1. Fin dai primi scritti che gli furon dedicati dopo la morte, si sottolineò
anche sulla base di numerose testimonianze autobiografiche l'importanza
che per Cantimori avevano avuta la figura del padre e l'ambiente culturale
e politico del repubblicanesimo romagnolo. Quest'aspetto, tuttavia, non
è mai stato approfondito, rischiando così di diventare un
richiamo meramente liturgico. Per primo Paolo Simoncelli (Note,
57-66; Cantimori, 27-28) ha rivolto la sua attenzione specificamente
a Carlo Cantimori. Egli ha individuato alcuni interessanti fondi archivistici
(nella fattispecie il fascicolo del Casellario politico centrale all'Archivio
centrale dello Stato e le sue lettere a Giovanni Gentile conservate alla
Fondazione Gentile), ne ha tratto tutte le possibili indicazioni, senza,
tuttavia, inserire la documentazione in un discorso critico più
complessivo: sappiamo così tutto degli spostamenti da un angolo
all'altro d'Italia del repubblicano e sovversivo prof. Cantimori, delle
misure predisposte a suo carico dalle autorità, dei suoi rapporti
con Gentile del resto notizie interessanti e utili , ma non abbiamo
ancora sufficienti elementi della sua personalità e della sua opera,
che ci aiutino a comprendere il rapporto col figlio.
Carlo Cantimori non fu un Carneade qualsiasi, ma un intellettuale di spicco
all'interno di un'area politico-culturale come quella mazziniano-repubblicana,
certamente limitata, ma non irrilevante nel primo quarto di questo secolo;
autore, tra l'altro, di un notevole lavoro d'insieme sul pensiero di Mazzini,
uscito in prima edizione nel 1904, poi ristampato nel 1922, che uno studioso
esigente come Gaetano Salvemini apprezzò pubblicamente e utilizzò
a lungo: «Nel 1905, quando uscì per la prima volta questo
libro, avrebbe scritto nel 1925 nella Prefazione alla quarta
edizione del suo Mazzini gli studi mazziniani erano agli inizi.
Salvo la biografia di Bolton King e il buon Saggio sull'idealismo di
Giuseppe Mazzini del Cantimori, non esisteva sul Mazzini nessun lavoro,
che uscisse dal genere agiografico» [2]
. Nato a Russi nel 1878, ricordava, dell'ambiente romagnolo della sua infanzia, la «zotica pettoruta rozzezza» e il generale clima di violenza politica, soprattutto per gli accesi contrasti fra repubblicani e socialisti. Ma ne fu presto allontanato e mandato a studiare, nel 1891, a Parma, dove frequentò il liceo Romagnosi dal '95 al '98. Furono anni di intensa maturazione politica e culturale, che più tardi avrebbe più volte rievocati [3] : entrò in contatto con un manipolo di giovani intellettuali bohémiens, come Luigi Campolonghi e Alceste De Ambris, provenienti dalla vicina Lunigiana, fautori di un socialismo romantico e idealista, che si presentava «non col volto accigliato di Carlo Marx, ma come un grande mito elementare, come la risposta alla loro fede d'azione e d'eresia nell'Italia dei Crispi e dei Rudinì» [4]. Entrava così nel mondo del 'sovversivismo', in quegli ambienti «di opposizione», richiamati dal figlio Delio mezzo secolo più tardi come essenziali [5] per la sua formazione, nel cui àmbito partecipò attivamente ai momenti più intensi dello scontro politico, dalle manifestazioni dopo Adua a quelle del Novantotto. Di molti dei suoi compagni di allora, condivise il gusto e la pratica della chose littéraire: dalle suggestioni ottocentesche dei vati della rivolta (Lamartine, Hugo, Carducci) passò al primo Pascoli, al D'Annunzio, ma anche ai simbolisti francesi, ai parnassiani, ai 'decadenti' insomma, pubblicando componimenti poetici su rivistine politiche o letterarie e interventi critici di un certo respiro [6].
2. Terminati gli studi liceali, lasciata Parma, si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia dell'università di Pisa, vi conobbe e apprezzò Amedeo Crivellucci (Simoncelli, Note, 59), ma dopo un anno passò a Bologna e infine a Padova. Nel frattempo la sua posizione politico-ideologica si era precisata e nel 1900 risultava già militante e dirigente locale (nel Ravennate) del Partito Repubblicano. Per noi è importante stabilire le componenti di questo suo primo repubblicanesimo: molti elementi si ricavano dal un opuscolo scritto nel 1901, vincitore di un concorso fra i giovani indetto dal Comitato Centrale del P.R.I. e per sua cura pubblicato. E' un testo non privo di efficacia, in cui risultano evidentissime le letture ghisleriane e salveminiane del giovane autore, che cita ripetutamente gli scritti apparsi sull'Educazione politica di Rerum Scriptor («pseudonimo questo d'uno dei più valenti storici italiani») e di Ghisleri. Non è possibile un movimento davvero democratico che tenda a migliorare con riforme positive le condizioni materiali e morali del popolo, senza mettere nel contempo in discussione la forma monarchica dello Stato italiano, in quanto l'istituzione monarchica è il centro di coagulo di forze permanentemente reazionarie, che, prima o poi, avrebbero impedito quel movimento: questa è la tesi di fondo dell'opuscolo. Riprendendo molte argomentazioni salveminiane, il giovane Cantimori conduce poi un'analisi del sistema fiscale, delle spese militari e del loro nesso con la politica estera, soprattutto traccia una storia del Risorgimento in chiave violentemente anti-moderata, affermando che «in questo periodo della nostra formazione nazionale [...] risiedono le origini d'una reazione che manifesta o larvata, e abilmente dissimulata nella momentanea tolleranza di partiti estremi od organizzazioni operaie, ha sempre posto barriere insuperabili al progresso della nazione». Da qui gli obiettivi che pone al suo partito, cioè il suffragio universale, la riforma fiscale e la 'nazione armata', e in prospettiva la necessità di una nuova costituzione elaborata da una Costituente, che riesca vera garanzia delle libertà sociali e politiche. Scritto nella seconda metà del 1901, dopo l'eccidio di Berra e le dimissioni di Wollemborg, l'opuscolo non mostra alcuna fiducia nel collaborazionismo socialista col governo Zanardelli-Giolitti, ma polemizza anche con il collettivismo, nella convinzione che «la libertà politica assicurata nella sovranità popolare, cioè nella forma repubblicana, è arma di miglioramento economico in mano agli operai»[7].
3. Il Cantimori dei primi anni del secolo si muove dunque fra Salvemini e Ghisleri. Da una lettera a quest'ultimo, scritta da Russi il 31 luglio 1901, apprendiamo notizie interessanti sull'andamento dei suoi studi: è iscritto al terzo anno di filosofia a Padova, ha chiesto ad Ardigò la tesi di laurea in storia della filosofia e i due si sono accordati per un lavoro su La personalità filosofico-politica di G. Mazzini nella storia del pensiero italiano: «Vorrebbe essere un modesto tentativo di considerare nella luce del positivismo moderno, il pensiero mazziniano, in relazione ai tempi [...]». Chiede a Ghisleri informazioni bibliografiche: «pochissime me ne diede l'Ardigò, ormai vecchio e stanco e però poco proclive ad aiutare nelle ricerche gli scolari [...]»[8]. Dalla tesi di laurea nasce il volume del 1904, qui già ricordato: è l'opera di un positivista ardigoiano, che vuol confrontare il mazzinianesimo con «l'indirizzo del pensiero moderno», cioè col positivismo. Mazzini ebbe ben poca conoscenza dei «progressi della scienza in ogni campo, i quali segnano l'imperitura gloria del secolo XIX»; non visse abbastanza «per apprezzare il valore della rivoluzione operata dalle scienze sperimentali in tutti i rami dell'attività del pensiero, gli effetti delle teorie dell'evoluzione [...] Non conobbe adunque affatto il Mill, lo Spencer, il Darwin», confuse il positivismo col vecchio materialismo metafisico. La parte metafisica del suo sistema, la costruzione teleologica della storia sono dunque lontanissime dalle impostazioni del pensiero più recente. La «modernità del Mazzini» sta altrove: nel «considerar nell'individuo il lato sociale, nel sorpassar le teorie egoiste di Elvezio, di Volney, di Bentham», insomma nel superamento dell'individualismo. Cantimori pone a confronto l'etica mazziniana con la Morale dei positivisti dell'Ardigò, che «offre appunto una morale sociale su basi scientifiche», e si sforza di dimostrare che «la rivelazione divina continua e progressiva del Mazzini si riduce in ultima istanza ai bisogni della società quali appaiono in seno alla convivenza e si manifestano nella rappresentazione impulsiva della idealità sociale [...] Così, sotto il cadente involucro della teologia, ci pare non sia avventato il vedere nel Nostro una notevolissima anticipazione dell'etica nuova». L'anti-individualismo del Mazzini non porta, tuttavia, a una specie di teocrazia: il carattere più importante della nuova religione mazziniana è «il sacro diritto all'eresia. E questo diritto, così recisamente affermato, costituisce la teorica negazione d'ogni intolleranza»[9].
4. Non si renderebbe, tuttavia, giustizia a quest'opera, se la si riducesse a una stanca esercitazione di positivismo. Il suo interesse storiografico è altrove, nel tentativo di ricostruzione sistematica del pensiero di Mazzini, nell'individuazione dei suoi temi più rilevanti, nella sobrietà del tono (così rara nella storiografia mazziniana di allora), nell'ampia informazione bibliografica. Almeno ad un aspetto dell'analisi di Cantimori si deve tuttavia accennare: al quadro da lui tracciato della rinascita religiosa dei primi decenni dell'Ottocento, della «reazione contro le idee del secolo precedente», del «ritorno alla tradizione e allo spiritualismo». Inserisce in quest'ambito certi aspetti del sansimonismo (per esempio molte idee di Leroux e di Reynaud) e lo stesso pensiero mazziniano, mostrando, pur senza soffermarvisi a lungo, le non poche, reciproche corrispondenze. Il problema del ruolo svolto dal sansimonismo nella formazione e nello sviluppo del pensiero mazziniano era già stato accennato da Alberto Mario fin dal 1877, ma intorno ad esso un vero discorso storico comincerà, com'è noto, col volume salveminiano del 1905. Si è anzi rilevato che la 'scoperta' del sansimonismo come fattore determinante del pensiero mazziniano è stata compiuta da Salvemini fra la prolusione messinese del 5 dicembre 1904 dedicata a «Il pensiero e l'azione di Giuseppe Mazzini», dove i cenni al problema erano pochi e generici, e il libro uscito nel giugno del 1905, Il pensiero religioso politico sociale di Giuseppe Mazzini (Messina, Trimarchi, 1905), in cui, invece, gli si dà un grandissimo rilievo[10]. Fu proprio in questo intervallo che Cantimori riprese i suoi contatti con Salvemini: lo aveva conosciuto di persona prima a Russi, poi al congresso socialista di Imola nel settembre 1902, ora, il 7 dicembre 1904, gli scriveva di aver letto sulla Tribuna del discorso inaugurale di Messina e lo pregava di inviargli il giornale locale che lo avesse più fedelmente riportato; in cambio gli avrebbe fatto avere il suo libro. Così avvenne: Salvemini, alla fine di dicembre, dovette, per lettera, darne un giudizio lusinghiero, e lo citò ripetutamente, in termini molto positivi, già nell'edizione a stampa della prolusione e poi nel volume successivo, che Cantimori recensì in toni entusiastici sul Resto del Carlino [11]. E' quindi probabile che il saggio del professore romagnolo contribuisse per la sua parte (non si vuol dire in modo esclusivo) al repentino approfondimento da parte di Salvemini, poi condotto con ben altra sistematicità e acume, della presenza sansimoniana in Mazzini, una delle acquisizioni di fondo del testo del 1905.
5. Nella lettera a Salvemini del 3 gennaio 1905, in cui lo ringraziava dei giudizi benevoli sul suo Mazzini, Cantimori aggiungeva: «Eh! sì: ella ha ragione: bisogna esser chiari e recisi nel far risaltare ciò che v'è di teologico o teleologico o mistico nel sistema di Mazzini, sopra tutto ora, che i retori della così detta rinascenza spiritualistica o religiosa potrebber trovare in quel misticismo qualche nota di grande effetto pei loro tromboni. E non mancherò, per quanto è concesso alle mie forze, di farlo». Il pericolo era che «il Mazzini conciato alla bell'e meglio serva di decorazione pel baraccone dei neo-mistici che assecondano nel campo intellettuale la reazione nel campo politico». Il giovane positivista sentiva che qualcosa stava mutando nel clima intellettuale italiano: uno degli aspetti più interessanti della sua parabola, anche in relazione alla delineazione dell'ambiente in cui si formò Delio, è proprio in questo suo precoce confronto con la cultura spiritualistica e idealistica e nel suo progressivo arrendersi alla sua forza pervasiva. Già in una conferenza del maggio 1905, tenuta a Genova, polemizzava contro il materialismo volgare che riduce il tipo religioso a problema di psichiatria e ricorreva alla recente traduzione di un testo così tipico della nuova Stimmung, le Varieties of Religious Experience di William James, per confortare le sue argomentazioni [12]. Ancora più eloquente una «Polemichetta mazziniana» del 1909 con un suo vecchio amico e compagno di fede politica, che ebbe, per molti rispetti, un'evoluzione non dissimile dalla sua, cioè Armando Carlini, futuro docente pisano del figlio, svoltasi sulle pagine del giornale del P.R.I.: a Carlini, che negava ogni carattere filosofico al pensiero mazziniano, rifacendosi anche al giudizio di «un filosofo autentico, qual è il Gentile», e affermava che esso era rimasto tutto interno al secolo XVIII, Cantimori replicava inserendo l'agitatore genovese nella rinascita religiosa e spiritualistica dell'età della Restaurazione. In ciò stava il suo valore: «Il problema religioso e il problema morale sono in questi tempi, dopo la crisi del positivismo, così fortemente sentiti, che lo spirito se non quanto nella lettera appar caduco e morto della dottrina mazziniana è ora più che mai oggetto degnissimo di studio e di ricerca». Non è possibile «relegare l'intelletto di Giuseppe Mazzini in quel secolo XVIII dal quale è lontano quanto il nostro tempo, e forse più lontano di quella seconda metà dell'800 in cui siamo nati e di cui tante idee rimangono ancora nel patrimonio intellettuale della democrazia non troppo fresco, ahimè, e non troppo aperto alle correnti innovatrici della coltura moderna!» [13]. Per l'antico allievo di Ardigò la «coltura moderna» era ormai quella che originava dalla «crisi del positivismo», così come il pensiero mazziniano si era formato nel clima religioso dei primi decenni del XIX secolo, scaturito dalla crisi del pensiero sensistico e illuministico: da qui la sua nuova attualità. E' pure indicativo che, fra i due esponenti maggiori della nuova cultura, egli scegliesse da subito come interlocutore Gentile, con cui prendeva contatto epistolare già il 16 dicembre 1910, dopo averlo conosciuto al recente concorso a cattedre di pedagogia e morale nelle scuole normali maschili governative in cui il filosofo era stato fra i commissari. In quella lettera (Simoncelli, Note, 62) Cantimori protestava contro alcuni duri giudizi di De Meis su Mazzini riportati da Croce sulla Critica [14] senza alcun commento, faceva riferimento al suo Saggio del 1904, che evidentemente aveva presentato fra i titoli concorsuali, annunciava l'intenzione di riscriverlo «da cima a fondo (specie in fondo)», cioè in quelle «Note e Considerazioni» finali in cui il giovane autore aveva cercato come sopra abbiamo mostrato di porre uno stretto nesso fra la morale mazziniana e quella positivistica. Alla vigilia della guerra libica, Cantimori si era dunque lasciata alle spalle la cultura positivistica in cui si era formato e partecipava ormai ai nuovi orientamenti della cultura italiana.
6. Negli anni dal 1904 al 1914 continuò la sua attività
politica nel Partito repubblicano, sottoposto a un attento controllo poliziesco
nelle varie località in cui lo conduceva il suo lavoro di insegnante.
Partecipava alla lotta politica nella sua Romagna [15],
alla polemica ideologica contro l'anti-mazzinianesimo socialista [16],
ma s'impegnava anche nella battaglia interna al P.R.I., affiancando la
polemica degli intransigenti Conti e Zuccarini contro il ministerialismo
di Barzilai e compagni: quindi antigiolittismo radicale, opposizione alla
guerra libica, antimilitarismo, antiprotezionismo, antiparlamentarismo
[17],
attenzione al mondo delle nuove riviste, dalla Voce all'Unità
di Salvemini, alla quale secondo la testimonianza del figlio (CS,
138) era abbonato. Fra la guerra libica e l'estate del 1914, Cantimori
partecipa a quel vario 'sovversivismo' in cui si ritrovano non pochi socialisti
mussoliniani, repubblicani intransigenti, sindacalisti rivoluzionari:
è il milieu, in cui il mito di Mazzini è singolarmente
presente, che sarà all'origine della settimana rossa del
giugno 1914. Questa radicalizzazione del suo impegno spiega probabilmente
perché fin dal 15 maggio 1911 venga classificato dalle autorità
di polizia sovversivo «pericoloso» (Simoncelli, Note,
62). Partecipa ovviamente alla campagna per l'intervento secondo la linea
prevalente nel suo partito, è arruolato come ufficiale della territoriale
dalla fine del '16.
Alla fine del conflitto riallaccia il dialogo ideale con Gentile, su due
piani: quello della politica scolastica e quello della storiografia mazziniana.
E' ben noto come fra il 1915 e il 1919 il filosofo operasse una radicale
revisione dell'aspro giudizio su Mazzini espresso nella recensione a Bolton
King del 1903, offrisse una lettura mistico-autoritaria del rivoluzionario
genovese, lo presentasse all'Italia del dopoguerra specie nei due saggi
comparsi sulla rivista nazionalistica Politica agl'inizi del 1919
- come un «profeta» di quel rinnovamento politico-religioso
di cui si faceva banditore [18].
E' da questo Gentile (e da quello dei Discorsi di religione del
1920) che Cantimori ricava le suggestioni filosofico-politiche più
forti per la revisione del Saggio mazziniano del 1904, ristampato
dalla casa editrice del P.R.I. in nuova edizione, sensibilmente diversa
dalla precedente, nei primi mesi del 1922.
Il popolo è sovrano scrive ora non come somma di volontà individuali, fortuito accordo di interessi e di egoismi [...] ma appunto come espressione di quell'universale che è nella coscienza umana, dell'universale storicamente determinato e idealmente concepito, dello spirito, di Dio: Dio e popolo. Ma di quel Dio che vive nella coscienza dell'uomo e nel pensiero dell'uomo e ne è il valore assoluto, immanente, eterno: e in questa immanenza è diritto, libertà, legge. [...] La libertà è dello spirito: l'individuo che vive in esso, che si innalza ad esso superando la propria empiricità e il proprio egoismo vede se stesso vivente e operante non entro la cerchia dei propri particolari interessi, ma nel popolo, nell'umanità, nella storia e il proprio diritto gli si tramuta entro [...] in un dovere. [...] L'io è chiamato a modificare la realtà in cui vive [...] come volontà e come forza che non soggiace al bruto fatto ma trasforma il mondo continuandolo, è fortissimo sentimento della libertà e della responsabilità individuale: libertà che ha il suo limite in se stessa, autonomia.[...] L'individuo che appartiene veramente al proprio popolo è quello che matura in esso la propria coscienza mediante l'educazione, la quale perpetua di generazione in generazione nella solidarietà sociale tutte le conquiste dello spirito: coscienza storica. [...] Sacra la fede e sacra l'eresia: non c'è contraddizione in questa affermazione mazziniana, poi che il Dio cui è serbata la sovranità non è l'immobile Dio fuori dell'uomo [...] ma è quel Dio immanente nella coscienza umana come assoluto che ha il suo verbo e la sua rivelazione nel progresso, nello sviluppo dell'umanità, in cui sembra fatale talvolta che per procedere i figli camminino sulle tombe dei padri.
7. Cantimori riproponeva la negazione mazziniana della libertà d'insegnamento (lo Stato mazziniano non è lo «Stato agnostico e negativamente laico del liberalismo», non può rinunziare «alla propria funzione educativa e formatrice, né a quel controllo su ogni forma d'istruzione che non è solo garanzia contro l'errore, sì anche difesa dell'inesperienza contro l'immobilità e la frode»), ma aggiungeva che l'«ateismo governativo che egli [Mazzini] denuncia non è il fatto della varietà degli insegnamenti e delle voci discordi, ma la laicità negativa, l'assenza di un pensiero nello Stato, ch'egli voleva consapevole del proprio valore, e separato dalla Chiesa solo per provvisoria e temporanea misura», perchè «lo Stato deve innalzarsi alla Chiesa, incarnare in sé un principio religioso».
Il Gentile aggiunge che sostiene con fortissime pagine la necessità di una politica in cui lo Stato sia consapevole del valore che gli è immanente, in cui ad esso sia assegnato un fine di formazione intellettuale, morale e religiosa a un tempo, delle energie spirituali vuole che lo Stato guardi come a propria alleata alla Chiesa non per ciò ch'essa ha di particolare come una chiesa fra le altre, ma per ciò in cui tutte le chiese s'accordano e procedono insieme. Ora questo 'guardare' è (o m'inganno) il guardare di una filosofia della religione, a cui una religione storica, positiva, non può consentire senza perder la propria natura, cessar d'esser se stessa. La Chiesa potrà rinunciare a prerogative e privilegi, ma non alla certezza di essere l'unica depositaria della verità: e lo Stato che afferma il valore della religione com'essa vive, in tutte le forme, senza combatter nessuna forma religiosa, con questa affermazione appunto urta con la Chiesa e tende a esautorarla completamente. L'istruzione religiosa che consideri la religione come uno dei momenti della verità, dell'aspirazione all'assoluto, dovrà differire intimamente, nello spirito e nei modi, da quella che vede nella Chiesa tutta la verità. [19]
Queste lunghe citazioni erano necessarie, perché ci restituiscono il tono di quel «mazzinianesimo 'autoritario' teorizzato da uno studioso mazziniano che leggevo molto», il senso delle «prime letture mazziniane, che è associato nella memoria a discussioni sul principio di autorità in Mazzini, alla lettura dei Profeti del Risorgimento del Gentile», di cui parlerà Delio molti anni più tardi (Storici, 285); e ci spiegano perchè a molti attivisti repubblicani ravennati il Mazzini di Carlo Cantimori restasse estraneo («l'idea e l'ideale sono una cosa, ma quello del libro di tuo padre è spiritualismo, roba da preti») [20].
8. Negli stessi anni in cui faceva propria la lettura gentiliana di Mazzini
(e la connessa proposta politico-filosofica), Carlo Cantimori entrava
nel gentiliano 'partito della scuola', nel variegato fascio di forze,
cioè, che si batteva per la riforma della scuola secondo il progetto
delineato dal filosofo. Nel 1922, al XV congresso del Partito Repubblicano
che si svolse a Trieste dal 22 al 25 aprile, il professore romagnolo svolse
la relazione sul problema scolastico, che accettava i punti fondamentali
delle proposte di Gentile, anche quelli come la valorizzazione della
scuola privata, l'esame di stato, l'insegnamento religioso nella scuola
elementare - che sembravano contraddire la viva tradizione laicistica
presente nel Partito: significativamente la relazione veniva pubblicata
sull'Educazione nazionale di Lombardo Radice
[21], con cui i rapporti eran già
di lunga data. Nello stesso congresso Cantimori entrava a far parte della
commissione esecutiva (oggi diremmo nella direzione nazionale) del P.R.I.
Non si deve tuttavia pensare che questi approdi comportassero di fronte
alla guerra civile che insanguinava il paese un atteggiamento filofascista.
Anzi, negli schieramenti interni al suo Partito, Cantimori fa parte della
corrente di Conti e Zuccarini, fortemente ostile al fascismo e per questo
combattuta da non poche 'consociazioni' in cui è più vivo
l'antisocialismo e quindi una comprensione simpatetica per l'azione mussoliniana
[22].
Lo testimoniano gli articoli scritti per il settimanale dei repubblicani
emiliani e romagnoli in quel 1922, in cui tuttavia, all'antifascismo di
fondo, si affiancano la persistente polemica contro il neutralismo socialista,
la ripresa del più radicale antigiolittismo, il culto per le memorie
dell'interventismo (Corridoni, Battisti) e per il D'Annunzio fiumano [23].
Questi articoli confermano quanto testimoniato dallo stesso Cantimori
(Simoncelli, Note, 65), cioè la partecipazione del padre
al comitato organizzatore dello 'sciopero legalitario' del 31 luglio-3
agosto 1922, proclamato dopo la 'conquista di Ravenna' da parte delle
squadre di Italo Balbo (26-27 luglio 1922), e ci inducono a ritenere che,
nell'incontro notturno del 4 novembre 1922, a Forlì, fra il repubblicano
filofascista Innocenzo Cappa e i maggiorenti del partito in Romagna, a
cui il liceale Delio assistette, suo padre fosse fra quanti «volevan
chieder conto al Cappa, loro vecchio amico politico, del suo evidente
passaggio 'dall'altra parte'» e che accettarono la vittoria fascista
non «senza riserve né senza qualche vergogna, né qualche
scontroso rimbrotto» [24],
tanto che, ancora nel 1924, non trascurava l'ipotesi di emigrare in Francia
e si sdegnava «per l'uccisione di un membro del Parlamento»,
suscitando lo stupore del figlio, cui sembrava «giusto, cioè
logico, lo avrebbe confessato dieci anni più tardi che un nemico
pericoloso e acre dovesse essere eliminato» (Prosperi, Introduzione,
XXI). Come vedremo, quindi, il fascismo di Delio fu più precoce
di quello del padre, anzi esso maturò quand'ancora Carlo Cantimori
era su posizioni di estraneità rispetto al nascente regime.
