1. Raymond Aron prima[1], poi, più diffusamente François Furet[2], hanno insistito sul carattere eccezionale e, in qualche modo, anomalo della figura di Élie Halévy nell'àmbito della cultura francese del nostro secolo, sui tratti della sua opera che costituiscono quasi «une critique implicite du génie français» e quindi sulla scarsa fortuna che essa ha avuta in patria, eccetto che in un ristretto gruppo di allievi diretti o ideali. A maggior ragione, analoghe considerazioni si potrebbero fare per l'ambiente italiano, spesso così ricettivo delle tendenze prevalenti nella cultura d'Oltralpe, ma anche - se così si può dire - dei suoi 'silenzi': in esso, la ricerca di un dialogo costante con Halévy o di una o più tradizioni di studi ispirate alla sua varia produzione storica, filosofica e politica o di momenti di intenso dibattito generato dalle sue opere ha un esito che non può essere che negativo. Ma se non ci si accontenta di questa prima conclusione, pur innegabile, e si scava in determinati ambienti intellettuali e politici, nella biografia di alcuni studiosi, nelle pagine di determinate riviste, è dato individuare una presenza, rapsodica se si vuole, ma non meno significativa di questo autore. È ciò che si cercherà di fare qui, con un' ulteriore avvertenza: questa «presenza» assume ovviamente caratteri diversi, può essere meramente bibliografica, in un lavoro che si è avvalso criticamente di questa o quell'opera di Halévy, ma consistere anche nella segnalazione o nella recensione più o meno impegnativa, nella traduzione, nella discussione di qualcuna delle sue più celebri tesi; ma anche nel rapporto personale o amicale, di cui talvolta (ma non spesso) restano tracce epistolari. Si è cercato di seguire tutte queste strade, ma più che mirare a una vera propria «bibliografia» degli interventi italiani su Halévy, con tutti i rischi di incompletezza che tali lavori quasi costituzionalmente hanno, mi è sembrato più importante concentrare l'attenzione sui casi in cui l'incontro con lo storico francese ha rivestito un qualche significato nelle vicende intellettuali o politiche di studiosi italiani o ha dato luogo a iniziative in qualche modo degne di nota.
2. La pubblicazione in Francia dei tre volumi della Formation du radicalisme philosophique non passò inosservata in Italia: l'annunziarono, nel 1901, una recensione di Giovanni Vidari, che l'anno successivo sarebbe diventato docente a Palermo di filosofia morale, sulla «Rivista filosofica» di Carlo Cantoni [3] e due segnalazioni, comparse rispettivamente nel 1901 e nel 1904, sulla torinese «Riforma sociale», ancora diretta da Francesco Saverio Nitti e da Luigi Roux, oltre che da Luigi Einaudi: di queste ultime era autore il trentenne Gioele Solari, allora docente di filosofia al liceo di Cuneo. Nella sua lettura, Vidari seguiva un interesse prevalentemente metodologico: poneva l'accento sulla «poca saldezza logica» del radicalismo filosofico e ne ritrovava la prova nella coesistenza al suo interno dei due principî - individuati da Halévy e che, come vedremo, saranno spesso oggetto di discussione da parte dei suoi lettori italiani - dell'identità naturale e dell'identificazione artificiale degli interessi individuali. Insisteva anche sulla sua dipendenza dalla vita pratica, sulla sua subordinazione a bisogni e motivi extra-teoretici: ciò che - come vedremo - sembrerà a molti futuri lettori della Formation una delle caratteristiche più stimolanti del movimento benthamita, era invece per Vidari un serio limite:
Connessione deve essere certamente; perché soltanto dalla pratica si possono attingere esatte cognizioni dei fatti nella loro realtà e nel loro sviluppo, ma non dipendenza, che significa oscuramento della vera finalità scientifica, efficacia di pregiudizi e di interessi, deviamento dal retto metodo. Soltanto per questa indipendenza bene intesa si è potuta costituire la scienza economica, e soltanto per essa potranno ricostituirsi o muovere sicuri passi le altre scienze morali e politiche. Di questa necessità il libro dell' Halévy ci dà una evidente dimostrazione.
Le segnalazioni di Solari avevano invece - come era tipico della sezione bibliografica della «Riforma sociale» - un carattere più largamente riassuntivo e informativo che critico:
Bentham non è generalmente conosciuto fuori dell'Inghilterra che come l'autore di un sistema morale antipopolare ed egoistico: di lui non si ricorda che il calcolo deontologico, ossia l'aritmetica morale diretta a stabilire il quantum di piacere e di dolori e quindi il grado di bontà contenuto in una data azione: pochi si rendono esatto conto della posizione vera che il Bentham occupa nella storia del radicalismo inglese, e dell'importanza reale dell'opera sua di scrittore. Sopratutto si dimentica l'estensione che il principio di utilità assume nel sistema di Bentham, la base psicologica caratteristica su cui si eleva, le conseguenze e le applicazioni feconde che ne derivano nel campo giuridico, economico, politico. L'opera di Leslie Stephen sugli «Utilitarii inglesi» aveva già tentato una ricostituzione integrale della dottrina utilitaria: con uguale intendimento, ma con disegno e metodo del tutto diverso, l'Halévy completa l'opera dello Stephen, superandola sotto molti aspetti, sopratutto nell'uso di molti materiali, finora trascurati dagli studiosi [4].
Quei volumi non riguardavano solo la storia del pensiero filosofico o giuridico, ma gettavano «una luce nuova sopra uno dei più interessanti periodi della storia politica ed economica dell'Inghilterra moderna» e - recensendo il terzo - aggiungeva che si tratta di un'opera indispensabile anche «per lo studio dei presupposti filosofici dell'Economia politica classica».
3. A questi due ancor giovani studiosi, pressoché coetanei (Vidari era nato nel 1871, Solari nel 1872), destinati entrambi a una prestigiosa carriera accademica nell'ateneo torinese, Halévy si presentò, dunque, come l'autore di una notevolissima ricerca che ripercorreva le vicende di un movimento filosofico e politico sostanzialmente trascurato in Italia, sul quale si erano accumulati non pochi luoghi comuni, e che invece rappresentava un approccio, in qualche modo 'tipico', ai problemi politico-sociali e andava perciò seriamente riconsiderato, magari con lo scopo di marcarne le insufficienze e i limiti rispetto alle nuove esigenze dell' «evoluzione sociale». Per nessuno dei due si trattò di una lettura occasionale, perché sia Vidari che Solari sarebbero tornati sull'opera di Halévy in due importanti volumi scritti negli anni successivi, con lo scopo di tracciare un bilancio storico-filosofico dell'Ottocento europeo e di individuare il ruolo e l'importanza che vi avevano avuto le teorie individualistiche: entrambi, sia pure con toni e in misure diverse, avrebbero mostrato la convinzione che l'era dell'individualismo, a cui pur tributavano numerosi riconoscimenti, era in ogni modo finita.
Dopo le tre lauree conseguite a Torino in giurisprudenza, in lettere e in filosofia fra il 1895 e il 1897 e la frequentazione, fra il '96 e il '99, del Laboratorio d'economia politica fondato pochi anni prima da Salvatore Cognetti de Martiis [5], Solari era stato collaboratore della «Critica sociale» con articoli e recensioni ed era già conosciuto come autore di studi di interesse prevalentemente economico e sociale. La sua personalità si era dunque formata in un ambiente permeato di «positivismo sociale», lontano dall'individualismo spenceriano, e di «socialismo» e come avvenne in molti suoi coetanei, anche quando il socialismo militante fu tramontato, sopravvissero in lui non pochi atteggiamenti e motivi culturali che ne erano stati parte integrante: stava allora passando agli studi di filosofia del diritto, ma l'esigenza «organica», la critica dell'individualismo classico, l'esigenza di una nuova filosofia «sociale» basata sull'assioma che «la società ha una sua propria realtà diversa e superiore a quella degli individui che la compongono» [6] restarono al fondo delle sue convinzioni.
Nel 1904 l'Istituto lombardo di scienze e lettere bandiva di nuovo un concorso sul tema: «Influenza delle odierne dottrine socialistiche sul diritto privato», che aveva dato già due volte esito negativo. Solari vi partecipava e risultava vincitore, ma lasciava inedito il proprio lavoro, perchè ormai non corrispondeva più all'approfondimento che nel frattempo aveva subìto il suo pensiero: l'influenza del pensiero socialista sul diritto privato gli sembrava ormai un episodio, probabilmente effimero, di un fenomeno ben più vasto, quello dell'affermarsi, fin dall'inizio dell'Ottocento, di varie correnti (la scuola storica del diritto, l'hegelismo, Menger, Gierke e la concezione sozial del diritto in Germania, Lassalle) che avevano reagito alla concezione individualistica del diritto e dello Stato e avevano mirato con diversa fortuna, ma con unità di intenti a una trasformazione del diritto privato in senso sociale e non solo socialista. La storia del pensiero giuridico del secolo scorso era così percorsa - a suo modo di vedere - da una grande dicotomia fra «idea individuale» e «idea sociale» del diritto privato, fra tendenza alla codificazione e storicismo, che corrispondevano a quella più ampia fra individualismo e organicismo nell'àmbito della filosofia sociale e politica. Prima di trattare adeguatamente di queste tendenze «sociali» (in Storicismo e diritto privato, stampato nel 1915, ma pubblicato solo nel 1940) Solari ritenne opportuno dedicare uno studio specifico a quelle «individuali»: nacque così il volume del 1911 su L'idea individuale del diritto privato. Dopo aver fissato i concetti fondamentali dell'individualismo giuridico nella dottrina dei diritti innati, dello stato di natura e del contratto sociale, cercava di studiarne l'influenza sulle codificazioni settecentesche del diritto privato in Prussia e in Austria e nel Code Napoléon del 1804 e affrontava infine gli autori che ne avevano dato una sistemazione definitiva, Kant e, nonostante l'insuccesso della codificazione in Inghilterra, Bentham e qui tornava ampiamente l'opera di Halévy recensita anni prima.
4. Gli interessi di Solari erano limitati al Bentham giurista e alle sue idee sul diritto privato, ma è chiara la sua dipendenza da Halévy sia per la parte più propriamente filosofica (l'individuazione dei principi di utilità e di associazione delle idee come origini dell'utilitarismo), sia per quella storica: i precedenti dell'utilitarismo nella cultura inglese (Hume soprattutto), ma anche francese (Helvétius) e italiana (Beccaria). Anche Solari indicava nella sua opera riformatrice della legislazione «la ragion vera della [...] importanza storica» di Bentham e in stretta analogia con l' analisi di Halévy, individuava i due poli fra cui il benthamismo aveva oscillato: quello «dell'identità naturale degli interessi» e «l'illazione che non sempre l'individuo è giudice spassionato del suo vero utile, che può errare nel calcolare le conseguenze della condotta, per cui la conciliazione fra le diverse utilità contrastanti non può ottenersi che per mezzo di un forte potere centrale»: lo storico francese aveva parlato di «identificazione artificiale», da cui scaturiscono il benthamismo giuridico e la tendenza alla codificazione. Ripetendo sostanzialmente l'impostazione di Halévy, Solari riteneva che la conciliazione fra questi due principi si potesse trovare in un intervento attivo e in qualche modo liberatorio della legislazione, tendente «ad attenuare [le diseguaglianze] togliendo ogni ostacolo alla libera circolazione delle ricchezze», insomma a garantire le condizioni in cui si possa realizzare naturalmente l'identità degli interessi. Nonostante la grande considerazione e la schietta simpatia per l'opera di Bentham, Solari non aveva dubbi: il benthamismo era sinonimo di individualismo giuridico, «l'individualismo era la conseguenza logica dell'utilitarismo», e quindi apparteneva a un orizzonte culturale e politico ormai oltrepassato dai tempi:
Malgrado il favore di tali dottrine e l'autorità dei loro rappresentanti, noi incliniamo verso l'indirizzo di pensiero che intende la vita collettiva distinta dalla individuale, che concepisce il diritto un prodotto è vero dello spirito, ma dello spirito collettivo, del quale potrà negarsi la sostanzialità, come da molti è negata la sostanzialità dello spirito individuale, ma del quale sono innegabili gli effetti operanti nella storia [7].
Un percorso analogo, una forte esigenza «sociale» che resta viva anche dopo l'abbandono del socialismo, si ritrovano in Vidari; anche la sua opera del 1909 sull'Individualismo nelle dottrine morali del secolo XIX è riuscita vincitrice di un concorso, questa volta bandito dall'Accademia di scienze morali e politiche di Napoli. L'autore distingue tre tipi fondamentali di dottrine individualistiche e cerca di legarle con la «psiche» nazionale di determinati popoli europei: l'individualismo razionalistico, da Royer Collard a Renan, è tipico di quello francese; quello «istintivistico», da Schiller a Nietzsche, del tedesco; il sensistico, da Bentham a Spencer, dell'inglese. Nell'esposizione del sistema benthamita il ricorso e la discussione dei volumi di Halévy è costante: a differenza di Halévy, che aveva notato che la morale utilitaria, più che sensistico-edonistica, era invece prossima a quella stoica, basata sul lavoro e sulla pena, e anzi aveva acutamente sottolineato la contiguità sul terreno pratico che spesso si era creata fra gli atteggiamenti utilitaristici e quelli delle sette non-conformiste, Vidari insiste sui suoi limiti sensistico-egoistici: «la vita interiore dell'individuo, la sua attività originaria, le sue reazioni all'esterno, il fremito della coscienza sfuggono o anzi non esistono affatto per [Bentham] questo lucido osservatore e impavido calcolatore di ciò che è sensibile, divisibile, misurabile». Anche l'individualismo benthamita, dunque, non sfuggiva alla critica rispettosa, ma vivace che Vidari faceva all'individualismo etico ottocentesco: con un formulario piuttosto tipico, raccomandava il giusto equilibrio fra la «solidarietà sociale» e la «libertà individuale»: «educare liberamente la coscienza individuale e organizzare scientificamente la società, sono i due aspetti opposti, ma richiamantisi mutuamente, del problema pratico, che si impone nel momento attuale della evoluzione umana» e individuava la loro possibile sintesi nel concetto di persona, che derivava da un'interpretazione personalistica del kantismo [8].
In questa comune critica dell'individualismo ottocentesco, sia pure diversamente motivata, era il vero momento di distacco dei due studiosi italiani da Halévy, che - nonostante le divergenze filosofiche dall'associazionismo benthamiano e l'atteggiamento critico rispetto a non pochi dei suoi aspetti, anche fondamentali - ne aveva ripercorso l'attività riformatrice nella convinzione che fosse una vicenda che aveva ancora molto da dire alla cultura politica europea dei suoi tempi [9].
5. Halévy era stato, dunque, per Solari e per Vidari lo storico della filosofia che aveva brillantemente delineato un'esperienza culturale e politica importante, ma non più attuale [10]: per trovare un approccio sensibilmente diverso dobbiamo superare il tornante della prima guerra mondiale e passare a uno studioso più giovane, formatosi in un ambiente tutto diverso, quello del nuovo idealismo italiano, per il quale ormai Halévy non è più soltanto l'autore della Formation, ma dei primi tre volumi della Histoire du peuple anglais (il cui primo volume comparso nel 1912 non sembra che sia stato tempestivamente segnalato o discusso in àmbito italiano): mi riferisco a Guido De Ruggiero. Nei primi decenni dopo la sua morte, De Ruggiero, filosofo e storico della politica, è stato forse uno degli esponenti del movimento neo-idealistico su cui maggiormente si è esercitata l'opera di ridimensionamento, talora di dissacrazione, che è stata tipica di tutto un periodo della cultura italiana: intellettuali in genere così cauti e guardinghi nelle loro polemiche, come Bobbio e Garin, sono stati singolarmente duri e liquidatorî con la sua storiografia filosofica e con la sua cultura politica [11]. Senza entrare nel merito del De Ruggiero della Storia della filosofia o della Filosofia contemporanea o dei Filosofi del Novecento, è invece certo quanto una serie di studiosi è venuta affermando negli ultimi anni, che cioé la Storia del liberalismo europeo del 1925, pur con alcuni limiti 'di scuola' (per es. il ruolo attribuito a Hegel all'interno del liberalismo tedesco), «non è solo l'opera più compiuta e organica che la cultura italiana del Novecento (ma non solo italiana) abbia saputo produrre sull'argomento [...], ma conserva ancor oggi, [...], una ricca sostanza teorica e una forte suggestione ideale»[12]; non solo, ma sono da rileggere e valutare con maggior approfondimento gli altri scritti di politica e di storia politica degli anni Venti e anche le numerose recensioni scritte per «La Critica» dal 1927 al 1939, non tanto quelle più strettamente filosofiche, quanto le altre dedicate a volumi di storia e politica, fra i maggiori che la cultura europea allora produsse (da Rostovzeff a Pirenne, a Russell, a Lionel Curtis, a Burdach, a Kantorowicz, a Carl Schmitt, a Waldemar Gurian, etc): recensioni ampie, molto informative, che denotano nel loro autore una felice vena anche di divulgatore, o meglio di mediatore di cultura, di alto livello, che ricorda quella contemporanea di un altro studioso, peraltro a De Ruggiero legato da molte esperienze, Luigi Salvatorelli. È ampiamente nota l'importanza che nella formazione della sua personalità intellettuale ebbe, accanto al legame con la cultura neo-idealistica, soprattutto con quella gentiliana, il lungo soggiorno in Inghilterra nella seconda metà del 1920 e le lezioni durature che seppe trarre, non tanto dai contatti con la filosofia, ma dalla politica e dal dibattito politico inglese:
Invece, il pensiero politico inglese contemporaneo - scriveva a Croce il 20 luglio 1920 - ha una notevole importanza: vi sono delle correnti vive nel socialismo e nel partito liberale indipendente. Comincio un po' a capire come si fa la critica politica. Vi sono qui delle riviste politiche come la Nation, il New Statesman, la Round Table, lo Spectator, che sono dei veri modelli. Quando penso che in Italia, di riviste politiche, non abbiamo altro che «Politica» [su cui De Ruggiero aveva pubblicato alcuni capitoli del Pensiero politico meridionale, N.d.A], così goffamente appesantita col suo gretto nazionalismo, comprendo che stiamo molto più giù [13].
