Il passato in pubblico: un dibattito sull'insegnamento della storia nazionale degli Stati Uninti(*)

Arnaldo Testi

 Storia infida! I libri di testo e la storia americana

  1. Nel 1979, nell’introduzione a America Revised, un’estesa inchiesta sui manuali di storia degli Stati Uniti in uso nelle scuole americane, la giornalista Frances Fitzgerald faceva alcune considerazioni sui cambiamenti intervenuti nei trent’anni precedenti. «Quelli di noi che sono cresciuti negli anni cinquanta credevano nella permanenza dei nostri manuali di storia americana», scriveva Fitzgerald. «Per noi bambini, quei testi erano l’essenza della verità: erano la storia americana. […] Erano essi, ben più di altri libri, a possedere l’aura e l’apparenza dell’autorità. Erano tomi voluminosi. Parlavano con misurate cadenze: imperturbabili, seri, distanti come imperatori cinesi. I nostri insegnanti li trattavano con rispetto, e noi mostravamo tutto il nostro umile ossequio imparandone a memoria un capitolo la settimana». «Ora», continuava Fitzgerald, «le storie manualistiche sono cambiate, e alcune così profondamente che un adulto le troverebbe irriconoscibili». Nelle storie di allora «l’America era perfetta: la più grande nazione del mondo, e l’incarnazione della democrazia, della libertà e del progresso tecnologico»; le storie degli anni settanta, al contrario, cominciavano ad «accennare a un certo livello di spiacevolezza» nelle vicende nazionali. Inoltre, queste storie continuavano a cambiare, erano in continuo mutamento, con un ritmo sempre più veloce. «Storia infida! Il contenuto dei libri di storia americana per i nostri figli cambia sensibilmente non ogni generazione bensì ogni pochi anni. […] Per tenere il passo con i cicli di adozione nei distretti scolastici, gli editori revisionano i vecchi testi o ne producono di nuovi ogni tre o quattro anni. […] I libri di storia per la scuola sono così più legati alla contemporaneità di qualunque altra forma di storia. Potrebbe essere altrimenti? Forse che gli studenti dovrebbero leggere storie scritte dieci, quindici, trenta anni fa? In teoria il sistema è ragionevole, tranne che per una cosa: ciascuna generazione di studenti legge solo i libri di testo della propria generazione. Quella storia provvisoria diventa la loro storia per sempre – la loro particolare versione dell’America» (1).
  1. Queste pagine sono state più volte ricordate nel dibattito pubblico nazionale che, dalla fine del 1994, si è acceso negli Stati Uniti intorno all’insegnamento della storia americana nei sistemi scolastici del paese. Qualcuno le ha usate per spiegare la vivace e talvolta violenta reazione della quasi totalità del ceto politico alle proposte contenute nel testo che si è trovato al centro di questo dibattito, i National Standards for United States History: non un manuale, come si vedrà, ma comunque una guida a ciò che, secondo le proposte di un autorevole istituto specializzato, dovrebbe essere inserito nei curricula delle scuole medie e medio-superiori affinché gli studenti acquisiscano una conoscenza problematica e, si dice, storiograficamente aggiornata della storia del paese. Molti critici dei National Standards avrebbero dunque subìto una sorta di shock culturale, con crisi di rigetto; formatisi sui libri di testo di una fanciullezza e adolescenza pre-anni sessanta, sarebbero incapaci di accettare e persino, appunto, di riconoscere una storia ben diversa da quella da loro assimilata come l’unica storia possibile. Mi sembra un’interpretazione, a dir poco, generosa. Le ragioni della disputa vanno al di là di, pur comprensibili, salti generazionali. Sono ragioni più radicali; investono i paradigmi interpretativi dell’esperienza storica, il significato della storia nazionale, l’identità nazionale, e infine la politica. «Una volta», hanno scritto Joyce Appleby, Lynn Hunt e Margaret Jacob, riassumendo il punto di vista di una parte significativa della professione storica, «c’era una unica narrazione della storia nazionale che la maggioranza degli americani accettava come parte del proprio patrimonio culturale. Ora c’è un accento sempre maggiore sulla diversità delle esperienze etniche, razziali e di genere e un profondo scetticismo sul fatto che la narrazione delle gesta dell’America sia qualcosa di più di una forma di autocelebrazione che maschera il potere delle élites. La storia è stata sconvolta fino alle sue fondamenta scientifiche e culturali proprio nel momento in cui quelle stesse fondamenta sono messe in discussione» (2) . Credo che la controversia sui National Standards, che, a loro modo, hanno cercato di introdurre questi punti di vista nell’insegnamento scolastico, sia un’occasione interessante per gettare luce su alcune di queste questioni.

1. La cronaca: i «National Standards for United States History»

Un testo ambizioso

  1. I National Standards for United States History sono una raccolta di problemi, idee, concetti, ragionamenti e fatti relativi alla storia degli Stati Uniti che dovrebbero far parte del bagaglio culturale di ogni studente di high school di età compresa fra i 10 e i 18 anni, ovvero che frequenti le classi comprese fra la quinta e la dodicesima (3). Il titolo implica l’intenzione di proporre norme, modelli ma anche livelli di eccellenza nazionali, standards appunto, per l’insegnamento della storia americana. Il testo è costruito come una guida a questi criteri generali, e si rivolge non agli studenti, bensì agli insegnanti ed eventualmente agli autori di manuali e sussidi didattici. Uscito nell’autunno del 1994 a cura del National Center for History in the Schools della University of California a Los Angeles (UCLA), con il coordinamento di Gary B. Nash, uno storico americanista che nell’anno 1994-1995 era presidente della Organization of American Historians (OAH), e di Charlotte Crabtree, Professor of Education Emeritus alla UCLA, questo è uno di tre volumi di un progetto più ampio. Gli altri due volumi, pubblicati negli stessi giorni e curati dagli stessi coordinatori, riguardano uno l’insegnamento della storia mondiale per le medesime classi di età (National Standards for World History), e l’altro l’introduzione di base alla conoscenza storica negli asili e nelle prime quattro classi della scuola elementare (4). Non discuto questi due ultimi volumi, che non ho visto, anche se vale la pena di ricordare che i National Standards for World History hanno provocato un dibattito per molti versi analogo a quello che sto per riferire, anche se, mi sembra, meno veemente. Dopo tutto, è la storia nazionale che continua a essere più importante, delicata, controversa.
  1. I National Standards for United States History non sono dunque un libro di testo, non aspirano alla completezza istituzionale. Non si pongono il problema di identificare George Washington come primo presidente degli Stati Uniti, di fornire la lista di tutti i presidenti, di menzionare o meno il generale Robert E. Lee o il generale Custer. Insisto su questa affermazione perché una delle polemiche più facili e fuorvianti, seppure inevitabili, si è scatenata proprio sul gioco del ‘chi è dentro e chi è fuori’ la storia nazionale; e naturalmente, se alla conta dei nomi risulta che Martin Luther King, o Sitting Bull, sono citati più volte di Washington, la questione diventa politica. Gli scopi del testo sono altri. Lo scopo generale è quello di definire e promuovere le abilità intellettuali da sviluppare negli studenti per uno studio proficuo della materia. Queste abilità sono definite come «historical understanding», ovvero che cosa conoscere della storia in cinque sfere di attività cruciali (sociale, politica, scientifico-tecnologica, economica, filosofico-estetico-religiosa); e «historical thinking», ovvero come pensare la storia, come valutare dati, come impostare ragionamenti storici, analisi causali e comparative, prospettive multiple. Entrando nel cuore del problema, i National Standards propongono una griglia di questioni storiche specifiche che gli studenti, con l’aiuto degli insegnanti e di appropriati strumenti didattici, dovrebbero essere in grado di discutere, integrando conoscenza fattuale e ragionamento storico. Gran parte del volume è in effetti dedicata a una dettagliata costruzione di questa griglia. La storia nazionale è divisa in dieci grandi «ere» o capitoli periodizzanti (che sollevano il problema della periodizzazione, sul quale tornerò nella parte conclusiva di questo saggio), ciascuno dei capitoli in suddivisioni interne, e così via, fino ad arrivare a domande molto specifiche – a, come dire, vere e proprie domande da esame.
  1. Un esempio di questa struttura può essere offerto dall’analisi del terzo capitolo, dedicato a Revolution and the New Nation, 1754-1820s. Dopo una rapida introduzione di una pagina, sono indicati i tre temi centrali del periodo. Gli studenti dovrebbero comprendere (e qui, per brevità, semplifico i testi originali): le cause della rivoluzione e della vittoria americana, le idee e gli interessi coinvolti (Standard 1); la complessa natura sociale del movimento rivoluzionario, i molti soggetti che vi parteciparono (Standard 2); il funzionamento delle nuove istituzioni nazionali e il loro sviluppo fino agli inizi dell’Ottocento (Standard 3). Ciascuno di questi temi si fraziona in altri più specifici. Nell’ambito dello Standard 1, si chiede che gli studenti siano messi in grado di dimostrare comprensione delle cause della rivoluzione (Standard 1A) tramite la discussione di cinque questioni che implicano vari approcci analitici: le conseguenze della Guerra dei Sette Anni (rapporto fra eventi «antecedenti» e «conseguenze»), le ragioni dei difensori e degli oppositori della politica imperiale inglese (prospettive multiple sullo stesso evento), l’esplosione del conflitto armato (cronologia di eventi critici), la connessione fra idee politiche e religiose e interessi economici nello sviluppo della crisi (prospettive multiple sullo stesso evento), il dibattito fra lealisti filo-inglesi e patrioti rivoluzionari (prospettive multiple). Per controllare l’acquisizione di queste conoscenze da parte degli studenti, si forniscono esempi di domande alle quali rispondere: «Costruite una narrazione storica analizzando i fattori che spiegano perché una persona sceglieva di essere un lealista o un patriota. Perché circa un terzo dei coloni rimase neutrale? Giocarono un ruolo in queste scelte di parte le differenze economiche e sociali?». Lo Standard 1B riguarda i principi della Dichiarazione di Indipendenza, con la discussione di quattro questioni distinte, e domande di controllo del tipo: «Comparate le idee della Dichiarazione di Indipendenza con quelle di John Locke nei Two Treatises on Governement. In che cosa sono diverse? Simili? Perché Jefferson usa la frase ‘la ricerca della felicità’ invece di ‘proprietà’? Che cosa intendeva Jefferson con ‘la ricerca della felicità’ ?» (5). E così via.
  1. Due osservazioni sono subito opportune. La prima riguarda le pretese contenutistiche di questo testo. Le domande che ho scelto sono pensate per gli studenti delle ultime tre classi di high school, dalla nona alla dodicesima; il testo ne fornisce sempre altre, meno sofisticate, per le classi inferiori (quinta-sesta e settima-ottava). E tuttavia i National Standards sono ambiziosi, mirano molto in alto, dichiarano esplicitamente di voler «essere intellettualmente esigenti, riflettere la miglior ricerca storiografica, e promuovere la discussione e la conoscenza attiva piuttosto che l’assorbimento passivo di fatti, date e nomi» (6). Sono forse troppo esigenti. Per alcuni esperti di didattica, il materiale è troppo difficile e astratto per la maggioranza degli studenti medi. «Se i nostri diplomati […] sapessero assimilare metà delle informazioni contenute nel volume sugli Stati Uniti», ha dichiarato Arthur M. Schlesinger, Jr., «ne saremmo tutti deliziati – e stupiti». Per alcuni docenti universitari, questo materiale è troppo difficile per la maggioranza degli studenti di college, e si presenta in effetti come una ottima guida per gli esami di dottorato. Per altri commentatori, infine, a essere messi in difficoltà sarebbero gli insegnanti stessi, che non hanno tempo e risorse per tenersi aggiornati sulla «miglior ricerca storiografica» (7). Una seconda osservazione riguarda le pretese istituzionali di questo testo, che aspira a formulare proposte e suggerimenti, a presentarsi come un esempio da seguire – oppure no. Non impone un curriculum nazionale obbligatorio per tutte le scuole della repubblica. Non intende farlo né, soprattutto, potrebbe farlo. I curricula scolastici sono di competenza dei singoli stati dell’unione, con ulteriori forme di autonomia dei distretti scolastici locali, e non del governo nazionale. Ricordo questo perché persino nel dibattito pubblico americano ci sono state alcune incomprensioni in proposito. Queste incomprensioni erano in parte strumentali, e hanno consentito ai critici più arrabbiati di accusare i National Standards di essere una versione stalinista-orwelliana di storia ufficiale certificata e imposta dal governo; in parte, tuttavia, nascevano da una ambiguità reale. In effetti, l’intero progetto è stato sostenuto da enti federali, e finanziato da fondi pubblici.

