tagliente arguzia dello spagnolo, che sa maneggiare perfettamente gli strumenti della nuova critica storica: s'intende che tale ironia s'arresta di fronte alla non discutibile cronologia biblica. In questo caso anche i ragionamenti di Andrés rischiano di essere abbastanza aerei, soprattutto quando egli vuol deprimere proprio l'antichità dei testi sacri indiani: «Il Shastah e tutti i quattro Beths contengono molte sublimi verità unite a favole insulse, ed a non meno assurde proposizioni: ma qualunque siasi il merito di quell'opera, come proveranno mai i suoi ammiratori, non già ch'essa conti cinquanta secoli d'antichità, ma solamente che anteriore sia all'era cristiana, ed alla propagazione del Vangelo in quelle parti?»(29). Ma la più ambiziosa proposta interpretativa riguarda (lo s'è già accennato) la riscoperta del ruolo avuto dalla cultura araba in età medievale: «verità, che sembrerà a molti un ridicolo paradosso - si premura di osservare Andrés -: cioè a dire che la moderna letteratura, non solo nelle scienze, ma eziandio nelle belle lettere riconosce a sua madre l'arabica»(30). Non si trattava soltanto di risalire alla (presunta) origine della poesia rimata, ma di riaprire il problema, certo di gran momento, del debito dell'Occidente cristiano nei confronti del mondo islamico: suggestione ben viva in tutta la cultura illuministica, la cui 'nostalgia d'Oriente' (come è stata definita) si nutriva delle idee di tolleranza e di relativismo culturale. La discussione implicava anche una riforma della periodizzazione storica. Per Andrés (in certo modo precursore delle tesi del Mahomet et Charlemagne di Pirenne) è necessario anticipare la rinascita dell'Occidente cristiano al nono e al decimo secolo, cioè al momento della diffusione, nella parte d'Europa soggetta all'Islam, delle lettere antiche e delle scienze moderne:

Mentre le scuole cristiane si occupavano in apprendere il canto ecclesiastico, in leggere, e in fare conti; mentre da tutta la Francia correvano a Metz e a Soissons portando in volta gli antifonarj per correggerli all'uso romano, gli arabi mandavano ambasciate cercando i buoni libri greci, ed anche i latini, ergevano osservatorj per apparare l'astronomia, facevano viaggi per istruirsi della storia naturale, e fondavano scuole per insegnare tutte le scienze. [...] Se Carlo Magno e i suoi successori in vece di far correggere gli antifonarj, e far apprendere il canto fermo avessero cercato di avere i libri de' greci, di tradurli nel latino idioma, e di rendere comuni le loro dottrine, non sarebbesi veduta l'Europa sepolta nelle folte tenebre dell'ignoranza, che nel secolo decimo sì pienamente la coprirono (31).

Questa messa a fuoco dell'arretratezza dell'Europa carolingia (e più in generale, cristiana) nell'Alto Medioevo rimane un punto fermo delle analisi di Andrés: che, da buon umanista, vede un progresso nel ritorno al passato classico, ma non trascura di menzionare il contributo originale dato dagli arabi alle scienze naturali (e qui l'eroe cristiano della storia è naturalmente re Alfonso el Sabio, difeso con fermezza dalle accuse di irreligiosità). La principale fonte documentaria dell'abate, che non conosceva la lingua araba, è il monumentale repertorio dell'orientalista siriano, naturalizzato spagnolo, Miguel Casiri (32); e poi le opere dei secenteschi J. H. Hottinger ed Edward Pococke (33). Nella sua sintesi Andrés è mosso certamente dall'amor patrio (la Spagna araba si prende la rivincita sulla vituperata Spagna barocca), ma vuol anche rovesciare pregiudizi inveterati nel campo della storia letteraria: «l'Arabia - torna a ripetere -, penisola ingloriosa dell'Asia, l'Arabia paese barbaro, sede dell'ignoranza e della selvatichezza, diede ricovero alle perdute lettere, e di sacro asilo servì alla gentile coltura dall'Europa villanamente scacciata»(34). Il gesuita dà notizia della poesia provenzale e catalana (utilizzando principalmente la Crusca provenzale di Antonio Bastero) e sottolinea, documenti alla mano, come al tempo remoto di Alvaro di Cordoba (IX secolo) «fra mille cristiani se ne trovasse uno appena che una lettera latina sapesse scrivere, mentre v'erano molti, che non solo nella lingua, ma nella poesia arabica eziandio gli stessi arabi superavano»(35); i più sicuri indizi della «cognazione» tra poesia araba e provenzale sono per lui (come già per G.M. Barbieri, L. Zuccolo e, più recentemente, per P. D. Huet) la pratica dei « giullari», le tenzoni accompagnate alla musica e la concezione fortemente idealizzata della servitù d'amore (36). Sul punto particolare dell'invenzione della poesia rimata, Andrés quasi suo malgrado si fece poi coinvolgere, insieme all'amico Tiraboschi, in una dura polemica con il confratello (e compatriota) Esteban Arteaga; cui replicò puntigliosamente, ma non convincentemente, analizzando la cronologia della poesia provenzale e compilando una tavola dei debiti con le forme rimate in lingua araba: «se il timido e freddo poetare dei provenzali - questa una delle sue conclusioni, che è tuttavia una petitio principii - non è analogo all'ardito e fervido degli arabi, ciò non dovrà distruggere l'origine arabica della poesia provenzale»(37). Alle quali parole Arteaga rispose che con la stessa verosimiglianza si poteva dare alla poesia di Provenza «una origine cretico - greco -orcadico - danico - norvego - islandico - scoto - peruviano - chinese»(38). Di là da questi sarcasmi (Arteaga aveva del resto fieramente messo le mani avanti: «la verità è preferibile all'amicizia»), la discussione non era ormai più suscettibile, al declinare del secolo, di ragionevoli sviluppi: toccherà alla filologia novecentesca, a partire dagli studi di Menéndez Pidal sullo zéjel arabo-andaluso, riaprire in modo nuovo l'antica questione.

5. Nel ripercorrere in rapido scorcio l'evoluzione delle letterature romanze Andrés si conforma all'opinione comune classicistica: e argomenta come il «sublime» ma troppo ruvido genio di Dante dovesse di necessità essere ingentilito dal Petrarca, il quale «fissò, per così dire, la poesia italiana»(39), diventando il vero «padre della moderna coltura, l'autore del rinascimento delle sepolte lettere»(40). Tale rivendicazione della grandezza del Petrarca 'filosofo' e umanista non è ovviamente nuova (basti pensare a quanto scrissero Muratori o Bettinelli); nuova è però la sottolineatura polemica contro chi vorrebbe ridurre Petrarca al semplice cantore di Laura: «Né io so intendere come i moderni letterati si contentino di rimirare quel grand'uomo come un autore di canzoni e di sonetti, e non piuttosto lo rispettino come il loro padre ed il vero institutore della moderna letteratura, e nol ripongano nel meritato posto alla fronte de' Galilei, de' Cartesi, de' Newton, de' Bossuet, de' Cornelj, e di tutti i moderni scrittori a cui egli è stato condottiero felice, ed ha appianate le vie del dritto pensare e del buongusto in ogni materia»(41). Andrés non condivide del resto la communis opinio secondo cui la rinascita della nostra cultura sia da associare con l'emigrazione intellettuale in Italia dopo la caduta di Costantinopoli: «I progressi - scrive - che fino dal principio del secolo decimoquarto abbiamo veduto fare le lettere in Italia troppo apertamente ci palesano, che assai prima di tale epoca erano già rinate e cresciute, e che non v'ha ragione di fondare la moderna letteratura su la rovina del greco impero»(42). L'umanesimo fiorentino viene scrutinato con particolare attenzione; in una bella pagina del suo diario italiano lo storico renderà omaggio, entrando nelle stanze della Magliabechiana, a «los Florentinos» che «en los siglos XIV y XV fueron los mayores taumaturgos de la milagrosa resurreción de tantos autores sepultados entre el polvo, y roidos de la polilla»(43). L'alta valutazione dell'età dell'umanesimo, così comune negli storici settecenteschi, è accompagnata da un diverso giudizio (o se si vuole pregiudizio) religioso e morale sul pieno Rinascimento: ad Andrés non piace per esempio la definizione tiraboschiana del Cinquecento come secolo di Leone X, perché nel grande papa Medici scruta «l'avvilimento a cui venne la dignità pontificia», indifferente alle «gravi scienze», e tutta rivolta «alla poesia ed a' piacevoli studi»(44); del resto, da buon chierico, subodora negli scritti di Erasmo e Machiavelli la filosofia «che forse i pensatori del nostro secolo in quelli desiderano del decimosesto»(45). Più coraggiosa la lettura del Seicento italiano, «un secolo veramente d'oro per la Toscana - scrive sulle orme del Targioni Tozzetti degli Aggrandimenti delle scienze fisiche - e generalmente per l'Italia. «Hanno forse recato più onore all'italiana letteratura l'Ariosto ed il Tasso che il Galileo ed il Torricelli?» (46) (ma non è naturalmente convincente nelle stesse pagine l'accostamento dei controriformistici Davila e Bentivogli ai nostri massimi storici cinquecenteschi). Per quanto pertiene alla vexata (ma non sopita) quaestio del barocco, Andrés se la cava in questa sede con una battuta salomonica, buona per gli addetti ai lavori già al corrente della discussione: «Più ragione ha la Spagna di chiamarsi scontenta del secolo decimosesto; perciocché vide introdotta nella sua letteratura la medesima depravazione, che si sentì nell'Italia, e non vi trovò i medesimi compensi»(47).
6. Arrivato col fiato grosso alla fine dell'affresco storico e sinottico che è oggetto del primo volume dell'opera, il letterato valenciano confessa il suo imbarazzo verso la miscredenza del secolo; ma non rinuncia a distribuire carezze e staffilate: saluta la nascita della letteratura moderna nella Russia di Lomonosov (48) e la restaurazione del buon gusto nell'Arcadia italiana (da cui avrebbe tratto beneficio la stessa eloquenza dal pulpito)(49); non può non riconoscere la novità dei romanzi filosofici di Voltaire (50). Si sente tuttavia in dovere di richiamare l'attenzione sui risvolti negativi dell'universale popolarità della lingua francese moderna, vale a dire la «comune ignoranza delle lingue greche e latine» e l'«abbandono dei libri antichi»(51). Il capitolo sedicesimo (conclusivo del primo tomo) riserva qualche sorpresa in più. Andrés esordisce respingendo la cosiddetta 'teoria delle curve' che Tiraboschi aveva mutuato dal matematico Boscovich per spiegare l'andamento discontinuo dei progressi nelle lettere, paragonati alla curva perennemente ascendente delle scienze: per lo spagnolo è «vana» sia nelle belle lettere, sia nelle scienze la «predizione che minaccia la rovina della letteratura per essere di già giunta all'eccellenza»(52). Ragionando sullo sviluppo futuro delle cognizioni umane, il gesuita fornisce qualche brillante aperçu: pensa per esempio ad una nuova scienza che studi il «differente modo di pensare» «nelle diverse regioni del nostro globo», «massimamente» dove gli uomini «vivono in società»(53): una sorta di sociologia comparata, che si affianchi dunque alla comparatistica letteraria. La quale rimane il primo oggetto di interesse, come leggiamo poco oltre: «Or se dalle rozze ed inospitali regioni della Caledonia è sortito alla luce ne' secoli tenebrosi un Ossian, quanto più è da sperarsi, che nella Cina, nell'Arabia, e in altre colte nazioni siano stati alcuni poeti degni di leggersi e di studiarsi»(54). Dichiarazione impegnativa (di là dalla credulità sul caso Ossian), che testimonia la curiosità del gesuita per tutto quello che è fuori dai canoni tradizionali. Tale affermazione s'accompagna a una presa di distanza dal geloso purismo linguistico proprio di molte accademie nazionali: «non sarebb'egli - argomenta - di maggior utilità il premiare e promuovere, come i lacedemoni usavano ad altro oggetto, quelli che con destrezza ed abilità sappiano rubare dalle altre lingue quanto di bello vi ritrovino che faccia al loro conto?»(55). Il più cosmopolita (un po' per necessità, un po' per virtù) dei letterati spagnoli di fine Settecento è libero - lui che scrisse la maggior parte delle opere in una lingua non sua - dallo sciovinismo linguistico che è quasi un riflesso condizionato per gli scrittori di mezz'Europa, costretti a confrontarsi con lo strapotere della lingua francese.
Dopo il lungo prodromo storico, il gesuita dà conto nei volumi seguenti delle singole personalità, raggruppandole secondo generi letterari: ordinamento d'origine precettistica, tornato in uso (si sa) nella stagione del positivismo per essere poi vituperato nell'età crociana; e in certa misura venir restaurato oggi dai cultori delle 'tassonomie retoriche'. È certamente arbitraria nel libro di Andrés la trattazione, per esempio, di Voltaire, mai studiato a tutto tondo, ma sminuzzato di volta in volta nei ruoli di poeta, romanziere, filosofo, scrittore didascalico, polemista. Per fortuna, più d'una volta lo storico sa mantenersi superiore a tale schema; e gli càpita allora di dover dar sulla voce agli aspri critici dell'unità poetica dell'Orlando Furioso in questi termini:

Che importa che l'Ariosto sia amante della romanzesca libertà, né voglia assoggettarsi alle strette leggi d'una rigorosa epopeja? Che importa ch'egli non serbi l'esattissima unità dell'azione, né stia alla limitazione del tempo, che alcuni critici pretendono di fissare? Che importa ch'egli riceva incanti e magie, fati e giganti, e bizzarrie e mostruose avventure? Ciò potrà forse torre il posto all'Orlando Furioso fra gli epici poemi; ma non dovrà mai detrarre all'Ariosto la lode d'un eccellente e divino poeta (56).

7. Nella vecchia disputa tra fautori dell'Ariosto e fautori del Tasso, è naturale che il gesuita preferisca il secondo: «Io confesso che leggendo il Tasso in confronto dell'Ariosto trovo spesso maggior scioltezza e maggior sonorità ne' versi di questo, e sembrami alle volte di sentire in quelli del Tasso un po' di disagio e di vedervi lo studio»(57). Andrés, da buon classicista, prende le mosse, nel secondo volume, dalla poesia epica: e innalza naturalmente l'epos antico sopra il moderno. La costruzione dell'Inferno di Dante in particolare è accusata di inverosimiglianza («Perché - ragiona - unire il vaso d'elezione con Enea, l'inferno poetico col cristiano, e i serpenti cogli uccelli? Perché invece d'un poema di qualche regolarità darci un viaggio stravagante ed assurdo?»)(58). L'altro grande poema epico-religioso dei tempi moderni, il Paradise Lost di Milton, va incontro a espressioni più magnanime: «alcune parlate vive e sublimi, ed alcuni tratti eccellenti mi fanno riguardare con rispetto e venerazione il poeta, e restare dubbioso se i molti suoi vizj possano soverchiare le grandi e singolari virtù»(59). Ma se si confronta poi il giudizio risolutamente negativo espresso dallo spagnolo sul Messia del contemporaneo Klopstock (60), si ha quasi l'impressione di trovarsi di fronte ai disgusti di un volterriano Pococurante, l'incontentabile personaggio del Candide che si divertiva a irridere i capolavori custoditi nella sua biblioteca. Naturalmente l'iconoclastia di Andrés non è della stessa natura: egli avverte piuttosto la difficoltà di costruire un poema epico che abbia come soggetto la religione cristiana, per lui motivo forse più di riflessione razionale che d'invenzione poetica. Non è allora un caso che, accanto ai capolavori dell'antichità (Omero, genio più d'immaginazione che di riflessione, ma soprattutto il «magico poema della divina Eneide»)(61), ponga l'epos storico della Lusiade di Camoens (62) e (su un piano minore) lo stile eroicomico di Tassoni (63) e di Pope (soprattutto la Dunciade)(64). Lo stesso poeta inglese è grandemente elogiato come autore del didascalico Essay on Man, «uno de' più sorprendenti e maravigliosi componimenti che abbia prodotti la poesia». Del Pope italiano, Giuseppe Parini, Andrés apprezza l'inventiva e «l'ischerzevole ironia», pur rilevando qua e là nel Mattino anche «versi trascurati e cascanti»: giudizio a dire il vero un po' sorprendente e che trovò contraddittori (65). Andrés ebbe modo di incontrare il vecchio Parini a Milano nel 1799, e ci ha lasciato nell'ultimo volume delle sue Cartas una preziosa (e poco nota) testimonianza sul poeta lombardo affannato a rimetter ordine nei frammenti della Notte. Lo spagnolo sfiora nella sua bella pagina certi giudizi moderni sull'ultimo Parini autore di sublimi, imperfette miniature, e preconizza gli imbarazzi dei filologi futuri:

Tenía trabajado a pedazos sueltos La sera, que le faltaba para dar el día completo, y me dicen los que habían oído algunos, que hay cosas muy buenas sobre las tertulias, o como aquí dicen conversazioni, sobre los teatros, sobre algunas cenas de campo, y otros puntos semejantes, que hubíeran coronado su obra. Pero él, como poeta caprichoso, había ido componiendo algunos pedazos como le venían a la fantasía, y jamás había tenido la paciencia de ponerse con cuidado a ordenar y formar un cuerpo, y a reducir a un pequeño poema aquellos pedazos sueltos. Él mismo, poco días antes de morir, se dolía conmigo de su pereza, y sentía que ni en su vida, ni después de ella sería posible hacer servir aquellos pedazos que había compuesto, estando algunos mal escritos en papeles rotos, otros perdidos, y sin ninguna luz para divinar el orden en que se habían de distribuir, porque ni él mismo la tenía, no habiendo jamás pensado en ello sériamente (66).

8. Puntuale il capitolo dedicato al teatro: che rievoca in bell'ordine origini del dramma greco, sviluppi di quello latino e medievale e produzioni delle singole drammaturgie nazionali moderne. Converrà estrarre innanzi tutto una singolare definizione dei talenti di Racine: «I tragici greci viddero soltanto il cuor umano cogli occhi naturali senz'altri mezzi dell'arte. Racine l'esaminò coll'ajuto de' finissimi microscopj, e vi scoprì mille profondi segreti, e mille pieghe nascoste, ove non poté penetrare la semplice vista de' greci: sembra che l'Amore stesso siasi compiaciuto di dargli le più fine e dilicate lezioni dell'anatomia del cuore umano»(67). Nella contesa tra antichi e moderni, lo spagnolo sposa stavolta il più sottile ingegno dei secondi. All'amore per Racine è logico che corrisponda (accanto a un giudizio rispettoso sì, ma freddo su Corneille) l'imbarazzo di fronte a Shakespeare, «idolo degl'inglesi» e il cui «culto» (registra) «è diventato di moda anche presso i critici dell'altre nazioni»(68). Andrés riconosce i tratti «eccellenti e divini» delle tragedie maggiori, ma non tollera la Stilmischung che tanto piaceva a Goethe e ai romantici tedeschi: insoffribile per lui l'ascolto dei «bassi e volgari discorsi e giuochi de' calzolai, de' sartori, de' beccamorti, e della più vile plebaglia», e ancor peggio dover «sentire in bocca de' principi e de' più rispettabili personaggi triviali scherzi, indecenti parole, e plebee scurrilità»(69). Mille volte preferibile, ragiona, il monologo tragico del Catone di Addison, «l'unico pezzo drammatico di cui possa con qualche ragione prendersi vanto il teatro inglese»(70)! Più articolato, naturalmente, il giudizio sul teatro del siglo de oro spagnolo. Andrés parte da lontano: precisamente da una coraggiosa difesa della Celestina (proprio in quegli anni riscoperta in Spagna e in Italia), commedia che stima, di là dall'abnorme durata, «condotta con naturalezza e verosimiglianza»(71). E procede poi a una sommaria analisi dei capolavori comici e tragici di Lope de Vega, Calderón, Castro y Bellvis, Moreto y Cabaña: con la precisazione cautelare che «il più grave pregiudizio del teatro spagnuolo è stato l'esorbitante sua ricchezza»; non se la sente infatti di approvare in quella enorme produzione tutte le «bizzarrie» e «stravaganze» che «ributtano la ragione e il buon senso»(72). Tali opere, in passato così applaudite e al presente troppo acerbamente censurate, paiono ad Andrés meritevoli per la felicità narrativa, ma pur sempre prive dell'ultimo cesello dell'arte: «il cuore rimane quieto e freddo, né sente quelle profonde impressioni che fanno il più dilicato e soave diletto della drammatica poesia»(73). Lo storico si dibatte dunque a fatica tra amor patrio, ammirazione per l'inventiva barocca e pregiudizi classicistici.
Nell'età contemporanea s'impone ai suoi occhi la feconda produzione di Voltaire: che va a formare (giudizio che nessuno oggi si sentirebbe di sottoscrivere) il «tragico triumvirato» teatrale francese insieme a Corneille e a Racine. Di Voltaire lo spagnolo apprezza l'impegno profuso nello «sbandire la galanteria» dal teatro primosettecentesco(74); gli rimprovera tuttavia l'abuso di temi ideologici: «La filosofia, che adoperata con intelligenza e con sobrietà eleva e nobilita la poesia, diffusa con prodigalità dal Voltaire diminuisce non poco la bellezza delle sue tragedie, e ne toglie il pregio dell'illusione, facendo parlare il poeta più che gl'interlocutori»(75). Difetto che ritrova in misura molto maggiore nelle commedie larmoyantes dell'altro filosofo del secolo, Denis Diderot (76).