6. Nel libro che ricavò nel 1921 da quell'esperienza, L'impero britannico dopo la guerra (in cui forte è la suggesione del liberalismo di Hobhouse e del suo Liberalism), non c' è ancora traccia delle opere di Halévy, che invece sono una delle fonti principali dell'ampio capitolo della Storia del liberalismo europeo dedicato al liberalismo inglese: sia la Formation, che la Histoire du peuple anglais «ricchissima di notizie e condotta con molto acume»[14]. È stato, anche di recente, posto in luce [15] come uno degli aspetti più acuti e significativi della Storia è quello relativo alla delineazione del rapporto fra liberalismo e democrazia, rapporto che è insieme di continuità e sviluppo (la democrazia come estensione a tutti i membri di una comunità dei diritti individuali - e delle loro garanzie - previsti dal liberalismo e diritto del popolo ad autogovernarsi), ma anche di opposizione e di antitesi nelle premesse ideali e - per usare espressioni di De Ruggiero - nella «mentalità» [16] e nell' «intuizione filosofica della vita» che ne derivano: sul piano storico, tale alterità è esemplata in quella fra l'esperienza liberale inglese e il liberalismo continentale, in particolar modo francese. Tutta l'Introduzione [17] dedicata al secolo XVIII è svolta attorno a questa bipolarità: dal comune punto di partenza, la «libertà feudale», si aprono due svolgimenti diversi, quello francese sulla linea: alleanza fra monarchia e borghesia contro l'aristocrazia-lotta al privilegio-illuminismo popolare-spirito egualitario-Rousseau-rivoluzione francese-cesarismo napoleonico; quello inglese: alleanza dell'aristocrazia con la borghesia contro la monarchia-progressiva estensione del privilegio e quindi delle garanzie-individualismo religioso-rivoluzione industriale-individualismo smithiano-persistenza dello spirito aristocratico-Burke e la sua critica alla rivoluzione. Ne deriva sul continente, e in Francia in particolare, una tendenza democratico-egualitaria e statalistica, in Inghilterra un più diffuso individualismo (una parola e un concetto che De Ruggiero usa positivamente, scorgendone una delle radici del liberalismo, e in questo atteggiamento veramente distaccandosi non solo dalla scuola filosofica di provenienza, ma - abbiamo esaminato gli esempi di Solari e Vidari - dalla maggior parte del mondo culturale italiano) legato alle origini calvinistiche, rafforzato dall'incipiente industrialismo, una diffidenza verso l'intervento statale, una tendenza a coniugare mutamento e continuità. Queste due «mentalità» scorrono parallele per tutto l'Ottocento, ma si intrecciano anche e agiscono vicendevolmente l'una sull'altra, dando vita a un liberalismo più compiutamente «europeo»: momento decisivo è l'età della Restaurazione, in Francia come in Inghilterra. L'esperienza del liberalismo «garantista» dei dottrinari, Constant e poi Tocqueville si affiata col liberalismo inglese, critica l'astrattismo rivoluzionario tipico dell'ambiente francese, soprattutto intuisce i problemi di libertà che sono posti dall'imminente società democratica; il radicalismo filosofico e politico inglese affianca ai tradizionali temi del liberalismo britannico (quelli burkiani, tanto per intenderci) quelli della lotta al privilegio, della democrazia e dell'azione riformatrice: esso compie nella società inglese - De Ruggiero lo afferma esplicitamente, ma era una tesi di Halévy - un ruolo analogo a quello svolto dall'illuminismo, di cui è figlio, e dalla rivoluzione in Francia [18].
7. Anche da questa schematizzazione estrema che siamo stati costretti a compiere dell'impostazione di De Ruggiero emergono chiaramente - ci sembra - le suggestioni che egli ricavò dai testi di Halévy e le non poche consonanze fra i due autori, ma conviene specificare alcuni punti. Lo storico italiano svolge con grande lucidità quello che era stato un po' l'asse interpretativo della Formation, la coesistenza nell'utilitarismo del principio dell'equilibrio naturale e di quello dell'identificazione artificiale degli interessi:
[...] la logica stessa dell'interesse [...] dimostra, in atto, che gl'interessi degl'individui sono armonici tra loro, cioè che ognuno, badando ai propri affari, crea un elemento dell'utilità comune, la quale pertanto risulta formata dalla somma delle utilità particolari. Data siffatta armonia, naturale e spontanea, tra le utilità individuali, e dato il loro concorso verso un bene comune, non vi sarebbe posto, nel sistema sociale, per l'opera di un governo. Ma avviene di fatto che non sempre l'individuo svolga con piena coerenza la logica del proprio interesse, ed anzi, che egli sia portato a seguire un'utilità malintesa, in antitesi con quella degli altri, quindi in ultima istanza, rovinosa anche per il suo interesse particolare. È qui che interviene l'opera del governo, che rappresenta la logica della verità contro l'anti-logica dell'errore, che cioè s'ispira alla utilità del maggior numero contro l'utilità grettamente egoistica e fallace. Quindi tutti gli istituti economici, sociali, giuridici e politici, tutti gli interessi reciproci degli individui e delle classi, vanno giudicati con questo criterio semplicissimo e universale: sono o non sono rispondenti alla utilità del maggior numero? Se non sono, spetta alla legge di eliminarli, in considerazione del benessere non soltanto della collettività ma anche degli individui [19].
Anche se nel quadro che ne traccia nella Formation forse prevale l'aspetto liberale-individualistico del benthamismo, Halévy - com'è stato messo più volte in evidenza [20] - è stato forse il primo (né Leslie Stephen né A.V. Dicey lo avevano fatto) a notare e a mettere in luce le implicazioni democratico-autoritarie e perfino collettivistiche del radicalismo filosofico di Bentham e dei suoi immediati seguaci, che scaturivano in ultima istanza proprio dall'assioma dell'identificazione artificiale degli interessi. De Ruggiero è ancora più netto: ha - al pari di Halévy - una grande ammirazione per le proposte di riforma e la concreta l'attività riformatrice dei filosofi radicali[21], ma non si nasconde le contraddizioni pericolose presenti nelle loro dottrine e le esplicita:
Esso [il radicalismo] è un fenomeno complesso e torbido, che contiene in sé i germi del liberalismo, della democrazia e del socialismo. Il tema dell'utilità, dell'interesse, ha una schietta impronta individualistica e liberale; implica l'autonomia delle iniziative, la capacità di ciascun uomo di far da sé. Ma esso è come sopraffatto dal concorrente tema dell'utilità del maggior numero, che pur dovrebbe essere il risultato finale e complessivo delle singole attività individuali; e che invece, nella pratica, può imporsi solo artificialmente, mediante l'autorità di uno stato, che impersoni i bisogni e gl'interessi della maggioranza e li faccia valere contro l'egoismo dei particolari. C'è qui tutta la sostanza di una democrazia autoritaria, che può alimentare non solo le rivendicazioni meramente politiche del cartismo, ma anche quelle sociali di una classe operaia che abbia acquistato coscienza dei suoi più veri interessi.
8. Il principio della identificazione artificiale degli interessi risultava «un criterio [...] non meno rivoluzionario di quello seguito dall'astratto razionalismo» e rischiava di porre in essere una «democrazia tirannica, quanto quella dei giacobini»[22]. Ma De Ruggiero non era un dottrinario e - in linea anche qui con l'autore della Formation e della Histoire du peuple anglais - mostrava assai bene come l'incidenza storica del benthamismo in qualche modo trascendesse le sue interne tensioni teoriche e fosse dovuta a un ampio movimento sociale che aveva trovato in esso la giustificazione teorica delle proprie esigenze:
I ceti industriali inglesi non hanno quel culto della tradizione, del costume, dell'ereditarietà, con cui il Burke caratterizzava la mentalità dell'aristocrazia liberale terriera. Anzi, essi hanno praticamente acquistato un opposto abito mentale: quel culto doveva significare, nei loro riguardi, l'attaccamento al vecchio regime delle corporazioni, del vincolismo governativo, della routine tecnica. Invece, tutto ciò è stato spazzato via proprio per opera loro: non meno decisamente dei rivoluzionari continentali, essi hanno voluto ricominciare da capo il proprio lavoro, senza fondare che sopra sè medesimi. Questi industriali sono dei veri razionalisti della tecnica e degli affari: avvezzati a ponderare ogni loro atto, a coordinare i vari atti tra loro e a subordinarli al fine da conseguire, essi sono in completa antitesi coi loro predecessori, che tutto imitavano servilmente dagli antenati. L'industria moderna è, come tutte le creature moderne, figliuola del razionalismo: la sua espansione è una logica vivente, che da semplicissime premesse, attraverso una serie sempre crescente di termini medii, raggiunge la complessività di un discorso, per così dire, reale, bene articolato nei suoi nessi, armonico nella sua organicità .
Il radicalismo filosofico era diventato parte integrante della cultura di questi ceti, e Bentham, per molti aspetti, l'interprete della «mentalità dell'industrialismo», della sua «intima propensione per quei ragionamenti chiari ed evidenti di cui si compiaceva l'illuminismo del secolo XVIII, [della sua] ripugnanza verso tutte le astrusità dommatiche, verso le inutili bizzarrie della storia e i gotici frastagliamenti della tradizione»[23]. In tale prospettiva De Ruggiero ne seguiva l'evoluzione e i vari rivoli con cui aveva fecondato la nuova vita politica inglese.
9. De Ruggiero appartiene a una determinata fase della storia del liberalismo europeo, quella fra le due guerre, in sintonia con numerose e importanti correnti del quale ritenne tramontata la gloriosa epoca del manchesterismo e del «liberismo» (come si diceva in Italia), divenendo fautore di un liberalismo interventista e riformatore. Insomma, anche lui proclamò più volte la fine del laissez-faire:
Quel ch'è ben certo è che una fase storica del liberalismo sia tramontata; che sia vana la pretesa, accampata da molti, di riaddurre le cose in pristino, di restaurare il classico liberalismo. La storia non si ripete; se le esigenze stesse dell'economia mondiale hanno travolto le vecchie forme individualistiche, dovunque sostituendo più complesse, organiche, e diciamo pure, più appesantite forme di vita sociale e politica, è vana ogni pretesa, magari generosa, di singoli individui di disfar quel che la storia ha fatto.[...] Il liberalismo che aspiri ad esser vitale non potrà disconoscere e antistoricamente negare le ricche esperienze storiche del presente; ma dovrà essere la loro crisi interiore; così come l'odierno movimento socialista (nel senso più lato) rappresenta la crisi dell'antico mondo liberale [24].
De Ruggiero parlava di «liberalismo organizzato», o anche di «socialismo liberale», che doveva far tesoro delle tendenze all' «organizzazione» che erano emerse durante la guerra: nel panorama inglese scorgeva nelle posizioni espresse da Leonard T. Hobhouse nel suo Liberalism la risposta (preventiva, si direbbe, perché il libro è del 1911) più compiuta a tali esigenze [25]. Non risulta che De Ruggiero abbia conosciuto (certamente non ne ha discusso pubblicamente) i saggi di Halévy raccolti nel 1938 in L'ère des tyrannies, che certo gli avrebbero dato da riflettere su tali problemi. Non è che il pensiero dello storico francese possa essere appiattito sulle posizioni degli ultimi anni: esso ha subìto su questi temi un'evoluzione, che forse non è stata adeguatamente esaminata e scandita. Furet ha indicato chiaramente la sua estraneità originaria al manchesterismo e al suo 'ottimismo' e il suo profondo coinvolgimento nei problemi posti dal socialismo, inteso - prima della guerra - come tentativo di soluzione di alcune questioni scaturite dallo sviluppo liberale [26]. Tutta la sua discussione epistolare con Bertrand Russell dal 1903 al 1905 lo mostra, poi, diffidente verso l'impegno anti-protezionistico dell'amico inglese, che si è gettato nella polemica politica dopo le proposte a favore della 'tariffa imperiale' da parte di Joseph Chamberlain, e i suoi sono argomenti tipici: l'Inghilterra può permettersi il lusso della libertà di commercio perché ormai è fortemente industrializzata, ma i paesi in via di sviluppo han bisogno del protezionismo in difesa della loro industria nascente; inoltre free trade significa pacifismo e internazionalismo, mentre nell'attuale fase del mondo lo scopo pratico dev'essere l'interesse nazionale, non quello universale. Memorabile, per la sua fallacia, è la previsione, contenuta nella lettera del 19 aprile 1905, sul ritorno al potere del Liberal party: l'ossessione liberoscambista, impedendogli di intervenire nei rapporti di lavoro, pensioni, etc. e indebolendo ogni velleità radicale al suo interno, ne farà un partito meramente conservatore, come già accadde fra il 1846 e il 1868, dopo la vittoria della campagna contro il dazio sul grano: salirà al potere un nuovo Whig party [27]. Insomma prima della guerra, fra i due principî presenti nel radicalismo filosofico, quello dell'armonia naturale degli interessi, e l'altro dell'identificazione artificiale, Halévy è più lontano dal primo che dal secondo e considera possibile e auspicabile l'intervento statale «not only to make individuals more happy but also to make them more free». Resta scettico circa la possibilità (e l'opportunità) di una pianificazione generalizzata, soprattutto per la imprevedibilità degli effetti ultimi che ne possono derivare, ma i progressi della scienza economica e quindi della conoscenza dei meccanismi sociali rendono inevitabile un sempre più diretto intervento statale nella produzione e nello scambio della ricchezza [28]. Ancora Furet ha ribadito che l'Halévy di prima della guerra affidava le sue speranze «dans un socialisme libéral ou un libéralisme social, que Lloyd George lui paraissait incarner» [29]: siamo, come si vede, entro un orizzonte politico-culturale non lontano da quello del De Ruggiero di qualche anno dopo.
10. Ma è proprio la guerra che comincia a mettere in crisi il moderato 'statalismo' dello storico francese: di fronte alla grande espansione dello Stato nell'economia e nella società civile, all'affermarsi del bolscevismo e del fascismo, il socialismo, inteso in senso lato come tendenza all'organizzazione e alla gerarchia, gli appare un'idea densa di implicazioni pericolose, ne coglie echi anche nei regimi di destra, constata la paralisi e l'inefficienza dei partiti socialisti. Neanche la crisi del '29, che pure sembra a molti segnare definitivamente la fine dell'individualismo e del liberalismo economico e l'affermazione di forme, più o meno accentuate, di pianificazione, arresta questa sua evoluzione: nel saggio su Sismondi del 1933 ribadisce il suo rifiuto del socialismo e della pianificazione, sempre per l'incapacità di previsione da parte dell'uomo, della regolamentazione integrale dei rapporti di lavoro come dell'egalitarismo assoluto; ma anche del laissez-faire. Tratteggiando l'atteggiamento del liberale Sismondi, Halévy quasi parla di sé:
Ces libéraux ne sont pas des anarchistes, ennemis de toutes les lois. Ils veulent des lois pour protéger l'individu contre les excès de pouvoir du souverain, que ce souverain soit un homme ou une foule. C'est dans le même esprit que Sismondi, ayant vu la servitude naître de la libre concurrence, veut qu'on restreigne la liberté, mais toujours avec prudence, et comme en tâtonnant, puisque c'est toujours en fin de compte pour sauver la liberté qu'on la restreint [30].
Ancora più radicale è nella conferenza londinese del 1934, in cui la crisi del socialismo europeo viene analizzata con lucidità (i socialisti, quando sono all'opposizione, con le loro lotte suscitano spesso reazioni antidemocratiche; quando vanno al governo non si mostrano capaci di riforme incisive, che a ben vedere sono portate a compimento piuttosto dai liberali, e talora anche dai conservatori, che da loro) e con un'amarezza, che «ne sera pas l'amertume de la haine, mais l'amertume des espérances déçues»: Halévy compie quindi un esplicito ricupero di Spencer e del suo Man versus the State, nel denunciare il risvolto protezionistico, socialistico e militaristico dello statalismo contemporaneo e individua con nettezza quella contraddizione fra libertà e organizzazione insita nel socialismo [31], che poi sarà al centro delle celebri tesi presentate il 28 novembre del 1936 alla Société française de philosophie. Si può quindi rinvenire in Halévy un percorso, in qualche modo inverso, a quello di De Ruggiero e della maggior parte del liberalismo italiano e europeo degli anni fra le due guerre: nel senso che questo andò accogliendo l'interventismo statale ed elementi di programmazione economica all'interno delle politiche e delle teorie liberali, lo storico francese, che pur era sempre stato estraneo al laissez faire, andò accentuando la sua diffidenza verso i principî interventisti e lo statalismo, in cui scorse uno dei tratti decisivi dell' «ère des tyrannies».