Una vicenda paradossale

  1. La storia del progetto dei National Standards contiene alcuni paradossi politico-culturali piuttosto curiosi. Le origini risalgono all’allarme per lo stato dell’istruzione che si diffuse negli anni ottanta, un allarme che ricorda quello della fine degli anni cinquanta, dopo il lancio dello Sputnik sovietico. Allora la reazione fu la canalizzazione di grandi risorse nell’industria della conoscenza superiore con il National Defense Education Act (1958), che portò alla crescita dell’università di massa nel decennio successivo e, in più di un senso, all’esplosione dei campus. A differenza di allora, tuttavia, negli anni ottanta non c’erano soldi e non c’era la volontà di spenderli; in effetti, fra il 1980 e il 1989 il finanziamento pubblico sia federale che statale alle università diminuì del 24 per cento in dollari reali. Questo spiega, fra l’altro, la perdita di prestigio delle università e la competizione esasperata per le poche risorse disponibili (anche in termini di borse di studio, di posti di insegnamento), tutti elementi che hanno contribuito a rendere ‘cattivi’ molti dibattiti culturali nell’accademia (8). Negli anni ottanta, inoltre, la preoccupazione principale riguardava il deteriorarsi, più che dei colleges, delle scuole pubbliche, e quindi dell’istruzione di base, dell’educazione civica, della memoria storica. Era di queste cose che si parlava in una serie di documenti ufficiali: da A Nation at Risk (1983), un’inchiesta condotta per il presidente Ronald Reagan, a American Memory: A Report on the Humanities in the Nation’s Public Schools (1987), di Lynne Cheney, presidente del National Endowment for the Humanities (NEH), una fondazione pubblica che finanzia musei, biblioteche e ricerche accademiche; da National Education Goals (1989), un documento della Conferenza dei Governatori, al rapporto Raising Standards for American Education, preparato per il Congresso nel 1992. In tutti questi documenti l’insegnamento della storia nelle scuole medie era indicato come uno dei cinque-sei settori a rischio, e quindi come uno dei campi privilegiati di intervento e riforma. Fu in questo clima che, nella primavera del 1992, sotto la presidenza di George Bush, nacque il National History Standards Project per «sviluppare un ampio consenso nazionale su ciò che costituisce eccellenza nell’insegnamento e nell’apprendimento della storia nelle scuole della nazione» (9). I finanziamenti vennero da enti del governo federale, e cioè il NEH e l’Office of Educational Research and Improvement del U. S. Department of Education.
  1. Operativamente, il progetto fu affidato al National Center for History in the Schools (NCHS) di Nash e Crabtree. La sua elaborazione coinvolse molti individui e gruppi. Parteciparono, per esempio, le organizzazioni professionali degli insegnanti di storia e social studies, dei funzionari statali incaricati di elaborare i curricula scolastici, e quelle degli storici accademici: la American Historical Association (AHA), che raccoglie tutti gli storici, e la OAH, che raccoglie gli storici americanisti. I presidenti di queste organizzazioni e altri dirigenti ed esperti autorevoli entrarono nel National Council for History Standards, con compiti generali di indirizzo, e nei focus groups con compiti di lettura, valutazione, e controllo del prodotto. Parteciparono inoltre, a vario titolo, esponenti di associazioni educative non-professionali cattoliche e protestanti, afro-americane e latino-americane, dei cittadini di origine asiatica o Native American (10). I risultati di questo impegno collettivo furono resi noti nell’autunno 1994; per la precisione, i National Standards for United States History uscirono il 25 ottobre e i National Standards for World History il 4 novembre 1994 (11). Attenzione alle date, perché è qui che si nascondono alcuni dei paradossi dei quali dicevo. Il progetto era stato dunque evocato, concepito e avviato dalle amministrazioni Repubblicane di Reagan e Bush, ma era venuto alla luce sotto l’amministrazione Democratica di Bill Clinton; e tuttavia l’approccio storico-politico che lo ispirava sembrava essere, come si vedrà, molto più in sintonia con la cultura liberal dei clintoniani che non con quella conservatrice dei reaganiani. Accadde così che i conservatori poterono attaccare i National Standards non come figli loro, bensì come figli della sinistra, di quei progressisti che, dissero, avevano prima occupato l’accademia e ora anche la Casa Bianca. Attenzione ancora alle date, in questo caso ai mesi, ai giorni. Il dibattito esplose a cavallo delle midterm elections dell’8 novembre 1994, che portarono alla conquista Repubblicana del Congresso, in particolare insediando alla Camera dei rappresentanti la maggioranza ultra-conservatrice guidata da Newt Gingrich (uno storico di professione, per quanto, pare, di scarsa professionalità (12). Queste coincidenze temporali contribuiscono a spiegare la virulenza dello scontro politico intorno ai National Standards.
  1. Va detto che, anche al di là dei contenuti storiografico-culturali del testo, la materia del contendere è genuinamente e inevitabilmente politica, per alcuni versi nonpartisan, per altri no. E i National Standards esprimono un impulso politico riformatore chiarissimo. In primo luogo, propongono una riforma strutturale dei curricula delle high schools, e cioè l’espansione del tempo dedicato alla storia, che dovrebbe essere insegnata ovunque per almeno tre anni degli otto considerati; oggi ciò è vero solo in 17 stati su 50, negli altri il tempo è inferiore, spesso un solo anno. Sostengono inoltre che la qualità dell’insegnamento, della storia come delle altre materie, dovrebbe essere omogenea in tutte le scuole del paese, mettendo fine alle «evidenti disparità» nei finanziamenti, nelle risorse didattiche, e nel valore degli insegnanti che caratterizza il sistema scolastico americano con il suo decentramento fiscale. «La migliore istruzione per i migliori dovrebbe essere la migliore istruzione per tutti», affermano. «Niente di meno è accettabile in una società democratica» (13). I National Standards accennano dunque all’aspetto meno attraente del decentramento, e al suo problema più grave: i distretti scolastici abitati dai poveri hanno una base imponibile più ridotta di quelli abitati da ceti benestanti, e quindi risorse più limitate; i contributi statali non coprono mai la differenza, e il risultato è un sistema a due velocità che produce, o meglio certifica «diseguaglianze feroci» (14). Fra l’altro, è proprio nei distretti più poveri che sono state riscontrate le drammatiche insufficienze denunciate dalle indagini degli ultimi quindici anni, quelle che hanno creato l’allarme sociale dal quale sono nati i National Standards. E’ qui che si concentra quel 13 per cento di insegnanti di storia che non ha mai sostenuto un esame in questa materia a livello universitario, o quel 12 per cento che ha i titoli per insegnare ginnastica. E’ qui che si concentrano i docenti e gli studenti «storicamente analfabeti» di cui parlava American Memory, il già citato studio del 1987 del NEH (15).
  1. In secondo luogo, i National Standards sono animati da una forte tensione a considerare la storia come una disciplina di formazione civica. Affermano che la conoscenza storica è una risorsa strategica in una società democratica, «la precondizione dell’intelligenza politica». «Senza storia, una società non condivide memorie comuni[…]. Senza storia, non possiamo condurre alcuna indagine sensata sulle questioni politiche, sociali o morali della società. E senza conoscenza e indagine storica, non possiamo ottenere la cittadinanza critica e informata che è essenziale alla partecipazione efficace nei processi democratici del governo e alla piena realizzazione per tutti i cittadini degli ideali democratici della nazione». Al di là del linguaggio contorto, non molto peggiorato dalla mia traduzione, questa retorica delinea un vero terreno minato, al quale gli autori del testo si avvicinano con cautela ma determinazione. Fra i criteri storiografici generali che informano il loro lavoro, indicano infatti l’esigenza di «riflettere sia le diversità della nazione secondo razza, etnìa, status sociale ed economico, genere, regione, idee politiche e religiose, sia i suoi elementi comuni». E ripetono che la sfida è quella di trovare un «consenso nazionale» su ciò che gli studenti dovrebbero imparare «sulla storia della loro nazione e dei popoli di ogni background razziale, religioso, etnico e nazionale che sono stati parte di quella storia». Giocando sul contrasto drammatico fra diversità ed elementi comuni, fra la nazione al singolare e i popoli al plurale, i National Standards introducono alcune delle questioni contenutistiche più controverse, sulle quali tornerò in seguito. Qui mi preme sottolineare il risvolto non meno controverso, e politico, che tutto ciò ha sulla definizione della cittadinanza e sul valore educativo della storia. I National Standards, si dice infatti, «dovrebbero contribuire all’educazione alla cittadinanza sviluppando la comprensione della nostra comune identità civica e dei comuni valori civici» ma anche «il rispetto reciproco fra i molti popoli [della nazione]» (16).

Un testo controverso

  1. I National Standards furono accolti da una salva di insulti da parte dei conservatori. L’attacco fu preventivo, guidato da un articolo dal titolo fatale, The End of History, apparso sul «Wall Street Journal» qualche giorno prima l’uscita ufficiale dei testi. L’autrice era Lynne Cheney, un personaggio-chiave di questa vicenda: esponente dei vertici Repubblicani, per sei anni (1986-1992) presidente del NEH, nominata da Reagan e confermata da Bush, era stata lei ad aver avviato l’intero progetto. Ormai sostituita da Clinton nel prestigioso incarico politico-culturale, poté criticare la sua creatura affermando che i risultati erano lontanissimi dalle intenzioni originarie (17). Cheney accusò gli estensori dei National Standards di essere storici «revisionisti» che odiano la storia «tradizionale», danno spazio a tutte le minoranze razziali, etniche, sessuali e ignorano Washington, Thomas Edison, e la Costituzione. Per questi storici, le élites maschili, bianche, europee sono protagoniste solo dei lati oscuri della storia nazionale, il maccartismo, il Ku Klux Klan; al contrario, la storia degli afro-americani e dei Native Americans sembra non avere alcuna macchia. Gli autori mostrano dunque di ammirare «persone, luoghi ed eventi che sono politicamente corretti». Cheney sostenne inoltre che alcuni partecipanti al progetto, prendendo le distanze dai risultati, le avrebbero confidato che «le forze della political correctness» si erano scatenate dopo le elezioni presidenziali del 1992. In particolare, la AHA sarebbe stata «particolarmente aggressiva» nel limitare lo spazio destinato alla cultura occidentale nel volume sulla storia mondiale. La AHA aveva «hijacked», sequestrato, dirottato l’intera operazione (18). Cheney concludeva ammonendo che opporsi a questa «storia politicizzata» non è facile, perché significa prendere di petto l’intera accademia. E’ l’establishment accademico a essere così, non una sua frangia lunatica, e questo è il vero problema: è la storiografia prevalente nelle università a dipingere gli americani come brutti, sporchi e cattivi. «Siamo un popolo migliore di quanto i National Standards indichino, e i nostri figli meritano di saperlo».
  1. Nel suo pezzo sul «Wall Street Journal» Cheney impostò molti dei temi, e dei toni, della polemica dei conservatori nelle settimane successive. Le sue argomentazioni furono riprese, talvolta verbatim, da altri commentatori, fra i quali cito due fra i più autorevoli e pacati. Sul «Washington Post» del 4 novembre, l’opinionista Charles Krauthammer scrisse, sotto il titolo History Hijacked, che i National Standards erano stati «sequestrati dall’establishment accademico e trasformati in un classico di political correctness». Era questa, a suo parere, una storia ideologizzata, che non sa distinguere fra fatti e opinioni, che è dominata dalla «triade deterministica» di razza, classe e genere; una «nuova storia» che propone agli studenti una «contro-narrazione» della storia nazionale, intenta solo ad attaccare le élites. Dopo un drammatico punto e a capo, Krauthammer concludeva: «Sta per diventare la storia ufficiale dei vostri figli». Sul «New York Times» di un paio di settimane dopo fu lo storico John Patrick Diggins, sotto il titolo Historical Blindness, a criticare i National Standards per il loro «culto» del multiculturalismo e della storia sociale, che ignora il primato della civiltà occidentale e il ruolo delle grandi personalità nella storia. Concludeva Diggins: «Le generazione degli anni sessanta può aver perso molte delle sue battaglie politiche ma ora, insediatasi al sicuro nell’accademia, ha vinto la guerra per l’egemonia culturale» (19). Per coprire l’intera gamma delle reazioni negative, citerò anche il critico più sguaiato e, chissà, forse anche il più influente: il commentatore radiofonico di estrema destra Rush Limbaugh che, secondo l’agenzia Reuther, avrebbe definito i National Standards l’opera di un gruppo segreto che merivata solo di essere «gettata nel gabinetto» (20).
  1. Dal punto di vista più strettamente politico-istituzionale, le reazioni non furono migliori. Alti funzionari dell’amministrazione Clinton come il Secretary of Education, Richard Riley, e il successore di Lynne Cheney a capo del NEH, Sheldon Hackney, cercarono di defilarsi. Hackney sostenne che non era compito della sua organizzazione intervenire sui meriti degli elaborati, e che comunque la decisione finale sulla loro adeguatezza spettava alle autorità scolastiche statali e locali; deplorò inoltre la politicizzazione della discussione, che ormai assogliava a un «drive-by debate», a un conflitto a fuoco fra gangs di strada, dove si spara dal finestrino dell’auto in corsa a chiunque capiti a tiro. Il Senato degli Stati Uniti, invece, una posizione la prese. Il 19 gennaio 1995 censurò i National Standards con la travolgente maggioranza di 99 contro 1, una quasi unanimità che richiede una spiegazione. Fu infatti il risultato di un compromesso che impedì il passaggio di una misura molto più drastica (sottoscritta, fra gli altri, dal capo della maggioranza Repubblicana, Robert Dole), diretta a tagliare i finanziamenti al progetto; la misura adottata si limitava a raccomandare ad alcuni organi consultivi istituiti dall’amministrazione Clinton di disapprovarne l’impostazione e chiederne una revisione. Si trattava dunque di una risoluzione abbastanza innocua, e l’unico voto contrario era quello di un ‘duro’ che non accettava il compromesso. Sul piano contenutistico, tuttavia, l’opinione del Senato era chiara, e suonava così: ‘se il Department of Education, il National Endowment for the Humanities, o qualsiasi altra agenzia federale fornisce finanziamenti per la elaborazione degli Standards […] il destinatario di tali finanziamenti dovrebbe avere un minimo di rispetto per gli apporti della civiltà occidentale, e delle istituzioni, delle idee e della storia degli Stati Uniti, all’incremento della libertà e della prosperità in tutto il mondo». Il columnist del settimanale conservatore «U.S. News & World Report», John Leo, era giustamente estasiato. Cosa dovete fare per farvi ripudiare da tutto il Senato?, si chiese. Semplice, fate come quegli storici californiani [...] (21).
  1. Naturalmente si fecero sentire anche le parti a difesa, ma, mi sembra, abbastanza in sordina, in tono minore. I sostenitori dei National Standards ebbero la loro quota di citazioni nei servizi giornalistici che, su quotidiani e settimanali, accompagnarono la disputa (22). Furono anch’essi ospitati sulle pagine dei commenti, per esempio Carol Gluck (storica del Giappone della Columbia University, membro del National Council for History Standards) sul «New York Times» del 19 novembre 1994, e Eric Foner (ex-presidente della OAH) sul «Newsday» dello stesso giorno. Sul «Wall Street Journal», Nash e Crabtree replicarono alle accuse di Cheney, ma nella sezione delle lettere al direttore (23). Si mossero inoltre le associazioni degli insegnanti di storia, quelle degli storici accademici, i loro periodici professionali, i presidenti ed ex-presidenti della OAH e della AHA (24). Su alcuni di questi interventi, che investono il merito scientifico della questione, tornerò in seguito; ora, credo che sia sufficiente sottolinearne un limite evidente, e cioè il loro carattere interno, diretto agli addetti ai lavori, e per molti versi ai già convertiti. Le buone ragioni dei National Standards che arrivarono al largo pubblico possono essere così riassunte. Innanzitutto, non si tratta di un manuale, non ha senso fare la conta dei nomi. Comunque, i nomi con più ricorrenze sono, al primo posto quello di Richard Nixon, al secondo quello di Reagan, certo non eroi della sinistra (ma questa affermazione, direi, può essere auto-incriminante, perché la sinistra ama anche indulgere nella citazione ossessiva dei suoi nemici). Non è vero che ci sia un pregiudizio a favore della storia sociale, della storia delle donne, delle minoranze. Qui si parla di tutti gli eventi, aspetti, problemi della storia nazionale, compresa, checché ne dica Cheney, la Costituzione; in effetti, «ci sono maschi bianchi in ogni pagina» (25). Non è vero che vi sia una visione criminalizzante della cultura occidentale e una edulcorata di quella dei popoli non occidentali. Piuttosto, si dice, i National Standards riflettono la migliore e più informata ricerca storica, che affronta il rapporto fra storia sociale e storia politica, fra gruppi diversi e storia nazionale, fra Occidente e altre culture, come un problema non risolto: senza intenti celebrativi. Infine, si conclude, non si può usare un doppio criterio di giudizio nel discorso pubblico. «I gruppi di pressione della destra cercano di imporre una loro political correcteness», dichiarò Foner a «Time Magazine», «ma chissà perché il termine c. non viene mai applicato a loro. […] Di loro si dice che reagiscono al revisionismo» (26).

2. Il contesto: il dibattito pubblico sulla storia nazionale

Una storia ‘politicamente corretta’?