9. La sua iscrizione al P.N.F. (su invito e come 'patriota') risale all'aprile 1926: le vicende successive, la direzione dell'Istituto fascista di cultura di Forlì, la conferenza forlivese di Gentile da lui patrocinata (3 marzo 1930), sono state ricordate da Simoncelli (Cantimori, 27), come anche la sua carriera di preside di istituti secondari e di liceo. Merita attenzione, per il suo significato ideologico, il primo dei tre romanzi scritti in quegli anni, che segna lo sbocco della parabola dell'antico sovversivo e nel contempo il tentativo di darne una giustificazione. La strada mia corta rievoca il mondo della protesta sociale e politica della Parma fine secolo, le amicizie socialiste, l'impegno nei circoli dei partiti popolari, ma anche la crescente disaffezione e stanchezza e, da ultimo, il 'ritorno alla patria', il riemergere del sentimento nazionale:
Volli uscire da me stesso, dal primo'confidente immaginare' della fanciullezza e costruii un mondo con il povero gioco dei miei pensieri. Ne sto ritrovando, con virile consapevolezza, un altro, in cui fioriscon gioie ignote alla fiacchezza del sognatore, nella realtà spirituale che si chiama storia e il cui volto nel mondo è la nazione .[25]
Il 31 maggio 1945, Carlo Cantimori scriveva da Parma all'amico Alfredo Bottai di essere stato 'epurato' dal neo-provveditore agli studi Ferdinando Bernini e quindi allontanato dal suo posto di insegnante nel liceo pareggiato Maria Luigia (Cantimori aveva terminato la sua carriera nel '36 come preside del liceo Romagnosi di Parma, ma aveva chiesto di essere riammesso in servizio come insegnante nel 1940 in occasione dello scoppio della guerra) «per attività collaborazionista svolta dopo l'8 Settembre» [26]. Soprattutto gli veniva imputata una pubblica presa di posizione in occasione dell'anniversario della repubblica romana del 1849, in cui, dopo aver lamentato l'oblio da cui erano state avvolte quelle vicende per opera della successiva politica moderata, soggiungeva:
Ma «noi non dimentichiamo», disse in questi anni di guerra Mussolini, quando sorse sugli spalti di quella difesa l'ossario veramente, dopo tanta attesa, degno di quei caduti. Meno che mai dimentichiamo ora. E commemorare significa, come allora, non disperare della Patria. Nella repubblica, allora, l'aurora purissima dell'Italia nuova; ora, l'aurora della resurrezione in cui ritroveremo, dopo gli orrendi giorni della caduta, la strada, le forze, la dignità. E l'ardore di patria, che chiama intorno a Roma difensori italiani per l'onore e l'avvenire d'Italia, commemora oggi più d'ogni epica poesia di ricordi il nove febbraio del 1849 [27].
10. Le successive lettere a Bottai ci riportano a Russi, dove, ormai
settantenne, era ritornato. L'antico dèmone della politica lo riafferra:
di nuovo si impegna nel Partito repubblicano e partecipa alla campagna
elettorale per il referendum istituzionale del 1946. Morrà
il 22 agosto 1963, tre anni prima del figlio.
Ora siamo in grado di comprendere meno genericamente lo sfondo della formazione
di Delio Cantimori, quale egli lo rammenta, per esempio, nella prima redazione
della Prefazione all'edizione basileese degli Eretici: «Queste
ricerche sono nate dai problemi giovanili di uno studente liceale, maturato
in una città di provincia, in ambiente di gente di scuola, dalle
tradizioni mazziniane e repubblicane (cioè di opposizione), mosso
però dai fermenti idealistici del crocianesimo e soprattutto dell'idealismo
gentiliano nel suo primo slancio di diffusione nelle scuole italiane.
Tutti allora parlavano di riforma e di rinnovamento in Italia: nei più
vari sensi e secondo le più varie tendenze politiche e sociali»
(Eretici, 11). E possiamo anche avviarci a capire le radici del
suo fascismo, ché la parabola di Carlo (e di Delio) Cantimori ripropone
il problema del rapporto fra la tradizione mazziniana (una nebulosa politico-culturale
ben più ampia del Partito repubblicano e del mazzinianesimo ufficiale)
e certo fascismo, quello di provenienza sindacalista, repubblicana, più
generalmente 'sovversiva' (Belardelli, 382-384): il giovane Cantimori
- lo vedremo concepisce la politica come il momento più alto
dell'attività umana, vive il fascismo come una forma di religiosità
politica, sente fortemente il vincolo fra individuo e nazione, sottolinea
la funzione decisiva dell'educazione nazionale, momento fondamentale per
la creazione di un popolo nuovo. Son tutti tratti essenziali, come la
tematica corporativa, nucleo di una rivoluzione che sia nel contempo sociale
e nazionale, e l'accento posto sull''europeismo' fascista, base di una
nuova «Giovine Europa», - del discorso politico fascista,
o almeno di determinate componenti del fascismo, nei quali anche di
recente sono stati ravvisati echi della tradizione mazziniana [28].
11. I conti con questo mondo, dunque, coincidono con quelli col fascismo. Quando, per esempio, nel 1935, recensendo alcuni esponenti del Deutscher Sozialismus, Cantimori li ricollega «a quelle forme di solidarismo socialnazionale della prima metà del secolo XIX, alle quali da noi indulse anche il Mazzini, e che nella seconda metà continuarono a vivere nei paesi e nei gruppi etnici o presso gli strati sociali, i quali mentre erano preoccupati del problema della formazione delle unità nazional-statali dovevano anche prendere atto dei problemi sociali che lo svolgimento economico rendeva sempre più gravi, ed erano per varie ragioni inclini a risolvere entrambi i problemi con la loro contaminazione» (PSC, 287); quando avverte, di tali soluzioni, il carattere «precritico» rispetto al «grande progresso compiuto dall'applicazione del concetto del valore economico del lavoro al problema sociale» (PSC, 293) e il risvolto autoritario («Accade cioè che quei concetti [...] , quando si tenti di applicarli nella pratica, possono bensì apparire come idee direttive per aumentare la possibilità di sviluppo e di indipendenza, di autonomia degli uomini, ma in realtà significano al medesimo tempo un ritorno a ideali di convivenza umana, che nel corso della storia hanno mostrato spesso di risolversi in una compressione di tale autonomia»: PSC, 298), si ha la percezione che sia in atto in lui un processo di distacco critico da tutto un retroterra culturale e politico. Le conseguenze sul piano storiografico sono avvertibili di lì a pochi anni: nello studio dei programmi, delle utopie, delle considerazioni politico-sociali a tendenza socialistica e comunistica durante il periodo che va dalla seconda metà del Settecento al 1848, in Italia e fra gli italiani, soffocate a lungo dal prevalere del problema strettamente politico dell'unità e dell'indipendenza nazionale (ma riconoscerà anche in quest'àmbito nuovo la necessità di analizzare «le idee socialistiche del Mazzini nel periodo precedente al 1848-49») [29]. Si comprende così come un alunno, che lo conoscerà nel 1947, riferisca di una sua «certa insofferenza per il pensiero del grande cospiratore genovese» e della sua insoddisfazione per la «scarsa nitidezza ideologica» presente in quegli ambienti [30]. Molti dei riferimenti autobiografici che ricorrono nei suoi scritti più tardi confermano tale impressione. Ma per lunghi anni, per Cantimori, Mazzini era stato un punto di riferimento o un esempio ricorrente [31], né a lui sfuggiva (ed erano cose piuttosto ovvie negli ambienti in cui si era formato) il nesso fra l'unitarismo della mistica teologia mazziniana e il movimento religioso che dal trascendentalismo americano risaliva a Jefferson, a Newton, a Milton e che aveva come fondatore Fausto Socino (PSC, 132): Da Socino a Mazzini era il titolo di un opuscolo «così buffo» di Pietro Sbarbaro, e temi analoghi si ritrovavano in David Levi o Aurelio Saffi, tutti uomini per cui la riforma complessiva della società italiana avrebbe dovuto essere ad un tempo politica, sociale e religiosa o non sarebbe stata [32].
12. Ci si può infine chiedere se dalla formazione lato sensu mazziniana siano derivati tratti permanenti della personalità di Cantimori, che attraversino le varie fasi politico-ideologiche della sua vita. In uno sconfortato appunto autobiografico del 28 marzo 1956, egli avvertiva che uno dei suoi «grandi sbagli» era stato quello di aver ceduto sempre al richiamo della politica, credendo di capirci qualcosa, anzi di essersene fatto «un dovere 'mazziniano'», e di averla affrontata con uno «sterile moralismo russo-mazziniano» (Mangoni, XLI). In momenti decisivi, all'indomani del XX congresso del PCUS, lo storico si rimproverava una concezione dell'esistenza unilateralmente proiettata sulla dimensione politico-sociale, per cui l'individuo trova nella politica, nella vita dello Stato, il momento più alto. Ne aveva derivato un ideale 'civico' di libertà intesa come servizio e partecipazione a forme politiche collettive, non come limitazione del potere coercitivo dell'autorità statale e garanzia di diritti individuali; e insieme, una tendenza a sottolineare il ruolo-guida di minoranze virtuose e quel suo «intellettualistico, permanentemente idealistico, approccio all'idea di 'rivoluzione'» di cui ha parlato un'allieva (Seidel Menchi, 785).
13. Sulla prima fase della formazione di Delio Cantimori sono necessarie
alcune precisazioni preliminari, di carattere cronologico e più
propriamente biografico, sì da sgombrare il campo da alcuni equivoci
che si sono trasmessi da uno studioso all'altro e da ultimo anche al pur
attento Simoncelli (Cantimori, 17; Note, 64). Il periodo
precedente l'ingresso alla Scuola Normale viene di solito genericamente
identificato col «suo liceo a Ravenna», ma Cantimori
frequentò il liceo ravennate solo dal 1919 al 1922, più
precisamente gli ultimi due anni di ginnasio e la prima classe del liceo;
nell'autunno del 1922 si trasferì, seguendo la famiglia, nella
«montanara» Forlì (PSC, 808) dove il padre era
passato a dirigere il locale istituto magistrale e dove egli si iscrisse
al liceo G.B. Morgagni, nel quale frequentò le ultime due classi
e conseguì, nel luglio del 1924, il diploma di maturità
classica. E' tuttora ignoto il motivo per cui, in un tempo in cui l'età
media dei diplomati era di diciassette-diciotto anni, egli uscisse dal
liceo a vent'anni e fosse, quindi, anche in Normale, di un anno o due
maggiore dei condiscepoli. Il latinista Cesare Bione fu l'insegnante delle
cinque materie letterarie in quarta e quinta ginnasiale: Cantimori dichiara
di dovergli moltissimo in relazione alla Scuola Normale di Pisa (probabilmente
Bione, che era stato normalista dal 1903 al 1907, fu il primo a prospettargli
la possibilità del concorso in Normale); Galvano Della Volpe fu
suo professore-supplente di filosofia in prima liceo (1921-22), non nell'ultimo
anno, come talora si tende a credere.
Il periodo ravennate è stato privilegiato dalla storiografia su
Cantimori, anche perché è stato oggetto di una rievocazione
per molti aspetti coinvolgente, scritta dallo storico per una pubblicazione
celebrativa, nel penultimo anno della sua vita: [33]
insomma sappiamo, di quei tre anni, molto di più di quanto ci sia
noto dei successivi. La loro importanza, e in particolare quella del magistero
di Della Volpe, è stata sottolineata da un saggio del 1981 di Sandro
Barbera e Giuliano Campioni, teso a dimostrare una precocissima crisi
- databile intorno al 1924, quindi prima della sua venuta a Pisa - dell'attualismo
gentiliano di Cantimori. Per fondare il loro assunto, i due studiosi si
sono basati soprattutto sulle note apposte da Cantimori in margine a due
testi: il manuale scolastico di Vito Fazio Allmayer in tre volumetti (Lezioni
sulla psicologia, Lezioni sulla logica, Lezioni sulla morale,
Firenze, Le Monnier, 1920) e l'opera di Della Volpe, L'idealismo
dell'Atto e il problema delle categorie, Bologna, Zanichelli,
1924. Si potrebbe discutere sull'uso che è stato spesso fatto delle
glosse disseminate da Cantimori su libri e riviste, sulla cautela necessaria
nell'interpretarle, ché esse hanno spesso, per il loro stesso carattere,
un carattere di estemporaneità, non vorremmo dire di umoralità;
si potrebbe anche ricordare che i tre volumetti di Fazio corrispondevano
al programma dei tre anni del liceo prima della riforma Gentile, che quindi
l'insegnamento di Della Volpe dovette essere impartito soprattutto sul
primo, mentre sembra che le glosse riguardino soprattutto la logica, cioè
il secondo; infine, da un esame che abbiamo fatto di questi volumi, conservati
nella biblioteca della Scuola Normale di Pisa, apparirebbero due strati
di appunti, uno più antico, puramente esplicativo, probabilmente
coevo all'insegnamento del docente, uno successivo, dello stesso tipo
delle glosse apposte all'opera di Della Volpe. Siccome sul frontespizio
di questa Cantimori scrisse: «Secondo libro annotato secondo la
nuova formula del cogito», si potrebbe ipotizzare che il primo fosse
appunto il manuale di Fazio in una seconda lettura, e dato che il libro
di Della Volpe è del 1924, altra ipotesi azzardabile è che
tale rilettura fosse dello stesso anno, pochi mesi avanti la venuta a
Pisa e due anni dopo il contatto diretto col giovane professore. Come
che sia, sembra comunque che Cantimori avesse elaborato le sue riserve
all'attualismo gentiliano «secondo la nuova formula del cogito»,
che egli così esplicitava: Cogito ergo sum, sed cogitatum
quoque est. In essa emergeva un'esigenza realistica, perché
il cogitatum, il fatto non veniva riassorbito, risolto, dissolto
nell'identità dell'atto, ma conservava una sua autonomia. In ciò
- secondo Campioni e Barbera - risulterebbero evidenti gli echi dell'insegnamento
di Della Volpe, che in quegli anni «stava traducendo le sue inquietudini
verso il totalitarismo attualistico in precise istanze empiristiche, e
ciò attraverso una particolare valorizzazione della posizione e
del ruolo critico assunto da Carlini entro il dibattito attualistico.
Carlini stesso parla di una fase 'empiristica' del suo pensiero, accertabile
soprattutto nella Vita dello spirito (Firenze, 1921), 'scritta
nel periodo dei suoi studi lockiani'»: [34]
Carlini ricuperava Croce e il suo sforzo di correggere in senso più
strettamente storico-positivo il carattere metafisico dell'atto. Nelle
note a margine al volume di Della Volpe, nelle pagine in cui si discutono
le posizioni di Carlini, Cantimori sembra, per alcuni aspetti, identificarsi
con esse, specie nello stabilire una sorta di 'dualismo' fra soggetto
e oggetto, fra pensiero e pensato, ma aggiunge anche che, mentre le tesi
di Carlini - se si resta nell'àmbito di una filosofia d'impianto
gentiliano - sono contraddittorie, l'esigenza che egli pone «è
giusta e si giustificherà filosoficamente nella filosofia del reale»:
[35] così sembra che
Cantimori chiamasse la filosofia che stava elaborando.
14. C'è da chiedersi se queste glosse, piuttosto che indicare una «fuoriuscita» dall'attualismo, non siano in realtà testimonianza del pensiero di un ventenne che dell'attualismo non aveva ancora fatto uno studio approfondito. Non è facile sapere quali testi di Gentile avesse fino ad allora letto: dalle testimonianze autobiografiche (che mi sembrano, per questi aspetti, più che verosimili) si ricava notizia di letture precoci dei Discorsi di religione (1920) e dei Profeti del Risorgimento italiano (1923), libri molto presenti, come abbiamo visto, a suo padre, legati come pochi al clima post-bellico e al ruolo di pedagogo della nazione che Gentile vi aveva assunto; si parla anche del volume del 1920 su Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, letto seguendo i suoi primi interessi di storia rinascimentale, databili - come vedremo - ai primi mesi del 1923. Si può concludere che, quando postillava il libro di Della Volpe, il giovane Cantimori conoscesse piuttosto il Gentile 'riformatore religioso' e lo storico del pensiero, più che il filosofo? Parrebbe di sì. Garin ci ha informato che solo dopo il suo arrivo a Pisa lesse la Teoria generale dello spirito come atto puro, acquistata il 3 dicembre 1924 e poi fittamente annotata (sul tono di queste postille non dà però un giudizio univoco) [36]. Gianfranco Pedullà e poi anche Belardelli hanno reso nota una lettera (8 marzo 1938) a Gentile, che gli aveva dato l'incarico della revisione tipografica della Teoria generale in vista della ristampa presso Sansoni:
In una pausa del lavoro, mi sono messo a sfogliare la mia copia della seconda edizione Spoerri; e vi ho trovato la data della mia prima lettura della Teoria dello spirito: il dicembre 1924; e mi son trovato a rammentare la agitazione e l'entusiasmo di quella lettura, il fervore di pensiero e di lavoro che essa mi suscitò. La passione con la quale ora, dopo tante altre volte, mi sono accostato a questo libro, è certo meno esagitata di quella d'allora: ma non è certo meno grande, né meno forte. Per questo, aver potuto fare questo lavoro, anche se di sola revisione tipografica, è stato per me un onore - non solo per la fiducia da Lei mostratami nell'affidarmelo, ma per tutto quello ch'esso ha rappresentato per me, e per la cultura italiana, e per la storia del pensiero. Sono io che debbo ringraziar Lei, per aver potuto fare questo lavoro, per aver potuto modestamente collaborare a presentare di nuovo questo libro agli italiani. E Le dico che Le sono profondamente grato!. [37]
15. Ora, anche tenendo nella dovuta considerazione la «straordinaria capacità di adesione all'interlocutore» (Prosperi, Introduzione, XXIX) che Cantimori mostrò sempre nelle sue lettere, pare difficile attribuire solo ad essa il contenuto e il tono di questa, ed è quindi più che probabile che essa registri uno stato d'animo realmente vissuto: egli approfondì la filosofia gentiliana dopo il suo ingresso in Normale e a lungo cercò di ripensarla in autonomia, mosso dalle esigenze nuove che i suoi studi gli ponevano. Così prospettive e suggestioni gentiliane operano anche nel suo concreto lavoro storiografico: già Garin ebbe a osservare che «chi abbia in mente l'impianto teorico degli Eretici cantimoriani vede subito, pur nella diversità, la linea che unisce il punto più alto della produzione di Cantimori alle sollecitazioni degli anni pisani» [38] ed un giudizio analogo è espresso da Prosperi, secondo cui «la scuola di Saitta, Giovanni Gentile, compongono una genealogia che presiederà a lungo al lavoro di Cantimori» (Prosperi, Introduzione, XVII-XVIII, ed anche XLVII-XLVIII).
Al problema del suo «distacco dall'attualismo» si sono dedicate molte pagine, specie da parte dei primi biografi ed esegeti: tutti tendevano ad anticiparlo cronologicamente, quasi per liberare precocemente lo storico (che era stato, quasi sempre, anche il loro maestro) da una contiguità avvertita come imbarazzante. Giovanni Miccoli, per esempio, credeva che ne fossero già sintomo il saggio del 1932 Sulla storia del concetto di Rinascimento e l'esigenza, che ne è alla base, di «riprospettare in tutta la loro piena integrale concretezza e storicità ogni termine o concetto o pseudoconcetto derivato dalla tradizione del pensiero storico». Ma il principio che «un concetto storico deve essere norma del nostro pensiero» solo se e in quanto nasce dal nostro pensiero stesso, che solo lo pone, non è una posizione schiettamente attualistica? L'attualismo storiografico ha portato per lo più all'astrattezza (creazione di schemi generalissimi, in sui sussumere il concreto oggetto della ricerca), ma la sua logica può condurre anche a considerare tali schemi come «pensati», e quindi alla necessità di ripensarli per farli nostri, per farne un uso critico nella concreta ricerca storica; tanto che lo stesso Miccoli, con una notazione molto fine, pone in rapporto «quella corrosività insoddisfatta delle costruzioni proprie ed altrui, quella disposizione a rimettere sempre tutto in discussione, a tutto risistemare da nuovi punti di vista e alla luce di altre esperienze e constatazioni, così caratteristiche del Cantimori maturo» proprio con questo suo modo d'intendere l'attualismo.[39]
16. Analogamente deve essere sottolineato, più di quanto non si sia fatto, il carattere gentiliano anche di quel concetto di «cultura» elaborato dal giovane normalista nelle Osservazioni sui concetti di cultura e storia della cultura del 1928 e divenuto poi uno degli elementi di fondo del suo lavoro di storico e di studioso della vita politica. La sua genesi risale agli anni di Forlì, dall'autunno del 1922 a quello del 1924, in cui presero forma gli interessi fondamentali di Cantimori, innanzi a tutti quelli di storia rinascimentale: alla seconda liceo, anno scolastico 1922-23, [40] risalgono le prime letture dei grandi storici della Rinascenza, Burckhardt (Die Kultur der Renaissance in Italien), Voltaire (Essai sur les moeurs), Michelet (i volumi 'rinascimentali' della Histoire de France), Robertson (History of the Reign of the Emperor Charles V), che risvegliano in lui «un interesse ed un entusiasmo esplorativi e avventurosi» (Storici, 234) in varie direzioni: si trattava di una storiografia che guarda alla società più che allo Stato, alla «cultura» più che alla filosofia dogmatica, alla vita religiosa, alla teologia e anche alle 'superstizioni' più che ai trattati e alle guerre: a «quella vita spontanea - rammenterà in uno dei suoi ultimi scritti, a proposito di quelle prime letture - che pullula sotto le grandi costruzioni ufficiali, nella sua molteplicità, come sapeva evocare il Burckhardt nella Civiltà del Rinascimento in Italia, o come il Lamprecht, in certe pagine della sua storia del popolo tedesco [...]» (Storici, 234).
Nelle ultime pagine della Kultur di Burckhardt, ma anche in un importante passo della prima parte, Cantimori s'imbatteva nel caso di Pietro Paolo Boscoli, nei «suoi ultimi discorsi tenuti nel carcere, documento importantissimo per rilevare le credenze religiose d'allora», [41] tramandati da Luca della Robbia, rimasti a lungo inediti e pubblicati da F. L. Polidori nel primo volume dell'Archivio storico italiano nel 1842 (e prima in una strenna livornese del 1839). Il caso del Boscoli non poteva essere spiegato esaurientemente alla luce delle interpretazioni correnti dell'Umanesimo, che il giovane studente si trovava davanti: né quella del Gentile (l'Umanesimo, per dirla grossolanamente, come momento estetico, creativo, tutto soggettivo, dello spirito in contrapposizione al naturalismo medievale), né quella del Saitta (l'Umanesimo come culto della storia): la seconda trascurava il fatto che gli umanisti non consideravano la storia criticamente, ma la rivivevano come magistra vitae; la prima riduceva a mera costruzione letteraria una visione della vita che aveva una serietà di fondo, una sua moralità e che cercava nel passato il «carattere dell'uomo nuovo come attore del suo mondo, come cittadino che attua con le sue forze la virtù, questa virtù, questo mondo suo». [42] Dal congiurato del 1513 il mito classico (di Bruto tirannicida) non veniva contemplato o rivissuto su d'un piano puramente letterario, ma riusciva a ispirare concreti atteggiamenti morali e politici, a farsi agente di storia. Si trattava di un passato rivissuto, se si vuole, retoricamente, ma con una sorta di retorica sincera, o meglio di una «rettorica» che riusciva a farsi intima persuasione.
17. Ora «quei concetti che avevo trovato ed elaborato per spiegare quel caso - scriveva a Croce il 21 marzo 1926 - mi si sono [...] allargati quasi a teoria generale» (Prosperi, Introduzione, LIV). In questa e in altre lettere coeve, Cantimori, secondo le esigenze filosofiche dell'epoca, cercava di inserirli in una teoria delle forme dello spirito di stampo crociano, nell'àmbito della filosofia della pratica, creando - fra etica, Rettorica ed economica - un rapporto parallelo a quello che il filosofo aveva instaurato fra poesia, oratoria e logica: la Rettorica determinava l'azione non sulla base d'una scelta razionale e autonoma, ma per un movente sentimentale, spesso per una sollecitazione derivata da un elemento extra-logico, parenetico, mitico. Il modo in cui era stato vissuto, durante molti secoli, lo stoicismo ciceroniano, che aveva plasmato la morale politica di umanisti e uomini d'azione, poteva essere un esempio 'alto' di tale Rettorica, ma il giovane studioso aveva già avuto esperienza di forme meno elaborate: il verbo mazziniano e la sua diffusione anche fra la gente minuta, «fra gli studenti e il popolo, cioè fra le persone che si formano come possono una cultura non accettata, ma viva» (PSC, 12 nota 10); [43] la 'nazione', altra eredità del mondo in cui si era formato, idea-forza difficile da definire, ma di innegabile incidenza storica; anche i «nuovi dei, nuovi miti» che scorgeva in Europa, come le ideologie razzistiche, etniche e populistiche.