11. Possiamo avere una riprova di ciò nella recensione che, nel 1935, De Ruggiero riservò al volume di Bertrand Russell, Freedom and Organization. Non sappiamo se il filosofo inglese era presente il 24 aprile 1934 alla conferenza di Halévy a Chatham House, dove il vecchio amico aveva individuato «an inner contradiction running through the whole doctrine of modern socialism. Socialists believe in two extremely different things, perhaps contradictory; on the one hand, liberty, and on the other, organisation. Between them they fall to the ground» [32]; e se quindi la scelta del titolo (che nell'edizione americana è, ancor più significativamente, Freedom versus Organization) e l'affermazione contenuta nel Preface datato May 1934: «The purpose of this book is to trace the opposition and interaction of two main causes of chance in the nineteenth century: the belief in freedom which was common to Liberals and Radicals, and the necessity of organization which arose through industrial and scientific technique»[33] è un'eco di quella conferenza o deriva dalla conoscenza che Russell mostra anche in questo libro delle principali opere di Halévy o se si tratti di un caso - come dire? - di 'affinità elettive'. Il filosofo inglese faceva del contrasto fra il principio organizzativistico del socialismo e dell'industrialismo, e di quello liberale, il filo conduttore della sua lettura delle principali correnti ideali dell'Ottocento europeo: «J'ai eu aussi le livre de Russell - scriveva Alain a Florence Halévy il 19 agosto 1938 - que j'ai déjà un peu lu et qui renvoie souvent au Radicalisme»[34], avvertendovi dunque echi degli scritti dell'amico scomparso. Tralasciamo qui i giudizi assai critici, per alcuni aspetti più che legittimi, sullo spessore di Russell come storico; è interessante, invece, notare come fosse proprio la dicotomia di fondo che prospettava nel suo libro a non convincere De Ruggiero:
Egli infatti vorrebbe mostrare che la crisi con cui s' è concluso il secolo XIX deriva dal contrasto tra lo spirito liberale e lo spirito d' organizzazione che, nato nelle industrie, s'è venuto poco a poco elevando a una forma completa di vita. Ora, non è il miglior mezzo di lumeggiare un contrasto quello di attenuare uno dei termini: se la libertà di scambio dei Manchesteriani compendiasse tutto il liberalismo, non sarebbe neppure il caso di parlar di contrasto e di crisi; ma dovrebbe semplicemente riconoscersi ch'esso è stato dovunque sopraffatto dallo spirito d'organizzazione e dal protezionismo. Se qualcosa di esso invece è sopravvissuto, bisogna cercarlo in regioni diverse dall'economia, ed anche dalla politica, in alcune convinzioni più profonde della coscienza umana, capaci di sopravvivere anche allo scacco del liberalismo, o, per meglio dire, del liberismo economico e di quello politico. Di ciò non v'è traccia nel libro del Russell: [...] dello stesso liberalismo inglese post-cobdenita non fa nessuna menzione, trascurando così tutti gli sforzi che il pensiero liberale ha compiuto per superare l'estremo individualismo della fase manchesteriana e per muovere incontro, nei limiti delle sue possibilità, ai nuovi bisogni dell'organizzazione economica e politica.
Insomma, Russell «non ha posto il problema nei suoi esatti termini: non si tratta di un'alternativa tra i due principii [di libertà e organizzazione]; ma piuttosto di un problema di fusione e di contemperamento» [35]. De Ruggiero considerava ormai irrevocabilmente concluso l'era dell'individualismo economico, del liberismo, dell'anti-interventismo e prevedeva per il liberalismo, se questo voleva sopravvivere, compiti nuovi, diverse basi culturali e filosofiche che prendessero atto di quello «scacco»: esso doveva diventare la coscienza critica della democrazia, col compito di indicarle continuamente i limiti oltre la quale era destinata a degenerare; Halévy avverte piuttosto tutta l'ambiguità di questa trasformazione e i pericoli più generali insiti nell'affermarsi dello Stato nella vita economica e sociale, processo forse irreversibile, ma che comporta rischi non solo per la libertà economica, ma per lo stesso assetto liberale della società europea.
12. Nella sua Storia del liberalismo europeo, De Ruggiero aveva confermato la peculiarità del caso inglese anche da un altro punto di vista: nell'analisi delle «forze spirituali del liberalismo», infatti, aveva trattato ampiamente del problema religioso e, quindi, dell'evoluzione, in Inghilterra, del calvinismo e della formazione dei concetti di libertà religiosa e di coscienza, di cui aveva ribadito la radice schiettamente protestante. Filiazione del calvinismo era anche «il grande movimento metodista del secolo XVIII», del quale - e del pietismo evangelico - cercava di analizzare la portata e gli influssi sulla società britannica fra Sette e Ottocento: nel primo volume della Histoire du peuple anglais si era imbattuto in quella che, nel dibattito storiografico, è diventata per antonomasia The 'Halévy thesis' e sostanzialmente l'accettava e la riassumeva nel suo libro, probabilmente il primo a introdurla nella cultura italiana:
...il metodismo, svolgendosi al di sopra delle singole sètte, contrastava col loro particolarismo troppo esclusivo, e pur senza riuscire a fonderle l'una con l'altra, le sollevava alla visione di ideali e di fini comuni a tutte. E se si considera che il loro reclutamento era in massima parte borghese, si noterà che questa specie di conformismo religioso e morale della predicazione metodista era un modo molto efficace per cementare insieme le forze della nuova classe, e insieme per sottrarle con la mistica consacrazione cristiana, alle suggestioni rivoluzionarie, prima; alla grettezza e alla durezza spietata dell'utilitarismo, poi. Avviene così che nel secolo XIX lo spirito rinnovato delle sètte dissidenti si combina e si amalgama con la mentalità radicale, neutralizzandone gli eccessi. Sono d'ispirazione in gran parte metodista le grandi iniziative umanitarie, filantropiche, sociali, antischiaviste, che si diffondono nell'Inghilterra industriale e commerciale dell'800. Questo miscuglio di sentimentalismo e di egoismo ha sempre formato oggetto delle più gustose satire del temperamento inglese; [...]. Ma non si può disconoscere che vi è in esso una forza e quasi una inconsapevole astuzia conservatrice di primo ordine: in virtù sua, non soltanto la pressione sociale prodotta dall'industrialismo è stata rallentata e arginata; ma le nuove classi dirigenti sono state portate, mediante le esperienze del sentimento umanitario e religioso, a una comprensione più elevata e scientifica dei loro stessi interessi, che sono in realtà aiutati e non ostacolati dallo spirito di fraterna sollecitudine verso altre classi sociali [36].
Sono notazioni veloci, che - se si vuole - semplificano la complessità delle pagine di Halévy, ma ne colgono l'essenziale: la diffusione del metodismo nella middle class più che nel proletariato, nella quale plasma una mentalità engagée nei problemi sociali, ma sottratta alle suggestioni rivoluzionarie; lo strano, ma efficacissimo connubio che si stabilisce fra l'etica delle sette non conformiste e quella benthamita e che assicura la stabilità sociale, ma anche una tensione filantropica e riformatrice nella società britannica. Da questa simbiosi nasceva quel cant, su cui l'anglofobia (non solo) italiana aveva ampiamente ironizzato, ma anche quell'individualismo a sfondo religioso e morale, quell'equilibrio fra stabilità e mutamento che erano fra gli aspetti caratterizzanti il liberalismo inglese.
La voce Metodismo dell'Enciclopedia italiana, dovuta ad Alberto Pincherle, ignorava completamente questi problemi e si teneva su d'un piano strettamente teologico-organizzativo [37]; vi ritornava invece con ampiezza, ma con tono tutto diverso, Delio Cantimori in quella da lui scritta (con tutta probabilità, nel 1938) per il Dizionario di politica pubblicato dal Partito nazionale fascista ai primi del 1940 [38]. Cantimori, che allora stava passando al comunismo, ma che serbava intatte - in questa difficile transizione - molte idiosincrasie culturali e politiche maturate precedentemente da fascista rivoluzionario, quali un sostanziale fastidio per la moralità puritana e i suoi esiti politici, per molti quindi degli atteggiamenti tipici del mondo anglo-sassone, e più in generale un'avversione complessiva al mondo liberale e un'estraneità ai suoi valori, dava di quegli esiti 'conservatori' del metodismo che Halévy e De Ruggiero avevano saputo tratteggiare nella interazione dialettica con la mentalità radicale, fino a vedere in entrambi i tratti caratterizzanti e positivi dello sviluppo liberale inglese dell'Ottocento, un giudizio duramente negativo, come traviamento da una prospettiva rivoluzionaria accarezzata dalle avanguardie borghesi e operaie e mai realizzata. Rifacendosi tacitamente ai coevi studi di Omodeo sulle missioni di riconquista nella Francia della Restaurazione (comparsi sulla «Critica» nel 1938) tracciava un parallelo ardito fra il movimento metodista e quelle missioni:
Da un punto di vista politico, il metodismo si può considerare come l'analogo inglese della Restaurazione europea; con il suo tipo di predicazione (specialmente con la predicazione rude ed entusiastica a grandi masse raccolte nei meetings che i metodisti inglesi avevano ripreso da quelli americani) e per il tipo di pubblico a cui si rivolge, il metodismo corrisponde alla predicazione delle «missioni» per il risveglio religioso, ad opera della «Congregazione», nella Francia di Luigi Filippo; alle masse impoverite e abbrutite dalla industrializzazione il metodismo predicava, insieme al risveglio religioso, alla formazione della personalità morale, e alla ascesi del lavoro, completa rassegnazione all'ordinamento esistente, tanto politico che sociale.
13. Si trattava, quindi, di «consapevole conservatorismo», che era sotteso a tutta la filantropia metodista, anche quando sembrava assumere un risvolto politico, come nelle campagne anti-schiaviste o per l'allargamento del suffragio; al suo tipo di organizzazione, che «ha attenuato e fatto scomparire, con il senso vivissimo dell'autonomia, anche l'individualismo religioso e politico, e la tendenza rivoluzionaria implicita od esplicita in ognuna di esse»; alla mediazione che aveva svolto fra le sette non conformiste e la Chiesa stabilita:
Per questo, il metodismo va considerato come il fattore più importante di conservazione del mondo politico e sociale inglese nel periodo della rivoluzione industriale e delle rivoluzioni politiche e sociali iniziatesi con la rivoluzione francese del 1789: perché esso ha contribuito più che ogni altro movimento a distogliere la borghesia inglese da ogni idea di rivoluzione politica, e a deviare verso i problemi di riforma interiore e religiosa, in uno spirito del tutto conservatore, le esigenze di trasformazione sociale e di elevamento del proletariato creato dalla rivoluzione industriale.
Esso afferma sì le libertà individuali, ma ad esse fa corrispondere il conformismo etico e il rispetto per l'ordinamento politico costituito: sembra anzi affermare quelle libertà, purché non venga messo in discussione l'assetto complessivo della società. Sono interessanti anche gli esiti politici del metodismo che Cantimori indicava, sui quali, in qualche modo, si riverberava la negatività con cui aveva tratteggiato il fenomeno:
In questa affermazione di diritti particolari entro un ordine costituito, dal quale quelli si ripetono, in questo conformismo morale e in questo adattamento religioso, il metodismo può essere considerato il precedente religioso del laburismo inglese, al quale, al tempo d'oggi come agli inizi, fornisce, assieme alle altre organizzazioni religiose inglesi, compresa la Chiesa anglicana, propagandisti ed organizzatori, specialmente nei predicatori locali e laici.
Inoltre «con l'accentuazione della regola di vita, con la codificazione del reciproco controllo e della reciproca assistenza fra 'cristiani risvegliati' [...], con la sua intensificazione sentimentale del tipo puritano, e con la importanza data all'osservanza della legge (religiosa) come misura della santità, il metodismo partecipa alla formazione della mentalità capitalistica, specialmente negli Stati Uniti». Insomma - alla vigilia della seconda guerra mondiale - la garanzia dei diritti individuali e lo sviluppo di quelli sociali che l'esperienza laburista inglese cercava di coniugare era per Cantimori essenzialmente strumento di conservazione, perché rallentava la presa di coscienza rivoluzionaria e il suo sviluppo organizzativo; in modo analogo, come conformista e conservatore veniva caratterizzato lo spirito del capitalismo statunitense [39].
IV. Fra i fuorusciti
14. Per seguire la presenza di Halévy nella cultura italiana fra il 1925 e lo scoppio della nuova guerra mondiale, conviene rivolgere la nostra attenzione ad alcuni ambienti dell'emigrazione politica in Francia. Non che, in Italia, le più serie riviste scientifiche omettessero la segnalazione dei lavori dello storico francese via via che vedevano la luce (pur nello loro brevità, non sono banali gli annunci dei volumi della Histoire du peuple anglais fatti da Francesco Lemmi sulla «Rivista storica italiana» di Pietro Egidi [40]), ma si tratta appunto di schede bibliografiche o poco più, mentre per alcuni giovani fuorusciti l'incontro ideale con Halévy ebbe un'importanza non trascurabile per le loro scelte politiche e culturali.
Già dalla grande biografia che gli fu dedicata da Aldo Garosci (scritta negli Stati Uniti fra il '41 e il '43 e pubblicata in Italia nel 1945), era nota la «relazione intima e familiare» che, con Halévy, ebbe Carlo Rosselli, probabilmente nata già a Firenze nei primi anni Venti, nell'ambiente che si stringeva attorno a Salvemini e a Guglielmo Ferrero, frequentato dai coniugi Halévy nelle loro frequenti visite a Mme Nouffland. È un passo notevole per alcuni giudizi e rivelatore - ma vi torneremo - di quello che fu per Garosci e alcuni suoi compagni di lotta (e di studio) il contenuto e il senso del magistero di Halévy:
Il maggior storico francese dell'Inghilterra moderna, forse il più grande, con Mathiez, dei contemporanei, aveva, a differenza del fratello Daniel, tenuto fede agli ideali del movimento operaio; e la finezza del suo spirito è attestata dall'Ère des Tyrannies che scrisse poco prima di morire, analisi profonda e tristemente realistica delle dittature moderne. Èlie Halévy resterà uno dei grandi spiriti della Francia moderna, per quanto sia stato relativamente poco noto al gran pubblico. Con Rosselli aveva in comune un profondo interesse per la storia delle classi operaie e per le esperienze del laburismo inglese; da lui differiva per quel certo quietismo e pessimismo che, se non lo portò a passare dall'altra parte della barricata (come una disposizione analoga fece per il fratello) lo tolse però nell'ultima parte della sua vita a quella partecipazione alla vita politica che sembra essere d'obbligo per gli intellettuali francesi [41].
In un assai più tardo intervento del 1977 su Carlo Rosselli e la cultura francese, un altro testimone diretto, Franco Venturi, tornava su quei rapporti:
Nella Russia sovietica, come nella socialdemocrazia tedesca, nel mondo francese così come in quello italiano, Élie Halévy cercava le ragioni profonde che portavano a ciò che ancora non veniva chiamato il totalitarismo, ma che egli aveva già individuato alludendo all'epoca delle tirannie nella Grecia antica. Scavava nelle contraddizioni e negli inganni del mondo moderno con tanto maggior accanimento in quanto era convinto che la tragedia incombente sul mondo derivava, per non piccola parte, proprio dall'incapacità della nuova generazione ad affrontare le verità più difficili e dure, abbandonandosi invece sempre più a nuovi miti e sogni. Nel pacifismo sentiva una resa. Nella nuova psicologia e sociologia il rischio di una giustificazione e d'una evasione. In Carlo Rosselli egli trovò l'uomo altrettanto ribelle ad ogni tirannia quanto capace d'una lucida analisi razionale del male che rischiava d'uccidere la civiltà moderna. Trovò insomma una risposta ai problemi che l'angosciavano. Sempre andava chiedendosi se la nuova generazione sarebbe riuscita a trovare la strada fuori dell'età delle tirannie. Carlo Rosselli era la prova vivente d'una simile possibilità. In lui Halévy riconobbe quella forza di resistenza e di rinnovamento senza la quale non v'era salvezza nel presente come non v'era stata nel passato nella storia dei paesi che egli aveva tanto appassionatamente studiato [42].
15. Meno profondo che con Carlo, ma sostanziato anche dalla comune professione di storico, fu il rapporto di Halévy con Nello Rosselli, che fra l'altro coinvolse lo storico francese nel progetto, in cui s'impegnò nel 1932-33, di una rivista di storia europea, aperta alla collaborazione di tutti i migliori studiosi del continente, che contribuisse a slargare l'orizzonte degli studi italiani e a liberarli da impostazioni troppo strettamente nazionali; ma che doveva avere un carattere 'ecumenico' (anche per avere le necessarie coperture politiche), cioé comprendere intellettuali schierati in campi opposti (Croce e Volpe, Omodeo e Luzio) e, anche per questa poco realizzabile velleità, finì per non vedere la luce [43].