  1. Foner ha ragione: nel discorso pubblico, i termini «politically correct» e «political correctness» (in sigla, c. o PC) appartengono al lessico politico-ideologico dei conservatori. Definiscono idee, atteggiamenti, approcci culturali conformi a una «ortodossia progressista», radical o liberal che sia – senza distinzioni troppo sofisticate, che sarebbero promossi dalla egemonia della sinistra nelle istituzioni, nelle scuole, nelle università, nei mass media (editoria, stampa nazionale, networks televisivi, Hollywood). Si tratta dunque di un insulto di parte, che denuncia sia la qualità del prodotto che la procedura per imporlo, che arriverebbe fino alla negazione della libertà di parola a chi non si adegua. Alle origini, la locuzione apparteneva alla sinistra, a quella comunista negli anni trenta, e poi ad alcune componenti della New Left negli anni sessanta, quando implicava essere in linea con una ‘giusta’ interpretazione del mondo, marciare insieme con il Partito e con la storia. Negli anni settanta cominciò a prevalerne, negli stessi ambienti di sinistra, un uso ironico e autoironico, magari in chiave radical-chic: l’hamburger non è PC, la rucola sì. E’ negli anni ottanta che diventò patrimonio della destra, nel clima di ripresa della cultura conservatrice che si creò sotto l’amministrazione Reagan, quando liberalism era diventata la «L-word», la parolaccia impronunciabile che comincia con la L. Dal 1990 era entrata nell’uso corrente giornalistico. Alla fine di quell’anno la questione meritò una cover story di «Newsweek» dal sinistro titolo orwelliano di Thought Police (27). Cominciò a meritare anche l’attenzione della satira politica e di costume, che trovò argomenti su cui sbizzarrirsi soprattutto nel campo della «riforma» del lingua (28).
  1. Al centro della diatriba stanno alcune idee-chiave, riassumibili nel concetto di multiculturalismo, con le sue derivazioni teoriche e pratico-politiche. Multiculturalismo implica non solo che esistano culture diverse da quella europea, e che esse abbiano eguale dignità nel discorso pubblico, ma anche che i loro punti di vista siano necessari alla comprensione della storia nazionale (per esempio quella afro-americana e Native American ) e del mondo (quelle non-occidentali). Nell’ambito della società e della storia nazionale esisterebbero inoltre identità culturali distinte di gruppi non privilegiati, come le minoranze razziali e le donne con la loro specifica cultura di genere, che dovrebbero essere riconosciute anche politicamente, attribuendo loro la titolarità di diritti specifici necessari a superare le storiche ingiustizie di cui sono state vittima. Una di queste forme di riconoscimento è la politica di affirmative action, concepita fra gli anni sessanta e l’inizio dei settanta dalle amministrazioni di Lyndon Johnson e Nixon, che favorisce l’ammissione di individui appartenenti a questi gruppi a posti di lavoro tramite canali privilegiati, in genere quote riservate non-competitive più o meno volontarie e più o meno elastiche. Questa politica riguarda, in modi diversi, l’attribuzione di appalti per opere pubbliche, le assunzioni nel settore pubblico e privato, l’ingresso all’istruzione superiore di studenti e docenti. Intorno al 1990 la polemica conservatrice si concentrò sugli effetti di tutto ciò nelle istituzioni culturali, soprattutto universitarie. E gli effetti, si disse in una serie di saggi dai titoli accigliati e di grande successo editoriale, erano la corruzione politica e la decadenza dell’istruzione superiore, la promozione di una generazione di rivoluzionari in cattedra privi di merito, la dittatura illiberale della virtù progressista sulle menti e sul linguaggio degli studenti, la chiusura della mente americana ai valori della cultura occidentale. Multiculturalismo, diritti di gruppo, affirmative action avrebbero messo in discussione principi di civiltà, ragione, liberalismo, comune cittadinanza, eguaglianza di opportunità, avanzamento per merito, sui quali si è storicamente fondato il sogno americano. Avrebbero sconvolto le basi del sapere, costringendo gli studenti a sostituire i classici del pensiero occidentale con le stupidaggini scritte da femministe (magari nere, magari lesbiche), e accusando i dissenzienti di essere razzisti, maschilisti, etnocentrici. Insomma, i campus erano diventati «un’isola di repressione in un mare di libertà» (29).
  1. Non intendo entrare nel merito specifico di queste affermazioni, che appartengono al genere della denuncia politico-ideologica, e sono quindi da prendere con le molle anche nella loro accuratezza fattuale. Tuttavia, per metterle in prospettiva, vale la pena dare un’occhiata a un altro testo di denuncia, quello di Robert Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, spesso erroneamente assimilato alle critiche conservatrici. Hughes attacca con gusto e veemenza il «bigottismo progressista», ma apprezza anche quella storia multiculturale che ha finalmente smesso, dice, di raccontare le bugie del passato su schiavi, neri, indiani, donne, e che consente di «imparare a vedere oltre i confini». Inoltre, alterna questo attacco a quello contro il bigottismo conservatore, che ha nelle sue pagine altrettanto spazio e veemente sarcasmo. Esistono «due c», sostiene Hughes, il «politicamente corretto» e il «patriotticamente corretto», che si combattono fra loro, con un’influenza, peraltro, tutt’altro che equilibrata. «La destra ha la sua forma di correttezza politica […] Anche la destra ha un interesse acquisito a tenere l’America divisa, una strategia che per la comunità civile promette assai peggio di qualunque cosa si possa rimproverare alla debole e circoscritta sinistra americana» (30). La sinistra è debole persino nei colleges, scrive Hughes, la sua conclamata egemonia è inesistente, la sua smania persecutoria (se esiste) inefficace. I docenti radicali sono abbastanza visibili nei dipartimenti umanistici delle università prestigiose, spesso influenzano associazioni e riviste, ma altrove sono appena tollerati o inesistenti (31). Chi detiene veramente il potere? La cricca militante dei «visigoti in tweed»? «Ma che dire dei conservatori che in larga misura occupano le cattedre meglio finanziate delle università americane e dirigono i grandi istituti di economia, gestione aziendale e amministrazione pubblica, dalla Harvard Business School in giù?». E che dire del fatto che «il numero degli accademici conservatori licenziati dalla ‘polizia del pensiero’ sinistrorsa è […] zero»? (32).
  1. La vera preoccupazione di Hughes, condivisa dalla critica liberal, è che un multiculturalismo «inacidito» si tramuti in separatismo razziale che neghi ogni possibilità di dialogo e scambio, e che distrugga ogni senso di comune cittadinanza nella società politica nazionale. E’ questo il tema del saggio di Arthur Schlesinger su La disunione dell’America, e di altri (33). E’ anche il tema e la preoccupazione di intellettuali bianchi provenienti dalla tradizione radical come Paul Berman e Todd Gitlin, che vedono nel multiculturalismo esasperato un pericolo devastante per la sinistra stessa, accademica e non, e cioè il pericolo della frantumazione della sua visione del mondo, dei suoi ideali universalistici di giustizia ed eguaglianza sociale, e delle sue organizzazioni. In questo «crepuscolo dei sogni comuni», ha scritto Gitlin, la sinistra multiculturale si è persa nelle sue «dubbie battaglie» proprio mentre interi settori della società, i più deboli, «si sono separati dalla politica, sentendo che la politica si era separata da loro» (34). Intellettuali afro-americani come Cornel West, Henry Louis Gates e Toni Morrison hanno manifestato analoghe insofferenze per forme di identity politics che ignorano il carattere ibrido e dialogico della costruzione delle identità stesse, e che nelle comunità nere rischiano di tradursi in nazionalismo ‘afrocentrico’ razzista e maschilista. E’ questa una disgrazia, ha scritto West, «perché – per timore della ibridazione culturale e passando sotto silenzio i problemi di classe, le idee retrograde sulle donne nere, gli omosessuali, le lesbiche, e rifiutando di legare la razza al bene comune – non fa che rinforzare le discussioni più grette sulla razza» (35). Queste questioni sono ritornate nelle conclusioni del presidential address di Gary Nash al congresso annuale della OAH, il 31 marzo 1995. «Quando il multiculturalismo è usato semplicemente come multiracialism e in quanto tale pretende che la cultura sia trasmessa tramite i geni», ha detto Nash, «favorisce una politica dell’identità che assolutizza le differenze razziali»; accade allora di pensare agli spettri di Sarajevo, della Somalia (36). E queste questioni ritornano nel dibattito sui National Standards che, nel bene e nel male, costituisce un capitolo di una «guerra civile culturale» che, almeno dagli anni sessanta, continua a essere combattuta sui fronti più disparati, e che è riconducibile a un conflitto «per definire il significato dell’America – per definire come e in quali termini gli americani vivranno insieme, e in che cosa consiste la buona società» (37).

La storia nel discorso pubblico americano

  1. Uno dei fronti di questa guerra riguarda la storia e la memoria storica. Qui c’è da fare i conti con un luogo comune forte: non sono forse gli Stati Uniti, per definizione, un paese senza memoria storica, che guarda al presente e al futuro, e non al passato? Non sono il luogo dove, secondo Tom Paine, «abbiamo la possibilità di cominciare da capo a costruire il mondo»? Il luogo da cui più tardi Herman Melville scrisse: «Il Passato è il libro di testo su cui hanno studiato i tiranni; il Futuro sarà la Bibbia degli Uomini Liberi»? (38). Le cose stanno tutt’altro che così, e sono in molti ad affermare che mai come oggi la storia è stata un tale oggetto di controversia nella sfera pubblica (39). I segni di questa controversa presenza sono ovunque, a cominciare da stampa e televisione, in occasione di anniversari, funerali, celebrazioni, e news da prima pagina (40); e sono tutt’altro che assenti dalla popular culture (41). Fra il 1994 e l’inizio del 1995, l’annuncio della costruzione in Virginia, nei pressi dei luoghi delle battaglie della Guerra civile, di un «parco a tema» storico della Walt Disney ha aperto una pubblica discussione sulle possibilità effettive di usare persino media di questo tipo per discorsi storici complessi (42). I prodotti dell’industria culturale presentano problemi specifici di analisi, legati all’uso commerciale del passato che essi propongono. E tuttavia problemi analoghi si pongono per altri prodotti, in apparenza più sofisticati, che pure sono entrati a far parte del mercato della memoria. Mi riferisco alla crescita impetuosa dei musei e delle società storiche locali e nazionali, con la loro capacità di trasformarsi in imprese, attrarre turisti, vendere merci simboliche e materiali, e anche, in alcuni casi, di offrire rappresentazioni conflittuali del passato (43). Mi riferisco ai monumenti e ai luoghi storici, per molti versi altrettanto commercializzati dei theme parks disneyani, e oggetto di controversie sui loro significati. Che cosa deve celebrare il Little Big Horn Battlefield National Monument, in Montana? Il martirio del colonnello Custer o l’eroismo dei vincitori Sioux? (44). E quale politica della memoria deve ispirare un monumento ufficiale, nella capitale federale, ai caduti americani in Vietnam durante una guerra mai dichiarata? All’inizio degli anni ottanta lo scontro fu così aspro che portò alla inaugurazione di due monumenti: il lungo muro di granito nero con i nomi di tutti i 58.000 morti, ciascuno dei quali invita a pietà e dolore individuali e privati, e, poco distante, la statua di tre anonimi soldati iperrealisti, eroica e patriottica (45).
  1. Altre aree di contesa sono le celebrazioni storiche di rilevanza nazionale. Dopo le risse colombiane del 1992, la questione dell’‘invasione bianca’ delle Americhe si è riproposta nel 1994, in chiave nazionale, nella mostra chicagoana su The Frontier in American Culture, questa volta con soluzioni creative e interessanti. La mostra prevedeva due percorsi distinti, corrispondenti a due tradizioni storiografiche. Un percorso seguiva l’interpretazione di Frederick J. Turner, in occasione del centenario del suo saggio su The Frontier in American History, letto a Chicago il 12 luglio 1893, e vedeva la frontiera come movimento di espansione pacifica della civiltà sul continente; l’altro seguiva il Wild West Show di Buffalo Bill, che si esibì in città lo stesso pomeriggio di Turner, a poche strade di distanza, e vedeva la frontiera in maniera più realistica, e cioè come campo di battaglia (46). L’anno successivo, dopo il disastro della mostra washingtoniana su The Last Act: The Atomic Bomb and the End of World War II, qualcuno si è chiesto se non sia desiderabile ricorrere a soluzioni di questo tipo (percorsi multipli con letture diverse, ‘appaltati’ a gruppi diversi di storici, con il pubblico come arbitro e testimone) per affrontare temi scottanti (47). Nelle intenzioni degli organizzatori, la mostra di Washington doveva ricordare il cinquantennale delle bombe sul Giappone presentando la fusoliera restaurata del B-29 Enola Gay, il bombardiere di Hiroshima, in un contesto nel quale si discutessero con franchezza tutte le domande sollevate dagli storici sul comportamento del governo americano di allora: si trattò di una decisione per abbreviare la guerra e salvare vite umane, oppure di una decisione imperialista e razzista, di un crimine di guerra? Il dibattito pubblico sui lavori preparatori, in particolare lo scontro con le associazioni degli ex-combattenti che ritenevano alcune interpretazioni offensive e anti-patriottiche, fu talmente violento che nel gennaio 1995 l’intera operazione fu annullata. Questo fallimento, che è stato definito «la peggiore tragedia che sia capitata alla presentazione pubblica della storia negli Stati Uniti in questa generazione», ha sottolineato ancora una volta le difficoltà di conciliare commemorazione e seria analisi storica, ma anche seria analisi storica e vissuto-memoria dei protagonisti, in una società divisa da guerre culturali (48). E certo è paradossale che a scontrarsi con gli ex-combattenti e la loro memoria sia stata proprio quella nuova storiografia che ha dato tanto spazio alle esperienze dei partecipanti non d’élite, e che tanto si è occupata di memoria storica. Dobbiamo imparare da questa tragedia, ha scritto il direttore del «Journal of American History», David Thelen, anche perché l’unica alternativa è quella di «ritirarci nei sicuri porti della professione dove parliamo solo con noi stessi» (49).
  1. La Enola Gay Controversy si è sviluppata in contemporanea a quella sui National Standards, condividendone toni e motivazioni, meritando anch’essa una risoluzione di condanna del Senato, che nel settembre 1994 ne definì il progetto «revisionista e offensivo» (50). Diretti precedenti del dibattito sui National Standards sono invece rintracciabili nei movimenti di riforma scolastica a livello statale, veri terreni di battaglia; la storia, cioè l’introduzione di curricula storici multiculturali, è stata al centro di almeno due casi di cui ho resoconti dettagliati, e ciascuno di essi permette di vederne aspetti diversi e cruciali. Nel caso dello stato di New York (1987-1989), l’analisi di Schlesinger mette in evidenza come si configurasse uno scontro fra diverse concezioni della funzione della storia. Secondo gli esponenti delle minoranze etniche e razziali, un programma eurocentrico «uccide i nostri figli e […] le loro menti»; un programma multiculturale fornisce invece loro, come già aveva rivendicato Malcolm X, strumenti di «autostima» e orgoglio. Schlesinger, che fu uno dei protagonisti del dibattito, ammette che fino a oggi la storia nazionale sia stata «assolutoria», «scritta nell’interesse dei maschi bianchi anglosassoni e protestanti» per giustificare lo status quo, ma ora, sostiene, si sta affermando una storia «compensatoria», che celebra la «virtù superiore degli oppressi»: una storia-placebo, una storia terapeutica. Sono entrambi, conclude virtuosamente, esempi di pessima storia (51). Nel caso della California (1987-1992) il merito delle questioni era lo stesso, ma il resoconto di Gitlin permette di guardare anche alle procedure, e cioè alla politica di selezione dei libri di testo. Ogni sette anni, lo State Board of Education prepara una lista di testi accettabili e, dopo averne discusso in public hearings, l’approva; i consigli scolastici locali, che sono organi elettivi, dopo ulteriori hearings, fanno l’adozione definitiva scegliendo da quella lista. Nel 1991 restò impigliato in questo processo decisionale, «confuso e politico» o «democratico», a seconda dei punti di vista, un manuale di storia scritto secondo i criteri multiculturali già in vigore nello stato. Per molti partecipanti alle hearings locali, tuttavia, il manuale non era abbastanza multiculturale, perché, pure apprezzando la molteplicità delle esperienze storiche, sottolineava per gli Stati Uniti la centralità della storia occidentale. Accadde così che il testo, per il quale gli autori (fra i quali Nash) temevano attacchi conservatori, fu oggetto di contestazioni radical, anche se alla fine fu accettato ovunque. Ovunque tranne che a Oakland, dove fu respinto; qui, nelle assemblee indette dallo School Board, Nash fu accusato di razzismo, ed echeggiò la parola d’ordine «Vogliamo che la nostra storia sia scritta dalla nostra gente» (52).
  1. Il conflitto pubblico sulla storia, infine, è continuamente presente nella retorica politica; e lo è perché è presente nella matrice ideologico-linguistica di questa retorica, cioè nell’ideologia nazionale. L’americanismo, come tutti gli idealismi nazionali ottocenteschi, narra le vicende collettive del paese operando un raccordo fra passato e futuro; lungi dall’essere esclusivamente orientato al futuro, implica anche una coscienza storica (53). La sua struttura ha, in effetti, una componente astorica: l’idea che l’America sia manifestazione di un disegno provvidenziale, che si dispiega nel tempo ma non deve vivere il dramma della storia perché è compiuto in sé fin dall’inizio; in questo senso, l’America è fuori dalla storia, o alla fine della storia, che è lo stesso (54). E tuttavia questo discorso contiene anche materiali per visioni non celebrative dell’America realmente esistente, per analisi critiche, per azioni e progetti di riforma: l’idea che gli americani possano deviare dal cammino segnato, perseguire falsi valori, costruire cattive istituzioni, riprodurre nel paradiso l’inferno della tirannia e dell’ingiustizia. Questa ricorrente lamentazione rituale, che Sacvan Bercovitch ha chiamato la «geremiade americana», implica una frattura fra la perfezione della promessa e l’imperfezione della realtà; una frattura che è superabile con la denuncia e la lotta, la sconfitta del nemico insediatosi in casa, la riconquista dei valori originari, l’accettazione della responsabilità del futuro, l’annuncio di una nuova promessa. Tutti i movimenti di cambiamento, anche i più diversi fra loro, hanno usato la tecnica di mettere a confronto il proprio sogno americano con un presente insoddisfacente, chiamando alle armi per il riscatto. Lo hanno fatto nel Novecento i liberals ma anche socialisti, comunisti e radicals, e, prima di loro, abolizionisti e femministe. Tutti, naturalmente, hanno dovuto proporre una lettura della storia nazionale per indicare quando il paese avesse deviato dalla retta via, e quale fosse questa retta via, e chi fosse responsabile della deviazione (55). Nell’ultimo ventennio sono stati i conservatori a proporre svolte politiche radicali, e quindi sono stati loro a scandagliare in questa chiave il passato, e a intessere di queste riflessioni il loro discorso pubblico. I reaganiani volevano tornare agli Stati Uniti pre-New Deal, non ancora corrotti dal governo interventista e dallo stato sociale; per gli ultra-conservatori del 1994 la parola d’ordine era «back to 1900», saltando a pié pari un secolo di errori (56). Insomma, la progettazione del futuro implica un ritorno nel passato; il controllo sul passato sembra necessario per controllare il presente e il futuro. E così la medesima tradizione nazionale diventa terreno di feroce battaglia ideologica, di contrastanti interpretazioni storiche che sottendono la costruzione di identità politiche distinte.