Le riflessioni sulla Rettorica scaturite dalla lettura delle pagine di Luca della Robbia [44] ed esposte nelle lettere a Croce dal 1926 al 1928, pubblicate in istralcio da Prosperi (Introduzione, LIV-LV) trovano una prima sistemazione - come s'è detto - nelle Osservazioni del 1928 (PSC, 5-13) sul concetto di cultura intesa come forma di vita spirituale che non crea concetti nuovi o nuovi valori (come la filosofia), ma che - nell'uomo colto (o nel religioso o nel fondatore di sette o nel profeta politico o nel pubblicista) - li rielabora, dà loro una capacità espansiva, li rende capaci di mobilitare vaste masse e di essere talora la base di una loro elevazione complessiva. Nello scritto del '28 non troviamo traccia delle distinzioni un po' scolastiche di cui Cantimori aveva scritto a Croce due anni prima. Mentre nel '26 la Rettorica apparteneva alla sfera della pratica, la «cultura» ora è bensì una philosophia elementaris, ma tra essa e il pensiero critico c'è un continuum, che può venir percorso in modo ascensionale (su di essa e da essa «i filosofi, i veri e geniali filosofi innalzano le loro opere»), ma anche in senso opposto, perché le nuove vie e i nuovi valori che il filosofo crea, vengono riconosciuti, rivissuti, ricreati dall'uomo di cultura e calano nella vita delle masse, dei popoli: così volgarizzati, possono contribuire «alla educazione di quei molti che, infine, anche loro progrediscono e non son poi quel volgo disprezzabile che ai molto progrediti a volte pare» (PSC, 11-12). Oltre a questa, positiva «volgarizzazione», può aversi anche una vera e propria «degenerazione» di concetti morali, filosofici o di valori estetici: una storia delle rispettive discipline li espungerebbe, ma essi (per esempio, gli schemi sociologici e naturalistici quali la razza e il popolo) trovano un loro posto nella «storia della cultura». Cantimori ribadisce la purezza logica della filosofia, ma avverte la necessità di non lasciare isolato il pensiero, di mostrarne i collegamenti intimi con la realtà tutta, di scorgere i tramiti per cui esso tende a farsi azione, a incidere nella storia: la «cultura» non si identifica con l'ideologia nell'accezione crociana, «tendenza pratica», pseudo-teoria elaborata consapevolmente a scopi pratici, ma anche in essa - se adeguatamente intesa - può cogliersi l'unità e la «viva attualità dello spirito».
18. Queste riflessioni giovanili sui concetti di «cultura» e di «storia della cultura» sono come un crocevia da cui si dipartono, in varie direzioni, i molteplici interessi e le successive ricerche cantimoriane: Platone e il platonismo, studiati nei primi anni pisani, [45] la storia della Riforma in Italia (Prosperi, Introduzione, LV) e l'analisi critica delle ideologie tedesche (Mangoni, XVI, XIX-XXI), il ruolo svolto nella storia europea da Ulrich von Hutten [46] e l'opera di Friedrich Hebbel nelle sue connessioni con la dottrina romantica dello Stato, [47] le utopie politico-sociali e le varie forme di propaganda. Ancora il concetto di «cultura» permise a Cantimori di ripensare il problema, mazziniano e gentiliano, dell'«educazione politica», del superamento della frattura fra «alta cultura» e «cultura popolare», del distacco fra intellettuali e popolo: commemorando Omodeo nel 1947 e facendo riferimento alla sua prolusione napoletana del 1923, avrebbe precisato il modo in cui la migliore cultura idealistica aveva corrisposto a tale esigenza:
Secondo l'Omodeo, questo ricongiungimento della aristocrazia degli intellettuali con il popolo poteva e doveva avvenire attraverso l'opera della «cultura». Problema di educatore, e di educatore politico, che diventerà problema critico, storiografico nella elaborazione e definizione del concetto di «pensiero mitico» come distinto dal «pensiero razionale». Distinzione che rimarrà acquisita agli studi storiografici. [48]
Anche l'educazione politica è «cultura»: essa non deve essere intesa pragmatisticamente, in modo meramente strumentale, ma ha un nucleo razionale, sia pure avvolto in un involucro mitico, grazie al quale riesce a operare storicamente, divenendo patrimonio di masse, che così possono iniziare a compiere il «passaggio dalla naturalità [...] alla spiritualità piena», come aveva scritto già nel 1928 (PSC, 8).
Si è giustamente avvertito come attraverso i concetti di «cultura» e di «storia della cultura» Cantimori si orientasse verso un tipo di ricerca in cui «le cose impure sembravano prendere il sopravvento sui concetti puri», emergevano cioè forme mentali e atteggiamenti morali non riconducibili a quella «filosofia» di cui l'allievo pisano di Giuseppe Saitta pensava in un primo momento di doversi fare storico. [49] Ma ancora una volta si trattava dell'approfondimento originale di un'esigenza attualistica (non a caso subito rilevata da un critico - anche per la sua 'faziosità' quando si trattava del «cosiddetto idealismo attuale» - emunctae naris come Croce, nella sua recensione del 1928), [50] quella di rinvenire le connessioni fra le varie «forme dello spirito», superando rigide distinzioni e separazioni e ribadendone così l'intima unità, di individuare la presenza del «pensiero» nelle diverse attività umane, anche quelle extra-logiche, e di misurarne così l'efficacia storica in un àmbito più largo. Neanche si può dire che questo di Cantimori sia uno sviluppo isolato all'interno della cultura attualistica: abbiamo già accennato ad Omodeo, ma sarebbe utile un raffronto fra questa concezione cantimoriana della «cultura», con i problemi e le esigenze che vi sono connesse, e quella del «mito» elaborata dallo storico siciliano nei suoi lavori di storia religiosa del quindicennio precedente, e poi da lui utilmente introdotta anche in quelli di storia 'profana'. [51]
19. Sono perciò sostanzialmente nel giusto quegli studiosi più recenti che o non hanno raccolta o hanno esplicitamente respinta la tesi di Barbera e Campioni, ribadendo la lunga fedeltà di Cantimori a Gentile (Mangoni, XXV, XXVIII-XXIX, XXXVIII; Belardelli, 392-395). Per tutti gli anni '30, egli si sentì (e fu) parte di quel vasto «rinnovamento della coltura (italiana) del principio del secolo», della «migliore tradizione italiana dall'inizio del secolo» (PSC, 346, 681) cui accenna spesso nei suoi scritti di allora, spesso in aperta polemica con i suoi interlocutori, privati come Capitini (Mangoni, XXVIII-XXXII) o pubblici, come Carl Schmitt (PSC, 243-244). Ancora nel 1940, nella voce Umanesimo del Dizionario di politica, tributava allo storicismo idealistico italiano il riconoscimento, direi, più solenne, considerandolo lo sbocco di un processo plurisecolare di pensiero che aveva preso le mosse dall'Umanesimo, dalle origini del mondo moderno:
Quell'umanesimo, alle origini del quale sta lo sforzo di rinnovamento dell'uomo iniziatosi lontanamente col movimento gioachimita e con i suoi echi nel francescanesimo e, poi in Dante, Cola di Rienzo, Petrarca (Burdach); che si afferma pienamente durante il Quattrocento ed assume nel Cinquecento aspetto prevalentemente filologico e letterario-grammaticale; che informa di sé la cultura europea, attraverso l'insegnamento degli umanisti vaganti, che si ritrovano in quei tempi all'inizio dei rinnovamenti delle vecchie università europee e della fondazione delle nuove; e che lascia l'impronta delle sue forme e delle sue eleganze, ma anche delle sue dottrine e dei suoi più ampi ideali nel Rabelais e nel Montaigne, nella scuola di Oxford e in Bacone, in Erasmo e nel Hutten, in Melantone praeceptor Germaniae; quell'umanesimo, che è il vero e storico umanesimo, ha mantenuto in Italia il suo vigore anche durante e dopo il ripiegamento nella letteratura formale e nel filologismo grammaticale del Cinquecento, e durante il Seicento. Ad esso infatti, come movimento di interesse critico per il linguaggio attraverso la cui storia e la cui vita si intende la vita e la storia della civiltà stessa, oltre che come movimento filosofico culminante nel Ficino, ci (forse: si, N.d.A.) richiama la filosofia di G. B. Vico; e attraverso il Vico, si riconnette direttamente al pensiero dell'Umanesimo e del Rinascimento il pensiero dell'idealismo italiano contemporaneo, in quanto esso ha di più originario, vivo e originale (PSC, 513).
20. Certo, in quest'àmbito, Cantimori introduce note originali
per la natura dei suoi interessi e per la qualità dei suoi metodi;
inoltre - rispetto a Gentile - sussistono alcune differenze 'originarie',
soprattutto sul piano politico, che gli derivano dal milieu in
cui si è formato: se il mazzinianesimo post-bellico del filosofo
è stato il tramite decisivo per accostare al suo pensiero il giovane,
questi mostra presto un chiara insofferenza per l'altro 'profeta' del
Risorgimento gentiliano, per il Gioberti filosofo e politico (PSC,
146-147; Storici, 445-447). Nella dialettica che sta alla base
della visione gentiliana del Risorgimento, Gioberti - è ben noto
- è il momento del 'realismo', del 'moderatismo', che apre il cammino
a Cavour: per Gentile, tutto il Risorgimento desinit nel
fascismo, quello dell'autore del Primato e del Rinnovamento
e quello del fondatore della Giovine Italia. Cantimori, in sintonia
con alcuni ambienti di 'sinistra' fascista, privilegia invece quest'ultimo,
il Risorgimento in cui rivoluzione sociale e rivoluzione nazionale sono
intimamente intrecciate. Il Pisacane che emerge nelle prime pagine del
volume su Utopisti e riformatori non è una scoperta improvvisa,
ma proviene anche (non vogliamo dire: soltanto) da un retroterra di socialismo
nazionale, mazziniano, spesso confluito in certo fascismo: anche se, per
il Cantimori del 1943, la figura del rivoluzionario napoletano ha ormai
assunto un significato storico e contenuti ideologici nuovi. [52]
Il fascismo di Cantimori ebbe, insomma, da subito dei caratteri di radicalismo
sociale, che erano sostanzialmente estranei a quello di Gentile (ma -
come vedremo - non ad alcuni dei suoi più notevoli discepoli).
Risalgono agli anni di Forlì anche i primi contatti con la vita e la cultura tedesche, «strettamente associati per me - scriverà in un altro prezioso cenno autobiografico - con la prima lettura di Novalis [...] Novalis e Hölderlin, [53] che furono le gran mode letterarie e culturali del primo dopoguerra tedesco assieme a quella politica di Adam Müller» (Storici, 286-288), e con i soggiorni che fece allora in paesi di lingua tedesca (Prosperi ne ricorda almeno due, uno giovanile presso una famiglia renana e quello del 1931 a Freiburg im Breisgau: Introduzione, XIX, XXIX). Hölderlin, Müller e soprattutto Novalis, il Novalis - come appare evidente fin dai primi scritti - della Christenheit oder Europa (PSC, 10 nota 8, 38, 41). Cantimori entra nel mondo della cultura tedesca attraverso il romanticismo politico e cattolicizzante, verso il quale marcherà il suo atteggiamento critico molto presto, in modo esplicito almeno dal saggio sulla Politica reazionaria di Federico Schlegel del 1929 (PSC, 61-64), ma di cui per alcuni anni - in quella che potremmo chiamare la 'prima fase' del suo fascismo e lo vedremo - risentì alcune suggestioni, per poi rimanerne storico informatissimo, fino alla voce Romanticismo sul Dizionario di politica del 1940 (PSC, 498-511) ed oltre. Fu attraverso questi interessi che ebbe il primo incontro con due grandi studiosi, il Meinecke di Weltbürgertum und Nationalstaat (Storici 287-288), giunto alla sesta edizione nel 1922, e il Carl Schmitt di Politische Romantik, il «vivacissimo e acuto saggio storico-polemico» (PSC, 238) del 1919, più volte ristampato, scritto in reazione alla esaltazione del pensiero di Müller compiuta da Othmar Spann (Haupttheorien der Volkswirtschaftslehre, prima edizione nel 1910) e della sua scuola, che, sopravvalutando il concetto di «organismo» e della «comunità nazionale» e insieme il corporativismo di tipo medioevale di Müller, li riallacciava a certo pensiero cattolico-sociale contemporaneo. Com'è noto, Schmitt insisteva invece sull'estetismo soggettivistico e sulla scarsa serietà del pensiero politico dei romantici tedeschi (PSC, 504) e sono analisi di cui Cantimori subito risente e che, semmai, arricchisce di nuove implicazioni: [54] la concezione romantica dello stato e della società, schiettamente 'reazionaria', diventa per lui l'antitesi del programma rivoluzionario del fascismo italiano.
21. Respinte sul piano speculativo e politico, le posizioni di Novalis, Schlegel, Müller vengono da Cantimori comprese nella loro importanza 'culturale', per l'efficacia che alcune delle «idee romantiche» hanno esercitata negli orientamenti politici successivi, tedeschi in particolare:
Il misticismo romantico - scriveva su Vita nova nel 1928 - (del quale una espressione caratteristica per le sue relazioni con la politica, è il lungo frammento Christenheit oder Europa del Novalis) aveva trovato, specialmente nello Schlegel e nel Müller, la sua soddisfazione nelle gerarchie e nella disciplina della teoria e della prassi cattolica, specialmente di quella dei gesuiti. Onde gerarchie e disciplina parevano a loro anche mezzo di salvazione della Germania, contro le disgregatrici idee cosmopolitiche, progressiste, liberali importate in Germania da Napoleone, dal movimento rivoluzionario. A questa [...] corrente di conservatorismo coi suoi apostoli si ricollegano i nazionalisti-conservatori-populisti d'oggi (PSC, 38-39),
cioè alcuni di quei gruppi che Cantimori chiama di «Germania giovane», quell'opposizione giovanile alla repubblica di Weimar, la cui costellazione ideologica - dopo i libri di Hermann Rauschning e di Armin Mohler - viene spesso definita konservative Revolution, [55] alla quale il giovane fascista italiano guardava con interesse nella seconda metà degli anni '20.
Infine Novalis, nell'opera più volte citata Die Christenheit oder Europa, poneva in relazione dialettica la nazione e il germanesimo come «individualità» con l'«universalità» e riteneva possibile questa sintesi con un ritorno all'Europa medioevale, dove l'unità cristiana e imperiale non impediva le differenze e le rigogliose vite 'nazionali'(PSC, 503): in queste riflessioni è, con tutta probabilità, una delle radici degli interessi 'europei' e dell''europeismo' (ovviamente di ben diversa natura) di cui Cantimori si fece sostenitore sulla fine di quel decennio e che - come vedremo - sono un elemento importante del suo fascismo.
22. Cantimori entrò in Normale alla fine del 1924, nei mesi 'borgiani' dell'affaire Matteotti, e vi rimase (quattro anni di corso ordinario più uno di perfezionamento) fino all'estate del 1929, all'indomani dei Patti lateranensi e nel corso dei dibattiti che ne seguirono. Riprendendo una sua pagina copertamente autobiografica del 1935, nella recensione al volume sociniano e spinoziano di Fausto Meli (PSC, 131-134), da Garin in poi si è spesso ricordato il parallelo-contrasto che vi è svolto fra la personalità e l'insegnamento di Carlini e quelli di Giuseppe Saitta [56] e la scelta di studiare con quest'ultimo. Si è poi ricordato come nelle postille cantimoriane della fine del '24 alla Teoria generale di Gentile, risuonassero già posizioni critiche verso l'attualismo spiritualistico e cattolicheggiante di Carlini. Ma oggi sappiamo (Mangoni, XXVIII nota 61) che la recensione al Meli fu scritta parallelamente a quella, assai dura e critica, del libretto di Carlini Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini, inviata a Federico Gentile per il Leonardo nell'autunno del 1934 e pubblicata solo nel 1937 (PSC, 596-599), dopo la crisi dei rapporti fra Carlini e Gentile [57]: vi è, dunque, insita una volontà polemica, che deve essere tenuta presente nel valutarne le affermazioni. Verso Carlini ci fu - da parte di Cantimori studente e anche dopo - un atteggiamento «complesso e ambivalente [...] sul piano morale e umano» [58] e, aggiungeremmo, politico: sappiamo che apparteneva allo stesso milieu del padre, con cui aveva avuto rapporti d'antica data e che, sia pure con scadenze diverse, aveva compiuto una parabola non dissimile dalla sua (apparteneva «alle vecchie generazioni» come scriverà Cantimori nel 1934: PSC, 597).
Nel marzo del 1926 - com'è ben noto - Carlini partecipò al VI congresso nazionale di filosofia, tenutosi a Milano e sospeso per ordine dell'autorità prefettizia dopo un discorso del De Sarlo su L'alta cultura e la libertà, e intervenne duramente contro lo stesso De Sarlo e contro il Martinetti che presiedeva i lavori: a Croce parve che fosse «venuto a far da agente provocatore a danno del congresso». [59] Il grave episodio dispiacque anche ai normalisti di fede fascista, almeno secondo la assai più tarda testimonianza di Cantimori («tutti ce l'avevamo con il Carlini per il suo intervento a Milano contro de Sarlo e per il suo cattolicesimo - tutti compr. Giov. Gent. jun., che affermava aver Carlini esagerato di troppo zelo per De Sarlo») [60] ed è il prologo di quella Premessa polemica a un suo saggio su L'attualismo e religione che il normalista di primo anno Vittorio Enzo Alfieri pubblicava nel settembre sulla rivista di Buonaiuti. Alfieri, che era venuto in Normale l'anno prima avendo per viatico una lettera del Croce poi divenuta celebre ed era, già allora, crociano e antifascista fervidissimo, vi criticava sarcasticamente l'ambiguo atteggiamento dell'attualismo verso la religione e lanciava la freccia del Parto contro il suo professore:
e il Carlini poveretto!, che si abbraccia disperatamente alla trascendenza, a ritrovare la trascendenza e il dogma perfino nella filosofia del Croce nel rapporto tra la Vita e il Pensiero, quando la Vita (che, a detta del Carlini, sarebbe dogma) si pone come orientamento del Pensiero. [61]
23. Per questa polemica, il 10 novembre successivo, subì un provvedimento disciplinare dalla direzione della Normale; [62] il 27 novembre appariva il primo, durissimo articolo del suo condiscepolo Cantimori [63] sui rapporti fra attualismo e religione, in polemica contro il «futurismo filosofico» di «un certo signore Vittorio Enzo Alfieri» e in difesa in blocco della scuola gentiliana. All'interno di questa distingue una «destra» (Carlini) e una «sinistra» (Saitta), ma fra i due non prende posizione, anzi cerca di dimostrare che anche il tentativo di Carlini di rendere completamente autonoma la religione è privo di ogni «colorito [...] di ritorno e di ripiegamento» e che sostanzialmente l'attualismo e la filosofia crociana concordano sulle relazioni fra religione positiva e religiosità e fra religione e filosofia (PSC, 19-20). Saranno state le ragioni di scuola, o forse anche la solidarietà politica, ma, almeno pubblicamente, Cantimori difendeva Carlini e accusava Alfieri di «rinnegare ogni sentimento religioso, ogni rispetto per il Dio dei nostri Padri e delle nostre Mamme, - perché egli accetterebbe, pare, un attualismo ateo. Questo si chiama futurismo, trionfo della leggerezza e della presunzione». Nello stesso periodo, il 14 novembre 1926, scrivendo ad Ernesto Codignola per la pubblicazione del suo lavoro sul Boscoli, ed era un lavoro di storia della filosofia o di 'storia della cultura', ricordava fra coloro che lo avevano letto e gli avevano dato consigli Francesco Arnaldi, Valgimigli e Carlini, ma non Saitta. [64] Da questi indizi ci sembra probabile che il rapporto con quest'ultimo sia nato più tardi, ai primi del 1927 (quando fra l'altro comincia la collaborazione di Cantimori a Vita nova, la rivista bolognese di Saitta), e che per i primi anni pisani Carlini (con Valgimigli) sia stato l'interlocutore principale. D'altronde, a ben leggere la recensione al Meli, questa ipotesi viene confermata: «accadde che alcuni - vi scrive l'ex-normalista, e il riferimento è chiaramente autobiografico - [...] si allontanassero dalla scuola filosofica di qualche insegnante della facoltà [il Carlini, appunto], e si volgessero con predilezione ad ascoltar la parola d'un altro, il Saitta» (PSC, 131).
Carlo Cordié nel 1975-76 e più recentemente Simoncelli (Cantimori, 17-28) hanno invece illuminato i rapporti del normalista Cantimori con i suoi condiscepoli: egli era entrato in Normale l'anno successivo di Gilberto Bernardini e di Giovanni Gentile jr., insieme a Capitini. Aveva visto arrivare nel '25 Meli e Alfieri, nel '27 Umberto Segre, Claudio Baglietto e Radetti, nel '28 Ragghianti, Perosa, Varese e Cordié. Con più discrezione quest'ultimo, con maggiore evidenza Simoncelli mostrano il sostanziale isolamento che circondò, anche per motivi politici, il giovane studente, apertamente fascista, rispetto ad altri giovani come Alfieri, Segre, Capitini e Baglietto che avrebbero dovuto lasciare la Scuola, chi prima, chi dopo, ma sempre traumaticamente, per il loro antifascismo: l'unica amicizia profonda fu quella che l'unì allo studente di fisica Giovanni Gentile jr. e le lettere a lui dirette, rese note da Simoncelli, ne sono un documento notevole. Ma tutto questo ci rinvia all'esame della fede politica del Cantimori di questi anni.
III.a - La prima fase: il fascismo come religione politica
III.b - Europeismo fascista e Società delle nazioni
III.c - La seconda fase: lo Stato etico corporativo
24. Dalle testimonianze autobiografiche e dai documenti fin qui pubblicati,
possiamo ricostruire con una certa precisione il cammino che condusse
Cantimori alla scelta fascista: è un percorso piuttosto tipico.
La sua coscienza politica comincia a formarsi durante i moti della 'settimana
rossa' del giugno 1914 (Prosperi, Introduzione, XXXII nota 41),
poi l'interventismo e il mito della 'vittoria mutilata': in casa Cantimori
è viva e perdurante l'ammirazione per il D'Annunzio fiumano, Delio
fa propaganda 'fiumana' fra i compagni di ginnasio, è abbonato
al Bollettino ufficiale della Reggenza, sente nella linea sindacalistico-mazziniana
che prevarrà nella Carta del Carnaro un momento importante della
rivoluzione italiana: addirittura - ce ne informa ancora Prosperi - progetterebbe
di fuggire da Ravenna per farsi accogliere fra i legionari di D'Annunzio.[65]
Molti fra i repubblicani ravennati hanno le stesse inquietudini, preferiscono
leggere Il popolo d'Italia, che continua a rivendicare le ragioni
dell'interventismo e della lotta anti-disfattista, piuttosto che La
voce repubblicana. Vede montare intorno a sé la violenza fascista,
per cui non prova ripulsione, ma che considera freddamente, per quel momento
'machiavellico', 'realistico', che fu sempre presente in lui. Ha amicizie
fra gli squadristi locali, ma anche fra i repubblicani antifascisti, come
quel Dino Silvestroni, dell'Istituto tecnico, che morirà in camicia
rossa, il 26 luglio 1922, nella difesa di Ravenna contro le squadre di
Balbo. Non andavano d'accordo quasi su niente, «ma questo era il
bello»: Silvestroni non poteva rendersi conto che Mazzini fosse
'religioso', Cantimori, imbevuto dei Discorsi di religione di Gentile,
non riusciva a spiegargli come uno potesse esserlo anche senza andare
in chiesa. Quell'estate, ad Abbazia, presso Fiume, dove villeggiava con
la famiglia, il diciottenne Delio sentì dire da suo padre e dall'«avvocato
Marassi o Magrassi [...] che i fascisti la rivoluzione l'avrebbero fatta
loro» (Mangoni, XLI): è un episodio cui, nel ricordo, lo
storico darà un valore paradigmatico perché quella divenne
anche la sua convinzione. Voleva già iscriversi al P.N.F., in modo
in qualche modo provocatorio, nel 1924, durante l'affaire Matteotti
e nell'inverno successivo, ormai a Pisa, nelle discussioni fra normalisti,
già si dichiarava fascista: la tessera la prese nel 1926, a Forlì,
e molti poi dovettero invidiargli quella data precoce d'iscrizione (CS,
142). [66]
25. Questa decisione era frutto - speriamo di averlo dimostrato - della cultura di cui si era nutrito negli anni della sua formazione mentale e si basava sulla certezza che il fascismo «avrebbe fatto la rivoluzione repubblicana, sindacale, nazionale, di Corridoni e di Mazzini. Una rivoluzione dall'alto, perché la 'plebe' mancava di educazione politica, e aveva bisogno di autorità» (Storici, 285): «ero convinto - avrebbe ancora ricordato nel 1962 - che il fascismo aveva fatto e stava facendo la vera rivoluzione italiana, che doveva diventare rivoluzione europea; e ritenevo che bisognasse lavorare su questa strada» (CS, 138). Il fascismo era dunque considerato dal figlio dell'antico mazziniano come il compimento della rivoluzione nazionale iniziatasi col Risorgimento, che doveva riuscire dove il processo risorgimentale e il cinquantennio successivo avevano fallito: nell'inserimento e nell'integrazione delle masse nello stato nazionale, nella creazione di una più vera democrazia, ben diversa dal 'parlamentarismo' e lontana dall''affarismo', dal 'particolarismo', dall''inerzia' che avevano caratterizzato l'Italia liberale. Si sarebbe così aperta una fase di iniziativa europea per l'Italia, la sua nuova esperienza politica sarebbe risultata un modello cui altre nazioni potevano ispirarsi.