Nel 1970 Raymond Aron rievocava l'ultimo incontro, a cui era stato presente, fra i Rosselli e Halévy, nella casa di quest'ultimo a Sucy-en-Brie:
Je rencontrai à la Maison Blanche les frères Rosselli, j'eus une longue conversation avec l'un deux, le militant antifasciste, nous convînmes de nous retrouver bientôt: trois jours plus tard, les deux frères étaient assassinés, sur l'ordre de Mussolini, par des tueurs au service d'un groupe fasciste. Florence nous raconta combien Èlie avait été ému, bouleversé: impitoyable et lucide en son diagnostic, il pressentit le temps des assassins, la venue des barbares [44].
La pubblicazione dei carteggi dei Rosselli e di Halévy ha confermato i ricordi di Garosci, di Aron e di Venturi: ne emergono la frequentazione cordiale di Carlo [45], l'interesse storiografico di Nello (che s'impegnò - nell'àmbito della Scuola di storia moderna e contemporanea diretta da Volpe, della quale fu alunno dal 1927 al 1930 - in una ricerca di storia diplomatica su Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847, che dovette portarlo alla lettura attenta della Histoire du peuple anglais di Halévy [46] ) e il doloroso sbalordimento e i cupi presentimenti del loro più anziano amico alla notizia del delitto di Bagnoles [47].
Da alcuni anni si è cominciata un'analisi attenta della cultura non solo immediatamente politica, ma anche storica, filosofica e letteraria che emerge dai «Quaderni» di GL prima e poi dal settimanale «Giustizia e libertà», che iniziava le sue pubblicazioni a Parigi il 18 maggio 1934, ma alcuni elementi preziosi erano già stati forniti da Garosci, che ha rivendicato - fra l'altro - alle pubblicazioni di Rosselli il merito di aver presentato e discusso problemi, pensatori e correnti culturali «che in Italia o erano affatto ignoti e taciuti o noti solo parzialmente, da Rosenstok-Franck a É. Halévy, dai Webb a De Man e agli eretici della rivoluzione russa, dalle riflessioni degli austromarxisti a quelle dei continuatori del marxismo ungherese» [48].
Un primo, notevole intervento su Halévy è - nel luglio del '36 - proprio del ventiduenne Venturi, dalla primavera del 1932 a Parigi con la famiglia, che aveva preso a collaborare con Rosselli, rivelando «quella penetrazione storica e quel senso della contemporaneità che ne han fatto - scriveva Garosci nel '45 - forse il più penetrante scrittore di Giustizia e Libertà» [49]. Si tratta di una recensione molto espositiva del saggio-conferenza di Halévy, «autore della migliore storia in lingua francese dell'Inghilterra del secolo scorso e del nostro», su Grandeur, décadence et persistance du libéralisme en Angleterre pubblicato in un volume collettivo in quel 1936: «Senza veramente essere un tentativo di sintesi, cioè di approfondimento totale di un punto determinato, questa conferenza vuole essere come uno schema largo e comprensivo dei propri lavori passati e dei lavori futuri suoi e degli altri sul problema dell'Inghilterra e del liberalismo. Insomma quasi dei 'Prolegomeni ad ogni storia futura del novecento inglese'». La crisi del liberalismo inglese data dal 1870: Halévy (e con lui Venturi, probabilmente risentendo anche di suggestioni crociane) insiste molto sul carattere periodizzante di questa data nella storia d'Europa: il sorgere del Reich tedesco, il nuovo modello di Stato (protezionistico, militaristico, paternalistico, interventista nell'economia e nei rapporti di lavoro) plasmato da Bismarck diventa una minaccia, e al tempo stesso, una tentazione anche per l'Inghilterra. Anche qui cominciano a diffondersi ideologie organizzativiste, imperialistiche, va insomma in crisi l'individualismo classico, anche nel campo religioso, da cui aveva preso origine. Si sviluppa il tradeunionismo e il socialismo, che contribuisce a rompere definitivamente l'equilibrio. Per Halévy la trasformazione era ormai completa, la marcia «verso un socialismo più o meno radicale» inarrestabile. Eppure questi nuovi ideali non mostravano ancora una capacità effettiva di egemonia, persistevamo molte tracce dell'antica mentalità liberale. Qui si innestava la riflessione del rosselliano Venturi:
La crisi profonda però è dovuta al fatto [...] della non sufficiente forza e vigoria con cui questi nuovi ideali socialisti son presenti al paese. Pesa su di esso, si direbbe, la mauvaise conscience di abbandonare ideali vecchi e religiosamente rispettati - parlamentarismo, liberalismo, libero scambismo, perfino pacifismo - senza avere in sé le forze che danno nuovi ideali. [...] Problema, dinque, da studiare anche per noi, l'Inghilterra, proprio per i suoi aspetti più caratteristici e rivelatori: crisi religiosa di tipo perfino ecclesiastico - persistenza di valori liberali veri e sinceri di fronte ad una realtà che cambia - insufficiente energia da parte dei novatori per interpretare, vivere e creare il mondo nuovo, che sta sorgendo anche in Inghilterra [50].
16. Quale socialismo dobbiamo elaborare - era questa la domanda implicita di Rosselli - che riesca in qualche modo ad avere una presa effettiva sulla società (italiana), non annichilendo gli ideali liberali e quelli religiosi, che pur essendo in crisi profonda, continuano ad avere una loro tenuta, ma in qualche modo facendo con essi i debiti conti e superandoli, con quell'energia creatrice che i veri rivoluzionari devono avere? Era quindi già implicito il rifiuto del «giacobinismo socialista», che - avrebbe ricordato nel novembre del 1938, dopo aver letto L'ère des tyrannies - rivela chiaramente «l'aspetto anti-storico, 'totalitario' ('tirannico' avrebbe detto Élie Halévy) di tanto socialismo» [51]
Analoghe riflessioni politiche sul socialismo 'possibile' e 'auspicabile' sono al centro di un intervento di Garosci del marzo 1938 [52], proprio sulla seduta della Société française de Philosophie del 28 novembre 1936 e sulle tesi di Halévy che vi furono dibattute:
Alla Société Française de Philosophie si è tenuta, ormai un anno e mezzo fa, e diretta da Élie Halévy, il grande storico francese ora scomparso nella quasi generale indifferenza, una discussione sull' «Era delle tirannidi», ossia sul problema delle origini degli stati totalitari che paiono caratterizzare l'epoca moderna. La discussione si è complicata di diversi motivi attuali, che Halévy stesso ha imprudentemente accumulati nella stessa discussione; ma il tema fondamentale é la perplessità del grande storico su quella che gli pare la «contraddizione interna» del socialismo.
Qui Garosci riportava, traducendolo, il noto passo sul socialismo che si presenta come «compimento finale della Rivoluzione del 1789, che fu una rivoluzione di libertà, come una liberazione dall'ultima servitù che sussiste quando tutte le altre sono state distrutte: la schiavitù del lavoro sotto il capitale», ma che, nel contempo, «è anche una reazione contro l'individualismo e il liberalismo», che «propone una nuova organizzazione coattiva al posto delle organizzazioni sorpassate che la Rivoluzione ha distrutte», e continuava:
In particolare, H. si è fermato, non tanto sulla forma marxista del socialismo, che per lui è fortemente influenzata dall'ideale fondamentalmente anarchico del suo fondatore, quanto sul sansimonismo, sull'opera di F. Lassalle, e sulle teorie dei «fabiani» con i quali l'autore racconta il suo primo incontro verso il 1900. [...] La discussione che ha seguito ha dimostrato quanto, anche nella Società Filosofica, i problemi di attualità immediata (che non sono sempre i problemi fondamentali) prevalgano sui problemi puramente teorici, che pure dovrebbero dominare quando si tratta di arrivare a chiarire a sé stessi la situazione.
17. Dopo aver riassunto gli interventi di Maublanc e di Bouglé, Garosci si fermava su quello di Dominique Parodi, che si era chiesto se la contraddizione fra le tendenze liberali e quelle autoritarie insita nel socialismo non fosse già presente nella democrazia rousseauiana. Garosci ritraduceva queste osservazioni in un linguaggio e in un apparato concettuale di derivazione crociana: «L'autoritarismo socialista ha il suo germe, da una parte nell'aspirazione a uno stato terminale dell'umanità, stato che non può essere realizzato se non autoritariamente, dovesse pure essere uno stato di libertà; d'altra parte nella semplificazione di tutta la storia nel suo aspetto economico e politico». Più di Halévy, insisteva che «questo germe autoritario è comune al marxismo con le altre forme di dottrina socialista: in esso se il motivo dello 'stato terminale' si attenua rispetto a quello fondamentalmente immanentistico dello 'sviluppo del proletariato', la riduzione di tutto il complesso mondo storico all'economia è invece molto più rigida. Questo punto è stato trascurato da Halévy [...]; eppure è esso il vero punto autoritario delle dottrine socialiste, e non la dittatura del proletariato, espediente politico, simile per Marx a quello che è per Lussu il 'governo rivoluzionario'». Era sostanzialmente il carattere di «filosofia della storia» che imponeva un termine ultimo alla vicenda umana, il suo cattivo storicismo, da una parte; e dall'altra il suo «riduzionismo», l'aver abbattuto ogni distinzione fra le attività umane e tutte averle ridotte alla sfera politico-economica che determinavano il carattere autoritario del socialismo, specie di quello marxista.
La conclusione dell'articolo conteneva le riflessioni politiche e le prospettive teoriche che L'ère des tyrannies suggeriva al Garosci del 1938: egli notava come le teorie autoritarie si fossero insinuate nella società europea dalla fine dell'Ottocento, anche perché agli avversari era mancato il coraggio di prenderle risolutamente di petto, nella convinzione quasi della loro inevitabilità: così la storia d'Europa «scivolava inconsciamente verso l'autorità per difetto di un contrasto ideale ben limitato tra libertà e tirannia, di una necessità urgente di difesa dei valori della civiltà». Ecco perché era ormai «giunto il momento di contrapporre dialetticamente, storicamente, in un contrasto liberatore, lo sviluppo autonomo dell'autogoverno proletario, il socialismo liberale e rivoluzionario, il collettivismo democratico fornito d'interna molla progressiva al 'collettivismo' mistico e servile delle 'tirannidi'». È notevole che per il socialista libertario Garosci, come anche per Venturi, l'analisi compiuta da Halévy non comportasse un abbandono della prospettiva socialista e neanche di quella collettivistica: i due amici accettavano la sua diagnosi sulla tendenza autoritaria e su quella libertaria che lottavano, e talora si elidevano, all' interno del socialismo, ma ritenevano possibile sviluppare (ed erano risoluti a farlo) la seconda anche attraverso una dura polemica contro la prima. Dalla lettura di Halévy ricavano un messaggio, potremmo dire, neo-socialista; le sue pagine li confermavano nella necessità di liberare il nucleo libertario presente nel socialismo e di non fermarsi al «pessimismo», allo «scetticismo» del vecchio storico, ma di offrire uno sviluppo coerente del suo pensiero. Lo abbiamo visto: ancora nella Vita di Carlo Rosselli, quindi nel '41-'43, Garosci scriveva che Halévy era sostanzialmente un socialista, un uomo che «aveva, a differenza del fratello Daniel, tenuto fede agli ideali del movimento operaio» e solo a distanza di oltre trent'anni, ormai in una prospettiva storica, Venturi poteva precisare che pur essendo «conoscitore e giudice come pochi altri del pensiero e dell'azione dei socialisti», Élie Halévy socialista non era stato; tuttavia ancora raffigurava Carlo Rosselli come colui che, quasi in un pari in cui aveva messo in gioco la vita, aveva cercato di superare nella pratica la conclusione ideologica profondamente pessimistica dello storico francese e andare alla continua ricerca di un socialismo liberale, che superasse la contraddizione interna dell'ideale socialista, insieme libertario e tirannico [53].
18. Analogo a quello di Venturi e Garosci è l'approccio di Leo Valiani, che fra il 1935 e il 1939 aveva terminato il suo lungo viaggio attraverso il comunismo consumato con la rottura definitiva nel campo di internamento del Vernet nell'autunno del 1939, all'indomani del patto russo-tedesco dell'agosto. Negli anni precedenti aveva conosciuto e frequentato a Parigi Garosci e Venturi, che «avevano già una straordinaria cultura e - ricordava mezzo secolo dopo - io ho imparato moltissimo da loro, anzitutto da Garosci che era il più anziano, ma anche da Venturi...» [54]. Fuggito dal Vernet, raggiunse Marsiglia, Algeri, Casablanca e poi Città del Messico, dove all'inizio del 1943 pubblicò in lingua spagnola quel saggio critico sul socialismo del Novecento,«messo insieme a pezzi e bocconi, tra prigioni e campi di concentramento, tra biblioteche parigine ben fornite e biblioteche di ventura africane e latino-americane», poi tradotto e pubblicato in Italia nel 1945 come Storia del socialismo nel XX secolo (1900-1944). Il libro ripercorre la storia del socialismo europeo, dalla revisione del marxismo nella Germania di fine secolo fino agli ultimi anni della democrazia francese prima della guerra, con un'ampiezza di informazioni allora probabilmente unica in Italia e sulla base della singolarissima esperienza biografica dell'autore: sono così importanti i lunghi capitoli dedicati all'austro-marxismo e alla questione nazionale in Austria-Ungheria prima della grande guerra e a Comunismo e socialdemocrazia nell'Europa danubiana, dei quali il fiumano Valiani era stato diretto testimone. L'autore mostrava una conoscenza diretta delle opere di Halévy, «uno dei maggiori storici dei nostri tempi [...] l'ultimo dei grandi storici francesi» [55], ma uno sviluppo della lettura che di Halévy era stata fatta negli ambienti parigini di Giustizia e libertà sul finire degli anni Trenta, era la conclusione politica del libro:
Due tendenze alimentano il socialismo del nostro secolo: il totalitarismo e il libertarismo. Dal punto di vista ideologico, etico e anche semplicemente rivoluzionario, la seconda di queste tendenze si è rivelata più feconda; ma la necessità della ricostruzione economica e della difesa dello stato proletario, hanno regolarmente sospinto il moto sociale verso la prima. Il libertarismo come regime durevole è, almeno nelle attuali condizioni, impossibile. Il nucleo più positivo di esso potrebbe realizzarsi se si giungesse all'abolizione delle sovranità nazionali e dei principali monopoli economici e all'instaurazione pacifica degli Stati Uniti d'Europa. Il totalitarismo è, invece, di permanente acuta attualità, pur dopo la disfatta del nazionalsocialismo. Al suo molino viene acqua non solo da parte del giacobinismo variamente rinato, ma anche da parte del corporativismo sindacale. Nelle correnti più spregiudicate del socialismo è sorta l'opinione che, per svincolare il movimento di emancipazione dei lavoratori dalla Scilla del libertarismo e dal Cariddi del totalitarismo, faccia d'uopo risanare innanzi a tutto la frattura con la civiltà liberale, che il marxismo implicava. Tale processo di superiore riconciliazione prende generalmente il nome di socialismo liberale.
Valiani l'arricchiva con un'ulteriore riflessione sul ruolo di una nuova borghesia democratica, che probabilmente vedeva come punto di riferimento del Partito d'Azione:
Ma quella frattura non fu dovuta solo alle idee di Carlo Marx e neppur soltanto a contingenti circostanze della lotta di classe economica. Essa persisterà fino a quando il movimento proletario sarà (o parrà essere) l'unico moto coraggiosamente e coerentemente progressivo, rinnovatore della società moderna. L'operaismo, il classismo più o meno marxista perderanno funzione e terreno solo nella misura in cui si formerà una nuova forte corrente, audacemente democratica e chiaramente volta a una radicale e moderna riforma della struttura sociale e statale, capace di organizzare le grandi masse della cosiddetta piccola borghesia, urbana e rurale, che più di qualsiasi ceto si trova ad essere, ai nostri tempi, come spostata [56].
19. Se questa fu la prima lettura che intellettuali della statura di Venturi, Garosci e Valiani diedero di Halévy, sorge il problema della presenza dello storico francese nelle fasi ulteriori della loro attività di studiosi e nelle loro scelte politiche successive. Soprattutto nelle loro pagine rievocative, il nome di Halévy, «uno dei nostri comuni maestri» [57] ricorre non di rado, quasi si tratti di un'esperienza culturale e politica, che ha segnato la loro formazione e le loro scelte. È un problema complesso, che richiederebbe un'analisi diversificata; ma, a costo di cadere nel generico, qualche risposta, sia pure approssimativa, si può proporre. C'è da chiedersi, innanzitutto, se la visione del socialismo ottocentesco emergente dai saggi di Halévy, che certamente riconosceva, sul piano teorico, la centralità del marxismo, ma si interessava soprattutto alle sue fonti, francesi e inglesi (da Saint Simon, a Sismondi, a Hodgskin); e che non nascondeva la sua simpatia per altri socialismi, per le correnti individualistiche e libertarie del socialismo francese, da Fourier a Proudhon, non abbia contribuito all'orientamento successivo di Venturi e Valiani di cercare le radici delle idee socialiste oltrepassando la galassia marxista ed di approfondire la conoscenza di movimenti rivoluzionari in qualche modo ad essa non riconducibli [58]. Ma spesso le scelte culturali si innestavano in quelle politiche: sulla loro evoluzione dagli anni Trenta, Valiani ci dà un'indicazione che merita di essere ricordata:
Devo...precisare che i miei studi hanno determinato l'evoluzione delle mie idee politiche non meno e forse più che non inversamente. La cospirazione antifascista mi aveva educato a una tensione rivoluzionaria estrema, anche nell'attività intellettuale, ma poi, con la corrente del socialismo liberale italiano, hanno agito sul mio pensiero le opere degli storici occidentali delle idee radicali e socialiste, come Élie Halévy e gli scritti dei seguaci socialisti della politica economica moderna, keynesiana, [...]. Ne ho tratto, gradatamente, la concezione della storia del socialismo contemporaneo come di un processo che, dopo una violenta affermazione egualitaria iniziale, si va facendo, spesso inconsapevolmente, un moto di rinnovamento della vita economico-sociale, che la stessa civiltà tecnica porta a pianificarsi sulla dinamica delle grandi masse lavoratrici, e il cui problema tuttora acuto è quello del mantenimento della libertà [59].