Gli storici e il loro pubblico

  1. In tutte queste pubbliche discussioni gli storici sono presenti, in vari modi. Alcuni hanno ruoli molto tradizionali. Come in tutto il mondo, sono commentatori di affari correnti nei mass media, sono ‘consiglieri del principe’, sono ‘intellettuali organici’ di aree politiche generali o di pubblici specializzati, settoriali, di nicchia, come accade agli storici diplomatici con il Dipartimento di Stato oppure agli storici di afro-americani, donne, omosessuali con le rispettive comunità. Altri storici sono presenti come organizzatori e consulenti di mostre e musei, di documentari, film, parchi a tema; preparano i professionisti che vi lavorano; hanno sviluppato una subdisciplina specifica, la public history. Hanno inoltre studiato, come ricercatori, il tema stesso della permanenza della memoria storica. Qualcuno sta indagando su una questione cruciale del presente: ma tutta questa storia esibita in pubblico, alla fine, che impatto ha veramente sui cittadini? (57). Tutto ciò crea non pochi problemi nella professione, e ci sono proposte di ridefinire i criteri di historical scholarship al fine di dare legittimità accademica a queste attività e, nel contempo, di sottoporle al rigoroso vaglio scientifico della comunità degli studiosi (58). Ma naturalmente, non c’è niente di nuovo in questa dimensione pubblica, e politica, della storia e degli storici. Gli attacchi conservatori alla ‘politicizzazione’ della professione da parte della sinistra sembrano presumere che la tradizione storiografica nazionale sia un vergine terreno felice, solo ora contaminato dai barbari. Ma ciò, com’è ovvio, è pura fantasia. Senza fare analisi troppo sofisticate, basti ricordare che i cosiddetti consensus historians degli anni cinquanta celebravano senza infingimenti le virtù uniche della democrazia americana nel contesto della guerra fredda e della lotta al comunismo; e che nel 1949 era stato il presidente dell’AHA a chiamare a un «atteggiamento militante» in proposito, in nome della «responsabilità sociale» dello storico. Basti ricordare che anche i più autorevoli progressive historians dell’inizio del Novecento erano intellettuali militanti, convinti, come scrisse Charles Beard nel 1913, che «le scuole [storiche] interpretative sembrano sempre avere origine negli antagonismi sociali». Alle origini della moderna professione, la maggioranza dei praticanti accettava come proprio compito quello di cercare nella storia principi utili all’azione politica; e l’editoriale di presentazione del primo numero della «American Historical Review», nell’ottobre 1895, si intitolava History and Democracy (59).
  1. Con il senno di poi, gli storici della fine dell’Ottocento sembravano avere alcune idee precise. Avevano un chiaro senso di quale fosse il pubblico al quale si rivolgevano (l’élite sociale Wasp), di quale fosse il nodo centrale della loro ricerca (lo stato, che esprime e riassume la società) e il progetto nel quale erano impegnati (narrare una coerente storia nazionale, senza preoccuparsi se si scambiava «la storia di un gruppo con la storia della nazione») (60). Un secolo dopo le cose sono cambiate, soprattutto perché si è democratizzata la società americana, e con essa l’istruzione superiore e infine l’accademia. L’espansione dell’università nel secondo dopoguerra ha fatto sì che gli studenti passassero da due milioni (1947) a 13 milioni (1988), infrangendo molte barriere di censo, di razza, di genere; ha favorito inoltre un reclutamento più ampio e diversificato del corpo docente. Se gli storici dell’Ottocento erano gentlemen alto-borghesi, e quelli della generazione di inizio secolo erano uomini bianchi del ceto medio di origine nord-europea, negli anni sessanta la professione si è aperta, anche grazie alle politiche di affirmative action, ai figli della working class etnica, delle minoranze razziali, e alle donne. Secondo Appleby, Hunt e Jacob, sono questi i cambiamenti che hanno portato alla «riscrittura della storia americana da una varietà di prospettive culturali» e a una iniezione di scetticismo e relativismo nella storiografia; il che non vuol dire che il passato sia inconoscibile, bensì che sono caduti i principi di autorità, gli assolutismi intellettuali. «Lo spirito intellettuale della ricerca democratica», scrivono le tre storiche, «celebra una molteplicità di attori, diversamente situati e scettici dell’autorità». E’ mutato dunque il fuoco dell’indagine, dallo stato alla società, dai gruppi d’élite a tutti i gruppi; è mutato in parte il progetto, dato che per molti diventa difficile immaginare una grande narrazione totalizzante della storia nazionale. E’ mutato infine il pubblico potenziale, molto più ampio e diversificato; «l’accessibilità della storia ai popoli di questa nazione» diventa quindi un problema cruciale da affrontare in termini nuovi (61).
  1. C’è qui da registrare un paradosso (62). Proprio mentre nella pubblica piazza si parla tanto di storia, dai campus universitari si levano lamenti sulla separatezza e marginalità nella quale gli storici conducono il loro lavoro, sulla frantumazione della disciplina in subdiscipline ultraspecializzate, incapaci di dialogare fra loro, figurarsi con i non addetti ai lavori; sul carattere esoterico delle questioni scientifiche dibattute con linguaggi astratti e incomprensibili. Commentando un’inchiesta che ha cercato di misurare questo disagio fra i membri della OAH, Paula Baker ha osservato che «gli storici sono vittime che commettono il ‘crimine senza vittime’ di scrivere libri noiosi e pagano il prezzo dell’isolamento». «Nessuno è entrato nella professione», ha aggiunto Thelen, «per scrivere libri che saranno letti da una o due dozzine di persone» (63). Credo che si tratti, per molti versi, di un paradosso solo apparente, che può essere sciolto se si pensa la corporazione degli storici non come una comunità omogenea, bensì diversificata per risorse e prestigio, per cultura politica, e con diverse nozioni di sé e del «pubblico». Ci sono frustrazioni che derivano dal misurarsi con il modello dei grandi storici liberal del passato (l’esempio favorito è Richard Hofstadter), capaci di tradurre le inevitabili astrusità della ricerca scientifica in saggi eleganti su questioni centrali della vita politico-culturale, che si rivolgevano a un largo pubblico, e lo raggiungevano. In questo contesto, «largo pubblico» voleva dire lettori upper-middle-class, colti, maschi, bianchi; qualche volta voleva dire rapporti privilegiati con il potere, e aspirazioni da policy makers (l’esempio diventa Schlesinger, o Henry Kissinger). Questo tipo di pubblico continua a esistere, e a consumare libri, ma pretende alcune qualità, e non tutti ce l’hanno. Ci sono altre frustrazioni che derivano dal misurarsi con il modello dell’intellettuale critico, spesso ma non sempre di sinistra, «outsider», «amateur», e «disturbatore dello status quo», come è stato di recente celebrato da Edward Said; un intellettuale capace di fare un discorso generale sulla società e di ergersi solitario a «dire la verità al potere» (alla Noam Chomsky) (64). In questo caso il pubblico era ed è, nelle intenzioni, ‘il popolo’ o ‘le masse’, nei fatti una ristretta comunità politica. Anche questo modello, a me pare, appartiene strutturalmente al passato, travolto dalla frammentazione del sapere e della vita intellettuale nell’età dell’accademia, e dalla trasformazione dei mezzi di comunicazione (65).
  1. L’impossibilità per decine di migliaia di professori di essere Hofstadter, Schlesinger, o Chomsky, non può che produrre sensi di impotenza e isolamento. Una parte della professione ha immaginato una via d’uscita partendo dall’ipotesi che la «principale minaccia» sia costituita oggi non dalla contrazione del pubblico della storia, bensì dalla sua espansione, e dalla sua moltiplicazione in pubblici diversi (66). Per raggiungerli, questi storici ritengono che sia di importanza cruciale lavorare nelle istituzioni della public history e nell’industria culturale, cosa che essi fanno come mai era accaduto in precedenza, e nelle istituzioni della didattica. Un «largo pubblico» più vicino di quanto non si pensi, per quanto spesso trascurato, è in effetti quello degli studenti di college che ogni anno devono seguire corsi generali undergraduate di storia, senza proseguire poi nello studio della materia. Per molti docenti questa è una sfida appassionante, ma per altri è una noia mortale, che comunque non paga in termini di prestigio e carriera (67). Gli studenti e gli insegnanti delle high schools sono più lontani, ma il loro numero è enorme, e rappresentano una vera cross-section della società. Di questo specifico tentativo della storiografia accademica di uscire dai campus, che i critici conservatori hanno definito una «lunga marcia attraverso le istituzioni» di sessantottesca memoria, i National Standards sono un documento esemplare. Lo sono nel bene e nel male, nei loro successi e nelle loro sconfitte. La reazione negativa che hanno incontrato nel ceto politico nazionale è stata percepita, per esempio, come una ricusazione non solo degli autori e dei collaboratori dei testi, ma anche di tutta la professione che in qualche modo li ha ispirati. D’altra parte, il loro complesso lavoro di preparazione, e la discussione che ne è seguita nelle scuole di tutto il paese, sembrano aver favorito un superamento della frattura fra insegnanti medi e universitari. E questo, per Nash, è motivo di celebrazione per tutti: «Gli storici di professione si sono allontanati dall’insegnamento della storia nelle scuole mezzo secolo fa, per varie ragioni. Ma ora sono in molti a cercare di riunire le due comunità di educatori»

    3. Il testo: alcune riflessioni sullo stato della storiografia americana

    Conflitti senza progresso

    1. I National Standards sono uno specchio fedele dello stato della storiografia americana contemporanea, o, per meglio dire, della corrente dominante nel pensiero storico accademico, dei suoi punti di forza e di debolezza. Essi offrono una completa «check-list di ciò che questa generazione di studiosi ritiene che questa generazione di studenti dovrebbe imparare a proposito della storia americana» (69). Confermano ciò sia gli estimatori dell’iniziativa, per difenderla, sia i suoi critici, per innalzare il livello dell’allarme, e, presumo, per spaventare i genitori. I critici, non solo quelli conservatori, sottolineano inoltre come il testo assuma, in certe sue parti, il linguaggio delle propensioni politico-culturali, dei pregiudizi e dei tic della sinistra; e anche questo è vero. I National Standards sono sicuramente e, devo dire, un po’ stupidamente biased nel modo in cui formulano alcuni esempi didattici per gli insegnanti, alcune domande di controllo per gli studenti. Accade così che, a proposito del contatto fra le culture nel periodo coloniale, si chieda di comparare le idee europee sulla proprietà privata della terra con quelle dei Native Americans, secondo le quali la terra sarebbe «affidata dal Creatore a tutte le creature viventi per il loro comune godimento e comune uso». Accade così che, per l’età contemporanea, in alcuni casi si prendano gli ideali per buoni e si chieda di spiegarli (gli ideali della affirmative action), in altri si prendano invece per strumenti di realpolitik e si chieda di discuterli criticamente (gli ideali della politica dei diritti umani in politica estera). Accade così che, per ciò che riguarda il secondo dopoguerra, la politica americana in Europa orientale sia descritta come favorevole alla «auto-determinazione» dei popoli fra virgolette (lo dice il governo degli Stati Uniti, chissà se è vero), mentre quella sovietica è descritta come dettata dal «desiderio di sicurezza» senza virgolette (una verità oggettiva). Accade infine che, nelle pagine sulla guerra fredda interna, il nome di Joseph McCarthy e il termine «maccartismo» ricorrano così spesso (18 volte in due pagine) da perdere ogni utilità esplicativa e assumere il ritmo di un’ossessione (70). Il Council for Basic Education, un comitato indipendente di Washington che ha valutato la questione, ha concluso che è proprio nei dettagli dei «teaching examples» che si annida il diavolo del pregiudizio, del presentismo, del facile moralismo, e ha consigliato di eliminarli. Detto questo, ha anche consigliato di conservare la struttura portante del lavoro, poiché, a suo parere, i criteri di base dei National Standards riflettono una «sound historical scholarship» (71).
    1. Concordo con questo giudizio. Che si tratti di sound historical scholarship non vuol dire, com’è ovvio, che non sia controversa, discussa, e discutibile. Un primo problema deriva dal fatto che presenta la storia del paese come una serie di conflitti di gruppi e «popoli» diversi (72). L’approccio conflittuale non è, di per sé, particolarmente nuovo. Anche la storiografia progressista che ha dominato la prima metà del Novecento, quella fondata dai Beard e dai Turner, vedeva il corso della storia nazionale come determinato da grandiose lotte politico-sociali fra città e campagna, centro e periferia, Est e Ovest, imprenditori e operai, oligarchia e democrazia. Queste lotte, tuttavia, implicavano uno scontro fra una pluralità di «interessi speciali» e «un popolo» (anzi, «il popolo») unito nella difesa dell’interesse generale; erano inoltre collocate in una narrazione di progresso di lungo periodo. Nel celebre libro di Charles e Mary Beard, The Rise of American Civilization (1927), sotto il ribollire dei conflitti era possibile percepire l’esistenza di un progetto di democrazia nazionale che si realizzava con fatica, con pena, ma, appunto, progressivamente nel tempo. La nuova storiografia sembra accentuare i conflitti senza progresso, e la mancanza di direzione della storia. In coerenza con questo approccio, secondo alcuni commentatori, i National Standards presentano il paese come «una lunga lista di problemi, di controversie, di pregiudizi», una «rumorosa cacofonia di culture in collisione e competizione perpetua», un «amaro distillato di problemi eternamente intrattabili» (73). Il titolo stesso del testo beardiano sarebbe oggi improponibile; l’idea che esista una American civilization e che questa possa rise, ascendere, avanzare, non è affatto data per scontata; l’idea che esista un progresso storico è stata occultata dall’uso di un termine più neutro come change, cambiamento. D’altra parte, pur senza entrare in questioni di filosofia della storia, bisogna essere onesti: se si ammettono fra i protagonisti e gli eventi del dramma nazionale i Native Americans e gli afro-americani, la schiavitù e «il genocidio da cui nacque la nostra nazione» (per usare le parole di Leslie Fiedler), diventa forse difficile a anche imbarazzante parlare di progresso e immaginare happy endings (74).
    1. Il confronto con un epigono della tradizione progressista come Schlesinger suggerisce un secondo problema, connesso al primo. Schlesinger sostiene che l’unità della storia americana è data dalla coesione politica che ha legato gli individui e la nazione sulla base di valori comuni come libertà, democrazia e diritti umani. E aggiunge che, nell’ambito di questa coesione politica, e in subordine a essa, le diversità culturali sono state un contributo positivo all’esperienza nazionale. Per essere più chiari, secondo Schlesinger le diversità culturali hanno costituito un arricchimento solo perché è esistita quella coesione, altrimenti avrebbero portato, e forse stanno portando, al caos: alla frammentazione dell’esperienza storica e alla «balcanizzazione» della vita pubblica del paese (75). E’ proprio di questi valori comuni, che hanno consentito la convivenza degli americani malgrado tutto, che, si dice, i National Standards hanno difficoltà a rendere conto; offrono l’immagine di una democrazia rissosa, di cui alla fine si sa tutto a proposito delle ragioni e dello svolgersi delle risse, ma molto poco a proposito degli interessi e degli ideali che hanno reso possibile la democrazia. Questa analisi si basa su una prospettiva storiografica che afferma la centralità e la supremazia non solo della politica sulla società e la cultura, ma anche della storia politica sulle altre possibili storie. Ora, negli ultimi trent’anni la storiografia politica è stata la grande malata, e il suo primato esplicativo è stato messo in discussione. Per alcuni ciò ha messo in discussione anche la possibilità e la desiderabilità di una narrazione coerente della storia nazionale. Altri storici, e credo che siano la stragrande maggioranza nella professione, pensano invece che la storia nazionale sia ancora necessaria, anzi, che sia «un imperativo culturale» per gli Stati Uniti contemporanei. «I frammenti non esistono indipendentemente dal tutto che li rende frammenti», scrivono per esempio Appleby, Hunt e Jacob; e tuttavia, per loro, la sfida consiste nel prendere sul serio e mettere in gioco i risultati della nuova storiografia, e quindi di trovare, per elaborare una nuova sintesi, un aggancio intellettuale altrettanto solido di quello offerto nel passato dalla storia politica (76). Impresa ardua e non risolta, certo non risolta nei National Standards che, data la loro natura, tendono a fotografare la situazione esistente più che a esibirsi in esercizi di immaginazione storiografica.