Se questo grosso modo è il nucleo del fascismo cantimoriano,
fino alla sua crisi (il cui inizio è da porsi - come vedremo -
intorno al 1934-35), dalla lettura dei suoi scritti, resa ora più
agevole dal volume curato da Luisa Mangoni, [67]
si ricava l'impressione che tale concezione abbia avuto in quel decennio
(1925-1935) varie articolazioni, che, cioè, il giovane storico-filosofo
abbia via via dato accentuazioni, sfumature, anche contenuti diversi alla
sua fede fascista. Tali contenuti andranno esaminati distintamente, scanditi
- per quanto è possibile - cronologicamente, con un avvertimento
preliminare: che si entra in un terreno totalmente 'ideologico', di cui
oggi è inevitabile la demistificazione e necessario il riscontro
con la ben diversa realtà italiana ed europea. Ma sono parametri
ideologici che devono essere esaminati con cura, senza suffisance,
perché tale esame consente non solo di chiarire una gran parte
dell'attività di Cantimori, che - non v'è dubbio - visse,
per molti anni, il suo fascismo con grande serietà e impegno totale;
ma di intendere anche le ragioni di fondo dell'adesione al fascismo di
vasti strati intellettuali, che magari ebbero poi evoluzioni diverse.
Altrettanto importante è un'opera di 'contestualizzazione' della
produzione politico-ideologica di Cantimori: si avverte la necessità
di calarla nelle discussioni coeve, di scorgere a quali personalità
del fascismo egli guardasse con maggiore attenzione, contro quali ambienti
fossero rivolte le sue polemiche, insomma in qual modo partecipasse alla
lotta politica che si svolgeva, nelle forme e nei limiti che ben conosceva,
all'interno del regime. Aveva avviato in tal senso la ricerca Michele
Ciliberto, soprattutto nei primi due capitoli del suo discusso libro del
1977, [68] ma direi che nessuno
dei contributi di cui qui si tratta (eccetto quello di Giovanni Belardelli)
ha ritenuto di dover riprendere la questione con l'attenzione che merita.
Cercheremo di farlo, anche se - nonostante l'arricchimento documentario
che indubbiamente si è avuto - non tutto è ancora chiaro
nell'evoluzione politica dello storico romagnolo in quegli anni drammatici.
26. Il 19 luglio 1926, da Forlì dove trascorreva le vacanze estive, Cantimori scriveva a Croce una lunga lettera: faceva un bilancio dei suoi studi, tornava sui suoi programmi, specialmente su quel saggio intorno alla cultura romagnola fra Otto e Novecento, di cui aveva già scritto al filosofo, ricevendone incoraggiamento, e che progettava sul modello di quelli, ormai classici, dello stesso Croce sulla vita letteraria a Napoli dopo il 1860, di Casati sul giornalismo lombardo, di Gentile sulla cultura toscana, siciliana e piemontese, di Brognoligo su quella veneta, tutti apparsi sulla Critica dal 1909 in avanti:
Illustre Maestro,
libero quasi completamente da obblighi scolastici per i due anni che mi rimangono alla Università, in questo mese di riposo penso al lavoro da fare in questo tempo. Per la scuola, presenterò parte delle note che vado raccogliendo da ogni parte per le ricerche sui rapporti fra oratoria e poesia: precisamente le note su Platone, e su varî spunti del suo pensiero: questo s'allontana dal lavoro principale, quindi ne farò un lavoretto a sé, perché è un punto che non so lasciare. Mi pare che in questo pensatore, in maggior quantità che in altri, si possan trovare molti spunti importanti nella parte che si chiama non sistematica nel senso stretto: nei punti poetici o eloquenti mi par che ci sia molto da mostrare che non ho trovato mostrato dagli storici e dai trattatisti.
Ma non intendo dedicarmi solo a questo lavoro: penso che potrei fare la «Storia della cultura Romagnola dal 1860 al 1900» o anche al 1914, limitandomi agli studî di filologia classica e letteratura in genere, artistici, alle scuole medie e popolari, e specialmente alla cultura politica, che per la Romagna ha una certa importanza, e si mescola con la storica e la letteraria più evidentemente che altrove, e che credo, anzi, penso senz'altro, tratterei con la 'serenità' necessaria, benché m'interessi di politica e segua la parte fascista - per il mio carattere e perché questa religione ho respirato negli anni della mia formazione mentale: ma respirato in ambiente di studî seri. Ho creduto mio dovere dirLe questo, perché la situazione attuale degli spiriti mi pare che lo richieda: ho anche rinunziato a pubblicare il lavoro sul Boscoli sulla Nuova Rivista Storica, per questa ragione, e sì che ora non so se Papini, al quale per consiglio del prof. Valgimigli ne ho proposto la pubblicazione come introduzione alla relazione del della Robbia, mi risponderà. Ora, oltre le intenzioni di lavoro, ci sono le necessità economiche: con molta sfacciataggine, bisogna che Le confessi che se quel lavoro sulla Cultura Romagnola ha probabilità di far parte della serie da Lei iniziata, e se Lei me ne assegna i termini, io lo comincio; se no, bisogna che lo rimandi a quando sarò insegnante, per le suddette necessità, che io tengo in conto perché mi dovranno mettere in grado di lavorare con libertà, quando le avrò servite a dovere.
Altri lavori non ho intenzione per ora di fare, oltre le letture e gli studî necessari per la cultura, che ora non c'entrano.
Le chiedo scusa per l'ardimento e la sfacciataggine, e Le porgo i più rispettosi ossequi.
suo dev.mo
Delio Cantimori
Forlì. R. Istituto Magistrale. 19 luglio 1926 [69]
27. Insomma, il giovane normalista dichiarava esplicitamente che si sarebbe dedicato da subito al lavoro sulla cultura romagnola, solo qualora Croce si dicesse disposto a ospitarlo sulla Critica. In tale prospettiva, però, gli sembrava necessario mettere le carte in tavola e dichiarargli, perché non sorgessero poi degli equivoci o delle difficoltà, la sua fede politica: era fascista (sappiamo che si era da poco iscritto al partito). E' di notevole rilievo che definisse il fascismo come la sua «religione», formatasi - si affrettava orgogliosamente ad aggiungere - «in ambiente di studî seri», negli anni della sua Bildung culturale e politica; che riprendesse cioè un tema schiettamente gentiliano, ampiamente elaborato dal filosofo in alcuni importanti interventi dell'anno precedente e fra quelli che avevano suscitato la più veemente replica di Croce. [70]
Per il Cantimori del 1926, il fascismo è dunque una forma di religiosità, che traduce in termini politici la morale idealistica. Nel 1927, scrive che il problema di una religiosità nuova, che si affermi al di fuori delle confessioni nel concetto stesso della vita, è universalmente sentito e travaglia gli altri popoli: «noi l'abbiamo risoluto in Italia, l'abbiamo risoluto senza orgogliose affermazioni d'esclusività, senza aver bisogno di perder il rispetto dovuto alla storia ed alle istituzioni che le appartengono e nel suo nome possono avere ancora una vita [sembra un riferimento alla Chiesa cattolica, N.d.A.]» (PSC, 28-29). Il nucleo di questa religiosità è
quella coscienza dell'uomo moderno, consapevole del suo dovere e della sua responsabilità, ma anche del suo limite nella vita della Nazione per la quale egli è quel che è e può operare utilmente, concretamente, senza lasciarsi sviare da anacronistici ritorni a forme di vita morale (e religiosa che è lo stesso), buone per le donne e per la parte femminile degli uomini, che credono che Dio si veneri battendosi il petto ad ore fisse, e via dicendo, e non lavorando e faticando.[...] lasciamo ai chiacchieroni, ai dannunziani ed ai futuristi l'amare la patria, ma lavoriamo per essa: che è il vero amare! Questo concetto, se gli altri popoli non l'hanno, all'Italiano il Fascismo lo vuol dare; e questo concetto, se Dio vuole, è la traduzione in parole semplici della morale idealistica. Non onoriamo Dio, non meditiamo su Dio: ma lavoriamo per realizzare lo spirito, pel quale siamo differenti dalle bestie e creatori del mondo, e che possiamo anche chiamare Dio, ma non è certo l'unser Gott, né il buon Dio, ma l'Uomo, il vero uomo che è dentro tutti gli individui che si agitano nel mondo. E questo concetto, scientificamente espresso, noi lo troviamo nell'idealismo contemporaneo, nella filosofia moderna (PSC, 26).
28. Il filosofo-politico deve saper dare delle certezze, non limitarsi a un atteggiamento scettico, agnostico o pessimistico:
Tutta la gente che vuole una massima di condotta, una risposta sicura ai problemi angosciosi che ogni uomo pone, per poi agire, tenendo ferma quella massima, tenendo sicura quella risposta, conformando ad esse tutta la vita, dovranno sempre soltanto avere dal filosofo la risposta dubbiosa, e la risposta sicura dal pulpito? Avvezzare a discernere non è avvezzare a dubitare (ibid.).
L'idealismo contemporaneo è lo sbocco della filosofia moderna; esso non è una filosofia intellettualistica, ma una forma di religiosità a-confessionale, che supera e invera il vecchio cattolicesimo; è una filosofia per la vita, un'etica nuova che il fascismo ha fatta propria e posta alla base della sua rivoluzione, della riforma intellettuale e morale con cui vuol riplasmare l'Italia. A questo scopo è da anime belle rifuggire gli strumenti della 'politica', della compressione violenta: «La mia 'politica' - scriverà nel 1934, ricordando quelle scelte - consisteva nell'applicare i metodi del machiavellismo volgare alla realizzazione della 'Politeia' platonica» (Prosperi, Introduzione, XXI). Siamo - lo ripetiamo - all'identità fra religiosità idealistica, etica nuova e fascismo (e anche all'idealizzazione dei 'bestioni' vichiani, sani e forti nella loro violenta selvatichezza) dei coevi scritti di Gentile.
L'uomo moderno - lo abbiamo visto - trova il suo dovere, la sua responsabilità, ma anche il suo limite «nella vita della Nazione per la quale egli è quel che è e può operare utilmente, concretamente». Nella nazione, dunque, più che nello Stato: è su questo tema della nazionalità che il Cantimori della seconda metà degli anni '20 ha accenti diversi da quelli di Gentile. La polemica contro ogni concezione naturalistica della nazione (che significa anche polemica contro la dottrina ottocentesca, per cui la nazione è un prius rispetto allo Stato e, in qualche modo, lo genera, e quindi esiste un diritto naturale della nazione a farsi Stato) condusse Gentile a porre nello Stato, non nella nazione, la sede dell'eticità: è lo Stato che crea la nazione, che «dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un'effettiva esistenza». [71] La nazione non è razza, né regione geograficamente individuata, ma realtà etica; ma è tale solo come Stato.
29. Cantimori affronta questi temi nel primo degli scritti inediti, o rimasti sconosciuti, che riproponiamo in appendice, tratto dalla tesi di laurea del 1928 su «Ulrico di Hutten e le relazioni fra Rinascimento e Riforma». Nella sua versione originaria la tesi era aperta da un'«Introduzione», che poi fu omessa nell'edizione a stampa del 1930 e che si articolava in due paragrafi: nel primo, intitolato «Filosofia e storia», il laureando cercava di spiegare - in base agli schemi filosofici dell'epoca - come il filosofo-storico potesse accostarsi alla vita di un uomo d'azione come Hutten evitando ogni psicologismo o naturalismo, ma cercandovi «la realizzazione di principi e concetti di vita morale; la spiritualizzazione del meccanicismo della vita quotidiana», [72] insomma ricostruendo una biografia che fosse filosoficamente significativa.
Più interessante per noi il secondo paragrafo, «Storia e nazionalità», perché in esso Cantimori esprime le sue concezioni sui rapporti fra l'individuo e la nazionalità e fra nazione e Stato. L'uomo non può esistere se non calato in una realtà nazionale:
la nostra storia non è storia di un individuo astratto, ma di un uomo, nella nazione; sopra, fuori la nazione, ma ad ogni modo, in relazione positiva o negativa con la nazione. La nazionalità dell'individuo è ben chiara, sempre: per la lingua, per i costumi, per il carattere, che sono la concreta espressione d'una lunga e varia tradizione. Un individuo che non parli non esiste; e non parlerà certo in esperanto (o almeno in esperanto non penserà).
E la nazione non è solo quell'àmbito naturale entro cui si svolge la vita dell'uomo, ma è soprattutto la condizione della sua concreta moralità: l'uomo deve tendere e sforzarsi al bene, non in generale, in relazione ad un'umanità astratta e vuota di significato o al 'progresso umano' o alla 'società'. Lo sforzo dell'uomo verso il bene, la sua tendenza all'universalità trovano, invece, nella nazione la sua determinazione concreta: qui l'uomo si supera, esce da se stesso, ma non annega in una umanità indistinta; ama, non un generico prossimo, ma un altro uomo che si nutre della stessa tradizione. Cantimori tende a riempire di contenuto spirituale (quindi morale) anche realtà che di solito venivano condannate dalla tradizione filosofica cui apparteneva: la boria nazionale, l'imperialismo - a ben vedere - altro non sono che un concepire la propria nazione «come missione al bene, come bene», tendente quindi all'universale e all'infinito, «che è il carattere distintivo della vera spiritualità». Un desiderio di universalità è alla base del mito della 'missione nazionale' e la 'tradizione nazionale' è un «dogmatizzarsi e schematizzarsi» della storia spirituale di una nazione: così intesi, questi concetti perdono le loro scorie naturalistiche e si superano da se stessi. Dunque:
la vita e la storia personali diventano, attraverso la storia e la vita nazionali, storia e vita universali. Il momento della nazionalità è un momento ineliminabile della vita morale dello spirito. E non consiste nello spirito della razza, o nella missione della nazione, o in altri elementi, e neppur soltanto nella lingua: ma nell'amore (sforzo verso il bene), che spiritualizza la storia dogmatizzata (tradizione) e che si esprime per le azioni, per la vita, e attraverso di esse nella storia viva (e svolgentesi continuamente, sì da dare l'impressione del caos e del tumulto vano). Amore che non può esplicarsi (non può vivere, svilupparsi) astrattamente, superando d'un salto la storia, ma che per essere veramente umano - è prima nazionale [...] In questa riduzione della nazionalità a momento di moralità, discende pure ovviamente la spiegazione della eticità della guerra, e pare abbia un po' di luce anche la eticità della politica: eticità che significa anche spiritualità.
30. Sono interessanti gli sviluppi che, da questa concezione della nazione, Cantimori trae in relazione allo Stato. Il punto di partenza è una critica della relativa teoria gentiliana dello Stato: essa
pare uccidere in realtà la libertà, la individuale, la personale (ch'egli chiama empirica, atomistica, e anarchica) libertà; uccide il diritto per il dovere: per considerazione unilaterale - derivante dalla generale tradizione filosofica - della vita etica, dalla quale ogni elemento di originalità (di spontaneità piena) è sbandito come anarchico, atomistico e via dicendo: onde, identificati morale e diritto la vera libertà si trova solo nella legge, in modo che dunque il diritto ha mangiato la morale, e di questa ha distrutto il principio fondamentale, senza assimilarne molto.
Annichilendo la spontaneità, lo stato gentiliano può essere oggetto tutt'al più di adesione razionale (da parte di chi ne è capace), ma non di reale immedesimazione e d'amore: solo se la nazionalità viene identificata con lo Stato, riuscirà a riempirlo di quel contenuto, «che possa farlo non solo capire, non solo temere, ma anche amare e venerare. Cosicché questa dottrina [della nazionalità] si presenta non come propedeutica alla dottrina dello stato, né come completamento o integramento di essa: ma come collegamento, mediazione; fra la spiritualità come amore e la spiritualità come legge». [73] Lo Stato, gentilianamente inteso, è un concetto razionale, giuridico-politico: esso acquista un vigore sentimentale (e quindi la capacità di assicurare una reale integrazione fra Stato e popolo) solo identificandosi con un dato storico-naturale come la nazione. Anche il maestro pisano di Cantimori, Giuseppe Saitta, del resto ripetutamente citato in queste pagine, faceva del concetto di nazione l'anello di congiunzione fra l'individuo e l'universale, [74] ma qui forse siamo di fronte a qualcosa d'altro: alla traduzione nel linguaggio filosofico italiano del tempo di un'esigenza 'novalisiana' (o meglio, che egli individuò sempre come tipica del pensiero di Novalis), quella dell'adesione sentimentale allo Stato, che ci riporta alle prime letture di Cantimori e ai suoi contatti con la Germania. Sono comunque pagine importanti, perché ci consentono di stabilire quella circolarità fra le posizioni filosofiche, gli atteggiamenti politici e il concreto lavoro storiografico di Cantimori, che non sempre è stata ricercata con l'impegno necessario.
31. Religiosità politica: se questo è il punto-chiave del primo fascismo cantimoriano, acquista un significato non meramente teoretico tutto il dibattito con Alfieri del 1926-27 - cui abbiamo accennato - sui rapporti fra attualismo e religione e sulla possibilità di una religiosità a-confessionale che costituisca un punto di orientamento e guidi all'azione. Proprio l'esigenza di dimostrare che si può essere religiosi senza appartenere ad una confessione e che questa religione è tutt'affatto diversa dal 'libero pensiero' della tradizione massonico-democratica, dirige l'attenzione di Cantimori verso i «nazionalisti» tedeschi: nel primo articolo loro dedicato (Confessione e libero pensiero in Italia e in Germania del 1927), cui seguiranno quelli più celebri sulla Germania giovane, lo studente italiano sottolinea il fondo religioso della loro fede politica, la loro diffidenza verso l'establishment luterano e soprattutto la radicale opposizione di questa loro religiosità rispetto allo spirito democratico, massonico, socialistico: «il gran nemico di questa gente sono gli ebrei, padri naturali del libero pensiero, e però ostili alla genuinità del sentimento religioso di questo popolo, che, dopo la sconfitta, sente, nella sua parte più elevata, che solo con un'anima profondamente religiosa, potrà risollevarsi a nuova grandezza» (PSC, 28).
Il tema della nazionalità, strettamente intrecciato con quello dei rapporti fra Rinascimento e Riforma, è al centro della tesi su Hutten: egli è un umanista che (come il Boscoli) non è rimasto su d'un piano meramente estetico-contemplativo, ma ha cercato di attuare le proprie idee nella lotta politica. Al centro di queste è appunto il concetto di nazione, di cui può considerarsi uno dei creatori, frutto della rielaborazione di motivi della tradizione umanistica tedesca: il nazionalismo letterario, il concetto di libertà aristocratica, la storia come formatrice della vita delle nazioni e degli individui. Per il suo immanentismo, il suo attivismo, la sua concezione morale della vita, Hutten è lontano da Lutero, e aderisce alla Riforma quando ne intuisce le potenzialità politiche in senso nazionale e antiromano: il manifesto di Lutero alla nobiltà cristiana della nazione tedesca è il suo scritto più hutteniano e un po' lo snodo di tutta questa vicenda. L'opera di Hutten è perciò il vivente punto d'innesto - e questo era l'altro aspetto che interessava Cantimori - di motivi e concetti dell'Umanesimo rinascimentale nella Riforma: nel secolare dibattito (che poi storicizzerà nel gran saggio del 1932) sul primato della modernità, se spetti al Rinascimento italiano o alla Riforma tedesca, Cantimori assume già ora la posizione che svilupperà nei lavori ereticali, individuando nei motivi umanistici e rinascimentali (qui la nazione, in quelli l'umanesimo civile, la filologia del Valla, il platonismo del Ficino, etc.) che si inseriscono nel moto riformatore i germi di molti aspetti del mondo moderno:
Si potrebbe dire quindi - scrive nella tesi di laurea - che Riforma e Rinascimento non sono che i due momenti, - variamente accentuati e coloriti dalle esigenze storiche delle due nazioni nelle quali essi hanno avuto origine, della formazione della coscienza moderna. Onde non si possono capire l'uno senza l'altro, e la Riforma guardata contro o senza il Rinascimento sembra rinnovamento del Medioevo, mentre il Rinascimento guardato senza o contro la Riforma sembra astratto e antistorico. Alla fondazione delle grandi nazioni moderne troviamo elementi riformatori ed elementi del Rinascimento: entrambi han contribuito allo svegliarsi della coscienza nazionale, e la forza innovatrice e liberatrice dell'uno ha trovato completezza ed attuazione nella rigidezza intransigente e nella potenza di sentimento dell'altra. Questa a sua volta riceveva concretezza e chiarezza di coscienza. [75]
32. Per molti rispetti, Hutten è il prototipo del pubblicista e dell'agitatore moderno: ha dato un contributo essenziale a quella che poi sarebbe diventata la mitologia nazionale tedesca (il tema della libertas germanica, il rifiuto della translatio imperii e quindi della continuità col mondo romano, la discendenza conclamata dai Cimbri e dai Teutoni, il mito degli antichi Germani e soprattutto quello, decisivo, di Arminio). Egli ha contribuito a trasformare la Riforma da polemica teologica in rivoluzione anche politica, dando vita a una tradizione politico-ideologica, quella del futuro nazionalismo prussiano-germanico, che giungeva fino alle modernissime correnti politiche della Germania contemporanea. Cantimori citava espressamente articoli su Hutten comparsi, fra il 1929 e il 1930, su Die Tat e su Der Ring, [76] due fra le riviste più importanti degli ambienti 'rivoluzionario-conservatori' (all'ultima era abbonato: CS, 137), «e chi parli con questi giovani - scriveva ancora nel 1928 - sente a volte ricordare il nome dell'umanista che nel monumento di Berlino a Lutero sta, armato, al fianco del riformatore, - Ulrico di Hutten, il grande assertore della nazione» (PSC, 44).
Anche Hutten riportava dunque il giovane studioso italiano alla Germania giovane, ai «problemi spirituali e politici dei giovani tedeschi; e specialmente di quei giovani che guardano con simpatia all'Italia e alla sua nuova vita», dalla quale «cercano di trarre [...] l'insegnamento per la propria». Non dunque a quelli «che appartengono ai partiti democratici; questi per noi, oggi, sono vecchi prima del tempo; ci occuperemo piuttosto dei giovani nazionalisti» (PSC, 30); ma nemmeno - è bene sottolinearlo - a quelli già inquadrati nella NSDAP, ai seguaci di Hitler, sul quale c'è un solo cenno, non positivo, in una citazione dalla rivista Standarte (PSC, 48). A ben vedere, nella serie di articoli su Vita nova che dedica loro fra il 1927 e il 1928, Cantimori cerca di sgombrare il campo dalle riserve che alcuni dei loro atteggiamenti possono destare in molti ambienti del fascismo italiano: l'antisemitismo («si può bene essere antiebrei non per pregiudizi di razza e di casta, ma per ragioni storiche e politiche: il che è da tenere in conto per capire e non condannare a priori certi atteggiamenti [...] In Germania [gli ebrei] si chiamano, sì tedeschi, ma poi agiscono (e i nazionalisti dicono, e forse con ragione, in massa) come da noi Salvemini, per esempio» [PSC, 30-33]); la «mentalità razzistica, etnicistica, vorrei anche dire populistica», che per Cantimori ha radici più propriamente francesi, emerse soprattutto nella propaganda anti-tedesca durante la guerra, che «ha [...] avuto come conseguenza l'esaltazione, la conservazione e la diffusione dei concetti razzistici anche negli altri popoli, specie se già disposti». Però tale etnicismo ha spinto anche a nuove indagini o a impegnative iniziative culturali attorno al passato tedesco: esso non produce quindi «effetti completamente deleterî, neanche sotto l'aspetto culturale in senso stretto. In sostanza, si richiama il popolo tedesco alla sua storia, anche alla più lontana, forse troppo lontana» (PSC, 34-37); il pangermanesimo, che è «la degenerazione pericolosa da tener sempre d'occhio, ma non l'essenza della vita spirituale tedesca [...] l'Italia nuova deve respingere da sé [questi] residuati di propaganda francese, sempre diffidente come per tradizione di razza, contro il 'boche'» (PSC, 43, 39); infine il prevalente positivismo, perché «l'origine e l'essenza di queste dottrine è fondamentalmente idealistica, conforme alla miglior tradizione tedesca» (PSC, 45).
33. Non c'è - intendiamoci - un' identificazione con gli schemi ideologici della destra giovanile tedesca: il fascista e attualista italiano si sente in una posizione culturalmente più scaltrita rispetto ai giovani tedeschi, e, per il suo stesso idealismo, non può accettare i loro atteggiamenti razzistici e antisemiti; [77] tuttavia è convinto che quei giovani nazionalisti-conservatori-populisti «raccolgano sotto le proprie bandiere la parte migliore e più sana della loro nazione: e preparino in mille modi e mille maniere, anche fuori delle loro organizzazioni, le classi dirigenti di domani» (PSC, 52). Il loro pensiero si volge al fascismo italiano «come metodo d'azione, come nazionalismo in atto, come pratica e reale affermazione della vita nazionale» (PSC, 48) e il fascismo ha tutto l'interesse di intrattenere con loro un dialogo costruttivo, arricchendoli con la propria esperienza e i risultati della sua storia. [78] In questa prospettiva è utile e necessario non esasperare i possibili elementi di contrasto, in particolare il problema dell'Alto Adige che in quegli anni era al centro del contenzioso fra il governo italiano e quello austriaco, [79] ma che era sentito anche da molti circoli in Germania «in nome della civiltà, della cultura tedesche» (PSC, 44). Cantimori sembra propenso a «concessioni di carattere linguistico, 'culturale' da parte del Governo italiano» in cambio del sostanziale lealismo degli allogeni alto-atesini e soprattutto polemizza contro l'uso da parte italiana di concetti come «razza», «stirpe», «latinità», che giudica «un avanzo di propaganda francese del tempo di guerra [...] derivazione diretta delle teorie nazionalistiche francesi»: «perché inimicarsi e irritare larghi e importanti strati e circoli politici, che rappresentano gran parte di una nazione come la Germania, solo per il gusto di non smettere l'armamentario polemico e propagandistico del tempo di guerra? O, meglio, del tempo della guerra passata?» (PSC, 51-53).