20. Si può quindi aggiungere che per questi studiosi, la lettura di Halévy negli anni Trenta confermò la presenza nel socialismo contemporaneo di una tendenza totalitaria, accanto a quella libertaria a cui, chi prima, chi dopo, essi avevano aderito; contro questa realtà totalitaria, che non fecero fatica a identificare nel comunismo sovietico, sentirono l'esigenza di confrontarsi criticamente proprio in nome dei valori del socialismo che avevano fatto propri. Tale confronto andò avanti negli anni, ma non ebbe sempre lo stesso tono e la stessa intensità, per la priorità della lotta antifascista, per il ruolo che vi giocò l'Unione Sovietica, per la convinzione, che in Venturi fu viva fino al 1956, che quello sovietico fosse un esperimento da seguire con attenzione partecipe. Nel primo decennio post-bellico, soprattutto Garosci e Valiani, che - rimasti vicini alla politica militante - erano approdati a uno schietto anticomunismo, compirono il passo ulteriore di vedere nel socialismo non più un'alternativa di sistema, ma un moto di rinnovamento all'interno delle società occidentali (donde, per esempio, l'interesse di Valiani per l'esperienza laburista inglese del 1945-1951): da qui l'esigenza di una più intransigente lotta anti-totalitaria che trovò in Garosci uno degli scrittori più efficaci. Ma anche in questa nuova prospettiva riemergeva la figura di Halévy:
Un grande storico francese (che era stato anche amico di Carlo Rosselli), Èlie Halévy, scomparso poco prima della guerra, aveva melanconicamente meditato, alla vigilia del conflitto, sul destino delle società moderne. Aveva visto molto bene come le cosiddette dittature [...] stessero in stretta connessione con una forma di vita e di governo che tendeva a regolare dall'alto, con criteri tecnici, il corso della vita umana, a meccanizzarla, a chiuderla in schemi riproducenti la volontà arbitraria di un individuo. Al socialismo, che, libertario ancora con Marx, era diventato con i fabiani autoritario e pianificato, alla grande industria, che portava i suoi metodi tirannici, in forza dei quali una sola mente ordina le vite e i movimenti d'infinite persone, si era aggiunto, come forma determinante dell'ambiente in cui nascono le «tirannie», lo stato di guerra, nel quale davvero esse avevano trovato le condizioni migliori per nascere e prosperare. Le «tirannie» interrompevano brutalmente e disperdevano un patrimonio tradizionale, di sentimenti delicati e sicuri di libertà, delle raffinate tecniche di vita morale e di garanzia della varietà umana degli individui, che non s'erano certo formate in un giorno. Era chiaro agli occhi di un osservatore non accecato da volontario ottimismo, che questo patrimonio era diventato di un gruppo sempre più ristretto in Europa, e cioè dei superstiti stati liberali, Inghilterra e Francia, dove pure era minacciato. [...] Si vede bene, credo, quel che c'è di profondo nelle meditazioni di un uomo come Halévy. C'è la coscienza, balenata già più volte nel corso del secolo precedente [...] che la nostra civiltà è un complesso di delicati tessuti, non certo l'unica forma di possibile vita associata; che contro di essa, dentro di essa, a paragone, stanno drizzate altre forme di «civiltà», le quali pure trovano nella vita moderna e nella sua tecnica molte potenti giustificazioni, e che queste civiltà, più simili agl'imperi tirannici dell'Oriente asiatico che ai governi dei popoli occidentali [...]tendono a prosperare e a espandersi con la guerra [60].
Lo storico francese non era più il profeta di un socialismo libertario; ormai era piuttosto lo scrittore anti-totalitario (secondo i temi che l'anti-totalitarismo di allora stava elaborando e che a noi oggi possono sembrare ingenui), che aveva cercato di compiere una prima analisi dell'era delle tirannidi. Il Venturi del 1977 - lo abbiamo visto - sarebbe giunto alle stesse conclusioni.
23. Nel novembre del 1959, pochi mesi dopo la sua morte, Federico Chabod e Arnaldo Momigliano ebbero una vivace discussione epistolare su Carlo Antoni e sul giudizio che Momigliano ne aveva dato nel necrologio che si apprestava a pubblicare sulla «Rivista storica italiana», in cui, sostanzialmente, lamentava che in Antoni «il processo di ridefinizione in seno a una tradizione scolastica [quella crociana] si fosse sostituito all'ampliamento dei confini della conoscenza mercè opere di ricerca» [61]. Non è qui il luogo di discutere (né chi scrive ne avrebbe fino in fondo le capacità) se e fino a che punto questa osservazione risponda al vero: cioè se il tentativo di restaurazione del concetto di individualità e quindi di un nuovo diritto di natura e di superamento della dialettica che egli cercò di introdurre nello storicismo crociano, abbia avuto una qualche importanza o fecondità speculativa; e se le categorie e i giudizi che sono alla base delle sue opere storiche rientrino senza scarti in quel quadro [62]. Non sempre, tuttavia, si sono puntualizzate le conseguenze che quel tentativo di rifondare il valore dell'individualità ha avute sul pensiero politico di Antoni, soprattutto nel dopoguerra. Uno degli aspetti più interessanti che è emerso dal Carteggio con Croce recentemente pubblicato è la fitta rete di rapporti personali che Antoni intrattiene con alcuni dei maggiori liberali europei di quegli anni, da Röpke a Hayek, a de Jouvenel, e la sua contiguità ideale col gruppo che fonda nel 1947 la Mont Pèlerin Society, di cui il filosofo triestino è uno dei tre soci fondatori italiani (gli altri furono Luigi Einaudi e Costantino Bresciani-Turroni),e alle cui riunioni annuali è, nei primi anni, fra i più attivi partecipanti [63]. È importante osservare come, in sintonia con questi ambienti, egli si distacchi da Croce in un punto assai discusso della sua teoria politica, che era stato oggetto di una memorabile e lunga polemica con Einaudi: i rapporti fra liberismo e liberalismo e il caratterere - a giudizio del filosofo - inessenziale del primo per il secondo. Antoni cerca, invece, di ricuperare il liberismo e di ristabilire quel nesso proprio sulla base di una personale meditazione su alcuni decisivi spunti crociani (in particolare il problema della nascita dell'«economico» nel secolo XVIII nell'ambito di quelle che Croce aveva chiamato le «due scienze mondane», l'economia e l'estetica), tanto che non impropriamente è stato affermato che «il giusnaturalismo crociano di Antoni si atteggiava così come una fondazione teorica dell'economia di mercato [...] Non si sbaglia troppo dicendo che la revisione di Antoni del pensiero politico di Croce consiste tutta in questo passaggio dal liberalismo metapolitico al liberismo metaeconomico» [64].
Si colloca in questa revisione la lettura che il filosofo liberale compie di Halévy, in due interventi dell'autunno del 1949, che prendono soprattutto spunto dalla lettura dei saggi del volume del 1938 sull'Ère des tyrannies. Antoni pone nettamente il problema fin dall'inizio:
È più che mai vivo, oggi, il problema del rapporto tra socialismo e libertà. È conciliabile l'attuazione del programma economico del socialismo con la salvaguardia di quelle istituzioni politiche, che l'idea morale della libertà ha ispirato e promosso? Benedetto Croce, come è noto, ha sottoposto ad una critica severissima la pretesa di azionisti e liberali socialisti di porre su uno stesso piano, per conciliarle, l'idea di libertà e l'idea di giustizia. Però è proprio a lui che risale la netta distinzione tra liberalismo e liberismo, tra istanza etico-politica della libertà e tecnica economica dell'intrapresa privata. Preoccupato di tener ben alto e incontaminato l'ideale morale della libertà al di sopra del piano dei contingenti e mutevoli ordinamenti economici della proprietà, della produzione e della distribuzione, egli ha affermato che il metodo liberale è conciliabile con qualsiasi sistema economico, sia esso anche collettivistico. Qualsiasi riforma in questo senso non incide sulla libertà, purché sia liberamente accolta dai cittadini.
24. Croce, quindi, è il padre involontario di tutti quei tentativi di superamento dell'economia di mercato, nel rispetto degli ordinamenti politici liberaldemocratici, che hanno contraddistinto vaste fasce dell'antifascismo democratico italiano, contro le quali egli ha pur aspramente polemizzato. Non solo Einaudi, ma anche «Röpke, Hayek, Lippmann, [...], hanno riaffermato la tesi opposta: il socialismo, anche come mero sistema economico, recherebbe in sé inevitabilmente il totalitarismo politico. L'accentramento del potere economico nelle mani del potere politico renderebbe impraticabile il metodo liberale». La questione è della massima importanza: contro un socialismo che, per ipotesi, facesse a meno della dittatura, il crocianesimo avrebbe poco o niente da obiettare sul piano etico-politico e potrebbe soltanto sollevare la discussione puramente tecnica sulla sua capacità effettiva di aumentare il benessere della popolazione e di garantirle la sicurezza economica. È qui che Antoni inserisce la lettura di «un acuto storico francese», Halévy appunto. Anch'egli
non escludeva, in astratto, la possibilità d'un socialismo democratico che, autoritario nell'ordine economico, restasse liberale nell'ordine politico e intellettuale, però nella sua realtà storica il movimento socialista gli appariva irresistibilmente illiberale.[...] l'Halévy scorge, come si è detto, in tutto il movimento fin dalle sue origini il prevalere del motivo dell'organizzazione autoritaria su quello, pure vivissimo, della libertà. Propostosi di proteggere la personalità umana dagli effetti del disordine economico provocato dall'avvento della grande industria, esso è stato una reazione all'individualismo liberale, che non si è limitato al campo economico. La sua protesta contro l'ottimismo di Adamo Smith e dei suoi seguaci ha investito l'intero sistema liberale di vita, così da divenire un'etica, una filosofia della storia, una concezione totale della vita schiettamente illiberali.
Ma perché il movimento socialista contiene questo motivo illiberale? Halévy lo coglie in Saint Simon, in Lassalle, nei fabiani, insiste meno del dovuto sulla dottrina di Marx, ma poi non riesce a dare una risposta soddisfacente a questa domanda. Antoni ricorda l'analisi che conclude L'ère des tyrannies (pp. 248-249):
avendo il socialismo vista la vita sociale come una progressiva differenziazione ed una lotta delle due classi dei ricchi e dei poveri, i capi, investiti del compito di guidare la battaglia per conto della classe più numerosa e più povera, sarebbero stati costretti ad esigere dalle loro truppe una disciplina militare. Ma questa pratica - obietta Antoni, ripetendo, probabilmente senza saperlo, le stesse osservazioni che Garosci aveva fatte più di dieci anni prima - riguarda soltanto la pratica della conquista del potere, non la struttura del socialismo. L'Halévy, che pure nel socialismo aveva scorto un'etica, una filosofia illiberali, non ha guardato in fondo alla teoria socialista, per vedere se già in essa vi fosse l'inconciliabilità con i metodi liberali.
25. Egli cerca, invece, di individuare tale fondamento nella concezione della vita che, al di là delle sue varie manifestazioni teoriche, è propria del socialismo e in questa analisi fonde temi crociani con non pochi spunti tratti dallo storico francese:
L'avversario del nascente socialismo è stato il liberismo, cioè la teoria ottimistica dello spontaneo comporsi degli interessi individuali e dei benefici della libera concorrenza. Questo liberismo partiva dalla scoperta, fatta nel Settecento, del momento economico come momento di valore positivo e quindi come bene. L'avarizia, l'antico peccato capitale, era diventata un pubblico beneficio, era diventata la virtù della diligenza, del risparmio, dell'iniziativa. Anzi, su questo momento dell'economia l'etica utilitaristica dello Smith e del Bentham costruiva il sistema della morale: sistema necessariamente individualistico, in quanto il momento economico è appunto il momento dell'interesse particolare, cioè dell'individualità. Da questa radice utilitaristica si sviluppava, come è noto, anche il liberalismo inglese. Allorché la rivoluzione industriale fece apparire i sinistri effetti, sulle condizioni delle masse operaie, della libertà economica, il socialismo non si limitò ad accettare le critiche che contro l'ottimismo dello Smith e del Say aveva sollevato il liberale Sismondi e le sue proposte di limitazioni e di rimedi. Né si limitò ad opporre a quell'utilitarismo la sua esigenza «sociale», vale a dire etica. Bensì passò all'altro estremo, cioè rinnovò l'antica condanna contro il momento economico, anzi la aggravò in quanto additò in esso non soltanto il peccato dell'avarizia, cioè dell'asservimento della propria anima all'oro, ma un peccato verso il prossimo, lo sfruttamento e l'asservimento del povero e del debole. Il socialismo ha ignorato il rapporto dialettico tra i due gradi o momenti dell'economia e dell'etica. È stato l'esatto opposto dell'utilitarismo: laddove questo negava l'autonomia dell'etica, riportandola all'utilità, il socialismo negò l'autonomia dell'economia per sostituirla con l'eticità. Ora siffatta negazione moralistica reca con sé la necessità dell'imposizione autoritaria. Essa infatti non vale soltanto ad eliminare il profitto dell'imprenditore privato, bensì investe l'intero rapporto dell'individuo con la società, trasforma cioé ogni attività economica e quindi anche il lavoro, in un'attività etica. Ma questa estensione illimitata della sfera etica reca una offesa e violenza alla natura stessa dello spirito umano ed è quindi costretta ad assumere un carattere tirannico. [...] Il momento economico infatti, per quanto lo si scacci e perseguiti, ritorna, essendo un insopprimibile elemento vitale. È fatale che la sua compressione sia affidata ai metodi della forza. Esso si vendica costringendo l'ideale etico a farsi forza ed oppressione, cioè a cessare di essere tale.
26. Anche Antoni, come il Garosci del 1938, individuava nel rifiuto della distinzione fra le varie attività dell'uomo e quindi nell'unilaterale privilegiamento di una di esse a scapito delle altre, la radice dell'illiberalismo socialista. Ma mentre Garosci aveva scorto nel socialismo l'ipetrofia del momento politico-economico, Antoni - forse con maggior finezza - lo considerava come una forma di ascetismo coatto, di pan-eticismo anti-individualistico. La «disciplina», l' «organizzazione» che Halévy aveva riconosciute ineliminabili nel socialismo derivavano quindi solo secondariamente dalle necessità della lotta di classe; esse scaturivano invece dalle strutture profonde di quell'ideale. Da qui le ragioni di Einaudi e degli altri teorici liberali nella polemica contro Croce:
una statizzazione oggi non è un'innocente misura tecnica, bensì è dettata da uno spirito antieconomico, costituisce un elemento d'un sistema, ed è un passo innanzi verso la totale eliminazione del momento economico, contribuendo a sviluppare negli individui e nelle masse l'abito dell'accettazione del sistema stesso, ed aprendo quella che Hayek ha chiamato la «via della servitù» [65].
Pur nella sua incompletezza, la critica storico-ideologica del socialismo delineata da Halévy risultava importante per il discorso di Antoni: egli era direttamente associato a Mises, Röpke, Hayek e Robbins, e collocato «nella schiera di quei critici dell'economia pianificata e del socialismo, che hanno denunciato tali politiche economiche [protezionistiche e statalistiche] come la causa principale del trapasso dalle democrazie liberali alla tirannide totalitaria» [66].
La prima (e fino ad ora, unica) traduzione italiana di un saggio di Halévy vide la luce nel 1960: in quell'anno, nell'ambito di un'antologia di critica storica dedicata a Storia e miti del '900 e curata da Armando Saitta per l'editore Laterza, le celebri Rhodes Memorial Lectures del 1929 (ma la traduzione era dall'edizione francese inserita nell'Ère des tyrannies) venivano presentate al pubblico italiano, praticamente nella loro integrità (venivano eliminati l'inizio della prima e la conclusione della terza). Storia e miti è un volume che, come pochi, rinvia al periodo in cui fu pubblicato, l'età che si disse del «disgelo» e della «coesistenza pacifica»: l'autore, che aveva cercato di fondere nella propria esperienza di studioso la lezione dello storicismo italiano con quella della grande storiografia 'robespierrista' francese e con un marxismo non schematico e, in definitiva, non 'militante', cercava di superare le rigidità e le contrapposizioni del periodo della guerra fredda, ribadendo il «valore del dialogo» e dello «sforzo di capire» [67]. Presentava, fra l'altro, testi spesso non facilmente disponibili per il pubblico italiano (per esempio, un capitolo di Geschichte und Klassenbewusstsein di Lukács, allora ancora inedito in Italia), fra i quali appunto Une interprétation de la crise mondiale de 1914-1918.