    Frammentazione e sintesi agli inizi della storia nazionale

    1. Fotografando la situazione esistente della storiografia, i National Standards ne riflettono anche lo sviluppo diseguale nelle varie aree di ricerca e i modi (e gradi) diversi in cui hanno elaborato il problema della frammentazione e della sintesi. Credo che un’analisi dei primi capitoli del volume, fino alla formazione degli Stati Uniti d’America, permetta di verificare questa affermazione, e di discuterne alcune implicazioni. Le due sezioni iniziali dei National Standards, che coprono la ‘scoperta’ europea del Nuovo Mondo e la bisecolare esperienza coloniale, sono senza dubbio le più interessanti per ciò che riguarda il discorso multiculturale, e le più compiute, anche perché trattano di uno dei più massicci incontri di popoli e culture diverse nella storia dell’umanità. Vi furono probabilmente coinvolti tre milioni di europei in movimento prima del 1820, fra 8 e 10 milioni di africani deportati nello stesso periodo, e parecchie decine di milioni di Native Americans (77). nell’ambito di processi storici di dimensioni transcontinentali, per molti versi appartenenti a una fase pre-nazionale anche della storia occidentale. Seguendo la lezione di una generazione di economisti, geografi e storici, fra i quali uno dei coordinatori del testo, lo stesso Nash, il quadro in cui sono collocati questi eventi è quindi molto ampio, affinché sia possibile apprezzare l’impatto della creazione dei moderni imperi europei, e la formazione di un sistema globale di scambi e relazioni fra quattro continenti, tre razze, e una grande diversità di aree regionali nell’ambito di un vasto circuito atlantico (78). Anche quando il fuoco si restringe alle colonie inglesi nel Nordamerica, l’approccio continua a essere sia transatlantico che continentale, con costanti richiami comparativi agli sviluppi degli altri sistemi coloniali europei e di quello inglese nei Caraibi. «Questo ampio contesto della storia americana», si afferma «evita il provincialismo e sottolinea come gli inglesi, in quanto late comers nelle Americhe, fossero profondamente influenzati da ciò che già era accaduto nelle vaste regioni dell’emisfero» (79). Devo dire che questa griglia transnazionale di grande respiro resta operativa, sullo sfondo, anche nelle pagine sulla Rivoluzione, ma poi mi pare che si perda per strada, soprattutto nell’Ottocento, quando sarebbe altrettanto utile e produttiva. Ma nel secolo dei nazionalismi, con tutta evidenza, la auto-contemplazione miope della storia nazionale sembra inevitabile.
    1. Il punto di vista da cui si guarda a tutto ciò non è solo quello europeo, anzi è quello della convergenza, della collisione e dello scontro dei «tre mondi», europeo, amerindiano e africano. La storia sociale, culturale e politica di ciascuno di questi mondi ha attenzione generosa, spazio adeguato, e totale rispetto della loro autonomia; altrettanta attenzione hanno le interazioni reciproche, e i rapporti di potere che si instaurano fra di essi. «Necessariamente», dicono i National Standards, quasi giustificandosi, «qui si devono affrontare due dei più tragici aspetti della storia americana: primo, i violenti conflitti fra i bianchi e i popoli indigeni, la diffusione con effetti devastanti delle malattie europee fra i Native Americans, e il graduale esproprio delle terre indiane; secondo, la tratta degli schiavi africani e lo sviluppo di un sistema schiavista in molte delle colonie». E aggiungono: «Pur facendo i conti con questi tragici eventi, gli studenti dovrebbero acquisire la consapevolezza che africani e Native Americans non furono solo delle vittime, ma furono coinvolti in vari modi nella creazione della società coloniale e di una nuova, ibrida cultura americana» (80). In affermazioni come quest’ultima c’è qualche traccia di ipocrisia, quasi la tentazione (come ha osservato James Axtell a proposito di certi studi sull’influenza dei nativi nella vita delle colonie) di ammordire la dura realtà del dominio bianco con il fatto che i bianchi, comunque, calzavano spesso mocassini indiani (81). Ma c’è anche un’ipotesi storiografica molto più solida e interessante, fondata sulla convinzione che africani e Native Americans fossero agenti attivi della loro storia e quindi della storia degli europei, non solo presenze estranee ed esterne, nemici, vittime, o fantasmi di un «problema». Ammesso, come ammettono i National Standards, che «gli europei iniziarono i cambiamenti» (82), gli indiani e le guerre indiane, così come gli schiavi e la schiavitù, contribuirono in maniera decisiva a plasmarne gli sviluppi. Le implicazioni di un’analisi di questo tipo possono essere radicali, e inquietanti, anche a livello della storia politica. Come ha mostrato vent’anni fa lo storico bianco liberal Edmund S. Morgan in uno dei libri più influenti della sua generazione, si può scoprire che l’idea stessa di «libertà americana» si formò, nel Nord America pre-rivoluzionario, in stretta connessione con la «schiavitù americana», anzi che la seconda era la condizione necessaria della prima (83). La valutazione di queste aree di esperienza storica si dimostra quindi tutt’altro che un esercizio di populismo storiografico, di multiculturalismo romantico o separatista, di celebrazione del frammento; è invece un passaggio indispensabile per capire il passato coloniale nella sua interezza, e quindi per offrirne una sintesi intepretativa forte.
    1. Quando si passa alla terza sezione dei National Standards, dedicata alla Rivoluzione e alla costruzione dello stato-nazione, mi pare che le cose cambino, che l’approccio multiculturale diventi ‘debole’ e puramente addizionale, che le proposte di sintesi perdano vigore. Al contrario di quanto affermato da molti critici, il testo non ignora affatto né trascura i Padri Fondatori, la Costituzione, le istituzioni, le idee e gli ideali sui quali si presume sia stato costruito il paese; anzi, li mette al centro della storia. Delle idee sull’autorità e sui diritti naturali e di cittadinanza che furono incorporate nella Dichiarazione d’Indipendenza e nella Costituzione del 1787, si suggerisce di analizzare sia le ascendenze europee e gli sviluppi nel contesto di un dialogo transatlantico, sia la loro permanenza nel tempo fino alle rivoluzioni nazionali del Novecento. Si dice che la Costituzione e il Bill of Rights segnarono «il periodo più creativo del costituzionalismo nella storia americana», e che la generazione rivoluzionaria «formulò la filosofia politica e gettò le fondamenta istituzionali del sistema di governo sotto il quale viviamo» (84). Com’è ovvio, si sottolinea il fatto che, nell’ambito di questo processo, esistevano movimenti con progetti diversi fra loro, come è possibile verificare dallo scontro fra indipendentisti e filo-inglesi (la Rivoluzione fu anche una guerra civile) (85); dalle tensioni fra i rivoluzionari, e dal drammatico dibattito ideologico sulla Costituzione. Si chiede quindi di guardare alla questione da vari punti di vista, mettendo in gioco opinioni, ruoli e interessi di patrioti e lealisti, di tutti i gruppi sociali e religiosi, di indiani e afro-americani (liberi e schiavi), di uomini e donne. La scena è dunque molto affollata. Il problema è che con la molteplicità sociale, politica e religiosa dei gruppi maschili bianchi, con le loro interazioni e il loro impatto sulla Rivoluzione e sulle istituzioni che ne derivarono, la storiografia ha imparato da tempo a fare i conti, producendo interpretazioni di sintesi (86); e i National Standards ne rendono conto con rigore. Con la molteplicità di razza e di genere, invece, i conti sembrano ancora aperti. E quindi anche nella Rivoluzione raccontata dai National Standards le donne, i Native Americans e gli afro-americani ci sono, sono nominati, sono con-presenti, ma non riescono a uscire dalle loro sfere separate e a interagire in maniera significativa con la storia generale. Non riescono a essere protagonisti.
    1. Credo che una delle ragioni di queste difficoltà debba essere ricercata nel fatto che, per alcuni versi, i National Standards sono paradossalmente ‘tradizionali’, assai poco innovativi. Checché ne dicano i critici, dalle loro pagine emerge l’esistenza di una forte cultura politica nazionale che si riassume nei valori originari della rivoluzione, che sono poi quelli del pensiero liberal-democratico occidentale: tutti gli uomini sono creati uguali; i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità; i diritti di cittadinanza. Questi valori sono presentati come ideali comuni, o meglio potenzialmente comuni in quanto non sempre realizzati per l’intera società; possono essere negati e minacciati, individui o gruppi possono esserne esclusi in determinati momenti della storia del paese (e ancora oggi), ma a tutti forniscono un possibile linguaggio di critica e di riscatto. Questo sottotesto, che implica quel conflitto permanente e mai concluso fra ideali e realtà che ha irritato alcuni commentatori, non è mai tematizzato in maniera esplicita, e tuttavia percorre i National Standards. Forse appare con maggiore chiarezza agli occhi dell’osservatore esterno, più attento a cogliervi uno dei paradigmi del sogno americano: quello che interpreta le ingiustizie della storia come un tradimento della bontà degli ideali. E’ questo sogno continuamente rinviato, per parafrasare il poeta afro-americano Langston Hughes (87), a dare una certa coerenza alla storia nazionale qui narrata, a cominciare dalle vicende fondanti della Rivoluzione. Accade qui che alcune delle questioni più drammatiche e non risolte, la permanenza della schiavitù in primo luogo, ma anche i modi dell’espansione continentale e le guerre indiane, e la posizione delle donne nella nuova repubblica, siano concettualizzate come «contraddizioni» rispetto agli ideali rivoluzionari di comune cittadinanza e quindi, in qualche modo, separate dalla storia generale. E’ un atteggiamento che porta a formulare la fatidica domanda su «quanto rivoluzionaria fosse in effetti la Rivoluzione» (88), piuttosto che a decostruire e storicizzare quegli ideali stessi, e a intrepretarli in un quadro di riferimento multiculturale.
    1. La storiografia americana non manca di ipotesi di lavoro che aiutino in questa direzione. Penso alle storiche delle donne che hanno studiato l’origine del concetto di cittadinanza politica come cittadinanza ‘di uomini’, costruita storicamente sulla esclusione delle donne dalla sfera pubblica, e sulla loro subordinazione nella sfera privata. In questo contesto, la non-cittadinanza femminile non è una contraddizione rispetto a principi astratti di eguaglianza, bensì il fondamento sul quale è stata immaginata l’eguaglianza maschile; una contraddizione la diventerà storicamente, con una sacco di problemi (89). Penso a coloro che hanno studiato la guerra rivoluzionaria come una lotta per la sovranità in Nord America combattuta non fra due parti bensì fra tre, e cioè inglesi, euro-americani, e Native Americans. In questo contesto, la vittoria dei rivoluzionari americani ebbe effetti fatali sulle nazioni indiane, segnò l’inizio della loro fine. In questo contesto la libertà per cui si batterono i rivoluzionari appare come «la loro libertà, che essi intendevano in parte come privilegio di annullare le libertà […] degli amerindiani» (90). Penso infine a coloro che hanno indagato, nella direzione suggerita da Morgan, sul carattere razzialmente connotato dell’idea di cittadinanza americana, il cui valore, in una società di casta come era quella basata sulla schiavitù, derivava in gran parte dalla sua negazione ad altri. I padri fondatori davano per scontato che gli schiavi africani, nelle parole di Edmund Randolph, «non [sono] membri costituenti della nostra società»; anche coloro che personalmente aborrivano la schiavitù, come Thomas Jefferson, rifiutavano i neri come concittadini (91). Tutto questo non era in contraddizione con la carta fondamentale del nuovo stato-nazione; al contrario, vi era incorporato. «Lo stesso linguaggio della Costituzione», ha scritto Foner, «rivelava che tre popolazioni distinte coesistevano sul suolo americano». C’erano i Native Americans, esclusi perché stranieri, appartenenti a altre nazioni; c’era il «popolo» dei cittadini formato da «persone libere»; e poi c’erano «altre persone» non meglio specificate, che esistevano al di fuori della comunità politica, ed erano gli schiavi, ai quali il linguaggio della libertà e della cittadinanza non si applicava (92). Queste analisi, insomma, sono importanti non perché aggiungono frammenti al puzzle della Rivoluzione, bensì perché contribuiscono a ridisegnarne i contorni generali e a spiegarne le conclusioni. Mi sembrano essenziali per un approccio di sintesi.