Pur nella consapevolezza che «ora siam noi che possiamo probabilmente insegnare a loro molte cose» in campo filosofico e politico, Cantimori invita tuttavia i giovani fascisti italiani a «non [...] chiudere le finestre, o aprirle soltanto quando sentiamo un batter di mani plaudenti o un urlìo rabbioso» (PSC, 41). Prova profonda ammirazione per alcuni degli atteggiamenti della gioventù tedesca e ritiene utile un confronto assiduo con essi: con quella religiosità politica, per cui «il conservatore [...] vede lunghi susseguirsi di generazioni al servizio di un unico pensiero, ognuna animata da quel pensiero, e affaticantesi per adempirlo; vede le nazioni nel costruirsi della loro storia: e sa ubbidire a quel pensiero, al comandamento di quella storia» e si contrappone perciò all'«atomismo liberalesco» (PSC, 40); con quel «senso di devozione a qualcosa di divino, non trascendente, ma profondamente umano come il proprio popolo, la propria nazione, alla cui storia si deve servire, conservandone e accrescendone la gloria» (PSC, 44). Certo la loro svalutazione dello Stato, la prevalenza assoluta che essi riconoscono alla nazione può sembrare assurda, ma ha un'origine storica: lo Stato che essi si trovano di fronte è la repubblica di Weimar, un regime politico estraneo alla tradizione nazionale tedesca, nel quale non possono assolutamente identificarsi. Da qui l'affermazione del valore esclusivo della nazione, «prodotto storico della civiltà (lingua, costumi, cultura, - cultura soprattutto)» e il paradosso per cui sembra loro molto più importante avere una coscienza nazionale che un esercito o un apparato amministrativo. Lo Stato fascista italiano non era la repubblica di Weimar e Cantimori non poteva non sottolineare il rischio di questa concezione di una 'nazione senza Stato'; ma abbiamo visto come rimarcasse anche quello di uno 'Stato senza nazione': in definitiva i giovani tedeschi dovevano «ridare a[lla loro] nazione uno stato» (PSC, 47-48) come aveva fatto il fascismo in Italia. [80]
34. Questi sono i temi di quella che s'è chiamata - con un'espressione da prendersi in senso non schematico - la prima fase del fascismo di Cantimori (torneremo brevemente sul problema della nazione, per la sua presenza nei primi interessi 'ereticali' dello storico). Si può indicare anche un termine ad quem: il 1929, il trauma del Concordato, che sconvolse Cantimori come tutti i discepoli, diretti o indiretti, di Gentile. Il fascismo rischiava di diventare non più il portatore di una nuova visione religiosa, un programma di vita, basato sui valori umanistici del 'pensiero moderno', ma l'instaurazione della Pax Christi in Italia, la riaffermazione dei valori tradizionali del cattolicesimo romano. E' ben noto il nuovo fronte di polemica culturale e politica che i Patti lateranensi aprirono all'interno del fascismo e anche di recente è stata ripercorsa la battaglia che Gentile condusse negli anni immediatamente successivi: [81] è sintomatico l'atteggiamento di Cantimori di fronte a quello che ne fu il momento culminante, il discorso che il filosofo tenne in Senato il 12 aprile 1930:
Ricevetti la tua cartolina - scriveva da Cagliari il 18 maggio 1930 a G. Gentile jr. - il giorno dopo aver ricevuto il grande e solenne discorso di tuo Padre al Senato.[...] Ti ricordi gli entusiasmi di [Gilberto] Bernardini? Il mio era molto più grande; uscii di casa a girare per il molo, vergognandomi di me e di essermi lasciato scuotere. E andai a rileggere tante sue pagine che mi apparvero luminose per me come non altre volte. I ragazzi a scuola, la settimana dopo, mi fecero capire la loro meraviglia perchè avevo fatto lezione con tanta passione, anche più che non ne avessi i primi giorni. Come ti posso ringraziare di avermelo mandato, e anche della buona lezione che mi hai dato con quelle parole di dedica? Non credere che abbia mai dubitato, però: è vero che 'tranquilla sicurezza' per molto tempo non ne ho avuta: ero scosso, irritato, incerto. Ma dubitato, non mi pare, se pure esamino e analizzo i miei sentimenti (Simoncelli, Cantimori, 23-24).
Come altri gentiliani (basti pensare per un verso a Codignola, [82] per un altro a Ugo Spirito), Cantimori reagì al disorientamento politico-culturale seguito al Concordato operando un rilancio del proprio fascismo in un duplice senso: accentuando la polemica contro ogni interpretazione reazionaria e cattolico-nazionalistica che ne veniva data e approfondendone i contenuti sociali, affrontando cioè la tematica corporativa. [83] Ma per intendere meglio tale nuova fase, conviene accennare a un altro campo di riflessioni del giovane studioso, il problema della decadenza europea e l''europeismo'.
35. In uno dei suoi primi articoli su Vita nova, nel 1927, così Cantimori sintetizzava il complesso dibattito che si era aperto negli anni del dopoguerra sulla crisi e sul destino dell'Europa: [84]
E si è anche, in periodo di grande nervosismo, e di grande irrequietezza: e si leggono - o se ne ha notizia - scritti sulla decadenza dell'Europa, sul medioevo e noi, si traducono scritti d'altre razze che criticano il mondo europeo, dal punto di vista, per esempio, Russo - di quella Russia che tanto fa paura giustamente all'Europa - e si corre ai ripari, contro l'asianesimo e l'americanismo, cercando una Paneuropa, o un'Europa vivente, in una lega di stati e nel risorgere d'una singola nazione. Si sente lanciare l'allarme da molte parti, insomma (PSC, 22-23).
Cantimori alludeva al tema del 'tramonto dell'occidente' aperto dal libro di Spengler del 1918 (sul quale il suo giudizio di storicista italiano fu sempre durissimo: PSC, 600-604 e passim) e dalle varie letture che ne vennero compiute; poi alla riabilitazione dell'Europa medievale, in cui il lettore di Novalis avvertiva riecheggiamenti del romanticismo politico, e quindi alla denunzia del Rinascimento, dell'esaltazione dell'uomo compiuta dall'Umanesimo, come rottura d'un ordine sereno ed equilibrato e inizio di una genealogia di sventure che dalla Riforma giungeva, attraverso l'Illuminismo e la Rivoluzione, alla modernità caotica e priva di leggi morali: nel 1931 farà polemicamente i nomi di Maurras, Massis, Maritain (PSC, 121), del Massis - aggiungiamo noi - di Défense de l'Occident del '27 e del Maritain di Antimoderne del '24 ; recensirà poi assai negativamente la traduzione italiana di Le monde sans âme di Daniel-Rops [85] e polemizzerà, pur senza nominarlo esplicitamente, contro il medievalismo di Evola. [86] Il giovane normalista accennava poi alla ripresa, più o meno consapevole, dell'escatologia anti-occidentale degli slavofili ottocenteschi (Cantimori coglierà echi del pensiero di Kireevskij nell'irrazionalismo e misticismo naturalistico della Germania giovane: [87] PSC, 35n, 211) anche da parte dei dirigenti bolscevichi, che negavano ogni continuità fra la Russia nuova e la vecchia Europa, riproponendo così agli intellettuali occidentali, sia pure in termini nuovi, l'eterno problema dei rapporti fra la civiltà europea e la Russia; non tralasciava la gran moda delle comparazioni di civiltà, per cui ci si interrogava sui rapporti fra l'Europa e il mondo americano (la tecnica, la 'tecnocrazia', la mancanza di un retroterra storico, la 'massificazione', l'assenza di spessore critico, tutti gli stereotipi, insomma, di cui si è sempre nutrito l'anti-americanismo europeo), e su quelli con l'Oriente, vissuto da alcuni come 'lezione' per l'Occidente, come scampo alla corruzione, rifugio spirituale, da altri come minaccia di popoli sterminati e ormai recalcitranti, per la loro stessa forza demografica, all'egemonia europea. Cantimori aveva presenti anche le soluzioni politiche con cui si cercava di ovviare a tale 'decadenza': in Italia, il ritorno alle origini cattoliche e controriformistiche vagheggiato da Curzio Malaparte nel suo libro L'Europa vivente. Teoria storica del sindacalismo nazionale del 1923 (PSC, 23); in Europa, il movimento pan-europeo di Richard Coudenhove-Kalergi (la «Paneuropa a tinta massonico-cattolico-democratica»: PSC, 28, 54, 65), le proposte federalistiche di Aristide Briand - nel celebre suo discorso ginevrino del 5 settembre 1929 (PSC, 65) - , e l'europeismo organicistico e cattolico che Karl Anton von Rohan bandiva con l'Europäische Revue.
36. Fra i giovani intellettuali italiani, Cantimori fu certamente uno di coloro che seguirono con maggiore partecipazione e attenzione questi dibattiti, «quella letteratura di massime e considerazioni socio-psico-filosofiche con veleno politico» di cui avrebbe scritto, con la consueta verve autocritica, nella lettera a Giulio Bollati del 23 giugno 1952 (PSC, 808). [88] Tale 'europeismo' non è in contraddizione con quel concetto di nazione, di cui abbiamo sottolineato l'importanza nella sua formazione giovanile. Per esso le nazioni stanno una di fronte all'altra in una sfida che è essenzialmente di cultura e di civiltà, prima che di espansione militare, per cui è essenziale un'apertura cosciente e una conoscenza approfondita delle altre realtà nazionali, oltre che un approfondimento dei caratteri e della storia della propria: da qui la polemica contro certi atteggiamenti vetero-nazionalistici di 'boria' nazionale o di 'autoctonismo' culturale presenti anche in seno al fascismo:
Diciamo subito intanto - scriveva ancora nel 1927 - che se pur noi non vogliamo essere il canis nationalis, asinus universalis cioè non vogliamo cadere in volgarità e sciocchezze per un astratto nazionalismo, non vogliamo neppure - e tanto meno! - essere in un ipotetico 'au dessus de la mêlée' europeo, e non italiano: se vogliamo essere uomini d'oggi, uomini dell'Europa moderna, pensiamo con questo d'essere migliori italiani, perché italiani con gli occhi aperti sul mondo e sui nostri vicini, non fissi a contemplare l'opera dei nostri connazionali; attivi nel nostro campo, e non passivi buoni cittadini, i quali trovan che tutto va bene e pensano alla salute (PSC, 23).
Tali posizioni vengono ribadite con particolare icasticità negli articoli che Cantimori andò pubblicando nell'autunno 1929 nel «settimanale fascista degli universitari» cagliaritani, Pattuglia, articoli rimasti sconosciuti e ripubblicati qui in Appendice III:
Dobbiamo prepararci a pensare ed a decidere, a prender le iniziative per conto degli altri [popoli], se è vero che gli altri han perso la via e noi invece abbiamo trovato quella giusta. Ma questo gigantesco compito che i giovani italiani si assumono, non può esser soddisfatto se essi non cominciano a pensare universalmente, in modo valido non solo per la politica italiana interna, ma per la politica mondiale. [...] Bisogna che noi ci assuefacciamo a questi orizzonti, e che ci consideriamo appunto perché e in quanto italiani e fascisti, banditori di un'idea universale, cittadini dell'Europa e del mondo. [...] Dobbiamo assimilarci i frutti delle altre civiltà, poiché ormai il fascismo ci fa sicuri che non ce ne potremo più fare servi, come altra volta accadde; dobbiamo cercare di capire gli altri, ora che sappiamo ben rispondere alle loro incomprensioni e mostrarci anche in questo a loro superiori; dobbiamo entrare in relazione con questo mondo che vogliamo far nostro, e quindi imparare a parlarne la lingua, a conoscerne le idee. Allora potremo dire di esserci creata veramente una mentalità imperiale, che è il minimo presupposto, in questa epoca di imperi mondiali, per l'affermazione della nostra potenza. [89]
37. L'europeismo di Cantimori - con la sua prospettiva 'imperiale' - può esser considerato come uno dei primi (in senso cronologico) esempi di 'europeismo fascista', fenomeno che - com'è noto - avrà una sua storia per tutti gli anni '30 e una teorizzazione soprattutto nei primi anni di guerra, ma che affonda le sue radici già nei primi anni del regime: «il mito dell'impero, come centro irradiatore di una civiltà universale, - si è giustamente avvertito - non fu un'improvvisazione propagandistica collegata alla conquista dell'Etiopia, ma è un mito che affiora nel fascismo fin dai primi tempi e viene svolgendosi, emergendo in modo più evidente, soprattutto attraverso la valorizzazione [che, come vedremo, è tipica del Cantimori di questi anni, N.d.A.] della funzione rivoluzionaria del fascismo come movimento universale e non soltanto italiano». [90] Un testo-chiave, più volte citato, fu per lui la prefazione che Mussolini scrisse, nel 1928, al volume di Richard Korherr, Regresso delle nascite morte dei popoli: [91] ne ricavava non il ruralismo o la politica demografica che vi veniva delineata, ma il tema della decadenza europea, della minaccia dell'americanismo e dell'Asia, e soprattutto la convinzione che fosse il fascismo la soluzione della crisi occidentale e che quindi «quel che l'Italia compie non è solo esperimento ma anche insegnamento per le altre Nazioni» (PSC, 59). E' proprio quell'etica nuova, quella forma di religiosità politica che esso rappresenta, che sono alla base dello «sforzo immane» che l'Italia sta compiendo «per sottrarsi a questa decadenza comune» (PSC, 26). Il fascismo italiano, come il pensiero filosofico che ne è alla base, è il culmine di un processo storico di portata europea, esprime «le idee di ricostruzione, di equilibrio armonico, di rivalutazione e affermazione dello Stato, di tutti gli ideali creati da quella civiltà che s'è iniziata col Rinascimento e con la Riforma, movimenti 'europei' e che hanno le loro origini più remote nel Medioevo, 'europeo'» (PSC, 66): ha dunque una vocazione non chiusamente nazionale, ma europea e quindi universale. D'altronde molti intellettuali e movimenti anche al di fuori d'Italia (come il circolo della Europäische Revue) ammettono che l'unico uomo di Stato europeo capace di costruire qualcosa è il capo del governo italiano (PSC, 70).
38. Per queste stesse ragioni Cantimori sostiene l'importanza dell'impegno italiano nelle istituzioni internazionali, in particolar modo nella Società delle Nazioni, in cui bisogna operare attivamente per «affermarvi, con le nostre personalità, le idee e la prassi del Fascismo» (PSC, 66). L'atteggiamento 'societario' è un altro leit-motiv degli interventi politici cantimoriani di questi anni e lo conduce spesso a polemizzare con le pose grossolanamente 'realistiche' presenti negli stessi ambienti fascisti (PSC, 54-57), con i facili sarcasmi contro il legalismo, il pacifismo, l'umanitarismo dell'organizzazione ginevrina: ancora una volta sono gli articoli cagliaritani della fine del 1929 i più espliciti nel configurare la Società delle Nazioni come luogo di iniziativa politica per l'Italia in vista di una sua leadership politico-morale in Europa. Dal 12 settembre di quell'anno aveva assunto il dicastero degli Esteri Dino Grandi, che - com'è ben noto - cercò di porre in atto una politica non lontana da quella auspicata dal giovane insegnante del Liceo Dettori: questi, a sua volta, non tardò a indicare nel neo-ministro (e in Giuseppe Bottai) uno dei suoi 'referenti' politici (PSC, 89, 97), fautore d'un'idea d'Europa molto affine a quella che era stata bandita dal Rohan nella sua Europäische Revue. E' stato sottolineato il fondo realistico e imperialistico delle posizioni 'societarie' di Grandi, basato sulla «convinzione che la politica europea si sarebbe comunque svolta nell'ambito della Società delle Nazioni almeno fino all'eventuale scoppio d'una nuova guerra continentale, e che dunque solo operando in quell'ambito Roma avrebbe potuto porre con successo sul tappeto del dibattito internazionale la 'questione italiana'». [92] Analogamente Cantimori non aderisce all'ideologia 'societaria', solo chiede ai giovani fascisti di essere all'altezza, sul piano delle prospettive culturali e degli orizzonti politici, della politica estera di ampio raggio che l'Italia si propone, e di liberarsi perciò dei luoghi comuni del vecchio nazionalismo, delle chiusure che impediscono il formarsi della necessaria «mentalità imperiale»: nel suo pensiero, dal culto dello Stato-nazione, dall'esigenza di una prospettiva 'imperiale' discende il tema dell'universalità del fascismo, tipico - come vedremo subito - delle sue posizioni post-1929.
39. Nell'articolo «La Cultura come Problema Sociale», comparso ai primi del 1930 su Vita nova, Cantimori faceva per la prima volta cenno al corporativismo come la caratteristica fondamentale del nuovo stato fascista e la risposta nuova che il fascismo poteva dare alla decadenza europea:
[...] la organizzazione culturale delle corporazioni, dove accanto alla cultura professionale e tecnica è unita la educazione secondo la morale di ordine e disciplina che il Governo Fascista ama accentuare come propria, appare di nuovo risposta chiara e netta ai bisogni della civiltà europea [...] (PSC, 76).
La tematica corporativa o - come Cantimori spesso scriverà - lo «stato etico corporativo» sarà il centro della 'seconda fase' del fascismo cantimoriano fino alla metà degli anni '30. Questo passaggio avviene in sintonia con mutamenti più generali. Si è già accennato al trauma del Concordato e alla necessità, in cui si trovò una parte della cultura fascista di ispirazione gentiliana, di dare contenuti nuovi alla propria scelta politica; il 12 settembre 1929 diventava ministro delle Corporazioni colui che, come sottosegretario, era stato l'autore della Carta del lavoro del '27, Giuseppe Bottai, che rilanciò subito il dibattito sul corporativismo, fondò proprio allora l'Archivio di studi corporativi e prese a dirigere, a Pisa, la Scuola di scienze corporative, attuò una riforma del Consiglio Nazionale delle corporazioni con la legge del 20 marzo 1930; nella seconda metà del '29 e nei primi mesi del '30, un gentiliano di punta come Ugo Spirito dava un tono nuovo alla polemica contro la scienza economica 'ufficiale' in cui era impegnato fin dal 1927, dalla fondazione dei suoi Nuovi studi, e per la prima volta identificava nel corporativismo le istanze di rinnovamento di tale scienza, che fino ad allora aveva propugnate. [93] Riprendeva forte slancio - all'indomani delle elezioni tedesche del 14 settembre 1930 e della grande affermazione della NSDAP - anche il tema dell''universalismo fascista', che per anni era stato messo in sordina («Il fascismo non è merce di esportazione» aveva dichiarato Mussolini nel discorso alla Camera del 3 marzo 1928), rimanendo patrimonio di circoli come quello di Arnaldo Mussolini o della rivista Antieuropa di Asvero Gravelli, che Cantimori ricorda ripetutamente (PSC, 66, 94-95): nel suo Rapporto per l'anno IX del 27 ottobre 1930 Mussolini era esplicito in tal senso, affermando che il fascismo «in quanto idea, dottrina, realizzazione è universale; italiano nei suoi particolari istituti» e che si poteva prevedere «una Europa fascista, una Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo. Il fascismo oggi corrisponde ad esigenze di carattere universale». [94] E' proprio dall'«acuto» commento al discorso di Mussolini, apparso su Critica fascista, che Cantimori prende le mosse per il primo dei tre importanti articoli di Vita nova, comparsi fra i primi del 1931 e gli inizi del 1932, in cui cerca di dare un contenuto all''universalismo' fascista proclamato da Mussolini, in contrapposizione a ogni interpretazione in chiave cattolico-reazionaria che ne possa esser compiuta, individuandolo nello stato corporativo: [95] in essi, quindi, la polemica post-concordataria e la tematica corporativa si intrecciano strettamente.
40. Si trattava, innanzitutto, di definire la posizione del fascismo rispetto ai vari movimenti di destra che in Europa dichiaravano di volersi ispirare all'esperienza italiana. Cantimori attacca ogni interpretazione 'reazionaria' del fascismo e la sua assimilazione a forme di sciovinismo, anti-modernismo, medievalismo, operata, con un parallelismo a lui sospetto, sia dalla propaganda antifascista sia da molti ambienti conservatori (PSC, 81, 85, 97-98), e quindi opera una netta distinzione fra il fascismo e quei vari movimenti: «il Fascismo è azione e non reazione, e [...] la sua universalità non ha avuto nulla a che fare con Primo de Rivera, né avrà nulla a che fare con movimenti simili» (PSC, 86). Analogamente esclude ogni legame necessario fra «i nazionalismi sciovinistici, di origine razzistica e di prassi demagogica fuori d'Italia, con le loro idee reazionarie, ed il Fascismo, con le sue finalità rivoluzionarie sul serio, con il suo stato corporativo, con la sua opera per eliminare ogni avanzo del passato, dal borbonismo al duetto clericale-anticlericale» (PSC, 85). Insistente è così la polemica contro lo chauvinisme dell'Action française o dei Camelots du roi, ma anche contro il Deutschtum o Germanentum, contro il pangermanesimo e il militarismo delle destre tradizionali tedesche (PSC, 69, 84, 121), da cui cerca sempre di distinguere i movimenti giovanili a cui è stato vicino (PSC, 64).
Analogamente Cantimori insiste sulla necessità di discernere - all'interno dei gruppi e delle tendenze culturali che sono confluite nel fascismo - quelli genuinamente 'rivoluzionari' dagli eredi del nazionalismo italiano, a cui certo il fascismo deve molto, ma nei quali non può identificarsi tout court. Ricorderà, molti anni dopo, di aver appreso «a far distinzione fra i 'nazionalisti' [...] e i 'fascisti'» nelle «discussioni, a volte pacate, a volte furiose, con gli amici cagliaritani» (CS, 139), e in effetti è dalla fine del 1929 che i cenni polemici in tal senso si fanno più frequenti («I fascisti [...] non sono i nazionalisti, ma hanno una dottrina e un mondo proprio di ideali»: PSC, 70): ma abbiamo visto che la critica a certi «residuati» ideologici era già presente nei primi articoli su Vita nova del 1927-28 ed è noto che la consapevolezza della diversità politica e culturale fra 'fascismo' e 'nazionalismo' era molto viva negli ambienti a cui il giovane si sentiva più vicino. [96] Si tratta, in effetti, di uno dei punti centrali della sua concezione politica di quegli anni: le formule ideologiche del proto-nazionalismo sopravvivono in quel fascismo moderato, tradizionale, 'nazionale', 'concordatario', che Cantimori sente lontano dal proprio. Per quello, il fascismo è il baluardo della reazione e dell'ordine, incarna il principio tradizionale d'autorità contro i vari sovversivismi, sul piano europeo è l'antagonista del bolscevismo; per Cantimori, e per i gruppi e le riviste fasciste a cui si sente vicino, esso è l'erede del mazzinianesimo rivoluzionario, è portatore d'un ordine nuovo, concorrente, ma non opposto a quello instauratosi nella Russia comunista.