9. Qualcosa di analogo scrive sul teatro tedesco: Sara Sampson di Lessing è, per esempio, «piena di nobili sentimenti» ma monotona e impacciata (77) . Tali duri giudizi sulla letteratura tedesca, in cui già ci siamo imbattuti ( Andrés non comprese neppure il genio di Schiller e di Goethe) (78), provocarono una cortese ma ferma reprimenda di un attento corrispondente e amico dello spagnolo, l'erudito e artista fiammingo, allora residente a Roma, Joseph Van de Vivere, che in una lunga e dotta lettera privata tracciò una vera e propria apologia della moderna letteratura tedesca. Il fiammingo non accettava che si liquidassero come «tardi e pesanti»(79) gli scritti tedeschi contemporanei: troppo Andrés si fidava dei giudizi di Federico II, che «faisoit toujours l'éloge des Français dans la vue d'être loué à Paris»(80). Il limite dello storico consisteva nel non ben intendere, ragionava il Van de Vivere, il genio della lingua tedesca (e invece: «il faut savoir bien la langue pour en juger, car ce qui est bas dans une langue, ne l'est pas dans une autre»)(81); contrariamente a quel che credeva l'infranciosato Andrés, «la langue allemande presente de grandes facilités aux poètes, car elle est extremement riche au moyen des mots composés dont elle abonde»(82). Proprio nel teatro i tedeschi avevano dato alcuni capolavori assoluti: l'Egmont e il Torquato Tasso di Goethe «sont des pièces excellentes», mentre la «sombre lueur de la Henriade» scompare «devant le flambeau de la Messiade»(83). Non pare che lo spagnolo, nelle brevi aggiunte e correzioni che appose alla ristampa romana del suo libro, abbia tenuto conto di tali intelligenti osservazioni: che sono un documento interessante, anche perché provengono da una fonte impregiudicata. Andrés compirà poi un piccolo tour germanico, più precisamente viennese, nel 1793: pubblicando anche, alla sua solita maniera, una Carta al fratello sulla letteratura viennese, presto tradotta in italiano. Il breve viaggio gli fruttò, a parte un rapido colpo d'occhio sul mondo teatrale, soprattutto la conoscenza di biblioteche, archivi, accademie, raccolte numismatiche. L'uomo di cultura austriaco che più risalta in quelle pagine è del resto non un letterato ma un grande giurista, l'avversario della tortura Joseph von Sonnenfels, lodato per la risolutezza delle idee illuministiche, nonché «por las dotes de estilo»; tuttavia l'attenzione di Andrés fu colpita in quel soggiorno soprattutto dalla durezza della politica giurisdizionalistica dell'imperatore, capace, a suo dire, addirittura di distruggere l'intera cultura austriaca: «Qué literatos se han levantado - chiede retoricamente - de las ruinas de tantos religiosos?»(84).
Le ultime battute del lungo capitolo sul teatro sono per l'Italia. Sincera ammirazione desta la Merope di Maffei, «che forma l'epoca del ristoramento del teatro italiano»(85); nel genere comico lo storico vede in Goldoni «naturalezza e verità», ma anche «trascuratezza» e «negligenza» nella lingua e nello stile (86). Le pagine più impegnate sono per il teatro musicale e per l'inimitabile stile di Metastasio, la cui penna «sembra intinta nel latte di Venere, qualora ha da scrivere tenerezze e vagheggiamenti»; qui l'abitualmente sobrio Andrés dà alle sue parole un essor quasi lirico, quando cerca di definire il grande, fisso eppur sempre cangiante oggetto delle trame metastasiane: «L'amor nascente, l'amore incerto, l'amor geloso, l'amor contento, l'amore sdegnato, l'amore riconciliato, l'amore furioso, l'amore tranquillo, l'amore insomma in tutti i suoi aspetti si mostra nel più chiaro lume ne' dilicati quadri di questo novello Albano»(87). Egualmente interessante il capitolo dedicato alla nuova forma letteraria in gran voga nell'Europa settecentesca, il romanzo. Andrés menziona l'illustre precedente del Don Quijote («il fino gusto e il sano giudizio del Cervantes hanno saputo formare d'un ammasso di stravaganti pazzie un nobile e dilettevole libro»)(88) e coglie poi con nettezza la novità delle prove nate in Inghilterra con Fielding e Richardson. Ma ad entrambi preferisce il «vivo fuoco» della Nouvelle Héloïse di Rousseau, romanzo (scrive) «fatto più in opposizione, che ad imitazione» di Richardson (89). Il giudizio sul francese è insolito per un chierico: «Rousseau prende un piano vastissimo e cerca in oltre d'ornarlo de' trattati di varj altri punti, che non toccano direttamente l'assunto; ma sono recati per dare a tutta l'opera maggiore vaghezza e varietà»(90).

10. Il terzo tomo della magnanima fatica di Andrés è consacrato all'eloquenza e alla storiografia: vale a dire a quei generi letterari che lui stesso stava praticando. Piena di buon senso, di là da varie, diligenti rassegne sulla retorica antica e moderna, la diagnosi della crisi della prosa italiana contemporanea, ancor ferma alla disputa tra chi s'affannava a riportare in vita il Cinquecento («alcuni amatori dell'aurea purità del secolo decimosesto non possono sofferire la menoma deviazione dalle tracce segnateci dagli scrittori di quell'età») e gli imitatori del francese, «ciecamente portati pel fuoco e per la vivacità d'alcuni moderni oltramontani»(91). Che poi il gesuita fosse in proprio un sincero ammiratore dello stile polemico dei francesi del grand siècle è testimoniato da una bella pagina sulle Provinciali di Pascal, di cui rigetta ovviamente la dottrina ma ben descrive la seduzione dello stile oratorio: «la nativa eleganza, amenità e chiarezza, l'artificiosa semplicità, la forza ed energia [...], la destrezza di dare ad ogni cosa quella piegatura, che più torna al suo [di Pascal] intento, e l'aria piccante di schernire e render ridicolo ciò che vuole, fanno una magia di stile capace di sedurre i lettori più illuminati»(92). Non è forse un caso che Andrés utilizzi qui parole molto simili a quelle usate per spiegare le ragioni del successo del piccante Voltaire: il quale, se certo non amò il dogmatismo di Pascal, ne riconobbe l'efficacia nello stile satirico. L'analisi dell'eloquenza politica è occasione per una stoccata al non amato Cinquecento italiano; a farne le spese è il Della Casa e la sua Orazione a Carlo V per la restituzione di Piacenza: «Era egli da sperare che Carlo V avesse la sofferenza di ascoltare tutta la nojosa orazione del Casa, non che vi restasse convinto dalle sue ragioni per restituire Piacenza? Quante grazie non avrebbono rese Filippo e Marco Antonio a Demostene e a Tullio se avessero voluto nelle loro orazioni adoperare un'eloquenza simile?»(93).
I capitoli sulla storiografia e sull'antiquaria presentano più di uno spunto importante. Andrés è partecipe della riscoperta settecentesca di Erodoto: «Quanto più crescono i lumi della storia, e più cognizioni s'acquistano delle remote antichità, tanto si trovano più verosimili i racconti d'Erodoto, e maggiore credito acquistano le sue storie. Anzi - aggiunge - io credo che possa giustamente chiamarsi Erodoto il padre della critica, come vien detto comunemente il padre della storia»(94). È naturale che questa simpatia per Erodoto corrisponda a un largo interesse per le storiografie di paesi lontani: l'America (principalmente allo specchio delle indagini del Lafitau), l'India, la Cina (95). Il vecchio amore per la cultura araba convince il gesuita della necessità di conoscere anche l'altra storia delle crociate: «Dagli arabi possono ricavarsi su quelle materie molte nuove ed interessanti notizie, che invano si cercherebbono negli autori europei»; di più: anche i «piccoli dettaglj delle arabiche storie» possono gettar «lume sugli stessi fatti narrati da altri, ed aprono talor nuovo campo a profonde ed utili riflessioni»(96). Pare qui adombrato l'ideale storiografico di Andrés: la saldatura tra metodo antiquario e metodo filosofico. E tuttavia l'ingeneroso giudizio su Gibbon (il primo storico che s'era proposto di rileggere sistematicamente le crociate)(97) ci mostra i limiti della 'filosofia' di Andrés. Quando cerca poi di valutare la storiografia italiana del Rinascimento si muove, s'è visto, per grandi semplificazioni: Machiavelli è giudicato più ideologo che storico («ogni suo libro incomincia con una dissertazione, o con un ragionamento politico»); Guicciardini gli pare superiore soprattutto per la «cognizione della costituzione degli stati e delle mutue lor relazioni»(98). Nei confronti di Paolo Giovio ripete l'accusa di «bassa venalità» e si attarda in valutazioni puristiche sulla poca «gravità» del suo stile latino (99). Per Andrés gli storici antichi sono dunque pur sempre superiori ai moderni, i quali «avviliti col giogo politico e collo scolastico, più contrario ancor che il politico alla grandezza e nobiltà del pensare, non sapevano distendere l'occhio filosofico sopra la vasta estensione de' lor soggetti, e passeggiarvi con franco piede»(100).