    La periodizzazione

    1. I problemi della storia sociale, del multiculturalismo e della sintesi ritornano a proposito della struttura cronologica dei National Standards, del modo in cui viene affrontata la periodizzazione della storia nazionale. La periodizzazione non è solo un espediente narrativo, un modo di dividere la narrazione in comodi capitoli, ma anche uno strumento interpretativo in senso forte. Implica una riflessione teorica sulla durata, la permanenza, e il cambiamento; offre un contesto ai fatti, e quindi dà loro senso (93). Non può non implicare, oggi, una sia pur provvisoria sistemazione di alcune questioni centrali nel dibattito storiografico contemporaneo, quali i rapporti fra storia politica e storia sociale (fra i tempi dell’una e i tempi dell’altra), e i rapporti fra storie particolari (i tempi della storia di gruppi, classi, generi, razze, popoli) e storia generale (in questo caso, i tempi della storia nazionale). I National Standards riconoscono la sfida, ma non le danno risposte particolarmente eccitanti, e ne sono consapevoli (94) Nell’introduzione sostengono che il «pensare cronologicamente» è uno dei requisiti del «pensare storicamente» che deve essere sviluppato negli studenti, e che quindi gli Standards devono «fondarsi sulla cronologia, un approccio che incoraggia a rendersi conto del pattern e della connessione causale nella storia». E tuttavia affermano nettamente la difficoltà di immaginare una periodizzazione diversa da quella tradizionale o convenzionale o generalmente politica, e che almeno «cerchi» di «fondere storia politica e storia sociale» (95). I segmenti cronologici sono conformi alle abituali definizioni di ere discrete, organizzate in rapporto a eventi familiari, che solo in un secondo tempo cercano di accogliere al proprio interno la ricerca prodotta nell’ultimo trentennio: come una architettura ortodossa che tenti di «accomodare», ha commentato lo storico David Kennedy, un arredamento nuovo. A suo parere, l’«ortodossia di questa architettura è una potente dimostrazione della presa che continua a esercitare sulla nostra mente la forma, almeno, della vecchia narrazione nazionale» (96).
    1. Per ciò che riguarda i rapporti fra storia sociale e storia politica, i National Standards sono categorici. «Di fatto», scrivono, «nessuno dei manuali universitari di storia degli Stati Uniti che ha tentato in anni recenti di infondere la storia sociale nella storia politica e istituzionale è stato capace di aggirare l’ostacolo della generale determinatezza delle guerre e dei movimenti politici di riforma e della indeterminatezza delle trasformazioni demografiche, culturali e sociali». I grandi eventi politici, ciascuno dei quali ha, a differenza dei movimenti economico-sociali, momenti di inizio e fine relativamente definiti, «sono ancora modi utili per fornire punti di cesura» nella storia nazionale, e quindi nel dargli un senso. Fra l’altro, gli esempi del primo tipo, che sono «the American Revolution, the Constitution, the Civil War, Progressivism, the New Deal, and the Cold War», continuano a godere del privilegio delle maiuscole da nome proprio, mentre gli esempi del secondo tipo, ovvero «the industrial revolution, the labor movement, environmentalism, shifts in childrearing and family size, and so forth», convivono con le minuscole del nome comune. Questa disparità di autorevolezza si registra anche nella disparità dello spazio loro dedicato. Un critico conservatore, con l’intenzione maliziosa di prendere in castagna una nuova storiografia che si suppone devota alla storia sociale, si è messo a fare un po’ di conti; ha scoperto con sorpresa che il 60 per cento delle questioni affrontate sono di storia politica e di politica estera («materiale tradizionale»: «non male», ha commentato) (97). Per ciò che riguarda i rapporti fra le storie dei gruppi diversi e la storia nazionale, i National Standards si limitano a una messa in guardia. «In un paese così diversificato come gli Stati Uniti», si dice, «nessuno schema periodizzante può funzionare per tutti». I Native Americans possono avere scansioni storiche che differiscono da quelle degli euro-americani, così come, d’altra parte, le scansioni degli Irochesi possono differire da quelle dei Sioux; lo stesso discorso vale per afro-americani, messicani-americani, donne. Bisogna quindi scegliere, anche se fare delle scelte significa affermare che la cronologia di alcuni è più importante, determinante, fondante di quella di altri. E la scelta che informa tutto il testo, anche se non è mai esplicitata, è quella espressa da Nash in una differente occasione, a proposito di un suo precedente manuale: «il modo in cui la storia è raccontata segue in effetti gli europei, [perché] questa è la storia di come ha funzionato il potere» (98).
    1. Il risultato è una struttura in dieci capitoli definiti secondo criteri cronologici, sia pure con alcune sovrapposizioni temporali: Era 1: Three Worlds Meet (Beginnings to 1620); Era 2: Colonization and Settlement (1585-1763); Era 3. Revolution and the New Nation (1754-1820s); Era 4: Expansion and Reform (1801-1861); Era 5: Civil War and Reconstruction (1850-1877); Era 6: The Development of the Industrial United States (1870-1900); Era 7: The Emergence of Modern America (1890-1930); Era 8: The Great Depression and World War II (1929-1945); Era 9: Postwar United States (1945 to early 1970s); Era 10: Contemporary United States (1968 to the present). L’organizzazione della materia è dunque piuttosto scontata, con etichette interpretative ben note. Le ultime due ere sono le meno focalizzate, fino al punto che sono le uniche ad avere la cronologia nel titolo stesso, come se ancora non esistesse il modo di nominarle; nel capitolo 10 sugli Stati Uniti post-1968, ciò riguarda anche le suddivisioni interne, che evocano generici «major developments» in politica esterna e interna, nell’economia e nella società. I problema di organizzare la storia più recente è, naturalmente, comune a tutta la storiografia. Il modo in cui, per esempio, i manuali americani trattano gli anni sessanta è incredibile per confusione e mancanza di consenso, e ciò si riflette nel modo in cui li periodizzano, cercando di definire quando sono cominciati e quando sono finiti. Alcuni autori fanno ricorso senza molta fantasia alla categoria del decennio («the sixties»), che sembra semplice, descrittiva e di senso comune, ma che finisce per acquisire una forza interpretativa in quanto presume, come è stato osservato con ironia, che «cambiamenti monumentali avvengano fra un censimento e l’altro» (99). Altri danno una gamma di risposte che appare molto elastica, a fisarmonica: pochi anni intensi e febbrili fra il 1963 e il 1968; un ventennio di conflitti fra il 1954 e il 1975; un ventennio più strutturato che copre il trionfo e il declino dello stato liberal-progressista (1960-1980); la fase conclusiva di un’epoca più lunga, quella segnata dal formarsi e disgregarsi del «sistema del New Deal» (100). Quest’ultima periodizzazione è probabilmente quella che meglio si adatta agli schemi proposti dai National Standards, che dedicano l’intero capitolo 8 all’emergere del blocco politico-sociale che è stato alla base di quel sistema (gli anni del New Deal, appunto, della seconda guerra mondiale), e chiudono il capitolo 9 con la sua crisi fra il 1968 e i primi anni settanta.
    1. L’idea di un «sistema del New Deal» appartiene a una griglia interpretativa che è piuttosto consolidata, e che vede la storia nazionale come il succedersi di sistemi politici distinti. Sviluppata negli anni sessanta da storici dei partiti e del comportamento elettorale e da politologi, era il tentativo di leggere la storia politica emancipandola da un approccio troppo legato ai grandi eventi e alle personalità dei presidenti (la cosiddetta «sintesi presidenziale»), e di introdurvi l’analisi di elementi strutturali che spiegassero i meccanismi di cambiamento e continuità nel medio periodo. Non più solo presidenti, quindi, o singole elezioni, programmi di partito, dibattiti politico-parlamentari, movimenti di riforma, guerre, ma anche e soprattutto «sistemi di partito» che si formano in occasione di grandi sconvolgimenti elettorali (le «elezioni critiche») e poi si stabilizzano nel tempo, e che esprimono rapporti fra stato, economia e società e modelli di public policy relativamente coerenti. Quando cambia sistema, si suppone che ciò accada perché cambiano i nessi fra questi elementi. I momenti di cesura sono in parte quelli tradizionali, in parte no: certamente la Rivoluzione, poi gli anni trenta dell’Ottocento con l’emergere del «sistema jacksoniano», gli anni sessanta con il «sistema della Guerra civile», gli anni novanta con il «sistema del 1896», gli anni trenta del nostro secolo con il già citato sistema del New Deal, e gli anni sessanta-settanta ancora in attesa di una definizione (101). Questa scansione cronologica è familiare nella storiografia americana, e se ne sente un’eco anche nei National Standards, e non solo nella parte più contemporaneistica. Presenta di certo alcuni problemi, basti pensare al fatto che salta a pié pari i drammatici appuntamenti dei due grandi conflitti mondiali del Novecento, e quindi (forse) le possibilità di una comparazione della storia degli Stati Uniti con quella del mondo transatlantico (102). Ma presenta anche potenzialità che qui mi interessano di più dei problemi. Basti pensare che, negli ultimi anni, agli iniziali elementi definitori se ne sono aggiunti, e se ne possono aggiungere, altri derivanti dalla storia sociale e culturale: rapporti fra classi, etnìe e razze, fra spazi privati e spazi pubblici, fra identità sociali e forme di comunicazione e di consumo, fra famiglia e politica della famiglia, fra le generazioni e fra i sessi, e così via. Ciò ha portato, fra l’altro, a usare etichette più comprensive, da «sistemi elettoriali» a «sistemi di partito» a «ere politiche» a «regimi politici» (103). E quando cambia regime, si può supporre che ciò accada perché cambiano i nessi fra tutti o quasi questi elementi, sia di tipo politico-economico che di tipo sociale e culturale.
    1. Detto in altri termini, credo che le scansioni temporali proposte da questo approccio siano in grado di accomodare le periodizzazioni elaborate in maniera autonoma sia dalla storia sociale che dalle storie particolari di gruppi diversi. Credo anche che, a questo punto, usare il verbo «accomodare», come fa Kennedy, sia fuorviante, perché implica il riconoscimento del primato della storia politica che continuerebbe a imporre i suoi parametri alla storia generale e ad assorbire al proprio interno, e a neutralizzare, le altre storie. La questione può essere rovesciata e formulata in positivo. E’ possibile ipotizzare che cambiamenti politici e cambiamenti sociali e culturali siano strettamente intrecciati e interdipendenti, così da concorrere insieme a dettare i tempi della storia. La periodizzazione che ne risulta appare in larga misura tradizionale perché i tempi della politica sono stati formalizzati per primi nella moderna storiografia, e si sono rivelati dei decenti indicatori di cambiamento. Molti esempi sarebbero possibili, in varie direzioni. Altrove ho cercato di indicare come le ricerche di storia politica, istituzionale, economica, intellettuale, sociale, culturale, e di gender history siano necessarie, senza gerarchie di sorta, per dare un senso alle trasformazioni della vita pubblica negli Stati Uniti negli anni novanta dell’Ottocento (104). In una prospettiva longitudinale, la storia delle donne ha fatto emergere relazioni, tensioni, conflitti di genere finora invisibili, e quindi nuove ipotesi sulle forze che hanno contribuito a mantenere o modificare l’ordine politico-sociale in tutto l’arco della storia nazionale, ma con momenti di accelerazione e drammaticità che coincidono con le sue cesure periodizzanti, e ne sono parte integrante (105). Lo stesso potrebbe dirsi degli afro-americani, che si presentano anch’essi con regolarità agli appuntamenti periodizzanti della vicenda del paese, e ne co-determinano sviluppi e sbocchi. Ma basta così. Con queste considerazioni non intendo proporre, con spensierata avventatezza, un modello interpretativo di sintesi della storia nazionale degli Stati Uniti. Più modestamente, intendo piuttosto suggerire che esiste il materiale per concettualizzare in termini più ottimistici di quanto non facciano i National Standards, i rapporti fra storia sociale e storia politica, e fra storie particolari e storia generale. Che sono meno in guerra fra loro di quanto non siano state nel recente passato.

 (*) Questo saggio è originariamente apparso su «Storica», 6 (1996): pp. 7-53. Si ringraziano l’Autore e la Direzione di questa rivista per aver acconsentito alla presente ripubblicazione.

 (1) F. Fitzgerald, America Revised. History Schoolbooks in the Twentieth Century (Boston: Little Brown, 1979), 7, 16-17.

 (2) J. Appleby, L. Hunt e M. Jacob, Telling the Truth about History (New York: Holt, 1994), 1.

 (3) National Standards for United States History: Exploring the American Experience Grades 5-12, Expanded Edition, National Center for History in the Schools (Los Angeles: University of California, 1994), coord. G. B. Nash e C. Crabtree. Una versione elettronica di questo testo (priva di fotografie, mappe e di alcune appendici) si trova nel sito World-Wide Web del NCHS, <URL: http://www.sscnet.ucla.edu/nchs/us-toc.htm>.

 (4) National Standards for World History: Exploring Paths to the Present, Grades 5-12, Expanded Edition, National Center for History in the Schools (Los Angeles: University of California, 1994), coord. G. B. Nash e C. Crabtree; National Standards for History for Grades K-4: Expanding Children’s World in Time and Space, National Center for History in the Schools (Los Angeles: University of California, 1994), coord. G. B. Nash e C. Crabtree.

 (5) National Standards for United States History, , 73, 75.

 (6) Ibid., 3.

 (7) C. W. Keller, A Methods Instructor’s Review of the National Standards for History, in «The History Teacher», 28 (maggio 1995): 398; D. M. Meadows, Constructing Standards: Bridging Gaps, in «The History Teacher», 28 (maggio 1995): 411; W. A. McDougall, Whose History? Whose Standards?, in «Commentary», 99 (maggio 1995): 32, 43; A. M. Schlesinger, Jr., citato da F. Rich, Cheney Dumbs Down. The End of Standards, in «The New York Times», 26 febbraio 1995, E15.

 (8) T. Gitlin, The Demonization of Political Correctness, in «Dissent», autunno 1995, 496.

 (9) National Standards for United States History, iii.

 (10) Fra gli storici accademici membri del National Council for History Standards, ricordo Joyce Appleby (UCLA), Elisabeth Fox-Genovese (Emory), Carol Gluck (Columbia), Akira Iriye (Harvard), Kenneth Jackson (Columbia), Morton Keller (Brandeis), Bernard Lewis (Princeton), William McNeill (Chicago), Theodore K. Rabb (Princeton). Fra le associazioni non-professionali: National Catholic Educational Association, Lutheran Schools, Council for American Private Education, Association for the Study of Afro-American Life and History, Native American Heritage Commission, League fo United Latin American Citizens, National Association for Asian and Pacific American Education. L’elenco completo dei partecipanti al progetto è in appendice a National Standards for United States History, 263-271.

 (11) Nel frattempo, nel marzo 1994, il Congresso aveva approvato il Goals 2000 Educate America Act, una legge che offriva incentivi finanziari a quegli stati che avessero sviluppato nuovi e migliori parametri educativi, anche nell’area dell’insegnamento della storia, entro l’anno 2000.

 (12) A. J. Lichtman, History According to Newt, in «Washington Monthly», 27 (maggio 1995): 48-49.

 (13) National Standards for United States History, 14-15, 13-14.

 (14) I distretti scolastici si finanziano con imposte sulle proprietà immobiliari e sulle imprese nel distretto. Le entrate sono sufficienti a sostenere il costo delle scuole solo nei distretti che comprendono quartieri benestanti. Le entrate dei distretti più poveri dovrebbero essere integrate dagli stati, per portarle allo stesso livello degli altri. In genere, tuttavia, gli stati si impegnano a portare le entrate non al livello dei distretti più ricchi, bensì a un livello considerato ‘minimo’ o ‘sufficiente’. Inoltre, una quota dei fondi statali disponibili viene spesso divisa equamente fra tutti i distretti, favorendo i già favoriti. Vedi J. Kozol, Savage Inequalities. Children in America’s Schools (New York: Crown, 1991), 207-209.

 (15) Studenti che, per due terzi, non sanno indicare il mezzo secolo in cui avvenne la Guerra civile americana, o che, secondo una aneddotica universale, dicono Malcolm Decimo invece di Malcolm X, o citano il noto rivoluzionario Vladimir I. Lennon. Vedi L. Hancock, Red, White--and Blue. New Controversial Guidebook, National Standards for United States History, in «Newsweek», 10 luglio 1995, cover story.

 (16) National Standards for United States History, 1, 3, v, 3.

 (17) L. V. Cheney, The End of History, in «The Wall Street Journal», 20 ottobre 1994, ristampato in «The Historian», 57 (inverno 1995): 455-457. Lynne Cheney era definita dagli ammiratori «Secretary of Domestic Defense» i cui nemici (si diceva) erano peggiori di quelli di marito, Richard Cheney, il segretario alla Difesa della guerra del Golfo.

 (18) Il fatto che il progetto fosse stato «tremendamente politicizzato dalle associazioni professionali» è riferito anche da Elisabeth Fox-Genovese, membro del National Council for History Standards, in una intervista a «Time Magazine». Vedi J. Elson, History, the Sequel, in «Time», 7 novembre 1994, 64.

 (19) C. Krauthammer, History Hijacked, in «The Washington Post», 4 novembre 1994, A25; J. Diggins, Historical Blindness, in «The New York Times», 19 novembre 1994, A23.

(20) G. Gugliotta, Up in Arms About the «American Experience», in «The Washington Post», 28 ottobre 1994, A3. Con il suo talk show quotidiano trasmesso da 650 stazioni radio, Limbaugh raggiunge con le sue invettive populiste un pubblico valutato in 20 milioni di ascoltatori la settimana. Vedi T. B. Edsall, America’s Sweetheart, in «The New York Review of Books», 6 ottobre 1994, 6.

(21) S. Hackney e U. S. Senate citati in An Update on National History Standards, in «OAH Newsletter», vol. 23, febbraio 1995, 3; J. Leo, History Standards Are Bunk, in «U.S. News & World Report», 6 febbraio 1995, 23. In quegli stessi giorni, L. Cheney era impegnata in una crociata, condivisa da molti conservatori, per abolire la NEH; una delle colpe: aver prodotto i National Standards. Vedi F. Rich, Eating Her Offspring. Lynne Cheney Rips the N.E.H., in «The New York Times», 26 gennaio 1995, A21; F. Rich, Cheney Dumbs Down, E15. Gli attacchi del Sen. Dole ai National Standards continuarono anche nei mesi successivi; alla convenzione annuale dell’American Legion a Indianapolis, nel settembre 1995, li definì più pericolosi «di nemici esterni». Vedi Review Panels Find History Standards Worth Revising, in «OAH Newsletter», vol. 23, novembre 1995, 5.

(22) Di questi servizi ho consultato G. Gugliotta, Up in Arms About the «American Experience», A3; G. Gugliotta, World History Teaching Standards Draw Critics, in «The Washington Post», 11 novembre 1994, A4; J. Thomas, A New Guideline on History Looks Beyond Old Europe, in «The New York Times», 11 novembre 1994, A1, A22; J. Elson, History, the Sequel, 64; L. Hancock, History Lessons, in «Newsweek», 7 novembre 1994, 54. E poi l’inchiesta e cover story di «Newsweek» dell’estate successiva, L. Hancock, Red, White--and Blue.