41. Sono talvolta polemiche aperte, più spesso significative messe a punto o prese di distanza. Nel 1933 viene pubblicato un volume antologico dei giudizi di personalità internazionali e di importanti giornali esteri sul fascismo: è prefato da Eugenio Coselschi, collaboratore di D'Annunzio a Fiume, sostenitore dei Patti lateranensi con un discorso parlamentare fra i più 'confessionali', che allora veniva messo a capo dei neonati Comitati d'azione per l'universalità di Roma (CAUR):
E' una scelta di giudizii raccolti con un criterio pedestremente apologetico, senza tener conto né della importanza degli scrittori, né della serietà dei giornali. La diffusione europea e mondiale del Fascismo è affidata al concetto dello Stato etico corporativo, non a questo vago misticismo dietro il quale sembra si celi solo vuoto intellettuale, né a laudatori stranieri. La devozione e la fede degli Italiani non han bisogno della approvazione o del conforto dei giornali reazionari europei, o dei 'brillanti polemisti' balcanici. [97]
Recensisce nell'ottobre 1933 un libretto del marchese Gino Incontri, [98] esponente di rilievo della possidenza toscana, deputato dal 1909 al 1913, nazionalista (autore d'un libretto del 1925 su Il contadino toscano, documento importante della mentalità proprietaria della sua classe sociale) e commenta: «Documenti di vita italiana passata, che non spiace affatto trovar qui raccolti: ma che piccola vita! Certo c'era molto di più in quei socialisti che il Marchese Incontri mostra di odiare, e fra i quali c'eran pure uomini come Mussolini» (PSC, 569). L'anno dopo analizza un libro di Arrigo Solmi, sottosegretario del ministero dell'Educazione Nazionale, anche lui di provenienza nazionalistica: ironizza sul suo entusiasmo filo-nazista (nella breve prefazione «si dànno come realizzati quelli che per ora sono soltanto i programmi unitario e corporativo della Germania hitleriana; e dove è per lo meno un po' troppo entusiastico dire che in sei mesi la Germania ha fatto un cammino che avrebbe richiesto decenni, come se una caratteristica del Fascismo non fosse quella di evitare le improvvisazioni ed i colpi di testa. L'illustre Autore deve avere scritto sotto la prima impressione delle vittorie hitleriane»), soprattutto critica il carattere «unilateralmente politico» del fascismo di Solmi, «onde vorrei sentire quel che ne diranno gli studiosi di diritto corporativo e gli organizzatori sindacali»: sembra quasi che per lui l'ordinamento sindacale fascista sia un espediente, mettendo in ombra «tutto un importantissimo aspetto delle dottrine e della prassi fascista» (PSC, 571-572). Critica storica e riserve politiche sono alla base della recensione del 1935 a una raccolta di saggi dell'ex ministro Francesco Ercole, in cui la storiografia è ridotta a banalità consolatoria per un pubblico di 'benpensanti': si discorre di storia risorgimentale, ma si tace significativamente di «tutto l'illuminismo italiano e [di] tutta la ricchezza del pensiero mazziniano» (PSC, 592-595). Di fronte al fascismo 'per gente a modo', per cui si giunge a chiamare genericamente 'fascista' «tutto ciò che ci sembra approvabile», Cantimori sembra preferire frange anticonformiste, anche anti-moderne, perché trova in esse maggior coraggio e maggiore precisione di idee: rispetto a queste genericità «è meglio la collezione dell'Italiano, del Selvaggio, o quella di Quadrivio» (PSC, 590). Fa riscontro l'accoglienza benevola riservata nel '34 a un libro di Sergio Panunzio, che è giunto al fascismo dal sindacalismo rivoluzionario: «L'opera è piena di senso politico rivoluzionario, e di volontà di attuazione, di ricordi delle discussioni sindacaliste anteguerra, di esami svariati di politica interna ed estera, e così quanto mai atta a mostrarci la tradizione rivoluzionaria e lo sforzo di mantenere ampio respiro da parte di questi costruttori e diffusori di dottrine sindacali corporative» (PSC, 570).
42. Il Concordato del 1929 era stato lo sbocco di una lunga trattativa voluta e condotta soprattutto dagli ambienti del nazionalismo (Rocco) che avevano aderito al fascismo: la sua stipulazione segnò una vittoria - all'interno del regime - dell'ideologia nazionalistica più sensibile alla prospettiva di un connubio col cattolicesimo tradizionale, in generale una riscossa della cultura cattolica e del suo peso nelle istituzioni e nella società. Gli uni e l'altra ritennero giunta l'ora d'un processo (e d'una condanna) a tutta la storia dell'Italia unita e soprattutto alla sua matrice liberale, il momento - come scrisse Francesco Coppola - di «liberarsi dal Risorgimento»:
Ma è qualcosa di più dello stesso Concordato che impensierisce - scriveva a caldo un vecchio giornalista che pur aveva aderito al fascismo (scegliamo la sua testimonianza, fra le tante che si potrebbero presentare) - ed è questa nuova atmosfera medievalizzante, che si è voluto creare, attorno alla vita nazionale, nella quale minaccia di umiliarsi e disperdersi il senso della libertà morale ed intellettuale che i pensatori del Risorgimento avevano a grande fatica ridato agli italiani. [...] Dopo la Conciliazione, una improvvisata letteratura d'occasione tentò di riprodurre sbadatamente attorno ai Patti lateranensi la stessa atmosfera romantico sentimentale che, spontaneamente, creò il Genio del Cristianesimo in Francia, dopo la pubblicazione del concordato napoleonico. [...] Come i Patti, questo movimento neocattolico procedeva dalla dottrina nazionalista, che ai tre capisaldi della dottrina liberale cavourriana: separazione dei poteri; trasformazione della Chiesa coi principi della libertà; legislazione non concordataria - aveva sostituito i contrarii: unificazione; trasformazione dello Stato coi principii della Chiesa; legislazione concordataria. Quindi rivalutazione delle dottrine della Chiesa e svalutazione di quelle del Risorgimento. [99]
La polemica di Cantimori contro queste posizioni si sviluppa soprattutto dopo il conflitto del 1931 per l'Azione cattolica e l'enciclica Non abbiamo bisogno ed è polemica durissima, tutta tesa a ribadire il nesso di continuità-sviluppo fra Risorgimento e fascismo (anche questa era una posizione tipicamente gentiliana, ma che, allora, assumeva un significato nuovo):
[...] far passare il Fascismo come negazione del Risorgimento [...] e come restaurazione dell''ancien régime', è un pericolosissimo e vano equivoco. [...] Il Fascismo va oltre il Risorgimento, ma nella sua stessa via, seguendo fondamentalmente gli stessi ideali, e non contro esso. [...] Molti sono tentati a identificare la durezza e l'intransigenza della Rivoluzione con i principii reazionarii: è una identificazione puramente esteriore, che può compromettere grandemente l'efficacia della nostra propaganda e della educazione nazionale fascista. Voler creare una tale artificiosa tradizione alla intransigenza e giusto rigore del Fascismo significherebbe ammantarlo di ammuffito vecchiume, togliergli ogni slancio giovanile e veramente rivoluzionario. [...] Il Duce del Fascismo e Capo del Governo italiano [...] non è un generale reazionario spagnolo, dittatore militare, ma il capo di una grande Rivoluzione, che va compiendo la Rivoluzione nazionale italiana cominciata col Risorgimento, dalla monarchia dei Savoia, italiana e seguita dal popolo italiano, contro la Santa Alleanza e contro la Restaurazione. [...] Il Risorgimento ebbe nei suoi uomini migliori coscienza della sua portata europea, si riallacciò al movimento rivoluzionario dei comuni, culminato nella cultura del Rinascimento, iniziatrice della moderna civiltà europea: il Fascismo è il proseguimento ed il rinnovamento di questa azione, ed è per questo rivoluzionario (PSC, 113-117).
43. I bersagli di Cantimori sono indicati indirettamente, ma non è difficile riconoscerli: «si esaltano i Borboni» e l'allusione è alla storiografia filo-borbonica, spesso nata nell'ambiente del vecchio Giustino Fortunato, di cui è esponente un Giuseppe Paladino, ma a cui non è del tutto estraneo neanche il giovane Walter Maturi; [100] «si ripubblica Solaro della Margherita» e difatti l'editore torinese Bocca aveva ristampato nel 1930 il Memorandum storico politico e in quel 1931 la monumentale biografia in tre volumi di Lovera di Castiglione e del gesuita padre Rinieri; [101] «i papiniani ripetono De Maistre», con allusione alla ristampa del 1927, a cura di T. Casini, di Il papa, presso la Libreria editrice fiorentina vicina agli ambienti di Frontespizio; [102] «come un ribelle [viene] condannato a morte Mazzini» nell'opera del legalitario Alessandro Luzio e in quella più recente di Eugenio Passamonti, [103] che vedono nelle repressioni del 1833 un atto di vigorosa difesa dello Stato, e Cantimori parla di «legalismo» e «lealismo», «autoritarismo astratto [...] che conosce il suddito ma non il cittadino», «affermazione astratta dello stato» (PSC, 114).
Quindi distacco critico dalla componente vetero-nazionalistica confluita nel fascismo; polemica contro ogni negazione di idee e uomini del Risorgimento in chiave cattolica, borbonica o autonomistica; critica dei vari auspici - per ripetere il titolo d'un'opera di Berdjaev del '28 - di «un nouveau moyen-age» in Europa: questi i bersagli dei saggi cantimoriani del 1931-32. Il fascismo è la sintesi di tutti gli elementi vitali del mondo moderno (PSC, 85): la sua universalità non sta nell'esportazione di temi anti-moderni o reazionari, ma nel modello di stato a cui ha dato vita, nello stato corporativo, e nella concezione della vita economica che ne è a fondamento:
Il Fascismo - scrive in «Fascismo, rivoluzione e non reazione europea», comparso su Vita nova alla fine del 1931 - deve rappresentare la sintesi dialettica dell'esigenze rappresentate dall'estremo rivoluzionarismo come dall'estremo reazionarismo: questa sintesi il Fascismo l'ha trovata, e di portata europea reale, e non solo propagandistica, nel sistema corporativo, per il problema sociale. Il problema diplomatico internazionale si va avviando verso le soluzioni indicate dal Duce, già da molto tempo. Non dobbiamo svalutare queste nostre grandi affermazioni col rinchiudere la rivoluzione economico-sociale ed i successi diplomatici del nostro Governo e del nostro Regime in una veste reazionaria e pseudoconservativa, variegata di ricorsi storici sgangherati, di miti razzisti, gnostico-eretici, pseudo-storici alla Gobineau, alla De Lagarde, alla Rosengarten, o alla Guglielmo II o alla Federico Schlegel: altrimenti sarà sempre prestato un fianco alle armi dell'ipocrisia borghese antirivoluzionaria [cioè antifascista, N.d.A.]. Non dobbiamo semplicemente irridere e negare la vita politica delle nazioni europee, anche se differente da quella che la Rivoluzione fascista ci ha dato, a noi, in Italia, per particolari ragioni storiche e politiche: dobbiamo cogliere le loro esigenze e saperle soddisfare come altri non sa, e come abbiamo cominciato per alcuni problemi, dobbiamo ampliare il nostro respiro, sentire europeamente perché fascisticamente, non credere di poter negare il patrimonio di altri popoli per idee che non sono mai state degli italiani vivi (PSC, 117-118).
44. Era importante - su queste basi - stabilire il rapporto con l'altra grande rivoluzione europea di quel decennio, quella bolscevica. L'attenzione di Cantimori per la rivoluzione russa fu assai precoce: ricorderà nel 1962 di averla mutuata proprio dai conservatori tedeschi (CS, 138), forse ancora dal Rohan, che nel '27 pubblicava sulla sua rivista Bolschewismus und Europa, [104] «un interessante e simpatetico resoconto (uno dei primi del tempo) di viaggio nell'Unione delle Repubbliche Socialiste» (Storici, 355), forse da quei gruppi della Germania giovane, in cui non mancavano interesse e simpatia verso alcuni aspetti del potere bolscevico (il contenuto 'idealistico' della rivoluzione, il ruolo dei capi, il loro realismo, il loro 'militarismo', il loro 'decisionismo', il carattere organico e gerarchico della società post-rivoluzionaria, l'Armata rossa come esercito nazionale, il nuovo ruolo di grande potenza che la Russia comunista andava assumendo). [105] Di questi gruppi Cantimori condivideva, già sul finire degli anni '20, il diffuso anticapitalismo come ostilità alla 'libertà economica', antimaterialismo, necessità di affermare i valori anche nel mondo meccanicistico dell'economia, rifiuto dell'«internazionalismo dell'oro e [di] quello verde della massoneria» (PSC, 29), ostilità verso la penetrazione del capitale americano e l'«americanismo» (PSC, 54, 59): il fascismo si poneva - a suo modo di vedere - come «paladino [...] di una nuova Rivoluzione, che ponga fine al plutocratismo materialistico moderno», lo stato corporativo era intimamente etico in quanto assimila e dirige ai suoi scopi morali la vita economica. Queste posizioni non si convertono - lo abbiamo visto - in un atteggiamento antimoderno, in una negazione pura e semplice del mondo meccanico, della tecnica, ma semmai nella necessità di farla propria e di assoggettarla ai propri scopi politici: «Occorre impadronirsene, farla serva della nostra civiltà, tutta questa forza ancora incomposta, o trarne gli elementi per una nuova cultura, per unirla alla nostra tradizione». Il corporativismo fascista è uno «sforzo importantissimo» in tal senso, perchè assimila «tutta la importanza della tecnica, alla quale le masse si volgono con desiderio ed ammirazione, ad un organismo superiore ed animato da una intensa vita morale, come è lo stato italiano» (PSC, 76).
Con queste convinzioni Cantimori cominciò a guardare con curiosità e interesse alla Russia sovietica (era la Russia del primo piano quinquennale): probabilmente una recensione di Croce gli segnalava il volume di René Fülöp-Miller del 1926 su Geist und Gesicht des Bolschewismus, poi tradotto nel 1931 da Malaparte, ma in modo incompleto e riassuntivo (CS, 138; Storici, 355); lesse con attenzione le corrispondenze dalla Russia che lo stesso Malaparte, direttore della Stampa, inviò al suo giornale nell'estate del 1929, condividendone la critica ad ogni visione di una Russia separata, o contrapposta all'Occidente europeo; anche l'eterodossa Technique du coup d'État dello scrittore toscano pubblicata a Parigi nel 1931 attirò la sua attenzione. Recensì libri di viaggiatori o diplomatici come Paolo Vita-Finzi (Peregrinus), di tecnici in missione economica come Gaetano Ciocca, di grandi studiosi europei come la Geschichte des Bolschewismus di Arthur Rosenberg, dei primi 'apostati' come Max Eastman, vecchio amico di Lenin, poi biografo e traduttore di Trockij (e futuro divulgatore di Hayek); nel '35 traduce per l'Archivio di studi corporativi di Bottai un saggio di Leontieff sul bilancio annuale sovietico, due anni dopo affida all'Enciclopedia italiana un'informata 'voce' sull'ordinamento scolastico dell'URSS; [106] su altri interventi torneremo poi. Ciliberto [107] e altri studiosi, prima e dopo di lui, hanno minutamente analizzato tutti questi articoli: non giova rifarlo qui, ma è importante coglierne il loro tono complessivo e inserirli nel coevo dibattito italiano.
45. In linea generale può dirsi che Cantimori è in una posizione sostanzialmente difensiva dell'esperienza sovietica: lamenta i difetti della cultura italiana «nei riguardi di tutto ciò che con notevole astrattezza vien chiamato 'marxismo' [...] o 'materialismo', 'sovversivismo', 'atomismo sociale', 'statalismo soffocatore delle energie individuali' e via dicendo» e ancora una volta rifiuta la critica 'reazionaria' del comunismo, di matrice cattolica, ma che è adottata anche in ambienti nazionalfascisti: «Si tende soprattutto, e non solo dai polemisti di tipo inferiore, ad ampliare, parafrasare, confortandola dei più vari argomenti, la vecchia affermazione del Sillabo, che univa in una sola condanna tutti i movimenti della mente europea moderna, dalla Riforma (ed implicite il Rinascimento) alla ipotetica ultima propaggine di essa, o 'Comunismo'». [108] Soprattutto, fin da ora, è estraneo a ogni critica di tipo 'liberale' al regime sovietico, sostanzialmente identificata in un atteggiamento scarsamente realistico, da 'anima bella': pensando, forse, anche all'esperienza del fascismo italiano, ammonisce che bisogna sempre rammentarsi «delle contraddizioni nelle quali s'avviluppa la realizzazione di ogni teoria e di ogni dottrina, contraddizioni che sono di ogni realizzazione storica di ideali, e sono tanto più grandi quanto più grande è la realizzazione e più vasti gli ideali». [109] Così al Vita-Finzi, oggi diremmo, 'anti-costruttivista', che, nell'ultima pagina del suo opuscolo, riconosceva nella rivoluzione sovietica il «più grande tentativo di deviazione degli istinti, di razionalizzazione della storia, il più grande atto di violenza che l'umanità sinora ricordi», Cantimori ribatteva che «all'individuo sofferente e sensibile, a chi coltiva la propria vita, a chi vuol seguire i propri istinti, ogni razionalizzazione deve apparire violenza; e che cos'è l'attività politica se non lo sforzo di organizzare, rendere razionale, rendere etico il contrastare e il trascinarsi delle passioni, dei sentimenti e dei bisogni personali? La razionalizzazione, quando sia intesa seriamente e non superficialmente, è liberazione, non è oppressione»; [110] posizione analoga, espressa in pubblico in nome del «pessimismo mussoliniano sulla natura dell'uomo», verrà ribadita anni dopo, nel 1938, quando stava per aderire al comunismo: «tutta la storia consiste nello sforzo di pochi capi per assoggettare gli uomini a certe dottrine o a certe idee, contro la loro natura, per costringere gli uomini a vincere la loro natura pigra e peccaminosa» (PSC, 713): non meravigli il lessico, si polemizza con un padre gesuita! La smithiana 'mano invisibile' gli apparve, allora e poi, una chimera ideologica: il presunto dominio che le passioni esercitano sulla razionalità individuale, e quindi sul suo agire, rende impossibile - a suo giudizio, ma si tratta di argomentazioni 'stataliste', per molti versi, tipiche - lo spontaneo formarsi di un ordine, anzi dà vita a un'irrazionalità senza freno: da qui l'esigenza di uno Stato supremo ordinatore della vita sociale. Anche nell'intervento che più sembra vicino a certe critiche anti-autoritarie, la recensione a Eastman, si denunzia, sì, la «tirannide bolscevica sulle menti», ma si ricorda che la burocratizzazione della cultura «è uno degli aspetti più immani della Russia e della Germania, pare, d'oggi», di fronte al quale son poca cosa le deplorazioni di Eastman : «Altro ci vuole, per uscire dalla polemica, sia pur giustificata, contro i sistemi di Stalin; [...] per combattere una Weltanschauung non basta il buon senso e la coscienza indipendente di puritano dell'arte, ma ci vuole un'altra Weltanschauung, o [...] altrimenti bisogna ridursi al silenzio [...]». [111]
46. Queste posizioni - giova ripeterlo - erano di un fascista, che si confrontava in positivo con l'esperienza sovietica, partendo dalla soluzione che, dei medesimi problemi, veniva data (o riteneva che venisse data) dallo stato corporativo italiano. Proprio per questo, Cantimori sosteneva fermamente che l'Italia fascista dovesse rifiutare il ruolo di baluardo dell'anticomunismo internazionale, che le destre reazionarie europee volevano affidarle, anzi riteneva esemplare la politica estera fascista, proprio per aver rifiutato, dalla ripresa delle relazioni diplomatiche del 1924 al patto di non-aggressione italo-sovietico del 2 settembre 1933, alla visita ufficiale di Litvinov a Roma nel dicembre successivo, ogni pregiudiziale ideologica nei rapporti con l'URSS: «E si giuoca con il babau della minaccia russa, - scriveva nel 1934, commentando la traduzione d'un libro tedesco - come se la politica italiana al proposito, iniziata molto tempo prima degli ultimi rinnovamenti e perfezionamenti di trattati, che rendono addirittura inopportuno questo libro, non avesse mostrato la via regia da tenersi a questo riguardo». [112] Per Cantimori i rapporti fra il fascismo italiano e il comunismo russo non sono di opposizione, ma di concorrenza: essi - scrive nel 1931 - sono «due movimenti nuovi, che si contendono in vario modo la conquista di un mondo vecchio» (PSC, 86), non un movimento vecchio (il fascismo) in antitesi a uno nuovo (il comunismo).
Queste non furono allora posizioni isolate: «Nel primo decennio dalla presa del potere, e particolarmente negli anni 1928-1934, il fascismo cercò effettivamente di fissare la propria immagine nello specchio di quella sovietica con l'intento di rappresentarsi e di comprendere quella esperienza. Per alcune correnti interne al fascismo, il sistema sovietico costituì un termine continuo di riferimento e di confronto che non si risolveva in una sorta di 'affabulazione ideologica'». [113] Alla fine del 1931 lo stesso Cantimori dichiarava che «una certa ammirazione e stima che alcuni fra i più intelligenti e vivaci scrittori del Fascismo dimostrano per i modi e lo svolgimento della Rivoluzione russa, derivano proprio da una noia estetica per la pacchianeria di certi atteggiamenti nostrani, e dalla ammirazione per la sicurezza con la quale i comunisti russi si proclamano e si mostrano rivoluzionariamente intransigenti, senza richiamarsi a principii più o meno immortali nel passato» (PSC, 114-115). Alludeva probabilmente all'appassionata discussione, che si era svolta su Critica fascista dal 15 settembre, sui rapporti fra fascismo e bolscevismo, in cui - se praticamente tutti avevano ammesso la dimensione collettivistica dell'economia nuova che doveva emergere dalla crisi del liberalismo - non pochi autori avevano anche individuato una convergenza fra i due sistemi; [114] ma anche alle posizioni di Camillo Pellizzi, «il geniale sostenitore della 'concezione aristocratica del fascismo'», [115] un intellettuale a cui guarda con insistenza in questi anni, anche per quella nota 'tecnocratica' (il fascismo come 'aristocrazia delle competenze') che sembra talora affascinarlo, e soprattutto a quelle di Ugo Spirito, che con accenti simili a quelli di Cantimori avrebbe, di lì a pochi mesi, concluso la relazione scandaleuse al convegno di Ferrara.[116]
47. Sulla necessità di inserire - più di quanto non si sia fatto - gli interventi 'tedeschi' di Cantimori nel corrispondente contesto dell'opinione pubblica italiana (e delle varie 'anime' del fascismo), e quindi di dar loro una scansione che tenga conto del mutare della politica del governo italiano e della percezione della Germania in Italia negli anni '20 e '30, ha opportunamente insistito Jens Petersen (Petersen, 820), lamentando nel contempo che manchino ancora ricerche complessive e approfondimenti su tale percezione. Abbiamo sopra cercato di indicare la circolarità esistente fra gli interessi culturali del giovane normalista, la sua concezione del fascismo e l'attenzione viva per i gruppi e i temi della konservative Revolution tedesca, e il ruolo di mediazione che cercò di svolgere, anche sul piano pratico. Il Cantimori di questi anni non poteva che provare ostilità per il sistema politico di Weimar e assistere al suo tramonto senza rimpianti e nostalgie (Collotti, 816; Petersen, 821): ne derivava un'informazione approfondita di certi ambienti politico-culturali (quelli dell'opposizione anti-weimariana di estrema destra), ma una percezione molto parziale dell'intera vita tedesca, anche di quella culturale: «di quei contenuti che hanno creato il mito della cultura weimariana come prima cultura autenticamente moderna, Cantimori ha percepito pochissimo» (Petersen, 821).
Gli interventi sulla Germania giovane sono del 1927-28. Il carattere centrale assunto, negli anni successivi, dalla tematica dello 'Stato etico corporativo' comporta un superamento dei (pochi) elementi di romanticismo politicizzante presenti - lo abbiamo visto - nel giovane studioso alla fine degli anni '20:
il problema dello Stato è un problema razionale per la sua stessa natura, - scriverà nel 1937, implicitamente criticando le sue posizioni di nove anni prima - poiché lo Stato è una creazione della mente umana, non un fatto meramente naturale come la razza, o un dato storico-naturale come la nazione [...] .[coloro che] quando parlano dello Stato intendono nazione, immettendo così nel concetto razionale, giuridico-politico, di Stato, tutta la passionalità naturale e tutto il vigore sentimentale del concetto di nazione, [...] dimenticano che nella vita statale sentimento e passione debbono cedere alla mente ordinatrice e calcolatrice - affinché proprio la vita della nazione possa affermarsi (PSC, 350-351).
48. Negli anni successivi, fino al 1933, è così ricorrente la polemica contro il romanticismo politico, il fondo «reazionario» dello statalismo romantico, che analizza (e critica) nell'articolo su Friedrich Schlegel nel '29 (PSC, 61-64) e poi nella tesi del '31 sulla Agnes Bernauer di Hebbel: al solito tale critica è il pendant dell'esaltazione dello stato corporativo fascista come entità realmente rivoluzionaria e inassimilabile a quello cattolico-romantico; nel '30 discute anche, per la prima volta, un testo di Carl Schmitt (PSC, 71-76). Mancano, tuttavia, riferimenti all'evoluzione politica tedesca del periodo che va dalla morte di Stresemann, al grande successo nazionalsocialista (e comunista) nelle elezioni politiche del 14 settembre 1930, all'epoca di Brüning, alle drammatiche vicende del 1932; non appaiono soprattutto riferimenti a Hitler e alla NSDAP, assenti - lo abbiamo già sottolineato - anche negli articoli del '27-'28, ma che la vittoria del settembre del 1930 aveva imposti all'attenzione dell'opinione pubblica europea (e italiana). Possiamo quindi solo avanzare alcune ipotesi sugli atteggiamenti del Cantimori 1929-1932, partendo à rebours proprio dal primo intervento più specificamente 'politico' che tornò a dedicare - nelle settimane della Machtergreifung hitleriana - alla situazione tedesca, la recensione (positiva) comparsa sul Leonardo del marzo 1933 alla anti-nazista Geschichte des Nationalsozialismus di Konrad Heiden, di cui propose anche la traduzione italiana a Federico Gentile (Mangoni, XXXIV nota 85): allora era professore al liceo Foscolo di Pavia, ma aveva già trascorso un lungo periodo all'estero, a Basilea, dal dicembre del 1931 al luglio successivo.
Di questa recensione mi sembrano notevoli tre aspetti: la definizione del nazismo come «confuso e torbido movimento, erede spirituale del pangermanesimo razzistico antebellico, e dello statalismo romantico»; la messa in guardia da «facili parallelismi» fra il fascismo e il nascente regime nazionalsocialista, già nella figura dei rispettivi capi, ma anche nelle prospettive che, per quanto riguarda il nazismo, a Cantimori sembrano assai incerte: allo Heiden che esprime i suoi dubbi sulla capacità del nazionalsocialismo di fondare subito un regime, cioè «una potenza statale, portata dalle forze determinanti della Nazione», com'è riuscito al fascismo, Cantimori risponde che egli «deve avere una visione non molto chiara del Fascismo, altrimenti i suoi dubbî sarebbero certezza» e ripropone lo stato etico corporativo come soluzione, senza la comprensione del quale «ci si prepareranno probabilmente [anche in Germania] nuove delusioni»; infine l'interesse e l'apprezzamento espressi per le posizioni di Gregor e Otto Strasser, che meritano di essere valutate anche «dottrinalmente», mentre invece lo Heiden, fedele in questo a una storiografia troppo «pragmatica», che riduce le idee a meri strumenti di lotta politica, considera gli Strasser solo «per la loro azione politica e la loro volontà di potenza all'interno del partito» (PSC, 142-145).