11. Più a casa sua lo spagnolo, appassionato umanista e infaticabile viaggiatore, si trova presso gli antiquari: «Chiunque vorrà - osserva - scorrere un po' la Grecia in compagnia di Pausania, troverà ad ogni passo, custodite colla maggior diligenza e venerazione, are e statue, sepolcri, colonne, iscrizioni, pitture, sigilli ed ogni antica memoria»(101); Pausania anticipò in fondo l'orgogliosa scienza epigrafica moderna: «quest'arte critica lapidaria, la cui impresa ha fatto in questo secolo tant'onore all'erudito Maffei, era stata già tanti secoli prima attentamente coltivata da' greci; e questi debbono godere l'onore d'essere considerati come i primi inventori dell'antiquaria»(102). Ma il secolo diciottesimo ha prodotto studiosi in tutto nuovi: Winckelmann prima d'ogni altro, «che potrà forse chiamarsi per distinzione d'onore l'antiquario», e la cui «Storia dell'arti del disegno è forse la più nobile ed interessante opera che abbia prodotto l'antiquaria», nonostante qualche volta vi si trovino, nutrite da troppo calda «fantasia», «asserzioni non abbastanza sicure»(103). E nel «giovin Visconti», suo amico e corrispondente, è individuato uno dei degni successori del tedesco (104). D'altra parte è convinto che non si sia ancora trovato un metodo generale per studiare l'antichità: «Né l'antichità scritta, né molto meno la figurata non hanno ancora sufficienti principj onde potersi spiegare con sodezza e verità, senza sottili congetture e stiracchiate erudizioni. Manca insomma un'arte ermeneutica od esegetica di tutta l'antichità»(105). Il richiamo di metodo, interessante pur nella sua genericità, è precisato nella rivendicazione di un'antichistica che si occupi non soltanto di storia artistica o politica ma anche delle «arti meccaniche», e che nelle stesse arti liberali esamini «con ugual attenzione la parte meccanica e materiale, oltreché la formale ed icastica»(106).
Tali spunti ci conducono al cuore dei tomi quarto e quinto, in buona parte dedicati alle scienze: giusta il punto di vista settecentesco, che sotto l'etichetta di 'letteratura' ambiva a comprendere l'intero spettro della cultura. Non mancava ad Andrés, s'è visto, una buona formazione scientifica, soprattutto nel campo della dinamica e dell'idraulica; ma è ovvio che in queste pagine dell'Origine i debiti verso i grandi storici della scienza settecenteschi (segnatamente Priestley e Montucla, chiara invece la presa di distanza da Bailly) siano cospicui. Uno degli scopi di Andrés è mostrare che anche in questo dominio (soprattutto negli studi matematici) l'antichità seppe guardar lontano; il nuovo spirito di indagine dell'età illuministica suggerisce poi qualche eloquente pagina: «Invan la Natura - scrive proprio al principio - ne' corpi asconde fluidi sconosciuti; la sua [dell'uomo] penetrazione glieli fa discoprire, e donde meno pensavasi sa ricavare sicura guida per dirigersi nelle difficili navigazioni, mezzi opportuni per ripararsi dalle meteore, e convenienti ajuti per sollevarsi a camminare nell'aria. Le sotterranee miniere, gl'invisibili insetti, le belve feroci, gli uccelli, i pesci, le conchiglie, le piante, i sassi, tutti gli esseri della Natura, piccioli o grandi che sieno, tutti s'arrendono a' sagaci suoi sguardi, e s'assoggettano alle scientifiche sue contemplazioni»(107). Di là dall'eloquenza, agisce la consueta diligenza nella raccolta dei materiali e nel vaglio delle fonti. Basterà qui qualche cenno. La prima parte è consacrata alle matematiche e alle scienze ad esse legate: meccanica, idrostatica (addirittura col complemento della nautica), acustica, ottica, astronomia. Un passaggio chiave riguarda naturalmente la crisi delle scienze in età medievale e l'apporto arabo (dove Andrés respinge, erroneamente, l'idea d'una derivazione dall'India delle cifre posizionali)(108). Particolarmente attente le pagine sulla matematica dell'età umanistica (109) e sulle nuove scienze secentesche (nitida la trattazione di Galileo, «non sol maestro, ma padre e creatore della meccanica»)(110). La storia dell'acustica è tra l'altro pretesto per una rinnovata polemica con Arteaga sulla musica medievale (111). Rievocate con chiarezza le vicende dell'astronomia moderna: da Copernico (il cui sistema, ragiona, pur «riconosciuto utilissimo da molti astronomi», a lungo «restò oscuro e quasi dimenticato»)(112) sino a Keplero e (di nuovo) a Galileo. Sul 'caso' del nostro Linceo Andrés si dimostra un po' meno coraggioso di quanto era stato nel suo scritto giovanile: se il malinteso «zelo» religioso fu tipico di «tutte le età» e di «tutte le nazioni», non costituisce «un biasimo particolare di Roma l'avere condannata un'opinione filosofica»(113). Per la fisica e la chimica adotta la divisione empedoclea, francamente arcaica, per elementa (aria, acqua, terra, fuoco). È tuttavia interessante nelle prime pagine l'esposizione del sistema del mondo di Epicuro giudicato, per quel che frammentariamente ci è pervenuto, «superiore nella chiarezza e giustezza a quello che vedesi in Aristotele»(114). L'età moderna è traguardata attraverso la prospettiva newtoniana, con un giudizio fortemente limitativo su Cartesio e un elogio del contributo italiano alla verifica del sistema newtoniano (Boscovich, Stay, Frisi). Nella chimica gli aggiornamenti arrivano sino a Priestley e a Lavoisier, e non manca una curiosità particolare per le applicazioni pratiche dello studio dei gas: i «globi aerostatici»(115). Nel tomo quinto dell'Origine, apparso nel 1794 ma scritto quattro anni prima, si conclude la parte scientifica (con la trattazione della botanica, della biologia e della medicina) e si toccano poi la filosofia e la giurisprudenza.


12. La redazione delle pagine filosofiche risente del convulso clima politico, che aveva tra l'altro costretto Andrés a interrompere più volte la stampa del suo opus (116). È davvero sommaria e insoddisfacente, per esempio, la trattazione della filosofia antica, fatta eccezione per la consueta simpatia per la scuola epicurea, «sposta nel vero suo lume dal Gassendo»(117), e dalla difesa (contro Tiraboschi) dell''ispanico' Seneca, nonostante le sue «triche dialettiche»(118). La filosofia medievale (non soccorrendo qui l'apporto arabo, se non nella forma di glossa e commento ad Aristotele) viene apertamente svalutata, e l'inizio del «ristoramento» della buona filosofia è datato all'epoca di Petrarca, benché il poeta non avesse «fatta professione di filosofo»(119). Secondo il consueto schema enciclopedistico, i più conseguenti alfieri del 'metodo moderno' sono indicati in Galileo e in Bacone (ben poco spazio è concesso a Bruno e Campanella, di là dalla condivisa critica di entrambi alla filosofia scolastica)(120). Nel Settecento Andrés predilige la scuola lockiana e Condillac, opposti allo spinozismo e alla corrente materialistica che fanno capo a Helvétius e a La Mettrie. A Beccaria (considerato nelle vesti di filosofo-giurista) è destinato un giudizio ambivalente: «merita non poca lode - scrive - per alcune vere ed utili viste degne dell'approvazione de' buoni filosofi»; eppure gli si rimproverano le fiere espressioni contro la pena di morte, «un paradosso conforme allo spirito della falsa umanità di questo secolo, ma di poca o nessuna verità, e che abbracciato troppo sicuramente da alcuni governi più danno forse che utile ha recato alla società»(121). Le successive, rapide pagine sulla giurisprudenza antica e moderna riservano poche sorprese: lo schema è tradizionale (Andrés prende le mosse addirittura da Mosè) e in più di un passaggio è evidente l'intenzione apologetica verso la tradizione romanistica posta di fronte ai novatori sei-settecenteschi (per Andrés l'età aurea del diritto è sintomaticamente il Cinquecento di Prospero Farinacci e Giacomo Menocchio). Sul punto particolare, e importante, dell'autoctonia della legge delle dodici tavole contraddice l'opinione di Vico, il quale in un celebre capitolo del secondo libro della Scienza Nuova aveva demolito la tradizione (risalente a Livio) di una legazione romana che avrebbe attinto ad Atene le fonti del diritto: anche qui il gesuita prende dunque la parte dei tradizionalisti, diffidenti davanti agli «ingegnosi» dubbi vichiani (122). La tempesta rivoluzionaria aveva forse contribuito ad appannare la sua curiosità: persino i progressi delle scienze naturali lo avevano insospettito e s'era per esempio smarrito, come scrisse all'amico Bettinelli, di fronte alle tesi dell'antiquaria e della nuova geologia congiunte e vòlte a «provare la terra più antica che non la dice Mosè»(123). Del resto, proprio con gli studi sacri (nei tomi sesto e settimo) Andrés aveva voluto coronare la sua ventennale fatica. Su tali pagine non ci soffermeremo, se non per segnalare una polemica del solito padre Mamachi, il quale non aveva apprezzato i coraggiosi giudizi sulla decadenza degli studi teologici dopo il quinto secolo e sulla modesta erudizione di Gregorio Magno (124). Indipendenza di giudizio lo spagnolo dimostrò anche quando si rivolse in limine agli eruditi protestanti, invitandoli a meditare con pacatezza sulla sua ricostruzione della storia religiosa del sedicesimo secolo : «Io spero, che i savj luterani, a parecchi de' quali professo personale stima e riconoscenza, se vorranno darsi la pena di leggere con animo imparziale e spregiudicato quelle pagine tinte di sì nero ed amaro fiele, non prenderanno in mala parte la mia franchezza e sincerità»(125).
13. Lasciatosi alle spalle il grande affresco comparatistico sulla cultura mondiale, l'operosissimo Andrés continuò nel quindicennio che gli restava da vivere a impegnarsi in molti lavori particolari, sia di natura filologica, sia d'ispirazione storico-polemica. Tra questi ultimi gioverà menzionare un trattatello (di poco precedente la fine del secolo) sull'invenzione d'un linguaggio di segni per i sordomuti (126). Si sa che la sollecitudine per l'istruzione dei sordomuti era stata, a partire dai felici esperimenti tardosettecenteschi dell'abate de l'Epée, un cavallo di battaglia della carità d'ispirazione giansenista: e il nostro Degola s'ingegnerà a scrivere persino pantomime a beneficio degli alunni delle scuole per sordomuti. Nel suo breve scritto Andrés, non nascondendo un po' d'ironia nei confronti della (secondo lui) troppo sbandierata dactilogia di de L'Epée, risale alle lontane origini spagnole di quel metodo: e illustra allora l'opera d'un predecessore non molto noto, il benedettino cinquecentesco Pietro Ponce (non a caso già menzionato a suo tempo dal gesuita Francesco Lana Terzi), e d'un suo seguace settecentesco, il portoghese Juan Pereira. Appartiene interamente alla filologia un'altra fatica dedicata alla Spagna, vale a dire l'eccellente edizione dell'epistolario dell'umanista e giurista cinquecentesco Antonio Agostino [Agustín], arcivescovo di Tarragona, che a lungo visse da noi e nella cui parabola esistenziale Andrés finì inevitabilmente per riconoscersi quando scrisse che l'Agostino, «in Italia longo tempore commoratus, unius ecclesiae in Italia, duarumque in Hispania successivis temporibus antistes, utriusque gentis amorem aequo quodam modo jure sibi vindicat»(127).
La passione d'indagatore di manoscritti e di stampe rare risospinse più volte l'Andrés lungo l'iter italicum già illustrato nelle eleganti Cartas al fratello. Quella stessa passione lo aveva indotto (può essere utile ricordarlo) a parole insolitamente dure nei confronti degli (allora) poco liberali custodi della magna Biblioteca Vaticana: «;Se enciende el zelo y la rabia literaria - aveva scritto nel 1785 - al ver tantas salas, tan hermosos armarios, tantos sugetos asalariados, tantas sumas de dinero gastadas, y para qué? para tener sepultados tantos códices y tesoros literarios, cerrarlos bien con dos llaves, y guardarlos zélosamente para que ninguno los vea, ni aun sepa que los hay, en fin para hacer un bibliotaphio, no una Biblioteca»(128). Tutt'altra cosa che un geloso bibliotafio (per usare lo stesso arguto grecismo) Andrés aveva trovato a Mantova presso la famiglia Capilupi. Grazie all'ospitalità di quei marchesi Capilupi redasse un catalogo che risulta ancora, sebbene il prezioso fondo sia oggi in buona parte disperso, d'indispensabile consultazione (129). Con un certo orgoglio scrisse che in pochi giorni i manoscritti capilupiani avevano fornito «notizie a dieci e più dotti scrittori, che ne sarebbono rimasti privi, se non fossero usciti dalla loro pristina oscurità»(130): di particolare importanza, oltre ai codici dell'età umanistica, i carteggi di Camillo e di Ippolito Capilupi, che illustrano un importante momento della vita politica e religiosa cinquecentesca tra Mantova e Roma. In un nitido opuscoletto inviato al Morelli, bibliotecario marciano e suo assiduo corrispondente, Andrés informò poi dei preziosissimi codici di età longobarda custoditi nelle biblioteche capitolari di Novara e Vercelli, e sfuggiti (annota) all'attenzione del Muratori della ventiduesima dissertazione de legibus Italicorum: «quanto non si sarebbe egli compiaciuto, se avesse potuto dar conto del codice di Vercelli, scritto prima della metà del secolo ottavo l'anno 730 o poco di poi!»(131). Intanto la vocazione di guida di giovani talenti portò il gesuita a seguire con entusiasmo i primi passi di alcuni promettenti filologi: primo fra tutti un allievo degli anni parmensi, Angelo Mai (132). Il soggiorno a Napoli e la possibilità di lavorare nella grande biblioteca reale gli diedero l'occasione per un lavoro di tipo, per così dire, muratoriano, cioè la raccolta degli Anecdota graeca et latina desunti da manoscritti di età umanistica: di particolare importanza la parte tratta dai codici farnesiani dell'umanista parmigiano (già studiato dall'Affò) Tranquillo Molossi; Andrés vi premise una bella storia delle biblioteche napoletane a partire dall'epoca di Federico II di Svevia (133). Nelle «Memorie» dell'Accademia Ercolanese furono pubblicati i due lavori estremi di Andrés, che esemplarmente documentano il carattere enciclopedico, mai dilettantesco, dei suoi interessi: un'analisi dei commenti omerici di Eustazio e un contributo d'interpretazione cartografica su una mappa quattrocentesca delle isole Antille (134).
14. Un quindicennio dopo la morte di Andrés sulla «Biblioteca italiana» uscì un lungo articolo di Francesco Ambrosoli occasionato dalla ristampa veneziana dell'Origine (135). Più che una recensione, l'articolo (che faceva tra l'altro continuo riferimento alla Scienza nuova vichiana, «il Manuale di tutti i pensatori in Europa, perché abbraccia tutte quante le nazioni»)(136) voleva essere un'ampia riflessione sui destini della storia letteraria dopo la grande stagione settecentesca. Ad Andrés vanno copiosi elogi: «il suo libro fu quasi il primo passo alla vera storia filosofica delle lettere umane; e fa testimonio che l'autore presentì fin d'allora quella tendenza cosmopolitica, ch'è poi divenuta comune»; ma altrettanto evidenti sono le critiche a un'opera giudicata «un repertorio di materiali raccolti con somma diligenza», ma in cui spesso difettano le conoscenze linguistiche e appaiono troppi pregiudizi moralistici (Ambrosoli cita proprio le infelici pagine su Machiavelli)(137). E del resto al recensore spiaceva il culto del decoro classico evidente nell'Origine: «l'Andrés guardò alle parti accessorie più che al valore intrinseco delle opere: e certo le belle lettere non debbono comportare rozzezza di forme o negligenza di stile. Ma sotto un bel velo si può coprire una composizione vana o dannosa»(138). Espresso con equilibrio e magnanimità, oltretutto dalle pagine della tribuna ufficiosa del classicismo italiano, è questo il ragguaglio più circostanziato sull'ultimo campione dell'erudizione settecentesca in un'età che quell'erudizione, giocoforza, non poteva né voleva emulare: Ambrosoli nulla diceva per altro delle proposte storiografiche intorno alla cultura araba, sottoscritte, s'è visto, da Ginguené e Sismondi. In Italia nei primi decenni dell'Ottocento l'Origine era comunque (forse ancor più della Storia di Tiraboschi) un'opera di riferimento obbligato per lo studente non meno che per lo studioso, un libro sempre pronto sul leggio o nello scaffale. Come appare dalle pagine dello Zibaldone di Leopardi, in cui l'autorità di Andrés è spesso citata e rispettosamente vagliata: si tratti di chiarire la questione della nascita del volgare, di rafforzare giudizi e pregiudizi sul 'genio' delle lingue moderne, o ancora di dare l'abbrivo alle controverse idee sul primitivismo omerico (139). Prima delle condanne sommarie dell'età romantica (140), il punto di vista erudito e cosmopolitico di Andrés dava i suoi ultimi, inaspettati frutti dentro l'hortus conclusus di un giovane classicista impegnato nella difficile impresa di stringere una nuova alleanza tra filosofia e filologia.