 (23) Ho letto C. Gluck, History According to Whom? Let the debate Continue, in «The New York Times», 19 novembre 1994, A23; G. B. Nash e C. Crabtree, A History of All the People Isn’t PC. History Education Standards Defended, in «The Wall Street Journal», 21 novembre 1994, A17, lettera al direttore.

 (24) An Update on National History Standards, in «OAH Newsletter», 23 (febbraio 1995): 3. Vedi G. B. Nash, National Standards in U. S. History: A Note from the President, in «OAH Newsletter», 22 (novembre 1994): 1, 16; G. B. Nash e R. E. Dunn, History Standards and Culture Wars, in «Social Education», 59 (gennaio 1995): 5-7; G. B. Nash, On U. S. History Standards, in «The Historian», 57 (inverno 1995): 457-459; R. E. Dunn, On World History Standards, in «The Historian», 57 (inverno 1995): 459-464; G. B. Nash [Ex-presidente OAH], Creating History Standards in United States and World History, in «OAH Magazine of History», 9 (primavera 1995): 3; J. Appleby [Ex-presidente OAH], Controversy over the National History Standards, in «OAH Magazine of History», 9 (primavera 1995): 4; A. A. Jones [Direttore esecutivo OAH], Our Stakes in the History Standards, in «OAH Magazine of History», 9 (primavera 1995): 5-6; Exploring the National Standards for United States History and World History, fasc. spec. di «The History Teacher», 28 (maggio 1995); G. B. Nash, The History Children Should Study, in «Journal of American History», 82 (dicembre 1995): 962-964.

 (25) G. B. Nash citato da J. Wiener, History Lesson, in «The New Republic», 2 gennaio 1995, 10.

 (26) E. Foner citato da J. Elson, History, the Sequel, 64.

(27) Secondo ricerche condotte sui data base elettronici, «politically correct» e «political correctness» compaiono in 638 articoli di 33 quotidiani metropolitani nel 1990, in 3877 nel 1991, una vera esplosione di interesse; compaiono in 15 articoli dei periodici schedati dal sistema NEXIS nel 1989, in 66 articoli nel 1990, in 1553 nel 1991, in 2672 nel 1992, in 4643 nel 1993. Vedi Berman (a cura di), Debating C.: The Controversy over Political Correctness on College Campuses (New York: Dell, 1992); H. K. Bush, Jr., A Brief History of PC, With Annotated Bibliography, in «American Studies International», 33 (aprile 1995): 42-64; T. Gitlin, The Demonization of Political Correctness, 486-497; Thought Police, in «Newsweek», 24 dicembre 1990, cover story.

 (28) Alcuni titoli di questo genere sono: Are you PC?: 101 Questions to Determine if You Are Politically Correct (Berkeley: Ten Speed Press, 1991); H. Beard e Ch. Cerf, The Official Politically Correct Dictionary and Handbook (New York: Villard Books, 1992); H. Beard e Ch. Cerf, Sex and Dating: The Official Politically Correct Guide (New York: Villard Books, 1994); J. F. Garner, Politically Correct Bedtime Stories (New York: Macmillan, 1994) (un bestseller); K. Jacobson, Politically Correct Hunting(Bellevue, Wash.: Merril Press, 1995); A. M. Gottlieb e R. Arnold, Politically Correct Environment (Bellevue, Wash.: Merril Press, 199); e finalmente E. Moser, The Politically Correct Guide to American History (New York: Crown, 1996). 

(29) A. Bloom, The Closing of the American Mind: How Higher Education Has Failed Democracy and Impoverished the Soul of Today’s Student (New York: Simon & Schuster, 1987), trad. it. La chiusura della mente americana (Torino: Frassinelli, 1988); R. Kimball, Tenured Radicals: How Politics Has Corrupted Our Higher Education,(New York: Harper & Row, 1990); D. D’Souza, Illiberal Education: The Politics of Race and Sex on Campus (New York: Free Press, 1991); R. Bernstein, Dictatorship of Virtue: Multiculturalism and the Battle for America’s Future (New York: Knopf, 1994). I campus, un’isola di repressione in un mare di libertà è i titolo di un articolo del 1986 del mensile neo-conservatore «Commentary», citato da Berman, Il dibattito sulla Political Correctness e le sue origini, in «Marx centouno», 7 (settembre 1992): 240.

 (30) R. Hughes, The Culture of Complaint: The Fraying of America (New York: Oxford University Press, 1993), trad. it. La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto (Milano: Adelphi, 1994), 152, 121, 107, 46. Si tratta di un libro meno univoco nel suo taglio polemico di quanto il titolo italiano, e la confezione italiana del paratesto, facciano immaginare. La titolatura originale è meno esasperata e, come dire, più bipartitica: suggerisce più ’cultura della rivendicazione’ che non del piagnisteo e, nel sottotitolo, rinvia a ’sfilacciarsi’, ad ’azzuffarsi’, cioè a uno scontro fra due ortodossie, e non al trionfo di una sola. La confezione italiana sottolinea la lettura univocamente anti-PC del testo mettendo in copertina la foto di una manifestazione di donne (lesbiche?), e nel risvolto di copertina la citazione «Tutto è stupro, fino a prova contraria». Non c’è niente che faccia riferimento, per esempio, alle invettive di Hughes contro le campagne culturali della destra contro le mostre fotografiche di Andres Serrano e Robert Mapplethorpe (Hughes è critico d’arte).

 (31) Ibid., 80-81. Secondo Christopher Lasch, «le rumorose battaglie sul ’canone’, che hanno sconvolto il corpo docente in un manipolo di università di punta, sono completamente irrilevanti rispetto ai problemi dell’istruzione superiore nel suo complesso», ovvero della stragrande maggioranza dei four-year state colleges e dei two-year community colleges che assorbono la quasi totalità degli studenti, soprattutto di quelli appartenenti alle classi meno benestanti. Le istituzioni d’élite, che sono normalmente al centro dell’attenzione e delle polemiche, sono terreno riservato ai figli dei ricchi, integrati da un piccolo numero di studenti selezionati nelle minoranze. Vedi Ch. Lasch, The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy (New York: Norton, 1995), pp; 176-177.

 (32) R. Hughes, La cultura del piagnisteo, 79, 81-82, 77.

 (33) Ibid., 108, 57; A. M. Schlesinger, Jr., The Disuniting of America: Reflections on a Multicultural Society (Knoxville, Tenn.: Whittle Direct Books, 1991), trad. it. La disunione dell’America. Riflessioni su una società multiculturale (Reggio Emilia: Diabasis, 1995), 143; M. Lind, The Next American Nation: The New Nationalism and the Fourth American Revolution (New York: The Free Press, 1995).

(34) T. Gitlin, The Twilight of Common Dreams: Why America is Wracked by Culture Wars (New York: Holt, 1995), 234; Berman, Il dibattito sulla Political Correctness e le sue origini, cit.

(35) C. West, Race Matters (New York: Vintage, 1994), 7-8; H. L. Gates, Jr., Loose Canons: Notes on the Culture Wars (New York: Oxford University Press, 1992); T. Morrison (a cura di), Race-ing Justice, En-Gendering Power: Essays on Anita Hill, Clarence Thomas, and the Construction of Social Reality (New York: Pantheon, 1992); A. Lorini, From Boas to Geertz: American Anthropology and the Historical Construction of Cultural Identity, in A. M. Martellone (a cura di), Towards a New American Nation? Redefinitions and Reconstruction (Staffordshire, U.K.: Keele University Press, 1995), 92-110.

(36) G. B. Nash, The Hidden History of Mestizo America, in «Journal of American History», 82 (dicembre 1995): 961.

(37) J. D. Hunter, Culture Wars: The Struggles to Define America (New York: Basic Books, 1991), 51.

(38) T. Paine, Common Sense (1776) (New York: Penguin, 1976), 120; H. Melville citato da A. M. Schlesinger, Jr., La disunione dell’America, 37.

(39) J. Appleby, L. Hunt e M. Jacob, Telling the Truth about History, 4; G. B. Nash, The History Children Should Study, 963. Per prospettive teoriche ed europee sulla questione, vedi N. Gallerano (a cura di), L’uso pubblico della storia (Milano: Franco Angeli, 1995); e gli interventi al convegno Le responsabilità dello storico contemporaneo oggi (Istituto universitario europeo, Società italiana per lo studio della storia contemporanea, e «Passato e presente», Firenze, 11-12 aprile 1996).

(40) Ho provato a compilare un rapido catalogo per un periodo di pochi mesi a cavallo fra la primavera e l’autunno 1994. La morte di Richard Nixon (22 aprile) e il 20° anniversario delle sue dimissioni (9 agosto), la morte di Jacqueline Kennedy Onassis (19 maggio), il 25° anniversario della rivolta gay dello Stonewall Inn al Greenwich Village (giugno 1969) e del festival di Woodstock (agosto 1969), il 50° anniversario dello sbarco in Normandia (6 giugno), hanno prodotto pagine e pagine, ore e ore, di ricordi e riflessioni tutt’altro che univoche e pacificate. L’affossamento della riforma sanitaria di Clinton e l’intervento a Haiti (settembre) hanno riproposto discussioni sulle origini dello stato sociale e sul New Deal, ovvero sul lutto mai elaborato della guerra del Vietnam. Una storia allora cominciata, l’assassinio di Nicole Brown Simpson e Ronald Goldman a Los Angeles (12 giugno), si sarebbe trasformata nel «caso O. J. Simpson», e le vicende del matrimonio fra la bianca Nicole e il nero O. J. nella metafora angosciante di 350 anni di relazioni interrazziali americane: «un matrimonio orribile fin dall’inizio» che si è dissolto nel disprezzo reciproco e concluso in tragedia. Vedi L. Morrow, An Elegy for Integration, in «Time», 30 ottobre 1995, 96; e il bel saggio di H. L. Gates, Jr., Thirteen Ways of Looking at a Black Man, in «The New Yorker», 23 ottobre 1995, 56-65, trad. it. Tredici modi di vedere un nero. I significati del caso O. J. Simpson, in «Àcoma. Rivista internazionale di studi nordamericani», 3 (primavera 1996): 12-20.

(41) Uno studio sull’argomento si apre con una pensosa citazione, «In questo grande futuro, non puoi dimenticare il tuo passato», del musicista giamaicano Bob Marley. Vedi G. Lipsitz, Time Passages: Collective Memory and American Popular Culture (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1990), 3. La storia e la memoria storica costituiscono l’essenza stessa di alcuni prodotti della popular culture; basti pensare a due generi della cinematografia di Hollywood, i film western e quelli di guerra, che altro non sono che continue rielaborazioni dell’epopea della costruzione della nazione (e dell’impero); rielaborazioni che hanno seguito, e per il largo pubblico anticipato, quelle in atto nella storiografia accademica.

(42) L’impostazione tradizionale della Disney è stata quella, secondo un suo esponente, di «eliminare con attenzione tutti gli elementi negativi e indesiderati, e inserire tutti gli elementi positivi». Vedi F. Fasce, Culture, Politics and the Making of a Collective Past in Contemporary America: The View from Italy, in A. M. Martellone (a cura di), Towards a New American Nation? Redefinitions and Reconstruction (Staffordshire, U.K.: Keele University Press, 1995), 194.

(43) Gli esempi più noti di quest’ultimo tipo sono il National Afro-American Museum a Wilberforce, nell’Ohio, dove ha sede anche l’African American Museums Association; il National Museum of the American Indian a New York City; e il Holocaust Memorial Museum a Washington. J. E. Fleming, African-American Museums, History, and the American Ideal, in «Journal of American History», 81 (dicembre 1994): 1020-1025; E. T. Linenthal, Preserving Memory. The Struggle to Create America’s Holocaust Museum (New York: Viking, 1995); L. Warren e R. Rosenzweig (a cura di), History Museums in the United States: A Critical Assessment (Urbana: University of Illinois Press, 1989); N. Harris, Museums and Controversy: Some Introductory Reflections, in «Journal of American History», 82 (dicembre 1995): 1102-1110.

(44) E. T. Linenthal, Sacred Ground: Americans and Their Batterfields (Champaign: University of Illinois Press, 1993).

(45) J. Bodnar, Remaking America: Public Memory, Commemoration, and Patriotism in the Twentieth Century (Princeton: Princeton University Press, 1992), 3-9.

(46) G. B. Nugent, recensione della mostra The Frontier in American Culture (Chicago: Newberry Library, 1994), in «Journal of American History», 82 (dicembre 1995): 1145-1148.

(47) Comments at the Organization of American Historians Meeting, intervento di G. Zahavi, in «Journal of American History», 82 (dicembre 1995): 1117.

(48) R. H. Kohn, History and the Culture Wars: The Case of the Smithsonian Institution’s Enola Gay Exibition, in «Journal of American History», 82 (dicembre 1995): 1036. Vedi anche I. Buruma, The New War Over Hiroshima, in «The New York Review of Books», 21 settembre 1995, 26-34. La mostra doveva aprire a Washington nell’estate 1995, sotto gli auspici del National Air and Space Museum della Smithsonian Institution, una prestigiosa istituzione pubblica. Dopo l’annullamento della mostra, fu esposto solo l’Enola Gay, senza alcun contesto storico-critico.

 (49) D. Thelen, History after the Enola Gay Controversy: An Introduction, in «Journal of American History», 82 (dicembre 1995): 1035. Gran parte di questo numero della rivista è dedicato alla questione, sotto il titolo History and the Public: What Can We Handle? A Round Table about History after the Enola Gay Controversy.

 (50) Senate Resolution 257, Relating to the «Enola Gay» Exibit. Senate, September 19, 1994, in «Journal of American History», 82 (dicembre 1995): 1136. La Smithsonian Institution è finanziata, per il 70% del suo bilancio, dal Congresso.

(51) A. M. Schlesinger, Jr., La disunione dell’America, 72, 75-76, 60, 63, 103-106; A. Portelli, Malcolm X e la storia, in N. Gallerano (a cura di), L’uso pubblico della storia, 162-172.

(52) T. Gitlin, The Twilight of Common Dreams, 7-36 (le cit. a 8, 19). Le scuole cittadine rimasero senza manuale, con gli insegnanti costretti a inventarsi gli strumenti didattici. Per apprezzare il clima dello scontro locale, occorre ricordare che, data la composizione della popolazione di Oakland, gli studenti erano per metà neri, per un quarto bianchi, e per il resto di origine asiatica o ispanica; il corpo insegnante era per quasi metà non-bianco; il sovrintendente del distretto scolastico era un nero-ispanico; i membri dello School Board elettivo erano 4 afro-americani, 2 cinesi-americani, 1 bianco (politicamente di sinistra).

(53) D. Ross, Historical Consciousness in Nineteenth-Century America, in «American Historical Review», 89 (ottobre 1984): 909-928; D. Ross, The Origins of American Social Science (New York: Cambridge University Press, 1991). Come scriveva Ernest Renan dei nazionalismi europei, «Nel passato, un’eredità di gloria e di rimpianti da condividere, per l’avvenire uno stesso programma da realizzare». Vedi E. Renan, Che cos’è una nazione? (1882), trad. it. Roma: Donzelli, 1993, 20.

(54) Per alcuni versi, il cuore del discusso saggio di Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man (New York: Free Press, 1992), altro non è che la narrazione della storia universale secondo questi parametri della ideologia americana. Il trionfo di liberalismo, il fallimento di ogni alternativa praticabile, segnerebbero il punto terminale dell’evoluzione dell’umanità, che potrebbe raggiungere l’America là dove essa è sempre stata, ovvero, appunto, alla fine della storia.

(55) S. Bercovitch, The American Jeremiad (Madison: University of Wisconsin Press, 1978); S. Bercovitch, The Rites of Assent: Transformations in the Symbolic Construction of America (New York: Routledge, 1993); T. Bonazzi, Struttura e metamorfosi della civiltà progressista (Venezia: Marsilio, 1974).