Per i primi due aspetti Cantimori si inserisce appieno nella diffidenza, talora frutto di incertezza di giudizio, talora di vera e propria ostilità, che molti gruppi e ambienti fascisti mostrarono per l'avanzata hitleriana dopo le elezioni del settembre 1930: alla soddisfazione per la crisi dell'establishment weimariano e delle forze politiche intermedie si unì un distacco preoccupato dagli atteggiamenti di revanchismo, pangermanesimo, antisemitismo, estremismo che affioravano nel partito di Hitler (l'unico ad esaltarli tout court fu Preziosi con la sua rivista, La vita italiana, anche per il suo pervicace anti-ebraismo). Si posero gli elementi per una rivalità ideologica fra i due movimenti, che si sviluppò soprattutto - in sintonia con le tensioni politiche che intervennero fra i due stati - fra il 1933 e il '35 e da parte fascista si cercò di ribadire la propria 'primogenitura' e il proprio respiro 'romano' e 'universale' di contro al razzismo etnicistico nazista. [117] Il nesso, poi, che Cantimori pone fra il nazionalsocialismo e lo «statalismo romantico» rende plausibile l'ipotesi che anche al primo, o almeno ad alcune sue espressioni ideologiche e correnti politiche, pensasse il giovane storico nelle sue pagine polemiche del 1929-1931, che abbiamo già ricordate, e quando marcava la distanza fra il fascismo e «i nazionalismi sciovinistici, di origine razzistica e di prassi demagogica fuori d'Italia» (PSC, 85). Tuttavia, negli anni in cui molte correnti della Germania giovane si andavano inserendo nella NSDAP, placandosi nell'ortodossia nazionalsocialista, Cantimori continua a guardare a quegli ambienti di anticapitalismo socialnazionale, di Nationalbolschewismus, di cui conosceva bene la frastagliata geografia ideologica. Qui non fa il nome di Ernst Niekisch e della sua rivista Wiederstand, che ricorrono invece spesso nei suoi scritti di questi anni e che ricorderà con rispetto ancora nel 1960 (Storici, 375-377), forse anche per la sua opposizione al nazismo e il suo ralliement alla DDR; ma dei fratelli Strasser, benché Otto fosse ormai fuori del partito e Gregor ridotto a semplice militante.
49. In questa recensione si trovano in nuce gli atteggiamenti fondamentali, sul piano del giudizio politico, di Cantimori rispetto al nazionalsocialismo, anche se l'approfondimento culturale e le letture dei due anni successivi, la percezione diretta degli avvenimenti (non si dimentichi che dal 1° agosto 1933 al 15 settembre 1934 compì il viaggio di studio in Europa centrale, in Inghilterra e in Irlanda, che tanta importanza ebbe nella sua evoluzione intellettuale e politica), le prime crepe del suo fascismo arricchirono grandemente la sua prospettiva. Le Note sul nazionalsocialismo furono scritte a Zurigo nell'aprile del 1934, quando - dopo l'uscita della Germania dalla Società delle nazioni e la conseguente vanificazione del Patto a quattro, fortemente voluto da Mussolini; a ridosso della legislazione tedesca sul lavoro del 24 gennaio 1934 esaltata dalla stampa tedesca come un passo che andava ben al di là del corporativismo e prontamente criticata da quella italiana come inorganica e autoritaria (Cantimori ne dà un giudizio da cui trapelano forti riserve, pur citando la reazione di Ugo Spirito su Critica fascista, che invece, accanto ai limiti da molti messi in luce e da lui ribaditi, vi coglieva aspetti interessanti, consoni alla «corporazione aziendale» su cui stava allora riflettendo); all'indomani del riaccendersi della questione austriaca che divideva Italia e Germania (il 12 febbraio si era avuto l'annientamento della socialdemocrazia austriaca, nella repressione della Comune di Vienna) - le controversie ideologiche e i contrasti politici fra fascismo e nazismo erano assai vivi. [118] Lo scritto si apre (e si chiude) con la domanda se, all'interno della rivoluzione nazionalsocialista, finirà per prevalere il nazionalismo imperialistico e revanscistico e, quindi, se i progetti interni di rivoluzione sociale siano meramente strumentali, oppure siano l'elemento realmente caratterizzante: questa tensione fra gli elementi antiborghesi e di 'socialismo tedesco' del fronte nazionalistico (che Cantimori probabilmente sopravvaluta) e le correnti reazionarie, eredi del militarismo prussiano e del romanticismo politico, fra Jünger, Niekisch, gli Strasser da una parte, e il conservatorismo di Carl Schmitt dall'altra, è il fulcro di questo saggio (Bongiovanni, Rivoluzione, 805-806; Collotti, 816). Il problema si scioglie dopo il 30 giugno e Cantimori lo registra in una nota, posteriore al novembre di quell'anno, aggiunta in conclusione al saggio: quegli avvenimenti hanno segnato la «vittoria dell'elemento militare (Reichswehr) e 'reazionario' su quello rivoluzionario, accompagnato da abili colpi contro portavoce della 'Reazione' e dal saldo di vecchi conti, immutati restando molti vecchi motivi ideologici e propagandistici, come la fede nel 'Führer' Hitler» (PSC, 191).
50. Se poi seguiamo le segnalazioni e recensioni militanti del secondo semestre del '34 e del primo del '35, il distacco critico del saggio 'scientifico' si trasforma in evidente ostilità politica: abbiamo già accennato all'ironia verso Solmi e la sua sopravvalutazione delle realizzazioni del primo periodo del regime nazionalsocialista (cfr. supra, III, 41); recensendo un volume di Guido Bortolotto, sottolineava «l'importanza del mito razzista per il Nazionalsocialismo, che in molte più cose che non appaia è erede del pangermanesimo [il nesso col pangermanesimo evidenziava un tratto 'reazionario' del nazismo, N.d.A.] attraverso la mediazione del poeta Dietrich Eckart, la cui influenza su Hitler è nota [...] Avremmo desiderato maggiore decisione ed informazione dell'autore sulla questione ebraica, dove vengono accettate senza critica posizioni inaccettabili proprio dal punto di vista 'romano e italiano'» . [119] L'allarme cresce (e anche qui Cantimori è in sintonia con l'opinione pubblica italiana, con molti ambienti fascisti e con la politica governativa) dopo il 25 luglio 1934, l'assassinio di Dolfuss: «gli avvenimenti del 30 giugno e del 25 luglio scorsi [...] gli avvenimenti in Bulgaria [il colpo di stato monarchico-autoritario del 19 maggio 1934, ispirato da re Boris, N.d.A.], in Germania, in Austria [...] hanno mutato radicalmente lo scacchiere politico europeo», [120] scrive alla fine di quell'anno, e si avverte, qua e là, nei suoi scritti, legato all'affermarsi definitivo del potere hitleriano (il 2 agosto, con la morte di Hindenburg, Hitler era divenuto capo dello stato) e all'affacciarsi della Germania nazista in Europa, il senso dell'imminenza di nuove competizioni armate. [121]
L'affermazione del nazionalsocialismo in Germania poneva dunque al fascismo italiano problemi nuovi: è col pensiero rivolto ad essi che recensisce, sul Leonardo del luglio-agosto 1934, il volumetto di Ernesto Codignola, Il rinnovamento spirituale dei giovani, apparso nei mondadoriani «Panorami di vita fascista» - collana diretta da Arturo Marpicati, sotto gli auspici del PNF -, documento tipico di un fascismo 'liberale', in nome del quale l'autore difende l'autonomia della cultura contro l'inframmettenza e il controllo del potere politico e auspica un rapido ristabilimento della libertà di stampa. [122] A giudizio di Cantimori, esso è «uno dei migliori libri di propaganda, uno dei più adatti allo scopo, di quelli che abbiamo letto nella letteratura europea odierna». Scrive di averlo letto «assieme ai più disparati scritti di propaganda nazionalsocialista e razzista» e che «di fronte allo straripamento di mostruosità al quale si può assistere oggidì, in Europa» gli è parso un documento notevole «del maggior equilibrio e buon senso italiano [...] e della giovinezza spirituale dell'Autore, dell'entusiasmo della sua fede fascista»; ciò nonostante, esso presenta «gravi e serii problemi, sul piano del Fascismo», proprio di fronte alle questioni che la nuova vita tedesca pone, che per il recensore sono inerenti ai rapporti fra politica e cultura, fra la cultura e le nuove mitologie politiche e fra autorità e libertà. Cantimori distingue fra «i reazionari che scrivono e predicano nella nuova Germania» e gli «stolti antisemiti e..i razzisti fanatici»: fra i primi indica subito Carl Schmitt, non fa nomi per i secondi, ma se pensiamo a quanto scriveva il 4 maggio di quell'anno a Federico Gentile a proposito di Alfred Rosenberg e del suo Der Mythus des 20. Jahrhunderts («Il Rosenberg è un mattone pieno di stravaganze come quella che Cristo è figlio di un soldato romano e roba simile»: PSC, 785), i punti di riferimento possiamo facilmente immaginarli. Su entrambi, i fascisti italiani devono rivolgere la loro «attenzione» e la loro «critica», perché entrambi pongono loro dei problemi. I primi, i reazionari alla Schmitt, appaiono a Cantimori «spesso molto più conseguenti e decisi nei loro argomentarî che non il Codignola». Per esempio, Schmitt proclama nettamente la subordinazione dell'etica e dell'arte alla politica. E' un sofisma evidente, da cui tuttavia non si esce con un argomentare debole, indeciso, con un richiamo a una generica autonomia dell'arte o dell'etica. Questi sono atteggiamenti da anime belle, mentre a una Weltanschauung, scriverà spesso Cantimori in questi anni, si deve contrapporre un'altra Weltanschauung e, ancora una volta, contro ogni contaminazione ideologica, ripropone la teoria gentiliana dell'«affermazione della superiorità dell'etica alla politica, o, con termini più esatti, della riduzione della politica all'etica, per la quale giustamente ogni persona è chiamata a partecipare alla vita politica» (PSC, 194).
51. Ancora più complessa è la sfida dei nuovi miti politici. La pagina che Cantimori dedica loro è molto nota e spesso citata, come programmatica delle sue analisi di quegli anni:
chi combatte con armi razionali ed intellettuali, con le armi della cultura, contro tutto ciò che si presenta come estraneo alla cultura, è portato a considerare come non valevole (culturalmente, ed è giusto) e quindi come poco considerabile (politicamente, ed è falso) tutto ciò che è rozzo o ingenuo culturalmente: ed a trascurarlo di conseguenza. A volte, a leggere certa letteratura politica o pseudopolitica, ma non perciò meno diffusa, meno letta e meno assorbita dagli ignari, afferra violenta la tentazione: lasciamo di occuparci di questa gente, che non vale nulla [...]. Ma poi giriamo per le strade e vediamo questi scritti nelle librerie, nei chioschi delle stazioni, li vediamo letti dai giovani, li vediamo a volte discussi con serietà: ed allora pensiamo che qualcosa ci debba pur essere sotto quelle valanghe di parole e di insolenze, sotto quelle rievocazioni di costumi passati, sotto quelle esaltazioni pei misticismi a freddo. Qualcosa di non ben definito, né definibile, che sotto le apparenze rozze ed ingenue si fa strada sempre più, ed incalza: il filosofo forse lo ridurrebbe all'irrazionalità, il politico lo chiamerebbe reazione, in verità non si sa bene che cosa sia. Ma pericoloso è certo, per la sottigliezza con la quale sa sempre porre i suoi avversarî in istato d'accusa, come tiepidi, incerti, 'bestie intellettuali', di fronte alla sua teocratica sicurezza di fede, al suo entusiasmo riscaldato a bianco, proclamato sfacciatamente: rozzamente sì, ma non ingenuamente, e con una conseguenza di decisione, con una volontà permanente se pur non chiara, che non sono affatto da trascurarsi, né da sottovalutare.[...] Non basta aver mostrato la vanità dell'argomento dell'avversario, perché l'avversario non esista più. Specialmente quando questo avversario offre argomenti facili e lusingatori alla pigrizia delle masse ed ai timori ed ai rancori dei singoli (PSC, 195).
Cantimori invita, infine, Codignola ad argomentare meglio il problema del ripristino della libertà di stampa, [123] non con una semplice petizione di principio, ma entrando più nel concreto: «siamo ormai troppo abituati a leggere, e in sede teorica, e con grande apparato, su pei giornali, su per le riviste, in tanti libri, proprio tutto il contrario; siamo troppo imbevuti di scetticismo sulle 'libertà' e sull'uso che ne è stato fatto, per esempio e non per gettare fango sui vinti, nella Germania prehitleriana, per non desiderare di sentire qualcosa di più che una semplice, per quanto perentoria, affermazione al proposito» (PSC, 196). Non è ben chiaro il senso di questa osservazione: se sottintende quasi una sfida affinché Codignola espliciti ancora più nettamente le sue posizioni 'liberali', ingaggiando una battaglia politica, oppure un timore che un allentarsi della disciplina del regime possa indebolire la compagine nazionale e magari soggiacere a minacce esterne (a quali, lo indicherebbe il riferimento alla Germania di Weimar e alla misera fine delle sue 'libertà'). Come che sia, è tuttavia importante che di fronte al sorgere della potenza hitleriana, Cantimori invitasse l'intellettualità fascista a evitare contaminazioni ideologiche e a confermare le proprie impostazioni di pensiero, ad analizzare, nel contempo, senza suffisance i nuovi miti politici, sceverandone il senso riposto, e a discutere dei più «gravi e serii problemi», non tralasciando quella disciplina che la gravità dell'ora imponeva.
52. L'esigenza di presentare al pubblico italiano il fenomeno hitleriano nelle sue reali caratteristiche e dimensioni, al fine di suscitare, diciamolo pure, una presa di distanza, o per lo meno un sempre più marcato atteggiamento critico è alla base anche della recensione alla traduzione italiana, presso Bompiani, di una scelta del Mein Kampf. Nel 1982, Valentino Bompiani diede la sua spiegazione sulla nascita di questa edizione, che gli fu proposta (e poi venne eseguita) dall'ebreo Angelo Treves a scopo di «ammonimento» del pubblico italiano: «Nel libro sta scritto [...] tutto ciò che Hitler farà», affermava il traduttore (Petersen, 824-825). L'edizione comparve nell'aprile del '34, con una prefazione dello stesso Hitler datata 2 marzo 1934, in cui si indicava la missione comune di fascismo e nazionalsocialismo, «strettamente legati nella loro essenza ideologica [...] di indicare nuove vie per una fertile cooperazione internazionale». E' noto che la stampa italiana accolse in modo riservato l'opera, che Il popolo d'Italia del 5 aprile non nascose la sua contrarietà specie al razzismo, al «dominio assoluto di una razza sulle altre», che vi veniva predicato, e che seguirono nei mesi successivi altri articoli, alcuni attribuibili allo stesso Mussolini, del medesimo tenore. [124] Ora conosciamo meglio anche la storia della recensione di Cantimori, che richiamò subito (aprile '34) l'attenzione di Federico Gentile sull'«infamia bompianiana sul libro di Hitler», scrisse una prima recensione ritenuta dal direttore del Leonardo «un po' lunga», inviò un testo più breve che nel gennaio '35 subì ulteriori riduzioni; una volta pubblicata nel maggio dello stesso anno, provocò una risposta del Treves e una contro-replica di Cantimori che però Federico Gentile non ritenne opportuno pubblicare (Mangoni, XXXV e note 89 e 90). Se le intenzioni del traduttore e dell'editore erano quelle che abbiamo appena ricordate, può dirsi che Cantimori accusi l'edizione proprio del loro contrario, di essere cioè stata condotta, nella scelta delle parti da espungere e nello stesso lessico usato nella traduzione, in modo da non urtare il lettore italiano: così vengono ridotte e riassunte le parti sulla propaganda, che invece sono essenziali per conoscere Hitler, e quelle più apertamente razziste, limitando il peso di una 'teoria' che è invece fondamentale nel nazionalsocialismo. Una traduzione così articolata diventa di per se stessa un atto politico: «il vero è [...] - scriveva Cantimori nella inedita replica a Treves - che c'è di mezzo il consenso di Hitler, e che l'opera è stata ridotta su una traccia atta a presentare l'autore in una luce particolare, a lui favorevole presso il pubblico italiano» (Mangoni, XXXV nota 89).
53. Più che riproporre un'analisi minuta dei grandi saggi 'tedeschi' del 1934-35, che sono stati oggetto di molti degli studi da cui abbiamo preso le mosse, abbiamo cercato di delineare il formarsi del giudizio politico di Cantimori sul nazionalsocialismo che vi è sotteso e di mostrare come esso si formi avendo sempre presente il pendant ideologico costituito dal fascismo italiano: questo è un fenomeno 'rivoluzionario', quello una netta 'reazione', o meglio «una rivoluzione mancata e trasformatasi in reazione» (Bongiovanni, Cantimori, 26 nota 4). Anche in questo caso non sarà difficile accostare Cantimori ad ambienti come quello di Critica fascista, che seguì gli avvenimenti di Germania con una lunga serie di Lettere dalla Germania di Mario da Silva che meriterebbero un'attenzione maggiore di quella che solitamente è stata loro data, a certe valutazioni di Ugo Spirito, alla radicata diffidenza dell'ambiente sindacale fascista verso il mondo nazista maturata soprattutto dopo la legge tedesca sul lavoro del gennaio 1934, all'atteggiamento dello stesso Gentile, [125] a cui si riaccostò nell'autunno del 1934, quando si trasferì a Roma, 'comandato' presso l'Istituto di studi germanici di villa Sciarra. Vogliamo a questo proposito portare ancora un esempio.
E' nota l'importanza e il significato quasi simbolico che Cantimori attribuì all'opera di Carl Schmitt in quella che giudicò una riconversione reazionaria del nazionalsocialismo, nel prevalere in esso delle tematiche statalistiche e autoritarie. Già il 23 gennaio 1934 scriveva da Berlino a Federico Gentile per proporre un'antologia di scritti di Schmitt per «render chiaro bene, al mondo intellettuale italiano, quel che vogliono politicamente (nel senso lato della parola), i Nazionalsocialisti, od almeno una forte e preponderante parte di loro, al di là di ogni romanticismo generalizzatore» (PSC, 783). Molti studiosi del politologo tedesco hanno messo in discussione l'identificazione fra pensiero schmittiano e i «principii del nazionalsocialismo» (o le «idee politiche del nazionalsocialismo», come sembra che in un primo momento dovesse intitolarsi la raccolta) praticamente operata da Cantimori, ma questi ritenne di poter trovare in lui il nucleo vero, al di là del profetismo apocalittico o dei miti razzistici, «al di sopra della cronaca e del romanticismo politico», del movimento tedesco. L'opera andò in porto e apparve nel 1935 fra le pubblicazioni della Scuola di scienze corporative dell'università di Pisa, aperta dalle già ricordate Note sul nazionalsocialismo del traduttore. L'operazione cantimoriana, pur con le caratteristiche (alcuni dicono: i limiti) sopra ricordate, è un momento importante della fortuna di Schmitt in Italia negli anni '30, [126] fortuna che fu limitata e contrastata. All'interno del fascismo soltanto dalle riviste Lo Stato di Carlo Curcio e Carlo Costamagna e La vita italiana di Preziosi si pose in atto il tentativo di dare un'interpretazione fascista del suo pensiero (Bongiovanni, Cantimori, 23-24). La 'ricezione' dell'opera di Schmitt fu condizionata negativamente soprattutto dalla pubblicazione, sull'ultima annata (1935) dei Nuovi studi di Spirito e Volpicelli, della traduzione italiana del saggio di Karl Löwith, in Italia dal febbraio '34 con una borsa della Rockefeller Foundation (in realtà per sfuggire al clima tedesco che era diventato irrespirabile anche per un ebreo convertito com'egli era) Il «Concetto della politica di Carlo Schmitt» e il problema della decisione, firmato con lo pseudonimo Ugo Fiala, che esercitò una vasta influenza sugli studi italiani intorno a Schmitt fino alla guerra e oltre.
54. E' nota la sua tesi di fondo: in Schmitt la discussione concettuale cede all'intenzione di agire politicamente, la meditazione filosofica diventa uno strumento dell'azione politica, tutti i suoi concetti sono essenzialmente polemici. Egli porta a compimento l'inversione della filosofia compiutasi dopo Hegel tramite i 'decisionisti' Marx e Kierkegaard. Il suo pensiero politico è essenzialmente occasionalistico, riceve la norma da ciò che succede, è insomma ideologia nel senso deteriore datole da Marx. Questa operazione può esser compiuta per la vacuità e il carattere nichilistico dei concetti fondamentali con cui egli opera (quello di 'decisione', la distinzione fra hostis e amicus), che sono destinati ad assumere contenuti e fini solo dalla casuale occasio delle situazioni politiche che volta per volta si presentano. Così, per esempio, il problema della uguaglianza umana, che anche lo Schmitt non può eliminare, si trasforma nella cosiddetta Artgleichheit (uguaglianza di stirpe), che è venuta assumendo un contenuto razziale e quindi antisemitico. [127] Il saggio del «malizioso» Fiala, nell'edizione tedesca, è molto presente al Cantimori che pubblica nel 1935 lo studio su La politica di Carl Schmitt: lo studioso italiano respinge in modo esplicito l'ipotesi 'occasionalistica' e nega che il pensiero schmittiano sia soltanto una «brillante veste di una ambizione personale», ma anch'egli - con argomentazioni tratte dall'idealismo storicistico italiano - gli nega ogni carattere teoretico e semmai gli riconosce un significato «culturale» (nel senso cantimoriano del termine), lo considera espressione del mondo empirico degli avvenimenti, delle aspirazioni della Germania del suo tempo (PSC, 245-246).
Ma Cantimori, che lavorava - non lo si deve dimenticare - presso un istituto di collaborazione culturale fra i governi italiano e tedesco [128] (e Schmitt era consigliere di Stato e fra i maggiori intellettuali tedeschi che avevano aderito al nazismo) non solo utilizzò largamente il saggio di Löwith-Fiala, ma - e questo è un elemento nuovo che ci sembra di notevole importanza - anonimamente ne curò la traduzione e la pubblicazione su una rivista amica, i Nuovi studi appunto, assicurandogli una duratura diffusione e influenza nella cultura italiana. Che la traduzione del saggio di Löwith e quella dei saggi schmittiani compresi nei Principii del nazionalsocialismo fossero di un medesimo autore lo si poteva forse congetturare da un confronto stilistico; ora ne abbiamo la conferma dallo scritto autobiografico del 1940 dello stesso Löwith, che, narrando della visita in Italia dell'aprile 1936 di Schmitt e d'una sua conferenza, scrive: «Successivamente venne Carl Schmitt, sul cui 'decisionismo' io avevo pubblicato un saggio critico adoperando uno pseudonimo, dietro il quale egli supponeva si nascondesse Georg Lukács, senza sospettare che l'autore sarebbe stato fra i suoi ascoltatori ed era amico dell'italiano che aveva tradotto sia questa critica sia gli scritti politici di Schmitt». [129]
55. Sulla rivista di Spirito e Volpicelli il saggio di Ugo Fiala era seguito immediatamente dal testo della prefazione che lo stesso Arnaldo Volpicelli aveva scritta per il volume dei Principii: mentre il saggio introduttivo di Cantimori aveva uno scopo storico-informativo sulle vicende del nazionalsocialismo, alle più brevi pagine di Volpicelli era assegnato il compito di esprimere il giudizio teoretico e politico sul pensiero di Schmitt, giudizio che risultava duramente critico di due suoi concetti-chiave: la concezione guerriera e nazionalistica della politica e la teoria generale dello Stato nazionalsocialista basato sulla triade Stato-movimento-popolo. Alla prima il teorico gentiliano contrapponeva una visione della politica «esclusivamente [come] legame, solidarietà, amicizia: 'comunità'», la cui sostanza e meta ideale non è il nazionalismo, ma l'internazionalismo, proprio perché «sostanza e ideale della politica è l'etica stessa»; alla seconda una sintesi che insisteva sul carattere transeunte del partito, che verrà a «cadere quando il nuovo Stato unitario e totalitario sarà completamente attuato». Per il teorico corporativista i termini sono essenzialmente due, l'organizzazione sociale e l'autorità statale, che devono giungere a una sintesi superiore, lo stato corporativo: in questa prospettiva non c'è posto stabilmente per un tertium, il partito, che è quindi un organismo con uno scopo determinato e temporaneo destinato a dissolversi nello Stato. [130] Su questa prefazione ha richiamato giustamente l'attenzione Bongiovanni, che l'ha letta come un severo atto d'accusa allo stesso regime nazionalsocialista, ma «di stampo nettamente conservatore», che appunta la sua critica, cioè, sulla «dinamica aggressivamente sovvertitrice» del regime tedesco, in nome d'un fascismo «conservatore-gradualistico e statocentrico». Secondo Bongiovanni, le Note sul nazionalsocialismo, che nel volume seguivano immediatamente la prefazione di Volpicelli, sarebbero in radicale antitesi ad essa. Per Volpicelli «l'impostazione schmittiana è infatti pericolosamente sovversiva ed antistatale, mentre per Cantimori l'operato di Schmitt è stato assai utile nella fase di ripiegamento conservatore e reazionario del nazionalsocialismo. Schmitt costituisce dunque il trionfo - un trionfo che è anche un tradimento - del volto conservatore della rivoluzione conservatrice» (Bongiovanni, Cantimori, 24-26, 31; Rivoluzione, 805). Non so se in questo caso la diade rivoluzionario/reazionario sia veramente adatta a farci capire i testi: la prefazione di Volpicelli è certamente un testo di tono scolastico, che - di un autore come Schmitt - ripropone un piano di lettura di tipo speculativo che da Cantimori era ritenuto insufficiente, proprio per il carattere 'culturale', non filosofico, dell'opera schmittiana. Ma restando su tale piano, sarebbe stato probabilmente d'accordo con la prima obiezione di Volpicelli: abbiamo visto come soltanto pochi mesi prima, nella recensione a Codignola, anch'egli fosse tornato a contrapporre l'eticismo gentiliano al primato del politico affermato da Schmitt. La critica di Cantimori alla triade Stato-movimento-popolo è certo in una prospettiva più propriamente politica, ma forse non ha un senso poi molto diverso da quella di Volpicelli: la tripartizione schmittiana (i funzionari e la burocrazia statale, il partito come élite organizzata e gli uomini dedicati all'attività economico-sociale) fa pensare - scrive Cantimori - alle tre classi di Platone e produce una conseguenza fondamentale, che «la legge, la giurisprudenza, non è [...] indipendente dalla politica [cioè dal partito, N.d.A.] ma le è sottomessa» (PSC, 199). Per Cantimori l'elemento-Partito poneva fine, nella teoria schmittiana e nella prassi nazionalsocialista, allo Stato di diritto; la riaffermazione da parte di Volpicelli della priorità dello Stato e del carattere transeunte del Partito aveva origine da una constatazione non diversa. Per entrambi la forma di conquista e di gestione del potere da parte del nazionalsocialismo era rivoluzionaria, ma i contenuti e gli scopi di quel regime essenzialmente reazionari. Come che sia, è tuttavia rilevante, per quell'esigenza di contestualizzazione dell'opera cantimoriana da cui siamo partiti, che nella seconda metà del 1935 una rivista fascista (sia pure in odore di eresia e in procinto di essere interrotta) del prestigio dei Nuovi studi pubblicasse un così severo attacco alle teorie schmittiane e alla politica nazionalsocialista e ne mettesse in evidenza le differenze dal fascismo corporativo; che in tale operazione avesse un ruolo centrale Delio Cantimori, traduttore di Schmitt ma anche del suo acerbo critico, il non-ario Löwith; che essa avesse la copertura politico-culturale di uno dei direttori del periodico, appunto Arnaldo Volpicelli.