1. Cartas familiares del abate D. Juan Andrés a su hermano D. Carlos Andrés, dandole noticia del viage que hizo a varias ciudades de Italia [.], Madrid, Sancha, t. II, 1791, pp. 113-114, lettera del 19 gennaio 1786 (qui e altrove ho ricondotto l'accentazione delle parole spagnole all'uso moderno). I cinque tomi delle Cartas uscirono tra il 1790 e il 1793 (un'edizione provvisoria dei primi due tomi apparve nel 1786): si riferiscono ai viaggi compiuti a più riprese, a far capo da Mantova, tra il novembre 1785 e il novembre 1791; un sesto tomo di appendice (comprendente importanti lettere inviate da Pavia e da Parma) uscì a Valenza, de Orga, nel 1800. Utile guida ai primi cinque tomi di quest'opera è A. Lo Vasco, Le biblioteche d'Italia nella seconda metà del secolo XVIII. Dalle "Cartas familiares" dell'abate Juan Andrés, Milano, Garzanti, 1940.

2. L. Fernandez De Moratín, Obras póstumas, Madrid, Rivadeneyra, 1867, I, p. 552 (citato da G.E. Mazzeo, The Abate Juan Andrés Literary Historian of the XVIII Century, New York, Hispanic Institute, 1965, p. 39). Juan Andrés nacque il 15 febbraio 1740 a Planes, vicino ad Alicante (Valencia), da una famiglia di nobiltà campagnola d'origine aragonese. Entrato nel 1754 nel noviziato dei gesuiti, nel 1763 venne ordinato sacerdote; al momento dell'espulsione della Compagnia di Gesù dalla Spagna (aprile 1767), insegnava retorica e poetica all'università di Gandía. Stabilitosi a Ferrara, lì nell'estate del 1773 prese gli ultimi voti, poco prima che il breve di soppressione della Compagnia, già firmato da Clemente XIV, fosse promulgato; si trasferì quindi nel gennaio 1774 a Mantova dove visse per ventiquattro anni presso i marchesi Bianchi in qualità di precettore, raccogliendo intorno a sé molti allievi e scrivendo le sue maggiori opere di erudizione e critica letteraria. All'arrivo di Napoleone a Mantova (febbraio '97), si rifugiò prima tra Colorno e Parma presso Ferdinando di Borbone, poi a Pavia, dove si occupò della riforma dell'università; nel 1799, di nuovo a Parma (qui ebbe tra i nuovi allievi Angelo Mai), rinnovò in segreto, su consiglio di Giuseppe Pignatelli, la sua professione alla Compagnia (che sussisteva ancora in Russia). Dopo un breve soggiorno romano, nel 1804 si stabilì a Napoli, dove fu nominato prefetto della Real Biblioteca, incarico ratificato poi da Gioacchino Murat (e confermato al momento della Restaurazione). Ormai malato e quasi completamente cieco, declinò l'offerta di tornare in Spagna formulata da re Ferdinando VII (la Compagnia vi era stata riammessa, è noto, nel 1815); morì a Roma il 17 gennaio 1817. Un'edizione del ricco e vivace epistolario (vi figurano tutti i grandi nomi del Settecento letterario italo-spagnolo) sta allestendo Livia Brunori, dell'Università di Bologna. Sulla vita di Andrés: A.A. Scotti, Elogio storico del Padre Giovanni Andrés della Compagnia di Gesù, Napoli, De Bonis, 1817; M. Batllori, 'voce' in D.B.I., III, 1961, pp. 155-157; A.D. Moltó, El Abate D. Juan Andrés Morell (Un erudito del siglo XVIII), Instituto de estudios alicantinos, 1978.


3. Problema ab Academia mantuana propositum ad annum MDCCLXXIV: cercar la ragione, per la quale l'acqua salendo ne' getti quasi verticali de' vasi, se le luci di questi getti siano assai tenui, essa non giunga mai al livello dell'acqua del conservatorio, e quanto la luce è più piccola, tanto l'altezza dell'acqua si faccia sempre minore; come pure indagare la vera cagione, per la quale l'altezza dell'acqua nel conservatorio, o il foro per cui esce, essendo ognor maggiore, si diminuisca ognora più l'altezza de' suoi getti. Dissertatio Joannis Andres hispani ab eadem Academia secundo loco probata, Mantova, Eredi Pazzoni, 1775; la recensione di Venturi (già segnalata da G.E. MAZZEO, The Abate cit., p. 41, n. 10) nella tiraboschiana "Continuazione del Nuovo giornale de' letterati d'Italia"[Modena], vol. XIII, 1778, pp. 1-40: critica fra l'altro la recensione negativa apparsa sulle "Effemeridi letterarie" di Roma, XXXIX, 1776. Fu giudicato meritevole del primo premio lo scolopio Gregorio Fontana, professore a Pavia: la sua memoria in "Continuazione del Nuovo giornale de' letterati d'Italia", vol. XI, 1777, pp. 121-165.

4. G. Andrés, Saggio della filosofia del Galileo, Mantova, Per l'erede di A. Pazzoni, 1776.

5. P. Frisi, Elogio del Galileo, Livorno, Stamperia dell'Enciclopedia, 1775 (ristampa in ID., Elogi di Galilei, Newton, d'Alembert. A cura di P. Casini, Roma, Theoria, 1985).

6. Dico cauta polemica perché Frisi nell'Elogio (p. 67, nota 1) finì col negare esplicitamente la circostanza (non provata) della tortura a Galileo durante il processo, circostanza che fu cavallo di battaglia della polemica anticuriale almeno sino al Giordani; vedi al proposito un passo dell'interessante lettera di Frisi ad Angelo Fabroni del 17 ottobre 1774 (omessa a suo tempo nella Vita fabroniana): "Da tutto il contesto vedo l'inverosimiglianza che il Galileo sia stato messo alla tortura, onde bisognerà che nel rifare l'elogio lasci quel paragrafo" (Londra, British Library, ms. Ital. 22955, c. 110r.).