(56) A. Testi, Indietro tutta, verso il futuro, in «Il Manifesto», 18 gennaio 1995, 28; E. J. Dionne, Jr., They Only Look Dead: Why Progressives Will Dominate the Next Political Era (New York: Simon & Schuster, 1996), 11-12.

(57) La OAH ha commissionato una inchiesta-sondaggio in proposito; i dati sono stati raccolti ma non ancora elaborati.

(58) Thomas Bender riferisce di un rapporto in proposito di un Ad Hoc Committee on Redefining Scholarly Work (1994) della AHA. Secondo Bender occorre sviluppare una nozione di «civic professionalism». Vedi T. Bender,«Venturesome and Cautious»: American History in the 1990s, in «Journal of American History», 81 (dicembre 1994): 1000-1001; Id., Intellect and Public Life: Essays in the Social History of Academic Intellectuals in the United States (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1993).

(59) C. Read, The Social Responsibilities of the Historian, in «American Historical Review», 55 (gennaio 1950): 1-13; C. A. Beard cit. da R. Hofstadter, The Progressive Historians. Turner, Beard, Parrington (New York: Knopf, 1968), 167; W. M. Sloane, History and Democracy, in «American Historical Review», 1 (ottobre 1895): 1-15. Vedi Nelson Limerick, Turnerians All: The Dream of a Helpful History in an Intelligible World, in «American Historical Review», 100 (giugno 1995): 697-716; J. Higham, History: Professional Scholarship in America (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1983); G. Wise, American Historical Explanations: A Strategy for Grounded Inquiry (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1980); Novick, That Noble Dream: The «Objectivity Question» and the American Historical Profession (Cambridge: Harvard University Press, 1988).

(60) L. W. Levine, The Umpredictable Past: Explorations in American Cultural History (New York: Oxford University Press, 1993), 7; M. H. Leff, Revisioning U. S. Political History, in «The American Historical Review», 100 (giugno 1995): 832-833; D. Ross, Grand Narrative in American Historical Writing: From Romance to Uncertainty, in «American Historical Review», 100 (giugno 1995): 651-677.

(61) J. Appleby, L. Hunt e M. Jacob, Telling the Truth about History, 3, 283, 281.

(62) E. T. Linenthal, Committing History in Public, in «Journal of American History», 81 (dicembre 1994): 986.

(63) Baker, The Fragmentation of the Profession and Its Class Culture, in «Journal of American History», 81 (dicembre 1994): 1149; D. Thelen, The Practice of American History, in «Journal of American History», 81 (dicembre 1994): 957; M. Vaudagna, American History at Home and Abroad, in «Journal of American History», 81 (dicembre 1994): 1157-1168. Questo numero della rivista, sotto il titolo The Practice of American History, è tutto dedicato a commenti e riflessioni sulla survey condotta dalla OAH fra i propri iscritti, compresi alcuni commenti critici; per esempio David Hollinger l’ha definita «a colossal exercise in banality», sostenendo che era piuttosto «imbarazzante» che fosse avvenuta sotto gli auspici della OAH. Vedi D. A. Hollinger, Banality and Enigma, in «Journal of American History», 81( dicembre 1994): 1152, 1156. Fra il 1993 e il 1994 hanno risposto a un complesso questionario 1.047 dei circa 9000 membri; non si tratta di un campione scientifico, perché basato su risposte volontarie. Alla domanda su quale sia la più grande debolezza della storiografia americana, il 28% ha risposto «narrowness», il 20% «political correctness», il 16% «divorce from the public».

(64) E. W. Said, Representations of the Intellectual (New York: Vintage, 1994), x, xiv.

(65) R. Jacoby, The Last Intellectuals: American Culture in the Age of Academe (New York: Basic Books, 1987).

(66) M. H. Leff, Revisioning U. S. Political History, 836.

(67) A. Brinkley, Historians and their Public, in «Journal of American History», 81 (dicembre 1994): 1028; T. Bender,«Venturesome and Cautious», 998. Alla domanda su quale sia la principale ragione di soddisfazione del proprio lavoro, coloro che hanno risposto al questionario OAH hanno messo al primo posto l’insegnamento (32%).

(68) M. H. Leff, Revisioning U. S. Political History, 840; G. B. Nash, The History Children Should Study, 964.

(69) D. M. Kennedy, A Vexed and Troubled People, in «The History Teacher», 28 (maggio 1995): 419; per i critici conservatori vedi W. A. McDougall, Whose History? Whose Standards?, 36.

(70) National Standards for United States History, 56, 238, 236, 215, 214-215.

(71) Panel Appointed to Review History Standards, in «OAH Newsletter», 23 (agosto 1995): 6; Review Panels Find History Standards Worth Revising, in «OAH Newsletter», 23 (novembre 1995): 5. I National Standards sono stati ripubblicati nella primavera 1996 con parecchie revisioni, senza i «teaching examples» incriminati, e con l’aggiunta di nuovo materiale in alcune aree in precedenza trascurate (l’impatto della scienza e della tecnologia, la storia economica, la politica estera dopo la seconda guerra mondiale, e, significativamente, «la continua ricerca di una comune identità americana»). Queste revisioni hanno seguito le raccomandazioni del Council for Basic Education, che ha espresso la sua piena soddisfazione; un suo esponente ha dichiarato: «Le critiche rivolte alla prima versione degli Standards certamente non riguardano la nuova versione, e ciò dovrebbe essere chiaro a chiunque legga il documento--liberal o conservatore». Critici della prima versione come Diane Ravitch e Arthur Schlesinger Jr. concordano con questo giudizio (ma non Lynne Cheney, che continua a essere contraria). Dei «teaching examples» è prevista la pubblicazione separata nell’estate 1996, come sussidi didattici, e senza l’etichetta dei National Standards. I tre volumi originali sono stati ridotti a un unico, più agile volume dal titolo National Standards for History: Basic Edition, che non ho ancora visto. Fra l’altro, il comunicato stampa del National Center for History in the Schools che annuncia la nuova uscita sottolinea con molta enfasi che si tratta di Standards «volontari». Vedi Newly Revised Voluntary History Standards Released Today, Endorsed by Leadership of National Review Panels, comunicato stampa, 3 aprile 1996, nel sito World Wide Web del NCHS <URL: http://www.sscnet.ucla.edu/nchs/press.html>; Standards for History: Comments, nel sito World Wide Web della OAH <URL: http://www.indiana.edu/~oah/revstands.html>; Miller, Revised History Standards Released, in «NCC Washington Update», 2 (3 aprile 1996): § 1, bollettino elettronico del National Coordinating Committee for the Promotion of History, <URL: http://h-net.msu.edu/~ncc/>. Ringrazio Paolo Pezzino per avermi segnalato quest’ultimo documento.

(72) Secondo D. Ravitch e A. M. Schlesinger, Jr., The New, Improved History Standards, in «The Wall Street Journal», 3 aprile 1996, A14, la nuova edizione riveduta, corretta, migliorata e abbreviata dei National Standards, di cui dico alla nota precedente, ha rinunciato a far riferimento a questi «popoli» al plurale.

(73) Schrag, The New War Over the Past, in «The American Prospect», 20 (inverno 1995): 57; D. M. Kennedy, A Vexed and Troubled People, 420, 422;

(74) C. A. Beard e M. R. Beard, The Rise of American Civilization (New York: MacMillan, 1927, 2 voll); L. Fiedler, The Return of the Vanishing American, 1968, trad. it. Il ritorno del pellerossa. Mito e letteratura in America (Milano: Rizzoli, 1972), 72.

(75) A. M. Schlesinger, Jr., La disunione dell’America, cit.; qui elaboro sulla discussione di F. Fasce, Culture, Politics and the Making of a Collective Past in Contemporary America, 198.

(76) J. Appleby, L. Hunt e M. Jacob, Telling the Truth about History, 295. Sulla questione dei frammenti e della sintesi, vedi l’analisi di un caso specifico in F. Fasce, Prometeo a Babele. Un tentativo di storia pubblica del lavoro negli Stati Uniti, in N. Gallerano (a cura di), L’uso pubblico della storia, 145-161.

(77) Ph. D. Curtin, The Atlantic Slave Trade: A Census (Madison: University of Wisconsin Press, 1969); R. Thornton, American Indian Holocaust and Survival: A Population History since 1492 (Norman: University of Oklahoma Press, 1987).

(78) Le influenze più evidenti in queste pagine mi sembrano quelle di I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, II, Il mercantilismo e il consolidamento dell’economia-mondo europea, 1600-1750 (Bologna: Il Mulino, 1987); D. W. Meinig, The Shaping of America: A Geographical Perspective on 500 Years of History: Atlantic America, 1492-1800 (New Haven: Yale Unversity Press, 1986); G. B. Nash, Red, White, and Black: The Peoples of Early North America (Englewood Cliffs, N. J.: Prentice-Hall, 1992, terza ed., prima ed. 1974).

(79) National Standards for United States History, 39.

(80) Ibid., 51.

(81) J. Axtell, The Indian Impact on English Colonial Culture, in Id., The European and the Indian: Essays in the Ethnohistory of Colonial North America (New York: Oxford Unversity Press, 1981), 273; si veda anche Id., Colonial America Without the Indians, in Id., After Columbus: Essays in the Ethnohistory of Colonial North America (New York: Oxford Unversity Press, 1988), 222-243.

(82) National Standards for United States History, 39.

(83) E. S. Morgan, American Slavery, American Freedom: The Ordeal of Colonial Virginia (New York: Norton, 1975).

(84) National Standards for United States History, 70.

(85) Fra l’altro, nello sfidare (giustamente) la logica della necessità storica e della inevitabile ragione dei vincitori, il testo formula domande dal sapore vagamente tory come, per esempio: «Era ragionevole che gli inglesi tassassero i coloni per contribuire a pagare una guerra combattuta in loro difesa?». Vedi National Standards for United States History, 73. Sulla Rivoluzione come guerra civile, vedi J. C. D. Clark, The Language of Liberty, 1660-1832: Political Discourse and Social Dynamics in the Anglo-American World (Cambridge, U. K.: Cambridge University Press, 1994), 296-303; L. Valz Mannucci, La rivoluzione americana come guerra civile, in G. Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea (Torino: Bollati Boringhieri, 1994), 159-192.

(86) Un autorevole esempio recente è G. S. Wood, The Radicalism of the American Revolution (New York: Knopf, 1992), trad. it. I figli della libertà. Alle origini della democraza americana (Firenze: Giunti, 1996), recensito da M. Verga in questo numero di «Storica».

(87) L. Hughes, Montage of a Dream Deferred (1951), in Id., Selected Poems (New York: Vintage, 1990).

(88) National Standards for United States History, 70.

(89) J. R. Gundersen, Independence, Citizenship, and the American Revolution, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», 13 (autunno 1987): 59-77; L. K. Kerber, A Constitutional Right to Be Treated Like American Ladies, in L. K. Kerber, A. Kessler-Harris, e K. Kish Sklar (a cura di), U. S. History as Women’s History: New Feminist Essays (Chapell Hill: University of North Carolina Press, 1995), 17-35; Baker, The Domestication of Politics: Women and American Political Society, 1780-1920, in «American Historical Review», 89 (giugno 1984): 620-647.

(90) F. Jennings, The Imperial Revolution: The American Revolution as a Tripartite Struggle for Sovereignty, in F. Jennings (a cura di), The American Indian and the American Revolution (Chicago: The Newberry Library, 1983), 42, corsivo mio; Id., The Founders of America: From the Earliest Migrations to the Present (New York: Norton, 1993).

(91) E. Foner, Freedom, Race and Citizenship in American History, in A. M. Martellone (a cura di), Towards a New American Nation?, 77; M. Sylvers (a cura di), Il pensiero politico e sociale di Thomas Jefferson (Bari: Lacaita, 1993).

(92) E. Foner, Freedom, Race and Citizenship in American History, 77. Il riferimento a «other Persons» per intendere schiavi è in Articolo I, Sezione 2; ma vedi anche, per una analoga operazioe linguistica, Articolo I, Sezione 9. Fra l’altro, quando la pressione delle donne per il suffragio raggiunse livelli preoccupanti, all’indomani della Guerra civile, il testo costituzionale esplicitò anche i suoi presupposti sessuati; nell’emendamento (il XIV, del 1868) che estendeva i diritti agli ex-schiavi neri, affermò che di «cittadini maschi» si stava parlando. Vedi E. C. DuBois, Outgrowing the Compact of the Fathers: Equal Rights, Woman Suffrage, and the United States Constitution, 1820-1878, in «Journal of American History», 74 (dicembre 1987): 836-62.

(93) Secondo Martin Sklar, «[c]iò che le teorie generali e speciali sono per il significato e in verità per la stessa designazione dei fatti nelle scienze fisiche, la periodizzazione può essere per il significato e la designazione dei fatti nella storia». Vedi M. J. Sklar, Periodization and Historiography: The United States Considered as a Developing Country, in Id., The United States as a Developing Country: Studies in U. S. Political History in the Progressive Era and the 1920s (New York: Cambridge University Press, 1992), 2.

(94) Come ha ricordato un membro del National Council for History Standards che ha coordinato la preparazione del testo, proprio «le decisioni sulla periodizzazione più appropriata hanno portato via gran parte del tempo del consiglio», compresa la decisione se cominciare prima di Colombo, nel 1492, o nel 1607 (la soluzione adottata è un primo capitolo che copre Beginnings to 1620, con una sezione sul mondo pre-colombiano). Vedi J. Appleby, Controversy over the National History Standards, 4; e anche C. F. Risinger, The National History Standards: A View from the Inside, in «The History Teacher», 28 (maggio 1995): 388.

(95) National Standards for United States History, 3, 7, 4.

(96) D. M. Kennedy, A Vexed and Troubled People, 418.

(97) National Standards for United States History, 4-5; W. A. McDougall, Whose History? Whose Standards?, 40.

(98) National Standards for United States History, 4; dichiarazione di G. N. Nash a T. Gitlin, The Twilight of Common Dreams, 19.

(99) Ch. Lasch, Counting by Tens, in «Salmagundi», vol. 81, inverno 1989, 55.

(100) V. Gosse, Consensus and Contradiction in Textbook Treatments of the Sixties, in «Journal of American History», 82 (settembre 1995): 658-669; D. Farber (a cura di), The Sixties: From Memory to History (Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1994); F. Romero, La guerra fredda: un’epoca nella storia degli Stati Uniti?, in «Àcoma. Rivista internazionale di studi nordamericani», 3 (primavera 1996): 28-37.

(101) W. N. Chambers and W. D. Burnham (a cura di), The American Party Systems: Stages of Political Development (New York: Oxford University Press, 1967); W. D. Burnham, Critical Elections and the Mainsprings of American Politics (New York: Norton, 1970); Kleppner et al., The Evolution of American Electoral Systems (Westport, Conn.: Greenwood Press, 1981). Sulle incertezze definitorie post-anni sessanta, vedi la recente discussione di S. Luconi, The End of Electoral Realignment and the Deadlock of American Democracy, in A. M. Martellone (a cura di), Towards a New American Nation?, 59-75.

(102) Ma mi pare che questo sia proprio il problema che affronta, con risultati interessanti, Ch. S. Maier, Short Twentieth Century, or Long Industrial Epoch? Transformations of Territoriality, relazione al convegno Il secolo ambiguo. Le periodizzazioni nel secolo XX: continuità e mutamenti (Società italiana per lo studio della storia contemporanea, Pisa, 17-18 maggio 1996).

(103) E. J. Eisenach, Reconstituting the Study of American Political Thought in a Regime-Change Perspective, in «Studies in American Political Development», 4 (1990): 169-228; B. E. Shafer (a cura di), The End of Realignment? Interpreting American Electoral Eras (Madison: University of Wisconsin Press, 1991).

(104) A. Testi, La crisi dei partiti politici di massa negli Stati Uniti, 1890-1920, in «Quaderni storici», 24 (agosto 1989) 493-536; A. Testi, Once Again, Why is there no Socialism in the United States?, in «Storia Nordamericana», 7, 1 (1990): 59-92; A. Testi,The Gender of Reform Politics: Theodore Roosevelt and the Culture of Masculinity, in «Journal of American History», 81 (marzo 1995): 1509-1533.

(105) Baker, The Domestication of Politics; L. A. Tilly e Gurin (a cura di), Women, Politics, and Change (New York: Sage, 1990).