27. Come era arrivato Saitta a Halévy? È assai probabile che la conoscenza dello storico francese sia legata ai suoi primi lavori su Sismondi, Saint Simon e Fourier, in cui, tuttavia, non è direttamente citato, e alla conoscenza ampia che il giovane studioso acquistò ben presto della cultura e della politica francese, anche attraverso un soggiorno di studio a Parigi immediatamente successivo alla fine della guerra [68]. Quando si trattò di offrire una riflessione sulla crisi mondiale del 1914-1918, invece che all'interpretazione della vulgata marxista-leninista della guerra come conflitto interimperialistico scatenato da cause fondamentalmente economiche, preferì ricorrere al saggio letto nell'Ère del tyrannies, facendolo precedere da una rapida nota informativa. Dopo una concisa presentazione dell'autore, precisava aproposito delle Lectures:
La posteriore ricerca storiografica ha modificato alcuni dei dati di fatto che lo Halévy poneva alla base della sua ricostruzione e più di un'affermazione dell'autore è contestabilissima (l'antimarxismo dello Halévy si sostanziava non solo di aderenza alla mentalità e al pensiero liberale inglese, ma anche di un vivo interesse al sansimonismo; ma è proprio degli anni nel quale egli scriveva il sorgere in Francia di un neosansimonismo assai torbido nelle premesse e nelle conseguenze); tuttavia rare volte è dato cogliere con tanta linearità un complesso momento storico nei suoi motivi esenziali, riconducendoli a dei punti fermi unitari, come in queste pagine. Anche negli errori e nei punti deboli il saggio dell'Halévy è illuminante e stimolante (ad es. critica al nesso marxista tra nazionalismo e capitalismo) [69].
Non si può dire che l'innovativa proposta di Saitta abbia avuto un'apprezzabile eco: anche i recensori favorevoli sorvolarono sulle pagine di Halévy e sembrarono non coglierne l'importanza [70]: la storiografia italiana sulla prima guerra mondiale si è sempre più orientata nei decenni successivi verso una quasi esclusiva attenzione alla guerra «italiana», ai suoi risvolti sociali ed economici, e sembra aver perso - se non in casi isolati - l'interesse per il significato generale della grande guerra, per i suoi più ampi risvolti europei, senza un'adeguata comprensione dei quali rischiano di restare poco inquadrate e quindi incomprese anche le questioni più strettamente interne [71].
Nella sua presentazione Saitta riassumeva alcune tesi dell'Ère des tyrannies e ricordava che «una interessante discussione sui nessi affermati dallo Halévy tra bolscevismo e fascismo si tenne nel novembre 1936 alla Société française de philosophie»: su questa discussione, quindici anni dopo, nel 1975, la rivista da lui diretta ospitava un ampio resoconto da parte di Dino Cofrancesco, allora interessato soprattutto al sorgere e all'affermarsi delle tematiche europeistiche, uno dei pochi interventi, forse il solo, che si richiamava esplicitamente al tentativo dello storico siciliano di introdurre The World Crisis nel dibattito politico-storiografico italiano [72].
È certamente opportuno riprendere oggi quel tentativo, non solo per le conferenze oxoniensi, ma per l'intera opera dello storico francese, che solleciterà domande nuove e nuove risposte, com'è nella natura dei classici della storiografia e della politica, e soprattutto potrà essere oggetto di una riconsiderazione globale e più attenta, quale è possibile dedicare alle esperienze concluse e storicamente inquadrabili. Non era inutile, tuttavia, ricordare le letture parziali, se si vuole, spesso mosse dalle esigenze politiche o dai problemi filosofici del momento, che dell'opera di Halévy indagatore delle vicende del radicalismo filosofico, studioso dell'Inghilterra ottocentesca, acuto osservatore della sua Stimmung religiosa, analista partecipe e deluso del socialismo europeo, testimone e storico della prima guerra mondiale e dell'aprirsi dell'era dei totalitarismi, sono state compiute nella cultura italiana, di alcune frange della quale è stato un interlocutore discreto, se si vuole, ma costante.
[*] Relazione presentata al convegno «Élie Halévy e l'era delle tirannie» (Roma, 30-31 ottobre 1998) organizzato da Ideazione Editrice e dalla rivista «Commentaire» in occasione della pubblicazione di É. Halévy, L'era delle tirannie, introduzione di G. Quagliariello, Ideazione, Roma, 1998; di imminente pubblicazione negli Atti. Per i rapporti fra Halévy da una parte, Croce e Salvemini dall'altra, si rinvia alle relazioni di G. Quagliariello e G. Galasso presentate al medesimo convegno. Per i contatti epistolari fra lo storico francese e G. Vailati, G. Amendola e altri intellettuali italiani, cfr. R. Ragghianti, Carteggio Élie Halévy: corrispondenti italiani, appendice a Spigolature crociane: il centenario della «Revue de métaphysique». Con lettere di Croce ed altri e una pagina crociana dimenticata, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXVI (1994), pp.77-98. Avendoli a diretta disposizione, sono ricorso alle traduzioni inglesi della Formation du radicalisme philosophique e della Histoire du peuple anglais au XIXe siècle: The Growth of Philosophic Radicalism, translated by M. Morris, with a preface by J. Plamenatz, Faber and Faber, London, 1972 (=Growth, seguìto dal numero della pagina); History of the English People in the Nineteenth Century, translated by E. I. Watkin and D.A. Barker, Ernest Benn, London, 1949 (2ª edizione) ss. (=History, seguìto dal numero del volume e della pagina).
[1] R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, trad. it. di A. Devizzi, Mondadori, Milano, 1981 (6ªedizione), pp. 276-277, dove si indicano i caratteri di «quella che potremmo chiamare la scuola francese di sociologia politica, i cui fondatori sono Montesquieu e Tocqueville. Élie Halévy, nel nostro tempo, appartiene a questa tradizione. [...] Probabilmente io sono un tardo epigono di questa scuola» e, parlando di Tocqueville, si ricorda che egli appartiene «al partito liberale, cioè a un partito che, probabilmente, ha poche probabilità di trovare simpatie, anche contrastate, nella storia della politica francese» (p. 250). Sulla contrastata fortuna di Halévy nella cultura francese dei decenni successivi alla sua morte, cfr. anche alcune osservazioni di M. Battini, Ripensando Élie Halévy, in «Passato e presente», XV (1997), n. 42, pp. 85-115, 113-114.
[2] F. Furet, Préface a É. Halévy, Correspondance (1891-1937), textes réunis et présentés par H. Guy-Loë et annotés par M. Canto-Sperber, V. Duclert et H. Guy-Loë, Édition de Fallois, Paris, 1996, pp. 33-34, 37-39.
[3] G. Vidari, rec. a É. Halévy, La formation du radicalisme philosophique, I. La jeunesse de Bentham, II. L'évolution de la doctrine utilitaire de 1787 à 1815 (Paris 1901), in «Rivista filosofica», IV (1902), pp. 567-569. Molte notizie sulla figura e sulle relazioni intellettuali di Vidari, dal 1912 professore di pedagogia all'università di Torino, si trovano in G. Chiosso, Educazione e valori nell'epistolario di Giovanni Vidari, La Scuola, Brescia, 1984; per le sue idee pedagogiche, cfr. Id., La scuola patriottica di Giovanni Vidari, in Id., La scuola nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, ivi, 1983, pp. 78-97, 187-189; per l'ambiente della rivista di Cantoni, cfr. P. Guarnieri, La "Rivista filosofica" (1899-1908). Conoscenza e valori nel neokantismo italiano, La Nuova Italia, Firenze, 1981, che ne pubblica anche gl'indici (pp. 173-189). Sui rapporti fra la rivista e la «Revue de Métaphysique et de Morale», e fra Cantoni e Xavier Léon, notizie e documenti in L. Quilici-R. Ragghianti, Il carteggio Xavier Léon: corrispondenti italiani con un'appendice di lettere di Georges Sorel, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXXX (1989), pp. 295-368, 296-301 e 345-349.
[4] G. Solari, rec. a É. Halévy, La jeunesse de Bentham e L'évolution de la doctrine utilitaire 1789-1815 (Paris 1901), in «La Riforma sociale», VIII (1901), pp. 824-825; G. S., appunto bibliografico su É. Halévy, La formation du radicalisme philosophique, t. III, Le radicalisme philosophique (Paris 1904), ibid., XI (1904), p. 254. Non firmata, ma forse ancora di Solari, è la breve segnalazione del vol. di Halévy su Thomas Hodgskin (1787-1869), Paris 1903, ibid., X (1903), p. 364. Un annuncio della pubblicazione dei primi due volumi della Formation fu dato anche da G. M[archesini], in «Rivista di filosofia e scienze affini», a. III, vol. V, n. 1, luglio 1901, p. 229, nella rubrica Fra i libri.
[5] Sulla figura e l'opera di Gioele Solari si rinvia ai numerosi saggi contenuti in Gioele Solari nella cultura del suo tempo, Angeli, Milano, 1985, che tuttavia non sostituiscono i due contributi di N. Bobbio, L'insegnamento di Gioele Solari (1949) e L'opera di Gioele Solari (1952), in Id., Italia civile. Ricordi e testimonianze, Lacaita, Manduria, 1964, pp. 145-155 e 159-192, da cui abbiamo ampiamente attinto. Una bibliografia dei suoi scritti a cura di L. Firpo si trova in appendice a Gioele Solari (1872-1952). Testimonianze e bibliografia nel centenario della nascita, Accademia delle scienze, Torino, 1972.
[6] N. Bobbio, L'opera di Gioele Solari, cit., p. 169. Nel nuovo avvio delle sue ricerche risentì profondamente dell'influenza di Giuseppe Carle, suo professore di filosofia del diritto a Torino, partito da una visione evoluzionistica della società e del diritto che si rifaceva a Vico e a Romagnosi, e quindi alla filosofia risorgimentale italiana, e approdato a una sincretistica «sociologia» del diritto che risentiva dei progressi europei dell'antropologia e della storiografia delle origini negli ultimi decenni dell'Ottocento; ma anche della problematica del cosiddetto «socialismo giuridico», bandito nell'ateneo torinese da Giampietro Chironi, professore di diritto civile, che mirava a una riformulazione dei principali dogmi del diritto in senso solidaristico e anti-individualistico. Insomma l'assunto centrale che Solari mutuò da alcuni dei suoi docenti e che doveva restare al centro del suo pensiero era la netta superiorità delle concezioni giuridiche e politiche ispirantisi all'idea sozial di fronte a quelle che traevano alimento da motivi individualistici e che avevano trovato consacrazione nelle compilazioni civilistiche dell'Ottocento. Su G. Carle, ricchissima di notizie è proprio la monografia di G. Solari, La vita e il pensiero civile di Giuseppe Carle, in «Memorie della R. Accademia delle scienze di Torino», s. II. vol. LXVI, 1928, pp. 1-191, ma cf. anche N. Bobbio, Carle, Giuseppe, in Diz. biogr. degli italiani, XX (1977), pp. 130-135. Sul «socialismo giuridico», acuti rilievi sono in P. Ungari, In memoria del socialismo giuridico, I- Le «scuole del diritto privato sociale», II- Crisi e tramonto del movimento, in «Politica del diritto», I (1970), pp. 241-268, 387-403.
[7] G. Solari, L'idea individuale e l'idea sociale del diritto privato, Parte I - L'idea individuale, Bocca, Torino, 1911, pp. V-XI (per le vicende del concorso dell'Istituto lombardo e le riflessioni critiche sul «socialismo giuridico»), pp. 290-298 (per i precedenti dell'utilitarismo), pp. 298-302 (i principi di utilità e di associazione delle idee come origini dell'utilitarismo), p. 306 (il «principio dell'identità naturale degli interessi»), pp. 326-327 (per quello che Halévy aveva chiamato il principio di «identificazione artificiale»), p. 306 (per la loro presunta conciliazione), p. 326 (per il nesso fra benthamismo, utilitarismo e individualismo), p. 343 (per le conclusioni finali a favore dell'idea sozial del diritto). Si aggiungano la trattazione della concezione benthamiana della proprietà, dei due principî a cui è ispirata (sicurezza e uguaglianza) e le riflessioni sull'opzione di Bentham per quello humiano della sicurezza (pp. 302-311), che ricalcano le corrispondenti di Halévy nella Formation (Growth, 42-50). L'opera dello storico francese è menzionata e discussa ibid., pp. 396-297, 302-303, 306, 313, 315, 329. Il lavoro con cui Solari aveva vinto il concorso dell'Istituto lombardo nel 1906, rimasto per allora inedito, è stato ritrovato e pubblicato da P. Ungari: G. Solari, Socialismo e diritto privato. Influenza delle odierne dottrine socialiste sul diritto privato, Giuffrè, Milano, 1980.
[8] G. Vidari, L'individualismo nelle dottrine morali del secolo XIX, Hoepli, Milano, 1909, pp. 142, 391; per una discussione diretta di alcune analisi di Halévy, ibid., p. 395, ma anche pp. 134, 145 e passim. Su quest'opera e sulla filosofia di Vidari, cfr. A. Del Noce, La figura e il pensiero di Giovanni Vidari, in «Filosofia», XXII (1971), pp. 443-454.
[9] R. Aron, Historien et philosophe (1970), in «Contrepoint», n. 18, 1975, pp. 165-179, 169-172. F. Furet, Préface a É. Halévy, Correspondance (1891-1937), cit., pp. 28-30.
[10] Non meramente bibliografica è la menzione della Formation nell'importante volume di L. Limentani, La morale della simpatia. Saggio sopra l'etica di Adamo Smith nella storia del pensiero inglese, Formiggini, Genova, 1914, pp. 242, 244, 247 (dove si discute l'affermazione di Halévy secondo cui la "Wealth of Nations" consacra il trionfo del principio d'identità naturale degli interessi o dell'armonia spontanea degli egoismi, mentre, per Limentani, anche Smith ricorre talora al principio d'identificazione artificiale - cioè operata dal legislatore - e non nega esplicitamente il principio di fusione degli interessi, per cui l'identificazione del bene privato e del bene generale avviene spontaneamente, entro ciascuna coscienza individuale, per virtù della «simpatia»); p. 248, in cui si riprende a proposito dell'«individualismo» di Smith (che Limentani tende a sfumare, o comunque a ben distinguere - a differenza di Halévy - dal successivo manchesterismo) quanto detto dallo storico francese per Ricardo (Growth, 341): è assurdo voler proteggere in pari tempo, con una serie di leggi particolari che si contraddirranno quasi infallibilmente fra loro, gli interessi di tutti i gruppi di produttori presi ad uno ad uno; per assicurare la maggior felicità del maggior numero, bisogna mirare all'interesse dei consumatori, all'interesse di tutti gli individui, considerati come tali e non come membri di questo o quel gruppo economico: in questo senso si può dire che la scuola smithiana sia individualistica, perché tende a considerare l'interesse generale come consistente non in una somma di interessi di gruppi, ma in una somma di interessi individuali che si trovano a essere tutti identici. Per notizie e osservazione sull'utilitarismo ricorre alle pagine di Halévy anche F. Ruffini, La giovinezza del conte di Cavour, I, Bocca, Torino, 1912, pp. 72-100, rimproverandogli tuttavia di non aver trattato adeguatamente il problema della fortuna di Bentham in Italia nell'Ottocento e di essersi limitato a ricordare il giurista toscano Giovanni Carmignani, ignorando sia le Osservazioni sulla morale cattolica di Manzoni, sia il giovanile appassionamento di Cavour per l'utilitarismo (pp. 86-87).
[11] N. Bobbio, Ricordo di Guido De Ruggiero. L'opera scientifica, in «Cultura moderna», febbraio 1953, pp. 4-6; Id., Il nostro genio speculativo, in «Il Contemporaneo», 11 giugno 1955, pp. 1-2; Id., Politica e cultura, Einaudi, Torino, 1955, pp. 253-254; E. Garin, Guido De Ruggiero, in Id., Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 105-136.
[12] G. Bedeschi, Il liberalismo di De Ruggiero, in «La Cultura», XXVII (1989), pp. 16-25, 17; ma cfr. anche in tal senso G. Sasso, Ricordo di Guido De Ruggiero, ibid., pp. 3-15; R. Romeo, Prefazione (1986), a G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, nuova ediz., Laterza, Bari, 1995, pp. V-XVI; e soprattutto R. De Felice, Introduzione a G. De Ruggiero, Scritti politici 1912-1926, Cappelli, Bologna, 1963, pp. 7-76 e De Ruggiero, Guido, in Diz. biogr. degli italiani, XXXIX (1991), pp. 248-258.
[13] D. Coli Sarfatti, Note su De Ruggiero e Croce, in «Dimensioni», IV (1979), n. 11, pp. 36-50, 46 nota 47.