7. G. Andrés, Saggio, cit., pp. 12-13.

8. Ivi, pp. 3-4.

9. Ivi, p. 23 ( molti spunti di questa interpretazione furono ripresi da Tiraboschi nella sua Storia).

10 Vedi Lettera dell'abate Giovanni Andrés al nobil uomo sig. Marchese Gregorio Filippo Maria Casali Bentivoglio Paleotti Senatore di Bologna [.] sopra una dimostrazione del Galileo, Ferrara, Rinaldi, 1779 (già nella "Raccolta [ferrarese] di opuscoli scientifici e letterari", I, 1779, pp. 44-69): Andrés, ampliando quel che aveva scritto nel capitolo VII del suo Saggio su Galileo, analizza la celebre dimostrazione galileiana della terza giornata dei Discorsi sulla proporzionalità tra velocità e tempo nella caduta dei gravi, la corrobora con nuovi esempi e discute alcune osservazioni di Fermat e di Riccati.

11. Lettera dell'abate d. Giovanni Andrés al Sig. Comendatore Fra Gaetano Valenti Gonzaga cavaliere dell'inclita religione di Malta sopra una pretesa cagione del corrompimento nel gusto italiano nel secolo XVII, Cremona, Manini, 1776; la Lettera, come avvenne per la maggior parte delle opere di Andrés, fu prontamente tradotta in spagnolo: per queste traduzioni vedi G.E. Mazzeo, The Abate cit., pp. 193-197. Imminente una nuova traduzione spagnola integrale dell'opera maggiore, Dell'origine, progressi e stato attuale d'ogni letteratura, a cura del professor Haullón de Haro.

12. Ivi, p. 50. Il riferimento crociano è all'ultima pagina de La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza.

13. Ivi, p. 24. Poco oltre osserva, non senza malizia: «L'Ariosto, il Tasso, il Sannazzaro, il Castiglione, il Navagero e quasi tutti i più fini e scelti scrittori dell'Italia sono non solo del tempo del governo spagnuolo, ma favoriti ancora dalla Spagna. Al contrario se il Marini, l'Achillini, e gl'altri introduttori del nuovo gusto onori e premj desiderano, abbandonando l'Italia, e il governo spagnuolo, vanno in Francia a cercarli» (pp. 25-26).

14. Ivi, p. 8.

15. Modena, B. Estense, mss. It. 861, lettera di Andrés a Tiraboschi, Mantova, 15 febbraio 1781: «l'ampia confessione» cui si riferisce Andrés (che cercò invano di far da paciere tra Tiraboschi e Lampillas) è, evidentemente, una dichiarazione di non ostilità contenuta in una precedente corrispondenza del bergamasco. Su Andrés apologeta della tradizione spagnola: G.E. MAZZEO, The Abate cit., pp. 125-189.

16.Lettera dell'abate D. Giovanni Andrés al signor Conte Alessandro Murari Bra' sopra il rovescio d'un medaglione del Museo Bianchini, non inteso dal Marchese Maffei, Mantova, Per l'erede di A. Pazzoni, 1778: il passo di Diodoro Siculo in Bibl. Hist. IV,12, 1-2 (Ercole cattura un cinghiale e atterrisce Euristeo); il riferimento a Maffei in Verona illustrata, Verona, Vallarsi, 1731-1732, vol. III, p. 441. Per il rapporto tra Andrés e E.Q. Visconti, vedi una lunga, interessante lettera dell'archeologo romano custodita a Roma, Archivio della Pontificia Università Gregoriana, Cod. 553, "Epistolario diretto al Padre G. Andrés", cc. 3-4 (27 settembre 1809): Visconti chiede notizie sui papiri ercolanensi (Andrés si trovava a Napoli) e dà conto del suo proprio lavoro per l'Iconographie romaine.

17. Cfr. Lettera dell'abate D. Giovanni Andrés al signor Conte Murari Bra' cit., p. 22-23.

18. Dissertazione sopra le cagioni della scarsezza dei progressi delle scienze in questi tempi, "Raccolta [ferrarese] di opuscoli scientifici e letterari", II, 1779, pp. 113-152 (poi in volume a sé, da dove cito: Ferrara, Rinaldi, 1779). Su quest'aspetto della personalità di Andrés: M. Batllori, Juan Andrés y el humanismo [1945], in Id., La cultura hispano-italiana de los jesuitas expulsos. Españoles, hispanoamericanos, filipinos, 1767-1814, Madrid, Gredos, 1966, pp. 537-545.

19. Dissertazione sopra le cagioni cit., p. 38. Parimenti interessante (pp. 22-23) la difesa del ragionamento ipotetico che - osserva con acutezza - non fu rigettato, di là dal polemico hypotheses non fingo, neppure da Newton.

20. G. Andrés, Dell'origine, progressi e stato attuale d'ogni letteratura, Parma, Stamperia Reale [Bodoni], 1782, tomo I, p. I. Giova precisare che alla prima stampa in sette tomi, conclusa nel 1799, fa seguito una riedizione con aggiunte e correzioni (Roma, Mordacchino, 1808-1817): tutte le aggiunte sono riportate in un ottavo tomo d'appendice all'edizione bodoniana, 1822; non mette conto ricordare qui varie ristampe meccaniche e compendi che si susseguirono sino a metà Ottocento. I più importanti contributi sull'opera maggiore dello spagnolo in: V. Cian, L'emigrazione dei gesuiti spagnoli letterati in Italia, "Memorie della R. Accademia delle scienze di Torino. Classe di scienze morali, storiche e filologiche", s. II, t. XLV, 1895-1896, pp. 1-66 (15-31); G.E. Mazzeo, The Abate cit., pp. 91-124; M. Batllori, La cultura cit., pp. 515-545; K.D. Schreiber, Untersuchungen zur italienischen Literatur - und Kulturgeschichtsschreibung in der zweiten Hälfte des Settecento, Gehlen, Bad Homburg, 1967, pp. 34-35, 104-108, 133-138.

21. Opera, quest'ultima, che l'abate spesso consulta e cita, giudicandola "ardita e magnanima impresa", seppur ricca più di "vasta erudizione" che di "spirito filosofico" (Dell'origine cit., III [1787], pp. 374-375). Sulla Universal History: G. Abbattista, Commercio, colonie e impero alla vigilia della rivoluzione americana. John Campbell pubblicista e storico nell'Inghilterra del secolo XVIII, Firenze, Olschki, 1990.

22. G. Andrés, Dell'origine cit., I, p. VIII. Andrés tiene a distinguere la sua opera dalla pur ammirata Storia dell'amico Tiraboschi, di cui scrive: "L'animo pieno dell'alte idee de' progressi e degli avanzamenti dell'italiana letteratura mal soffre il trovarsi involto in picciole notizie biografiche ed in cronologiche discussioni su' particolari letterati, e desidera di vedere meglio spiegati il vero e generale stato delle lettere e delle scienze nell'Italia nelle varie e ben divise epoche, che ci descrive l'autore" (Dell'origine cit., III [1787], p. 385).

23. Si ricordi invece il duro giudizio (riecheggiato da molti) di Giosue Carducci, che in una lettera giovanile a Carlo Gargiolli (12 gennaio 1860) parla dell'Andrés come d'un "frate presuntuoso", "spregiatore di ciò che veramente è grande, lisciatore di mediocrità" (G. Carducci, Edizione nazionale delle Opere. Lettere, vol. II, Bologna, Zanichelli, 1943, p. 45).

24. Vedi C. Pellegrini, Il Sismondi e la storia delle letterature dell'Europa meridionale, Genève, Olschki, 1926, pp. 55-56 (i passi in questione in G. Andrés, Dell'origine cit., I, p. 120 e J.C.L. Simonde de Sismondi, De la littérature du midi de l'Europe [1813], Bruxelles, Dumont, 18372, I, pp. 29-30). Per Ginguené: Histoire littéraire d'Italie, tomo I, Paris, 1811, capitoli IV e V (anticipati in conferenze tenute all'Institut e alla Sorbona: numerosi i rimandi all'Andrés); assai più scettico si mostrò il Fauriel. Sulla questione delle origini della comparatistica: P. Van Tieghem, La littérature comparée, Paris, Colin, 1931; F. Neri, La tavola dei valori del comparatista [1937], in ID., Saggi. A cura di R. Ceserani, Milano, Bompiani, 1964, pp. 109-119; da ultimo: Letteratura comparata. Storia e testi. A cura di A. Gnisci e F. Sinopoli, Roma, Sovera, 1995.

25. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., I, p. 474.

26. Ivi, p. 453-454.

27. Ivi, pp. 11 e 13. Il riferimento è a Voltaire, Essai sur les moeurs, Introduction, cap. XVII (ed. a cura di R. Pomeau, Paris, Garnier, 19904, t. I, pp. 58-66): è curioso notare come nello stesso luogo Voltaire prenda per autentico il testo sapienziale di Ezour-Veidam, in realtà un apocrifo probabilmente fabbricato proprio all'interno delle missioni gesuitiche. Sul tema: A. Debidour, L'indianisme de Voltaire, "Revue de littérature comparée", IV, 1924, pp. 26-40. Tra le fonti di Andrés è l'inglese J.Z. Holwell, governatore a Calcutta, che è anche uno degli autori di Voltaire.

28. G. Andrés, Dell'origine cit., I, pp. 4-5. La morte violenta di Bailly, vittima nel '93 del Terrore rivoluzionario, indurrà Andrés a giudizi un po' più magnanimi nei confronti dell'astronomo e uomo politico francese.

29. Ivi, p. 13. A p. 15 cita Anquetil e la sua "diligente" edizione del testo persiano dello Zend-Avesta, dichiarando (a torto) di avere "molte ragioni di dubitare dell'autenticità di quel testo". Un lungo estratto da Fréret (senza data) testimonia l'attenta lettura da parte di Andrés degli studi di cronologia antica dello storico francese: Roma, Archivio della Pontificia Università Gregoriana, Cod. 1873, cc. 213-284.

30. Ivi, p. XI.

31. Ivi, p. 159.

32. Cfr. M. Casiri, Bibliotheca arabico-hispana escurialensis (Madrid, 1750-1770). Il Casiri (1710-1791), cristiano maronita, visse a lungo a Roma, prima di ricevere l'incarico da Ferdinando VII (1748) di catalogare i manoscritti arabi dell'Escurial: il repertorio del Casiri diede di fatto avvio all'arabistica moderna.

33. Andrés menziona l'Etymologicum orientale (1661) e l'Historia orientalis (1651) di Johann Heinrich Hottinger e lo Specimen historiae arabum di Bar Hebraeus pubblicato nel 1650 dall'orientalista inglese Edward Pococke. Continuò a cercar notizie sui progressi dell'arabistica contemporanea: vedi per esempio la lettera da Valencia dell'amico Francisco Pérez Bayer (14 agosto 1781), custodita a Roma, Archivio della Pontificia Università Gregoriana, Cod. 575, "Carteggio di Carlos e Juan Andrés", c. 61r.

34. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., I, p. 116.

35. Ivi, p. 274.

36. Ivi, p. 313. Una tacita ripresa di tale concezione arabizzante, anche in termini di Kulturgeschichte, nel celebre (e discusso) studio di R. Menéndez Pidal, Poesía árabe y poesía europea [1937], in ID., Poesia araba e poesia europea ed altri saggi, Bari, Laterza, 1949, pp. 1-58.

37. G. Andrés, Dell'origine cit., II [1785], p. 48, nota. In precedenza Andrés aveva citato con favore "il suo amico don Stefano Arteaga" (Dell'origine cit., I, p. 292, nota), a proposito di uno scambio di notizie sul Canzoniere di re Alfonso.

38. S. Arteaga, Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalle sue origini fino al presente [.]. Seconda edizione accresciuta, variata e corretta, Venezia, Palese, 1785, vol. I, p. 168, nota (il lungo attacco di Arteaga all'Andrés, che sarà difeso da Tiraboschi, alle pp. 162-183, nota). Nella prima edizione delle Rivoluzioni (Bologna, Trenti, t. I, 1783, pp. 145-149) Arteaga s'era limitato a brevi obiezioni; lo stesso Arteaga ridiscusse il problema nel suo Dell'influenza degli arabi sull'origine della poesia moderna in Europa, Roma, Pagliarini, 1791. Un accurato raffronto tra le posizioni dei due contendenti in G.E. Mazzeo, The Abate cit., pp. 182-187; su un solo punto Arteaga volle cedere di fronte ad Andrés, vale a dire intorno all'evidente posteriorità cronologica di Guido d'Arezzo rispetto al teorico arabo della musica Abu al-Farabi. Su tutta la questione: D. Scheludko, Beiträge sur Entstehungsgeschichte der altprovenzalischen Lyrik, "Archivum romanicum", XII, 1928, pp. 30-127 (su Andrés: 33-37); F. Piccolo, Sull'origine della poesia moderna, Napoli, Ricciardi, 1938 (in particolare alle pp. 19-68: dove il giudizio su Andrés è, a dire il vero, troppo severo). Un'eco delle idee di Andrés sulla poesia araba arrivò sino a Herder: J.G. Herder, Briefen zu Beförderung der Humanität [1793-1797], in Sämtliche Werke, XVIII, 1883, Berlin, Weidmannsche Buchh., pp. 34, 38 e 39.

39. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., I, p. 340.

40. Ivi, p. 345.

41. Ivi. Poco oltre (p. 352) cita, a proposito della rinascita della cultura italiana dopo il Mille, Tiraboschi e Bettinelli.

42. Ivi, p. 356; Andrés non nega naturalmente che l'arrivo dei dotti greci nella nostra penisola abbia incoraggiato una «più universale notizia della lingua greca in Italia», e «l'introduzione della platonica filosofia» (358).

43. Cartas familiares cit., t. I, 1791, p. 64, lettera del 23 novembre 1785.

44. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., I, p. 381.

45. Ivi, p. 394.

46. Ivi, p. 411. In queste pagine sulla prosa secentesca è chiaro l'influsso dell'Algarotti del Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua, e, più in generale, degli spunti di Tiraboschi, Denina, Arteaga ecc.

47. Ivi, p. 412. Il rapido profilo del Seicento europeo non contiene novità rilevanti; il parallelo fra teatro spagnolo e inglese verrà ripreso organicamente nel secondo tomo dell'Origine.

48. Ivi, p. 457.

49. Ivi, p. 461.

50. Cfr. ivi, p. 474.

51. Ivi, p. 479.

52. Ivi, p. 491: Andrés menziona dai Pensieri di Algarotti una simile agudeza intorno all'iperbole (rappresentata dalle scienze) e all'asintoto (la letteratura che, sempre accostandosi alla curva della perfezione, mai la raggiunge).

53. Ivi, p. 516.

54. Ivi, p. 518. Nota però la parziale palinodia nel secondo tomo delle Origini, cap. II, p. 132: «Se i poemi di Ossian sono nati nel nostro secolo, e non sono che parti poetici della fantasia del Macpherson...».

55. Ivi, p. 520.

56. Ivi, II, p. 137: l'importanza di questo passo fu già sottolineata da R. Ramat, Ludovico Ariosto, nell'opera coll. I classici italiani nella storia della critica. A cura di W. Binni, Firenze, La Nuova Italia, 19602, pp. 363-364.

57. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., II, p. 154.

58. Ivi, p. 135.

59. Ivi, p. 163.

60. Cfr. ivi, pp. 170-173.

61. Cfr. rispettivamente Dell'origine, t. I, pp. 41-42 (Omero è visto, alla maniera vichiana e cesarottiana, come esemplare del genio 'primitivo': idea forse non senza influenza, come vedremo, su Leopardi); e t. II, p. 121 (superiorità "del passionato e patetico" virgiliano).

62. «L'apparizione del gigantesco spettro, che si presenta alla flotta al superare il Capo di Buona-Speranza, è quanto può fingere di sublime e grandioso la più infuocata fantasia» (ivi, t. II, p. 146).

63. Cfr. ivi, p. 183.

64. «[Il poema] è pieno di ingegnosi pensieri, di tratti vivaci e di sottile ed accorta critica» (p. 187).

65. Le citazioni ivi, rispettivamente alle pp. 213 e 216. Per una cortese replica alle critiche di Andrés (che si interrogò anche sul pericolo morale del troppo indulgere pariniano sui vizi di società) vedi L. Bramieri - P. Pozzetti, Della vita e degli scritti di Giuseppe Parini milanese. Lettere di due amici, Milano, Majanrdi, 1802 2 , pp. 88-100 e 110-118.

66. Cartas del abate D. Juan Andrés a su hermano Don Carlos Andrés, en que le comunica varias noticias literarias, Valencia, De Orga, 1800, pp. 126-127 (non mi risulta che questa pagina sia familiare alla critica pariniana). Andrés aveva già soggiornato a Milano nel 1791, fornendo nelle lettere al fratello un vivace affresco della città; tipiche, per esempio, le impressioni di fronte al Duomo, descritto con minuzioso stupore ("lo exterior [...] es todo adorno, pilastros, columnas, estátuas, mesetas, bases, cornisas, doseles y toda suerte de ornamentos se ven prodigamente esparcidos por aquellas ricas paredes "), e in definitiva indicato, anche in considerazione del "tanto dinero y tanto trabajo echado al ayre [...] sin que puedan gozarlo los hombres", come esempio di cattivo gusto: "Sin embargo toda esta profusión y suntuosidad no dexa de admirar, y causar a primera vista maravilla y placer aun a los mismos que luego se desazonan de tan mal gusto" (Cartas familiares cit., t. IV, 1793, pp. 78-79, lettera da Mantova del 28 settembre 1791).

67. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., II, pp. 312-313.

68. Ivi, p. 344.

69 . Ivi, p. 345.

70. Ivi, p. 351.

71. Ivi, p. 289. Per le incertezze di Andrés e dei suoi contemporanei sulla paternità della Celestina: G.E. Mazzeo, The Abate cit., p. 139.

72. Ivi, p. 300.

73. Ivi, p. 302.

74. Ivi, p. 327.

75. Ivi, p. 330.

76. Cfr. ivi, p. 339.

77. Ivi, pp. 358-359.

78. I rapidi giudizi su Schiller e Goethe in Origine, VIII [1822: "Aggiunte al tomo secondo"], pp. 66-69.

79. Tale formula in G. ANDRÉS, Origine, t. II, p. 14.

80. Roma, Archivio della Pontificia Università Gregoriana, Cod. 553, "Epistolario diretto al P. G. Andrés", c. 60r., lettera da Roma del 27 marzo 1808. Aegid Karel Joseph Van de Vivere (Gand, 1760-1826) segretario dell'Accademia di belle arti della sua città, fu pittore e storico: risulta tra l'altro autore di un trattatello erudito Le mausolée de Marie-Christine d'Autriche exécuté par Antoine Canova, Roma, Salvioni, 1805. Nella lettera citata dice di essere impegnato in una ricerca intorno all'etimologia del nome di Napoleone, il cui scopo era quello di difendere, insieme, "l'Église et même Napoléon".

81. Roma, Archivio della Pontificia Università Gregoriana, loc. cit., c. 59v.

82. Ivi, c. 64v.

83. Ivi, rispettivamente alle cc. 62r. e 60v. La lettera prosegue con alcuni suggerimenti di correzione relativi alla parte sulla letteratura fiamminga.

84. J. Andrés, Carta a su hermano D. Carlo Andrés, dándole noticia de la literatura de Viena, Madrid, De Sancha, 1794, citazioni rispettivamente alle pp. 72 e 121 (tr. it.: Lettera sulla letteratura di Vienna tradotta dallo spagnuolo nell'italiano e corredata di varie interessanti aggiunte dal dottor Luigi Brera, Vienna, Patzowsky, 1795). Tipico il rimando al poeta cesareo, residente a Vienna, G.B. Casti, lodato per le opere buffe, ma condannato per le satire, "que no se lodarán jamás entre las personas prudentes y honestas" (p. 112).

85. G. Andrés, Origine cit., t. II, p. 370 (per altro Andrés non osa pronunciarsi sulla vecchia questione del primato artistico di Maffei o di Voltaire nella tessitura della Merope).

86. Ivi, p. 375.

87.Ivi, rispettivamente alle pp. 391 e 389. Andrés se la cava in fretta, nei seguenti capitoli V e VI dell'Origine, nell'analisi della poesia lirica e pastorale.

88. Ivi, p. 482.

89. Ivi, p. 493.

90. Ivi, p. 497.

91. Ivi, t. III [1787], p. 55.

92. Ivi, p. 123.

93. Ivi, p. 83.

94. Ivi, p. 287. Sulla fortuna di Erodoto nella storiografia moderna: A. Momigliano, La storiografia greca, Torino, Einaudi, 1982, pp. 138-155.

95. Vedi principalmente Origine cit., t. III, pp. 270 sgg.

96. Ivi, pp. 336 e 338.

97. Cfr. la critica a Gibbon e alla «eccessiva sua libertà nel parlare della religione», ivi, p. 381.

98. Ivi, p. 345.

99. Ivi, p. 346.

100. Ivi, p. 359. Alla "storia civile e letteraria" Andrés dedica alcuni rapidi spunti; ho già segnalato (vedi retro nota 22) il giudizio su Tiraboschi. Calda è la lode delle Vitae di Fabroni, "il miglior modello di vite de' letterati, che si possa proporre", seppur talvolta diano noia, giudica, le soverchie "minutezze" (pp. 386-387).