[14] G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Laterza, Bari, 1946 (4ª edizione), pp. 477-478, ma cfr. anche pp. 99, 103, 110 per altre citazioni. Ma tutta la bibliografia della parte inglese della Storia è di prima mano, intesa nel suo giusto valore e tutt'altro che comune nella coeva cultura storico-politica italiana. Si è, per es., sovente lamentata la tardiva e lenta diffusione in Italia del concetto storico (e dell'espressione) di «rivoluzione industriale»: esso è già presente in De Ruggiero che gli dedica un intero paragrafo della sua Storia (pp. 46-53), basandosi su una bibliografia adeguata, soprattutto A. Toynbee, nelle cui Lectures on the industrial revolution in England, London, 1884, «questa espressione è stata forse usata per la prima volta» (p. 47 nota 1). F. A. Hayek rimprovera alla «[de] Ruggiero's justly esteemed History of European Liberalism», che cita nella traduzione inglese del 1927 compiuta da R.G. Collingwood, l'accettazione della c.d. tesi 'pessimistica' sui primi effetti della rivoluzione industriale sulle condizioni della classe operaia e ne indica la fonte proprio in Halévy: «It is interesting that [de] Ruggiero seems to derive his facts mainly from another supposedly liberal historian, Élie Halévy, although Halévy never expressed them so crudely»(F. A. Hayek, History and Politics, in Capitalism and Historians, ed. F.A. Hayek, The University of Chicago Press, 1954, pp. 3-29, 11). Che la lettura di Halévy sia stato il tramite per un più approfondito studio della rivoluzione industriale per altri storici italiani sembra confermato in Ar. Sa[pori], Halévy, Élie, in Enciclopedia italiana. Seconda appendice 1938-1948, I (1948), p. 1176, che afferma che di essa «l'H. è stato fra i primi a comprendere tutta l'importanza». Ma - per altri spunti bibliografici - si vedano anche le pagine della Storia su J. Chamberlain, il riordinamento del partito liberale dipo il 1876 e la formazione del caucus di Birmingham, per cui si rifà esplicitamente ai «due importanti volumi dell'OSTROGORSKJ, La démocratie et la formation des parties politiques, Paris, 1903» (p. 160 nota 1): lo stesso giudizio, «opera di grande importanza», è ribadito a p. 481. Che M.Y. Ostrogorski, con Tocqueville e Bryce, sia stato alle origini delle riflessioni deruggieriane sulla mentalita democratica è confermato in G. De Ruggiero, Il ritorno alla ragione, Laterza, Bari, 1946, p. 140.
[15] G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, Laterza, Bari, 1996 (3ª edizione), pp. 281-286.
[16] De Ruggiero aveva elaborato il concetto di «mentalità» in opposizione a quello di «cultura» in La pensée italienne et la guerre, in «Revue de Métaphysique et de Morale», XXIII (1916), pp. 749-785, in traduzione italiana in G. De Ruggiero, Scritti politici 1912-1926, cit., pp. 125-175, in particolare 157-161. Per questo che era stato il suo primo contatto con la rivista di Léon e di Halévy, il filosofo italiano era stato presentato al primo da Jules Lachelier; l'articolo fu tradotto in francese da Dominique Parodi, che fu frequente recensore di opere italiane sulla «Revue»: cfr. le lettere di De Ruggiero a Léon del 25 feb. e 16 mag. 1916, in L. Quilici-R. Ragghianti, Il carteggio Xavier Léon, cit., pp. 307-308 e 353.
[17] G. De Ruggiero, Storia, cit. , pp. 1-94, ma anche pp. 127-128, 141, 166, 218-221,
[18] Ibid., pp. 14, 127-128, 141, 181. Si ricordi Halévy: «For England, like France, had its century of liberalism: and to the century of the French Revolution corresponded, on the other side of the Channel, the century of the Industrial Revolution: to the juristic and spiritualistic philosophy of the Rights of Man corresponded the Utilitarian philosophy of the identity of interests» (Growth, XXVIII, ma anche 370 e passim).
[19] G. De Ruggiero, Storia, cit., pp. 106-107.
[20] Si veda da ultimo, M. Chase, Élie Halévy. An Intellectual Biography, Columbia University Press, New York, 1980, pp. 80-81, discutendo le osservazioni critiche di J. Bartlet Brebner, Élie Halévy, in Some modern Historians of Britain: Essays in Honor of Robert Schuyler, Dryden Press, New York, 1951, p. 242, che aveva accusato Halévy di non mostrare «no premonition of the collectivist threat» insiti nella dottrina utilitaristica. M. Chase nota come Halévy sia pervenuto a un'accresciuta consapevolezza di tali rischi nei volumi della Histoire du peuple anglais, in particolare nel vol. III, uscito nel '23 e ben noto a De Ruggiero, dove si afferma esplicitamente che «utilitarian philosophy was not solely, nor even perhaps fundamentally, a liberal system; it was at the same time a doctrine of aythority which looked to the deliberate and in a sense the scientific interference of government to produce a harmony of interests...» (History, III, p. 100).
[21] G. De Ruggiero, Storia, cit., p. 108 e passim; cfr. Halévy, Growth, 508-514.
[22] G. De Ruggiero, Storia, cit., pp. 111, 107. Le potenzialità collettivistiche di certo utilitarismo erano state chiaramente individuate da Halévy nel libretto su Thomas Hodgskin (1787-1869), Société Nouvelle de Librairie et d'Édition, Paris, 1903, che tuttavia De Ruggiero non sembra conoscere.
[23] G. De Ruggiero, Storia, cit., pp. 101-102. Cfr. Halévy, Growth, 370.
[24] G. De Ruggiero, I presupposti economici del liberalismo (1922), in G. De Ruggiero, Scritti politici 1912-1926, cit., pp. 455-470, 469-470.
[25] Per «liberalismo organizzato», cfr. Id., Il trionfo del liberalismo (1919), ibid., pp. 196-200, 200. Per il «socialismo liberale», cfr. Id., Storia, cit., p. 165. Per l'ammirazione per Hobhouse, ibid., p. 166 e R. De Felice, Introduzione, cit., pp. 44-45. Per l'attenzione di De Ruggiero verso le nuove forme di liberalismo emergenti in Inghilterra fra Otto e Novecento, cfr. anche un cenno in M. Freeden, Halévy and Fin-de-Siècle English Liberalism, in questo stesso volume.
[26] F. Furet, Préface a É. Halévy, Correspondance (1891-1937), cit., pp. 31-32.
[27] Ibid., pp. 342, 345-346, 348-349, 352-353, 354-355, 363-364 (quella del 19 aprile 1905). Questa corrispondenza era stata parzialmente pubblicata e adeguatamente inquadrata (con qualche lapsus per quanto riguarda Halévy) in R. Rempel, From Imperialism to Free Trade: Couturat, Halévy and Russell's First Crusade, in «Journal of History of Ideas», XL (1979), pp. 423-443.
[28] Growth, 506, 499.
[29] F. Furet, Préface, cit., p. 51.
[30] É. Halévy, Sismondi. Critique de l'optimisme industrialiste (1933), in Id., L'ère des tyrannies. Études sur le socialisme et la guerre, préface de C. Bouglé, Gallimard, Paris, 1938, pp. 15-29, 26.
[31] Id., Le socialisme et le problème du parlementarisme démocratique (1934), ibid., pp. 200-212, 201, 208, 210. Qui non si parlava ancora di «ère des tyrannies», come due anni dopo, ma di «le nouveau despotisme».
[32] Id., Socialism and the Problem of Democratic Parliamentarianism (1934), in Id., The Era of Tyrannies, with a note of F. Stern, New York University Press, 1966, pp. 249-264, 260 (cito da questa edizione perché riporta il testo originariamente pubblicato in «International Affairs», July 1934, pp. 490-502).
[33] B. Russell, Freedom versus Organization 1814-1914, Norton, New York, 1934, p. VIII.
[34] Alain, Correspondance avec Élie et Florence Halévy, Gallimard, Paris, 1957, p. 318.
[35] G. De Ruggiero, rec. a B. Russell, Freedom and organization, 1818-1914 (London 1934), in «La Critica», XXXIII (1935), pp. 128-131. Adolfo Omodeo, consultato da Laterza a proposito del volume di Russell, ne sconsigliò la traduzione, dandone - con lettera del 6 dic. 1934 - un giudizio negativo, anche a nome di Croce, ma su d'un piano strettamente scientifico: D. Coli, Croce, Laterza e la cultura europea, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 122 nota 75. L'opera fu poi pubblicata nel 1950 dall'editore Einaudi nella traduzione di Clara Maturi Egidi, col titolo piuttosto fuorviante e generico di Storia delle idee del secolo XIX.
[36] G. De Ruggiero, Storia, cit., pp. 16, 19-20, 122-123. Per un'ampia discussione storiografica sulle tesi di Halévy, cfr. M. Chase, Élie Halévy, cit., pp. 86-120.
[37] A.P[incherle], Metodismo, in Enciclopedia italiana, XXIII (1934), pp. 94-96.
[38] D. Cantimori, Metodismo, in Dizionario di politica, a cura del Partito nazionale fascista, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Roma, 1940, vol. III, pp. 161-162. Nella Bibliografia in calce alla voce compaiono i nomi di Weber e Troeltsch, ma non quello di Halévy, della cui opera, tuttavia, darei per sicuro che Cantimori fosse a conoscenza. È probabile (ma l'ipotesi meriterebbe un'attenta verifica) che sia stata operata dalla redazione del Dizionario una 'bonifica' dei richiami bibliografici, purgandoli degli autori di origine ebraica: siamo all'indomani delle leggi razziali. Per la collaborazione di Cantimori al Dizionario e per il particolare travaglio politico degli anni 1935-1940, cfr. R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l'itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), in «Storia della storiografia», n. 31 (1997), pp. 3-182, 115-140, e in Cromohs 2 (1997): 1-128, <URL: http://www.unifi.it/riviste/cromohs/2_97/pertici.html.
[39] Tutt'altra lettura della Halévy thesis ha dato, nel secondo dopoguerra il cattolico e liberale U. Morra, Vita del popolo inglese, in «La nuova Europa», II, 20 (20 mag. 1945), p. 10, che concludeva sottolineando il nesso fra religione e libertà presente nella storia inglese (ma tutto l'art. è notevole, per la precisa conoscenza della personalità di Halévy e della sua Histoire du peuple anglais che l'autore dimostra): su Morra, la sua anglofilìa, le radici del suo liberalismo cristiano, la collaborazione alla «Nuova Europa» di Salvatorelli, Vinciguerra, De Ruggiero e Pancrazi, cfr. R. Pertici, Un liberale del nostro tempo: Umberto Morra di Lavriano, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di lettere e filosofia, s. III, vol, XIV.1, 1984, pp. 212-305. Invece G. Spini, Storia dell'età moderna (1515-1763), Einaudi, Torino, 1965, pp. 1002-1006, pone in luce soprattutto le potenzialità democratiche insite nel movimento metodista, nelle sue strutture organizzative e nell'azione di risveglio delle masse popolari da esso esercitata: «D'altra parte, il carattere 'tranquillo', che il metodismo desume dalle proprie origini pietiste e dallo spirito medesimo del suo fondatore, mentre contribuisce a dare al movimento popolare inglese quel suo tipico carattere non-violento ed alieno da soluzioni rivoluzionarie, pone per così dire con le spalle al muro le classi dirigenti. Un paese avvezzo da tempo ai meetings religiosi ed alle classes metodiste troverà insopportabile che, ad un certo momento, si pretenda di mettere fuori legge comizi democratici od unioni sindacali. Se taluno potrà scrivere che il metodismo ha impedito all'Inghilterra di passare attraverso l'esperienza d'una rivoluzione giacobina simile a quella francese, nessuno d'altra parte si meraviglierà, il giorno in cui spunteranno nel Parlamento inglese, i primi deputati degli operai, di trovarne le file tanto singolarmente pullulanti di metodisti» (p. 1006). Degna di nota la recensione, venata di benevola ironia verso la fede nel progresso e il fervore puritano di tante pagine di Spini, che Cantimori, ormai burckhardtiano, dedicò a La storia narrata di Giorgio Spini, in «Paese Sera-Supplemento libri», 26 nov. 1965. Molta attenzione a questi problemi mostra V. Gabrieli, nella sua eccellente rec. al libro di M. Chase più volte citato, in «Rivista storica italiana», XCIV (1982), pp. 313-326.
[40] Ibid., XLI (1924), p. 84, sul vol. II, uscito nel 1923; ibid., XLV (1928), pp. 96-97, sul vol. I dell'Épilogue uscito nel 1926. Ma si veda anche la segnalazione da parte di F. Spinedi di La Doctrine de Saint Simon. Exposition. Première année, 1829, nouvelle édition avec introduction et notes par C. Bouglé et É. Halévy (Paris 1924), in «Giornale degli economisti». XLI (1926), pp. 64-65; quella di É. Halévy, The World Crisis of 1914-1918. An Interpretation (Oxford 1930), in «Rivista di politica economica», XX (1930), p. 527, firmata a.d.p.-t. [A. de Pietri-Tonelli]; e di É. Halévy, Sismondi (Paris, 1933), in «La Riforma sociale», XLI (1934), p. 351, firmata R. F[ubini].
[41] A. Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Vallecchi, Firenze, 1973 (2ª edizione), p. 292.
[42] F. Venturi, Carlo Rosselli e la cultura francese, in Giustizia e libertà nella lotta antifascista e nella storia d'Italia. Attualità dei fratelli Rosselli a quaranta anni dal loro sacrificio, atti del Convegno Internazionale organizzato a Firenze il 10-12 giugno 1977, La Nuova Italia, Firenze, 1978, pp. 163-178, 177.
[43] Da Halévy (e da altri), Nello aveva ricevuto «un incoraggiamento esplicito oltre a promesse di collaborazione e di aiuto»: lo scriveva a G. Luzzatto il 16 feb. 1933; altrettanto annunciava a R. Ciasca il 20 feb. dello stesso anno: cfr. Nello Rosselli. Uno storico sotto il fascismo. Lettere e scritti vari (1924-1937), a c. di Z. Ciuffoletti, La Nuova Italia, Firenze, 1979, pp. 98 e 105. Per questo progetto, cfr. G. Belardelli, Nello Rosselli uno storico antifascista, Passigli, Firenze, 1982, pp. 149-171.
[44] R. Aron, Historien et philosophe, cit., p. 166, ma probabilmente il ricordo deve essere retrodatato perché da É. Halévy, Correspondance, cit., p. 745, risulta che lo storico trascorse il maggio-giugno 1937 in Inghilterra.
[45] «Vidi giorni fa Gooch dagli Halévy», scriveva Carlo alla madre da Parigi, il 4 marzo 1934, in Epistolario familiare. Carlo, Nello Rosselli e la madre (1914-1979), Sugarco, Milano, 1979, p. 562; e alla moglie, ancora da Parigi, il 5 luglio [1935]: «Ieri sono stato a trovare gli Halévy, dove ho trovato i Brunschvicg» (C. Rosselli, Dall'esilio. Lettere alla moglie 1929-1937, a c. di C. Casucci, pref. di J. Rosselli, Passigli, Firenze, 1993, p. 209.
[46] «Ho terminato il I vol. [della Histoire du peuple anglais] di Halévy (con appunti), ora ho attaccato il II» annunciava Nello alla madre dal conifno di Ustica il 12 gen. 1928 (Epistolario familiare, cit., p. 386), ma anche il successivo 26 gen. faceva riferimento a letture dello storico francese (ibid., p. 388). Ancora ad Amelia Rosselli, da Frassine, il 2 ott. 1930, riferiva di aver letto «un libro di storia recente dello Halévy», con tutta probabilità The World Crisis, uscito in quell'anno (ibid., p. 489). Il libro su Inghilterra e Regno di Sardegna, com'è noto, uscì postumo a c. di Paolo Treves, Einaudi, Torino, 1954.
47 «La mort des deux frères Rosselli, tous deux mes amis - l'un ennemi redoutable autant qu' acharné de Mussolini, l'autre un antifasciste des plus modérés, et qui était un historien de valeur, nous plonge dans le deuil», scriveva ad A. de Meyendorff il 13 giu. 1937 (É. Halévy, Correspondance, cit., p. 745) ed a Gabrielle Léon, il successivo 15 giu. : «Nous sommes bien émus par le double assassinat des frères Rosselli, pour lesquels, principalement Carlo, mais aussi Nello, nous avions beaucoup d'amitié. Qu' un homme qui s'est constamment assis à votre table, qui vous a rendu visite avec sa femme et ses enfants, ait été assassiné au coin des bois par les sbires d'un tyran, c'est une impression nouvelle pour moi, et amère. Mais je fais cependant une différence entre les victimes. Carlo, qui avait été se battre en Espagne, savait les risques qu 'il courait. Mais son malheureux frère, un historien de valeur, anti-fasciste sans doute mais complètement en dehors de la politique, marié à une femme qui n'était rien moins qu 'antifasciste, ait payé de ce prix une visite faire par accident à Carlo au jour fixé par le destin, est vraiment une atrocité. Hélas! tel est le siècle»(ibid., p. 747). Ma si vedano anche le annotazioni di H. Guy-Loë sui rapporti fra i Rosselli e Halévy, ibid., pp. 663-664, 723-724.