101. Ivi, p. 542.

102. Ivi, p. 547.

103. Ivi, p. 574.

104. Ivi, p. 575. Per la corrispondenza tra Andrés ed E.Q. Visconti vedi retro alla nota 16.

105. Ivi, p. 595. Come ha notato Sebastiano Timpanaro (Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa, Nistri-Lischi, 1980, p. 261), Andrés non mancò di segnalare l'importanza dello studio dei palinsesti: Origine cit., t. I, p.114.

106. Ivi, p. 596.

107. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., t. IV (1790), p. 1-2.

108. Cfr. Ivi, pp. 55-57.

109. Cfr. Ivi, pp. 84-90.

110. Ivi, p. 185.

111. Ivi pp. 264-266 (discussione con S. ARTEAGA, Le rivoluzioni cit., vol. I, IV).

112. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., t. IV, p. 341.

113. Ivi, p. 352.

114. Ivi, p. 407 (un elogio è riservato all'"elegante e dotto poema di Lucrezio"). Per una volta gli arabi, perduti dietro alle "peripatetiche vanità" (pp. 410-411), appaiono in ritardo rispetto ai progressi compiuti dalla fisica in occidente a partire dal sedicesimo secolo.

115. Vedi ivi, alle pp. 476-478. Il "chimicissimo Lavoisier" viene citato per il rovesciamento dell'"impero del flogisto": Origine cit., t. V [1794], pp. 38-39. È da notare che spesso le pagine sulla scienza dell'Origine finirono per essere antologizzate dai manuali scolastici: vedi per esempio G. Savi, Istituzioni botaniche, Pisa, s.e., 1833, dove alle pp. IX-LIV è riprodotta la parte dedicata da Andrés alla storia della botanica.

116. Per la storia editoriale dell'Origine vedi l'ampio carteggio (1782.-1805) di Andrés con G.G. Handwerk, direttore della Tipogafia bodoniana: Modena, B. Estense, "Autografoteca Campori", sub voce.

117. G. Andrés, Dell'origine cit., t. V, p. 471. Su Andrés storico della filosofia: M.F. Sciacca, Giovanni Andrés e la filosofia italiana, nel vol. coll. Italia e Spagna. Saggi sui rapporti storici, filosofici ed artistici tra le due civiltà, Firenze, Le Monnier, 1941, pp.321-335.

118. G. Andrés, Dell'origine cit., t. V, p. 589; l'allusione indiretta al (defunto) Tiraboschi è resa esplicita in un passo d'una lettera di Andrés a Carlo Rosmini (19 giugno 1794) in Lettere inedite di quaranta illustri italiani del secolo XVIII, Milano, Bravetta, 1836, pp. 9-10.

119. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., t. V, p. 525.

120. Cfr. ivi, pp. 531-532: maggior simpatia per Campanella, cui si riconosce «arditezza ed ingegno».

121. Ivi, p. 612. Su questo giudizio: F. Venturi, Settecento riformatore. IV. La caduta dell'Antico Regime (1776-1789), t. I, Torino, Einaudi, 1984, pp. 273-274.

122. Cfr. G. Andrés, Dell'origine cit., t. V, pp. 626-628; il luogo vichiano in Scienza nuova [1744], libro II, V, 2, § 612.

123. Mantova, B. Comunale, Carteggio Bettinelli, sub voce, lettera del 9 ottobre 1802. Andrés si riferiva tra l'altro alle ricerche epigrafiche egizie di Silvestre De Sacy, egualmente critiche nei confronti della cronologia del testo biblico.

124. Cfr. su tutta la questione l'intervento di A. Eximeno, Lettera al reverendissimo P.M. F. Tommaso Maria Mamacchi sopra l'opinione del signor abate D. Giovanni Andrés intorno alla letteratura ecclesiastica de' secoli barbari, Mantova, Braglia, 1783. La riflessione su Gregorio Magno era stata anticipata nel primo tomo dell'Origine, pp. 94-95.

125. G. ANDRÉS, Dell'origine cit., t. VI [1799], p. IX. Sono studiati, nell'ordine, la teologia, gli studi biblici, il diritto canonico e la storia ecclesiastica.

126. G. ANDRÉS, Dell'origine e delle vicende dell'arte d'insegnar a parlare ai sordomuti, Vienna, Alberti, 1793.

127. Antonii Augustini Archiepiscopi Tarraconensis Epistolae latinae et italicae nunc primum editae a Joanne Andresio, Parma, Mussi, 1804, Praefatio, pp. 1-2. Da segnalare, all'interno della vecchia e mai spenta polemica, l'articolo di Andrés Della difesa della letteratura spagnola apparso sull'"Ape" [Firenze] del 28 aprile e 26 maggio 1804, pp. 439-448, 514-528.

128. Cartas familiares, t. I, p. 166, lettera dell'8 dicembre 1785. Anche altre cose romane non piacevano all'Andrés (e certo v'entrerà l'istintiva antipatia che un gesuita di fine Settecento doveva nutrire per il papato): annotò per esempio di non apprezzare, di là dal valore monumentale, la concezione per così dire urbanistica di piazza San Pietro: "La plaza de S. Pedro es una plaza muerta, digamoslo asì, y le falta lo mejor, que es el comercio y bullicio de las gentes, y la alegría de la población " (ivi, p. 24, lettera del 20 novembre 1788). A giudizio di Andrés, la "biblioteca mas pública" non solo d'Italia ma d'Europa era nel Settecento la piccola, scelta Biblioteca Franzoniana di Genova (istituzione tuttora esistente): "Lo singular de esta biblioteca, en lo que es ciertamente única, es el estar siempre abierta a beneficio de los estudiosos, que la quieran desfrutar. Desde las quatro o cinco de la mañana hasta media noche, o hasta que hay quien quiera estudiar en ella, está siempre abierta, y ni hay dias de vacación, ni horas de reposo" (Cartas familiares cit., t. V [1793], p. 197, lettera del 18 novembre 1791). Su questa e altre testimonanze genovesi: L. Marchini, Biblioteche pubbliche a Genova nel Settecento, "Atti della Società ligure di storia patria", n.s., XX/2, 1979, pp. 40-67 (54-58).

129. Catalogo de' codici manoscritti della famiglia Capilupi di Mantova illustrato dall'abate don G. Andrés, Mantova, presso la Società all'Apollo, 1797. Per la successiva storia del fondo (oggi diviso tra l'archivio dei marchesi Capilupi a Suzzara, le biblioteche Nazionale di Roma, Universitaria di Padova e Vaticana): P.O. Kristeller, Iter Italicum, vol. II, London, Warburg Institute, 1967, pp. 173-174.

130. Catalogo cit., p. 5. Poco sopra si rammarica che proprio a Bettinelli, autore di due apprezzati Discorsi sugli scrittori mantovani, fosse rimasta sconosciuta la biblioteca Capilupi.

131. Lettera dell'abate G. Andrés al sig. abate Giacomo Morelli sopra alcuni codici delle biblioteche capitolari di Novara e Vercelli, Parma, Stamperia Reale, 1802, p. 92. L'importante codice cui si riferisce Andrés è l'attuale n° 188 dell'Archivio Capitolare di Vercelli [Constitutiones civiles de tempore Longobardorum]: cfr. A. Sorbelli, Inventario dei manoscritti delle Biblioteche d'Italia, vol. XXXI, 1925, Firenze, Olschki, p. 122. Il carteggio tra Andrés e Morelli (anni 1790-1816) è conservato tra Venezia, B. Marciana, "Epistolario Morelli", cc. 27-112, e Roma, Archivio della Pontificia Università Gregoriana, cod. 553, "Epistolario diretto al P. D. Juan Andrés", cc. 77-193 (excerpta in M. Batllori, Juan Andrés y el humanismo cit.).

132. Vedi le ventisette lettere del Mai (1810-1816) pubblicate in A. Mai, Epistolario. Volume I. A cura di G. Gervasoni, Firenze, Le Monnier, 1954 (lo spagnolo era particolarmente interessato alla pubblicazione, avvenuta poi solo nel 1819, dei frammenti omerici cum picturis, ovvero accompagnati da cinquantotto splendide miniature d'età medievale). Si riferisce allo stesso periodo il bel carteggio con un altro erudito residente a Milano: vedi Ventitré lettere di Juan Andrés a Gaetano Melzi. A cura di N. Vianello, "Archivio veneto ", s. V, vol. XCVIII, 1973, pp. 55-126.

133. G. Andrés, Anecdota Graeca et Latina ex mss. Codicibus Bibliotecae Regiae Neapolitanae Deprompta [...], Neapoli, Ex Regia Typographia, 1816. Fecero seguito le brevi Ricerche intorno all'uso della lingua greca nel Regno di Napoli, ivi, 1816.

134. Cfr. G. Andrés, De' commentarj d'Eustazio sopra Omero, e de' traduttori di essi, "Memorie della regale Accademia ercolanese di archeologia" [Napoli], I, 1822; Id., Illustrazione di una carta geogafica del 1455 e delle notizie che in quel tempo aveansi dell'Antilla, ivi, pp. 129-173 (i due lavori risalgono al 1815-16).

135. "Biblioteca italiana", 1832, vol. LXVI, pp. 23-28 e 145-162, vol. LXVII, pp. 13-26 (ristampa in: F. Ambrosoli, Scritti letterari editi ed inediti, Firenze, Civelli, 1871-1873, vol. I, pp. 107-151).

136. Ivi, vol. LXVI, p. 28.

137. Ivi, vol. LXVI, pp. 151 e 160-161.

138. Ivi, vol. LXVII, p. 21: il nuovo modello critico indicato dall'Ambrosoli è, tipicamente, la Storia di Wilhelm Schlegel.

139. Vedi principalmente Zibaldone 1009-1013, 1045-1046, 3728-3729. Per la possibile influenza di Andrés (Dell'origine cit., t. I, pp. 41-42: cfr. retro nota 61) sulla leopardiana Lettera alla Staël: M. Fubini, Romanticismo italiano, Bari, Laterza, 1953, pp. 71-72. Può essere curioso notare che uno dei supposti maestri del giovanissimo Leopardi, l'alsaziano Giuseppe Antonio Vogel, esprimeva proprio in quegli anni molte riserve su Andrés, in particolare a proposito delle pagine dell'Origine dedicate alla storiografia orientale: cfr. G.A. Vogel, Epistolario. A cura di M. Verdenelli, Recanati, Centro Nazionale di Studi Leopardiani, 1993, pp. 275, 282-283.

140. Vedi P. Emiliani Giudici, Storia delle belle lettere in Italia, Società editrice fiorentina, 1844, p. 20: parla di "anacronismi frequentissimi", "intemperanza rettorica", "enfasi spagnuola", addirittura di "tuono da ciurmadore" dell'Andrés (giudizio sostanzialmente ripetuto da Carducci).