48 A. Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, Bari, 1953, p. 250. Per i «Quaderni», cfr. F. Venturi, Carlo Rosselli e la cultura francese, cit.; S. Fedele, E verrà un'altra Italia. Politica e cultura nei «Quaderni di Giustizia e Libertà», Angeli, Milano, 1992. Sull'esilio francese di Franco Venturi e il suo impegno in GL, cfr. E. Tortarolo, La rivolta e le riforme. Appunti per una biografia intellettuale di Franco Venturi (1914-1994), in «Studi settecenteschi», XV (1995), pp. 9-38 (su Halévy, pp. 22-23); Id., L'esilio della libertà. Franco Venturi e la cultura europea degli anni Trenta, in Il coraggio della ragione. Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita, atti del convegno internazionale di studi (Torino, 12-13-14 dic. 1996) a c. di L. Guerci e G. Ricuperati, Fondazione Einaudi, Torino, 1998, pp. 89-107 (su Halévy, pp. 99-101) e soprattutto R. Vivarelli, Tra politica e storia: appunti sulla formazione di Franco Venturi negli anni dell'esilio (1931-1940), ibid., pp. 61-88 (su Halévy, p. 85).
49 A. Garosci, Vita di Carlo Rosselli, cit., p. 277.
50 Gianfranchi [F. Venturi], Inventario, in «Giustizia e libertà», III, 28 (10 lug. 1936), p. 3, a proposito di É. Halévy, L'Angleterre: Grandeur, décadence et persistance du libéralisme en Angleterre, in Inventaires. La Crise sociale et les idéologies nationales, Alcan, Paris, 1936.
51 Gianfranchi, P. Leroux socialista romantico, in «Giustizia e libertà», V, 46 (25 nov. 1938), p. 3.
52 Mag[rini], Inventario. Alle origini ideali del socialismo, ibid., V, 9 (4 mar 1938), p. 3. Magrini era - com'è ben noto - il nome di battaglia di Garosci, emigrato in Francia nel 1932, già studente a Torino con Gioele Solari con cui si era laureato con una tesi su Bodin (poi apparsa in volume come Jean Bodin, politica e diritto nel Rinascimento francese, Corticelli, Milano, 1934). Manca un qualsiasi profilo critico di Garosci, che, oltre che storico, è stato anche uno scrittore politico assai interessante del periodo 1935-1960: non molto si ricava dal recente articolo di E. Melani-E. Ceccarini, Aldo Garosci: rigore ed eresia del liberalsocialismo, in «Nuova Antologia», fasc. 2205, gen.-mar. 1998, pp. 73-83.
53 F. Venturi, Carlo Rosselli e la cultura francese, cit., pp. 175-178; nello stesso senso cfr. L. Valiani, Introduzione a Epistolario familiare, cit., p. 22. La prima pubblicazione dell'intervento di Halévy alla Société française de Philosophie ispira considerazioni diverse a Luigi Emery (1893-1979), già collaboratore dell'«Unità» di Salvemini e delle riviste di Gobetti, giornalista e redattore del «Resto del Carlino» dal 1919, dall'autunno del 1923 vice-corrispondente, poi corrispondente del «Corriere della sera» da Parigi, dimessosi il 10 aprile 1926, quando il «Corriere», ormai fascistizzato, manipolò e falsò una sua corrispondenza relativa alla morte di Giovanni Amendola (G. Licata, Storia del Corriere della Sera, Rizzoli, Milano, 1976, ad nomen), nel 1927 escluso dal giornalismo professionale, per il rifiuto di iscriversi al sindacato fascista. In un articolo sulla rivistina che dirigeva in Francia, Emery dilatava l'impostazione di Halévy e non solo segnalava «les analogies entre le bolchevisme et le fascisme» consistenti soprattutto nel perfezionamento e nell'assolutizzazione dell'organizzazione della società da parte dello Stato, nell'identificazione di Partito e Stato, nella centralità del Capo, nell'uso strumentale di plebisciti manovrati dall'alto, nell'irreggimantazione delle masse in sindacati e organizzazioni professionali; ma - secondo un motivo allora piuttosto diffuso in ambienti anche assai diversi - sottolineava che questi aspetti, magari con gradazioni diverse, si stavano affermando anche negli stati 'democratici', tanto che si stentava a individuare un salto di qualità fra questi e quelli totalitari: «l'état démocratique, selon le mot de Mounier, se versant dans l'état totalitaire comme le fleuve se verse dans la mer (nous aimerions mieux dire qu'il est l'état totalitaire à forme diffuse comme la nébuleuse à l'égard de l'étoile)». Erano analisi - lo ripetiamo - che, con segni diversi, erano allora piuttosto comuni: un fascista corporativo come Giuseppe Bottai cercava in quegli anni di fare emergere «nell'essenza d'orientamenti sociali ed economici degli Stati moderni...quello che fu chiamato il 'fascismo involontario'...mettendo in luce connessioni e rapporti dottrinari e giuridici, dimostranti a piacere o la democraticità del Fascismo o la fascisticità delle democrazie» (G. Bottai, Vent'anni e un giorno, Garzanti, Milano, 19772, pp. 60-62); un giurista francese come R. Bonnard individuava nelle tendenze anti-individualistiche e potenzialmente autoritarie delle democrazie rappresentative moderne (Stati Uniti, Francia) un trait d'union con le esperienze nazista e fascista: le differenze che intercorrono fra esse sarebbero più di grado, di quantità, che di qualità (R. Bonnard, Le droit et l'Ètat dans la doctrine Nationale-Socialiste, Librairie Générale de droit et de jurisprudence, Paris 1936); lo stesso «personalismo» di Mounier - come s'è visto - poteva portare ad analisi non dissimili. Se quindi il «fascismo» era un fenomeno così pervasivo che permeava non solo le tirannie politicamente contrapposte come il comunismo, ma anche gli stati «democratici», essere antifascisti significava rifiutare ogni logica 'statale', quindi anti-nazionalismo, pacifismo assoluto e soprattutto anti-statalismo: «le rôle de l'antifascisme est de défendre contre l'État les droits de la personne humaine et principalement de la pensée libre. Dans une société qui tend à considérer les masses comme un simple matériel humain, nous avons à maintenir la foi en l'individu et en la conscience. [...] La problème de la liberté devient en somme un aspect du conflit entre l'esprit et la machine, entre la personne vivante et la collectivité confuse». Il «rassemblement antifasciste»era quindi «le rassemblement des hommes libres», al di là di ogni distinzione di classe, di partito o di confessione religiosa: la rivoluzione antifascista (contro «un césarisme populaire») che auspicava Emery era libertaria, ma non socialista come quella di Garosci e Venturi, semmai - potremmo dire - «personalista», e Mounier sembra esserne veramente uno degli ispiratori (L. Emery, Défense de la liberté, in «Feuilles libres de la quinzaine», III, n. 46, 25 Novembre 1937, pp. 274-277: ringrazio l'amico Gaetano Quagliariello per avermi fornito l'indicazione e il testo dell'articolo).
54 Id., Sessant'anni di avventure e battaglie. Riflessioni e ricordi raccolti da M. Pini, Rizzoli, Milano, 1983, p. 46. Tutta la parte più propriamente rievocativa di questo volume è assai importante per ricostruire la biografia politico-culturale di Valiani.
55 Id., Storia del socialismo nel secolo XX (1900-1944), Edizioni U, Roma-Firenze-Milano, 1945, pp. 49, 216.
56 Ibid., pp. 239-240.
57 L. Valiani, Correlazione [sul tema La «nuova storiografia» fra impegno politico e ricerca scientifica: momenti e problemi 1945-1950], in Federico Chabod e la «nuova storiografia» italiana dal primo al secondo dopoguerra (1919-1950), a c. di B. Vigezzi, Jaca Book, Milano, 1984, p. 674; ma si veda il cenno di Garosci sui rapporti fra Nello Rosselli e Halévy, ibid., p. 622.
58 Sui motivi che lo spinsero allo studio del populismo russo inteso come «una pagina di storia del movimento socialista europeo», cfr. F. Venturi, Introduzione a Il populismo russo, I, Einaudi, Torino, 19773, pp. VII-XIV; nel 1962 avrebbe scritto che «il socialismo libertario ha in essa [l'esperienza di Herzen e del populismo] una delle sue più profonde e sensibili radici» (cit. in E. Cinnella, Franco Venturi storico del populismo russo, in Il coraggio della ragione, cit., pp. 309-344, 333). Nel suo eccellente saggio, tuttavia, Cinnella dimostra come l'interesse primario di Venturi negli anni in cui scrisse Il populismo russo, sia stato quello di scoprire le radici della rivoluzione d'ottobre e del movimento rivoluzionario sovietico del nostro secolo (ibid., pp. 320-321, 327 e passim) a cui continuò a guardare con interesse e partecipazione fino alla crisi del 1956. Cinnella cita anche una sua lettera del 27 mar. 1946 all'editore Einaudi, in cui manifestava l'intenzione di inserire in un volume di profili di storici francesi del Novecento (Jaurès, Mathiez, Lefebvre, Lucien Febvre, Marc Bloch, e il belga Pirenne) anche un saggio su Élie Halévy. Scopo complessivo di questa iniziativa editoriale sarebbe stato quello di seguire «la nascita e lo sviluppo della storiografia sociale in Francia, la revisione moderna della rivoluzione francese, della storia economica ecc. e il riflesso storiografico dei problemi politici che si sono posti in Francia da cinquant'anni a questa parte tra democrazia e socialismo, tra società e libertà ecc. Il libro avrebbe, credo, tra l'altro l'utilità di mettere in circolazione i nomi e le idee degli storici francesi moderni in Italia, dove invece si è ancora molto troppo orientati verso la storiografia tedesca» (ibid., p. 312 nota 7, ma ne aveva già data notizia M. Mastrogregori, Il manoscritto interrotto di Marc Bloch. Apologia della storia o mestiere di storico, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma, 1995, pp. 124-125). Poco nota, ma tutta da rileggere, è la lettera che, in merito a questa iniziativa, a Venturi scrisse Gaetano Salvemini da Cambridge Mass. il 17 set. 1946 (G. Salvemini, Lettere dall'America 1944/1946, a c. e con una pref. di A. Merola, Laterza, Bari, 1967, pp. 380-381). Frutto assai parziale di questo vasto progetto fu il vol. su Jean Jaurès e altri storici della Rivoluzione francese, Einaudi, Torino, 1948, in cui non compaiono riferimenti ad Halévy. Sul significato dell'opera di Valiani, Storia del movimento socialista, I, L'epoca della prima Internazionale, La Nuova Italia, Firenze, 1951, cfr. A. Garosci, L'italiano internazionale, in "Il Mondo", 18 ago. 1951, pp. 8-9.
59 L. Valiani, Questioni di storia del socialismo, nuova ediz., Einaudi, Torino, 1975, pp. 22-23.
60 A. Garosci, Storia della Francia moderna (1870-1946), Einaudi, Torino, 1947, pp. 224-226.
61 A. Momigliano, Carlo Antoni, in «Rivista storica italiana», LXXI (1959), pp. 724-727, 726. La discussione epistolare fra Chabod e Momigliano è stata ricostruita da M. Biscione, Note in margine. I. Antoni, Chabod e Momigliano, in «Rivista di storia della storiografia moderna», XVI (1995), pp. 9-19, che pubblica due lettere di Momigliano a Chabod del 10 e del 24 nov. 1959.
62 Per tutti questi problemi, cfr. G. Sasso, L'illusione della dialettica. Profilo di Carlo Antoni, Ed. dell'Ateneo, Roma, 1982.
63 Carteggio Croce-Antoni, a c. di M. Mustè, introduz. di G. Sasso, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli, 1996, pp. 98-99 e passim. Antoni prese parte al «founding meeting» della Mont Pèlerin Society del 1-10 aprile 1947 e alle successive riunioni di Basilea (1948) and Bloomendaal (1950): cfr. R.M. Hartwell, A History of Mont Pèlerin Society, Liberty Fund, Indianapolis, 1995, pp. 45-51, 82-83, 91.
64 A. Guerra, Vent'anni di studi sul Croce politico (1944-1964), in «De Homine», n. 11-12 (dic. 1964), pp. 287-340, 328; ma cfr. anche G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., pp. 287-292. Su questi problemi, lo scritto più sistematico di Antoni è Liberalismo e liberismo, in C. Antoni, La restaurazione del diritto di natura, Neri Pozza, Venezia, 1959, pp. 154-169, di cui esiste una versione tedesca più ampia (e più esplicita) e col titolo significativo di Die unteilbare Freiheit, nel volume miscellaneo Die freie Welt im kalten Krieg, geleitwort von A. Hunold, E. Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich und Stuttgart, 1955, pp. 11-29: si veda a pp. 18-19 un brano, omesso nell'edizione italiana, sugli esiti politici che la scissione crociana fra liberismo e liberalismo aveva avuti fra la gioventù antifascista fra guerra e dopoguerra. Comunque tutto il pensiero e l'attività politica di Antoni nel quindicennio 1945-1960 andrebbe riconsiderata e approfondita.
65 C. Antoni, Un'analisi del socialismo, in «Il Mondo», 8 ott. 1949, p. 8, ma già aveva ricordato le pagine dell'Ère des tyrannies in L'età liberale, ibid., 3 set. 1949, p. 5. I due articoli possono leggersi in C. Antoni, Il tempo e le idee, ESI, Napoli, 1967, pp. 154-160, 160-174. Non è improbabile che sia stata proprio la lettura di The Road to Serfdom di Hayek, scritta com'è noto, dal 1940 e il 1943, e pubblicata nel 1944, in cui l'Halévy dell'Ére des tyrannies è molto presente, specie nell'analisi del socialismo, che abbia avviato Antoni alla conoscenza dello storico francese. Ma il rapporto fra Hayek e l'autore della Formation andrebbe forse approfondito: abbiamo visto le parole non lusinghiere per lo storico della rivoluzione industriale (supra, nota 14); una critica pungente alla celebre dicotomia fra i due principî della naturale identità degli interessi e della loro artificiale identificazione, che costituisce l'asse interpretativo della Formation, è in F.A. Hayek, Il dottor Bernard Mandeville (1966), in Id., Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Armando, Roma, 1988, pp. 271-289, 280.
66 C. Antoni, Le mistiche economiche, in «Il Mondo», 20 mag. 1950, p. 5 (= Il tempo e le idee, cit., p. 175).
67 A. Saitta, Prefazione a Storia e miti del '900. Antologia di critica storica, Laterza, Bari, 1960, p. XXI.
68 Mi riferisco soprattutto ad A. Saitta, Sismondi e la «Littérature du Midi», in «Nuova rivista storica», XXIII (1939), pp. 500-523; Id., Introduzione a H. de Saint Simon e A. Thierry, La riorganizzazione della società europea, Atlantica, Roma, 1945, pp. XI-LIX; Id., Charles Fourier e l'armonia, in «Belfagor», II (1947), pp. 272-292. Sulla formazione di Saitta e i suoi rapporti col mondo francese sono preziosi i saggi di V. Criscuolo, La genesi dell'opera storica di Armando Saitta, in «Critica storica», XXVIII (1991), pp. 587-658 e di R. Pozzi, Armando Saitta storico della cultura francese dell'Ottocento, ibid., pp. 677-704.
69 A. Saitta, Storia e miti, cit., p. 101. Col titolo Interpretazioni della crisi del 1914-1918 seguiva la traduzione delle Lectures (pp. 102-134). Si noti il riferimento al «neosansimonismo assai torbido nelle premesse e nelle conseguenze» diffuso fra le due guerre, rispetto al quale, tuttavia, il discorso di Halévy sembra avere intendimenti opposti. Su quel fenomeno osservazioni e bibliografia in M. Chase, Élie Halévy, cit., pp. 159-161 e 242 nota 78; per la tematica del «socialismo francese» di Saint Simon, Fourier, Proudhon richiamato da tanto neo-socialismo francese degli anni Trenta, cfr. anche Z. Sternhell, Né destra né sinistra. La nascita dell'ideologia fascista, Akropolis, Napoli, 1983, pp. 174, 200.
70 A. Aquarone, Ritratto dell'epoca, in «Il Mondo», 17 gen. 1961, scriveva: «avrei visto [...] con piacere, accanto al brano di Halévy sulle interpretazioni della crisi del 1914-1918, qualcuna almeno di quelle magistrali pagine che nella sua Storia d'Europa il Tarle dedicò alla situazione europea all'inizio del secolo ed in particolare alla Germania guglielmina».
71 Osservazioni in tal senso sono in R. Vivarelli, Rivoluzione e reazione in Italia negli anni 1918-1922, in Id., Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1981, pp. 112-115, con riferimento esplicito a Halévy (p. 114 nota 5); Id., Correlazione [su La storia delle relazioni internazionali], in Federico Chabod e la «nuova storiografia» italiana, cit., p. 486, anche qui un richiamo a Halévy; Id., Prefazione alla seconda edizione della Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, vol. I, Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 18-31.
72 D. Cofrancesco, Verso la formazione della coscienza europea. Fascismo e bolscevismo nei giudizi degli intellettuali francesi degli anni Trenta, in «Critica storica», XII (1975), pp. 516-527 (= Id., Europeismo e cultura. Da Cattaneo a Calogero, Ecig, Genova, 1981, pp. 85-103); i riferimenti a Saitta sono alle pp. 85, 91.