56. Ma sui rapporti fra Cantimori e Löwith occorre spendere ancora alcune parole. Esiste in merito un saggio ormai classico di Gennaro Sasso, del 1974, in cui partendo da un lapsus cantimoriano nell'introduzione alla ristampa 1962, presso l'editore Einaudi, della Crisi della civiltà di Johan Huizinga, si facevano osservazioni e si avanzavano ipotesi molto suggestive. [131] Cantimori, in un passaggio di quel tormentatissimo testo, aveva rimandato a «certe pagine e certe riflessioni di Hans Castorp e in certe discussioni fra Settembrini e Fiala nella Montagna incantata di Thomas Mann» (Storici, 346). Fiala e non, come sarebbe stato correttamente, Naphta. Sasso era facilmente risalito allo pseudonimo usato da Löwith per il suo saggio schmittiano del '35, aveva fatto riferimento alla pubblicazione sui Nuovi studi e si era chiesto le ragioni del lapsus in cui Cantimori era incorso quasi tre decenni dopo: per qual motivo, cioè, egli avesse nel 1962 inconsciamente identificato con il gesuita Leo Naphta, il personaggio che nella dialettica dello Zauberberg manniano ha il ruolo che tutti conoscono, tramite il suo pseudonimo Fiala, proprio l'autore della critica a Schmitt. Sasso ricorre a una congettura assai fine che fa entrare in causa il nome di Gyorgy Lukács e la corrente diceria, certamente non ignorata dal Cantimori del 1962, che in Leo Naphta Thomas Mann avesse rappresentato alcuni tratti del filosofo marxista ungherese; oltre a ciò dà per certo (e quanto abbiamo scritto sopra conferma senz'altro tale ipotesi) ch'egli anche sapesse che dietro lo pseudonimo di Fiala si celava Karl Löwith. Per spiegare lo scambio dei due nomi, Sasso suppone che «al fine di rimuovere dal filosofo comunista e marxista l'onta dell'identificazione con il personaggio per eccellenza 'negativo' dello Zauberberg, egli avesse dato a questo il nome del quale una volta s'era servito il critico borghese, e da lui non amato, di Carl Schmitt. Lukács (questo fu, secondo la sua congettura, il corso del pensiero 'inconscio' di Cantimori) non si chiamava Naphta, perché questi aveva in realtà nome Hugo Fiala, e, dietro il velo di questo pseudonimo, si chiamava Karl Löwith». [132] Le acquisizioni successive (fra cui, come abbiamo visto, la notizia che lo stesso Schmitt avesse identificato Fiala in Lukács) non hanno modificato la congettura dell'illustre studioso.
57. A tutta questa discussione è sempre rimasto estraneo un testo, ancora di Cantimori, che pur poteva portare qualche elemento nuovo e diverso. Si tratta d'un brano del necrologio che lo storico dedicò nel 1960 (due anni avanti l'introduzione a Huizinga) a Carlo Antoni, in realtà una recensione al libretto postumo di quest'ultimo, Gratitudine. Vi rievocava i tempi di villa Sciarra, dell'Istituto di studi germanici, delle discussioni che vi si tenevano: «lo [Antoni] facevo inquietare - ricorda Cantimori - paragonando lui al Settembrini della 'Montagna Incantata', e il Löwith al gesuita Nafta. Finché un giorno gli dissi che il Mann per la figura di Settembrini aveva anche tenuto presente il Croce [...]». [133] Risulta, cioè, che l'identificazione Löwith-Naphta, che si ritrova nel lapsus del '62, era già abituale nelle scherzose polemiche degli anni '34-'36 sul Gianicolo. Ci si può chiedere perché Cantimori potesse concepirla, cioè vedere proprio nel critico asperrimo di Carl Schmitt la figura di Naphta, per far parlare il quale era allora convinto che Mann avesse «potuto servirsi di frasi e periodi degli scritti dello Schmitt, in ispecie della Politische Romantik» (PSC, 245). Se si vuol restare aderenti ai testi di quegli anni, si può ricavare qualche elemento da una delle «Note e notizie» del Giornale critico che Cantimori pubblica nel '37: Löwith vi è considerato come esponente di una filosofia teologizzante, che resta estranea all'immanentismo e che continua a proporre - dopo la critica di Feuerbach a Hegel - un concetto di 'umanità' di stampo teologico-hegeliano, a sfondo religioso. Per lui l''umanità' è un'esigenza, anche se non fondabile razionalmente: Cantimori parla di conclusione sconcertante «con la caratteristica affermazione di fede in un ignoto propria a tutti questi tentativi irrazionalistici degli ultimi tempi» (PSC, 359-360). Löwith sembrava dunque portatore di una filosofia teologico-irrazionalistica: di fronte allo storicista e immanentista Antoni poteva questo bastare per accostarlo al gesuita di Mann, sia pure nel motto di spirito? Forse c'è anche qualcosa d'altro: nell'introduzione del 1961 (come si vede siamo sempre nel medesimo giro d'anni) alla Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di De Felice, Cantimori passa in anonima rassegna alcune figure di ebrei conosciuti nella sua vita. Spiccano «l'amico ebreo tedesco che parte all'ultimo momento dall'Italia [dopo le leggi razziali], ancora incredulo che in Italia ciò sia possibile» in cui non è difficile riconoscere Paul Oskar Kristeller e «l'altro amico ebreo tedesco convertito che si dichiara conservatore e reazionario e fascista e fa scandalizzare Carlo Antoni e parte all'ultimo momento, spiacente di non poter tornare in Germania»: [134] si può identificare in questo Karl Löwith? Potrebbero indurre una risposta affermativa il riferimento alla conversione e di nuovo il ricordo delle contese con Antoni; dalla sua autobiografia (che fu scritta nel 1940 per un concorso bandito dall'università di Harvard e che quindi - per alcuni argomenti almeno - deve essere trattata criticamente) risulta poi che egli, volontario in guerra, partecipò negli anni '20 al clima della konservative Revolution, che ancora nel maggio del 1935 compì un viaggio in Germania per cercar di definire la sua situazione universitaria (gli era stato revocato l'incarico a Marburgo). Contro l'identificazione con Löwith resta il riferimento alla partenza all'ultimo momento, perché il filosofo tedesco lasciò l'Italia per il Giappone l'11 ottobre 1936, quindi due anni prima delle leggi razziali del '38. Se comunque questo fosse uno dei suoi non rarissimi lapsus memoriae e si potesse identificare in Löwith l'«amico ebreo» di cui qui parla Cantimori, avremmo un motivo in più per comprendere l'identificazione con Naphta. E' troppo semplicistico supporre che il lapsus del 1962, più che dal desiderio inconscio di 'difendere' Lukács, traesse origine dalle reminiscenze, così vive in quegli anni, dei dibattiti fra Antoni e Löwith del 1934-36, che già allora paragonava a quelli fra Settembrini e Naphta ? e che, sapendo bene che Löwith aveva scritto sotto lo pseudonimo di Fiala il saggio schmittiano che lui stesso aveva tradotto in italiano, e anche per una certa assonanza fra lo pseudonimo e il nome del personaggio manniano, Cantimori abbia operato inconsciamente il passaggio Naphta-Löwith-Fiala, da cui il lapsus?
58. Abbiamo delineato gli atteggiamenti di Cantimori verso i fenomeni politici emergenti nei decenni fra le due guerre: fascismo, bolscevismo, nazionalsocialismo: «i giovani che sorgono - si leggeva sul Foglio d'ordini, il bollettino settimanale del P.N.F., del 20 settembre 1930 - non hanno più alcuna attrattiva per i principi del secolo scorso che si chiamarono liberalismo, democrazia, socialismo [...] Le generazioni del ventesimo secolo sono affascinate dai soli due nuovi sistemi politici esistenti nel mondo: il fascismo e il bolscevismo». [135] Nella loro grossolanità propagandistica, queste parole fissano, senza dubbio, una situazione reale, della quale Cantimori è un caso esemplare, ma tutt'altro che unico. Le difficoltà e la crisi degli stati liberali di fronte all'emergere di una società di massa che presupponeva altri canali di rappresentanza politica erano fenomeni esaminati e discussi già prima della guerra, ma negli anni successivi, di fronte alle immani trasformazioni che il conflitto aveva introdotte e alla scossa rivoluzionaria che proveniva dall'est europeo, e poi all'affermarsi dei 'fascismi', divenne opinione comune che gli antichi assetti istituzionali ed economici basati sul liberalismo ottocentesco fossero ormai oltrepassati e che lo stesso ideale liberale (nel senso politico e in quello economico, in Italia chiamato 'liberismo') non corrispondesse più alle esigenze dell'epoca, fosse legato a quello che Stefan Zweig avrebbe chiamato 'il mondo di ieri': la crisi economica del 1929 e i suoi effetti economici e politici diedero poi, a tale opinione, un vigore dirompente. Gli ideali liberali parvero incapaci di reggere agli attacchi concentrici del marxismo, del conservatorismo, del corporativismo fascista, del 'planismo', dell''interventismo': iniziava quell''eclissi del liberalismo', che si è protratta, nonostante la vittoria dei principi liberali e il ritorno delle istituzioni liberaldemocratiche in importanti paesi europei alla fine della seconda guerra mondiale, ben oltre il 1945, fin verso gli inizi degli anni '70. [136] Questo sfondo ideologico-politico dev'essere sempre tenuto presente da chi cerchi di tracciare la parabola culturale e politica di Cantimori e delle generazioni, che si vennero formando, in Italia, dalla seconda metà degli anni '20: quasi mai, per costoro, l'abbandono, che presto o tardi avvenne, del primitivo fascismo, segnò un ricupero del liberalismo e una riconsiderazione dei suoi valori. Anche quando non passarono al comunismo (in cui spesso ritrovarono molti elementi del loro precedente antiliberalismo), quando approdarono alla liberaldemocrazia, sentirono il bisogno di segnare un distacco netto dalle precedenti esperienze liberali, inserendo contenuti nuovi in campo politico e, più spesso ancora, in quello economico: da qui, in Italia, il fenomeno del liberalsocialismo e dell'azionismo.
59. Sull'estraneità originaria di Cantimori al mondo liberale non è qui il caso d'insistere: tutto quanto abbiamo mostrato della sua formazione, delle sue prime esperienze politiche, delle successive vicende intellettuali la conferma. Non troviamo tuttavia, nel Cantimori di questi anni, una critica sistematica dei principî e delle istituzioni liberali, quasi che essa sia un'arrière-pensée sottesa ai giudizi che via via esprime. Gentilianamente egli pone la base filosofica del liberalismo nella riduzione della politica all'economia, alla sfera dell'utile e quindi nel rifiuto della sua identificazione con l'etica (PSC, 242 e nota 13, in La politica di Carl Schmitt del 1935). A suo giudizio, invece, «il problema dei rapporti fra vita etica individuale e vita politica (vita etica nello stato etico) è fondamentale, è uno dei più urgenti nell'Europa» contemporanea: al radicale Alain che dichiara l'importanza della disciplina nella vita degli Stati, ma poi vorrebbe limitarne il potere, perché lo «spirito non deve mai ubbidienza», ricorda nel '33 che è ambigua «la contemporanea affermazione della esigenza statale e di quella individualistica» e che «molto pericoloso» è lo «scambio fra individuo e spirito», nel senso che la libertà compete a questo, non a quello (PSC, 566). Quindi la critica anti-individualistica (contro l'«atomismo liberalesco»: PSC, 40) e anti-utilitaristica, consueta in quella cultura: al liberalismo è consentaneo l'«industrialismo produttivistico», esso è un'ideologia essenzialmente «borghese». [137] Per il Cantimori corporativista, polemica antiliberale e polemica antiborghese si identificano: recensendo, nel 1936, il libro di Nello Quilici sullo scandalo della Banca Romana, ne sottolinea il «notevole valore politico-pubblicistico-polemico con la sua documentata accusa alla borghesia» e ne riporta, condividendolo, il giudizio: «La grande impresa del liberalismo politico, il capolavoro della moderna borghesia si rivelava una colossale impresa economica animata da istinti rapaci, come Tocqueville l'aveva definita. Ipoteca degli interessi privati sugli interessi pubblici». [138] Si noti il riferimento a Tocqueville, su cui si svolsero in quegli anni in Italia notevoli discussioni: Cantimori lo considera soprattutto un critico della democrazia, americana in ispecie (PSC, 354, 390): è ovviamente una lettura parziale, motivata da quella critica dell'ideologia americana, dell''americanismo', della cultura d'oltre Oceano, da quella sottolineatura delle «straordinarie differenze di forma mentis e di educazione culturale che c'è fra noi [europei] e loro [americani]», [139] che è una costante del Cantimori di allora.
60. Ma quella gentiliana non è la sola matrice del suo anti-liberalismo: se ne avverte un'altra, più inquieta, nietzscheano-marxiana (secondo miscele ideologiche non inconsuete negli ambienti della konservative Revolution tedesca), secondo cui il liberalismo dottrinale sarebbe una forma di «fariseismo», uno di quei «falsi valori del mondo presente» verso cui è necessario esercitare una «critica filosofica, sociale, culturale» (PSC, 206), che ne sveli la 'decadenza' (e la fine), che lo consideri un 'morto passato' a cui opporre un 'avvenire' (Studi, 179); [140] e un'altra ancora, che potremmo definire di 'realismo politico', «hegeliano e semimarxista» (Storici, 351), che in nome del famoso carattere 'rugoso' della realtà, demistifica come retorici, ingenui, interessati, essenzialmente conservatori, valori e atteggiamenti variamente liberali. Da qui l'evidente fastidio intellettuale, che Cantimori prova verso scrittori e pensatori e storici che vi fanno riferimento, come Alain, come Thomas Mann («questo scrittore che si compiace di difendere il mondo pel quale è vissuto e pel quale ha scritto, e di chiamarsi 'bürgerlich'»: PSC, 216), come il «teutonizzato» [141] Ortega y Gasset (dell'opera del quale non doveva ignorare il significato nella Spagna dal 1929 all'esilio del '36), esemplare tipico - scrive nel 1937 - di «questi 'pensatori' contemporanei, che stanno fra il pubblicista, il filosofo, l'oratore e il poeta [...] Nei periodi di scosse e di rivolgimenti sociali essi si limitano a rispecchiare il disorientamento delle vecchie classi, o degli intellettuali che le rappresentano e le esprimono» (PSC, 637), come Johan Huizinga. La recensione del dicembre 1936 alla traduzione tedesca, curata da Werner Kaegi, di In de schaduwen van morgen dell'«illustre storico olandese» è, nella sua brevità e nel suo tono liquidatorio, un testo esemplare: si tratta scrive Cantimori - dello «sfogo di uno spirito d'artista individualistico, liberaleggiante, contro questo mondo moderno, che non gli va» e aggiungeva.
Questa patetica laudatio temporis acti potrebbe anche interessarci, potrebbe essere utile a chi volesse rendersi conto dello stato d'animo di tanta parte dell'odierna cultura europea di fronte alla rivoluzione sociale che in Europa si va compiendo, se non si mischiasse di politica, e a questo modo non irritasse il lettore di un paese così impegnato nella lotta politica e sociale di oggi come questa nostra Italia. Lo Huizinga non prende parte che per se stesso e per una cultura indipendente [...] Nulla lo soddisfa: è il destino dei letterati che si vogliono occupare di politica senza pensare che questa è una cosa seria, che non ammette i begli spiriti né le anime belle.[...] Questi uomini, pur rispettabili come studiosi, sono straordinariamente goffi quando denunciano la barbarie dei tempi moderni, impersonandola in un regime e in un istituto politico, ed accusano poi della stessa barbarie chi quel regime e quell'istituto combatte non solo a parole. Sono coloro che vorrebbero essere con Simmaco e Cassiodoro contro la 'barbarie', l''incoltura' del cristianesimo irrompente: ma intanto stanno con Bisanzio (PSC, 315).
61. Per Cantimori, il «mondo moderno» si afferma nella «rivoluzione sociale che in Europa si va compiendo», in quello che un altro recensore chiamerà «il rivolgimento sociale dei tempi nostri, causato dall'irruzione della massa e dal concetto nuovo della vita» [142] che ne deriva: i grandi regimi di massa, il fascismo, il comunismo, il nazionalsocialismo ne sono i protagonisti, nei loro rapporti reciproci (e nelle loro reciproche lotte) è riposto il futuro d'Europa, sul quale, quindi, hanno poco da dire gli spiriti «individualistici», «liberaleggianti», che rimangono in disparte disgustati, come Huizinga (del quale, fra l'altro, sottolinea l'anima d'artista e il fondo letterario). Il senso 'politico' complessivo dell'opera, che fece allora un'impressione enorme in Europa, la sua polemica contro le ideologie razzistiche, contro Spengler e Schmitt, la personalità stessa del suo autore, che come rettore di Leida aveva già dovuto fronteggiare l'invadenza della propaganda nazista, non potevano sfuggire al recensore, come non sfuggirono poi ad altri lettori italiani; [143] eppure Cantimori ritenne che la sua nota fondamentale fosse proprio l'impoliticità, la incomprensione dei dati di fondo della lotta presente. Come avrebbe scritto Arnaldo Momigliano, sia che venga letta «in chiave fascista o in chiave comunista» (alludendo alla difficoltà di definire le prospettive ideologico-politiche del Cantimori 1935-1938), la recensione a Huizinga mostra soprattutto l'estraneità di Cantimori «al liberalismo cristiano e cosmopolita dell'autore». [144] Nel saggio introduttivo alla ristampa einaudiana del 1962, lo storico ripropose, con qualche significativa omissione, [145] il testo del 1936, ribadendone il giudizio, ma al tempo stesso (accanto, magari, a parole che avevano un senso contrario) fece un'ammissione importante, su cui non si è sempre insistito a dovere: che in quegli anni la difesa della «cultura» e della «civiltà», oggetto del suo sarcasmo di allora, dètte a molti una «forza di resistenza» e una «spinta all'azione» pari a quella che altri derivarono da «una concezione precisa, definita e realistica», da «un lavoro concreto e specializzato», da una «ideologia politica». Non si trattava soltanto del riconoscimento della nobiltà di una posizione morale: molti di quei «begli spiriti», di cui aveva parlato nel '36, «forse [avevano] una visione sostanzialmente più chiara della realtà storica generale di quei tempi, di quanto potesse avere il [suo] battagliero realismo» (Storici, 351).
62. Nel 1935 Cantimori definiva Benedetto Croce il «liberale più coerente di oggi» (PSC, 242 nota 13), appunto per la riduzione della politica ad economia e per l'autonomia categoriale accordata a quest'ultima. Già allora, tuttavia, doveva avvertire la distanza che separava il filosofo italiano da uomini come Huizinga, Alain, Ortega e Mann e l'avrebbe ribadita nel 1962: «La critica crociana al Burckhardt e al Ranke, il suo saldissimo storicismo; l'interessamento politico attivo, il suo realismo e i suoi richiami a Marx e Labriola, sembravano bilanciare la 'libertà di spirito' come garantita dall'amicizia del Croce per Thomas Mann» (Storici, 348). Questa situazione rendeva più ravvicinato il loro confronto, ma altrettanto difficile. Prosperi, nel suo saggio introduttivo alla ristampa degli Eretici, ha apportato, a questo proposito, un notevole contributo documentario e qualche nuovo elemento è stato presentato più sopra, anche in questo lavoro: ora siamo sufficientemente informati dell'inizio del loro rapporto epistolare nel 1926 tramite Vittorio Enzo Alfieri, di una prima pausa dopo la lettera del luglio 1926 e la successiva polemica fra Alfieri e Cantimori, di una sua ripresa nel 1928 fino alla recensione crociana del novembre 1928 alle Osservazioni sui concetti di cultura e di storia della cultura del giovane laureato (Prosperi, LIV-LV e note 98, 99 e 101). «A parte qualche graffio - ha osservato Cordié - in complesso il Cantimori non si sarebbe dovuto dolere [della recensione crociana] come di una estrosa condanna della sua fervida attività ispirata all'attualismo»: [146] ancora Cordié testimonia invece che - al di là del tono rispettoso della lettera di replica del 15 dicembre 1928 - egli ne restò urtato e irritato. Sembra, a questo punto, che i loro contatti epistolari diretti si siano di nuovo diradati, probabilmente interrotti: Cantimori evita di rivolgersi direttamente al filosofo e lo fa ancora tramite Alfieri, sicché è dalle lettere di Croce a quest'ultimo che possiamo ricavare elementi non irrilevanti per gli anni successivi. Dal 3 al 5 febbraio del 1932 Croce è a Ginevra per ricerche sul marchese Caracciolo e su altri calvinisti italiani come Giulio Cesare Pascali, stende il saggio sul primo nella seconda decade di marzo. Nel maggio, Cantimori, che è a Basilea per i suoi studi ereticali, gli fa chiedere da Alfieri notizie su Giovan Bernardino Bonifacio, marchese d'Oria: Croce gliene chiede, a sua volta, sul Caracciolo e su eventuali documenti basileesi che lo riguardino, avvertendo di aver già fatto le ricerche a Zurigo e a Ginevra. Questa richiesta allarmò lo storico, che temette una sovrapposizione di studi e, ancora da Alfieri, fece ansiosamente chiedere a Croce quali fossero i suoi piani di studio sulla Riforma. «Potete rassicurare il Cantimori. - rispose il filosofo l'8 giugno 1932 - Io non mi tratterrò in quegli studi sulla riforma italiana. Ho studiato soltanto la figura del Marchese del Vico e il significato del calvinismo in rapporto con gli estremisti italiani, che erano razionalisti in formazione. Ma già ora il mio pensiero si è volto ad altro». Tutto questo dialogo per interposta persona dovette irritare non poco Croce, per il sospetto, non ingiustificato a detta di Alfieri, che Cantimori non gli scrivesse direttamente o non gli mandasse le sue pubblicazioni per timore di compromettersi, ben sapendo che la corrispondenza del filosofo era strettamente controllata: «sono uomini senza spina dorsale», [147] esclamava il 7 novembre 1932, dopo che non aveva ricevuto da Cantimori, come aveva evidentemente sperato, il lavoro Sulla storia del concetto di Rinascimento.
62. Seguirono la pubblicazione, sulla Critica del 1933, del saggio su Caracciolo (con la difesa della funzione storica del calvinismo e la critica degli «estremisti» italiani già contenuta - come s'è visto - nella lettera ad Alfieri dell'8 giugno 1932), la replica di Cantimori nella Prefazione (datata: Pavia, maggio 1933) alla traduzione dei Riformatori italiani del Church uscita ai primi del 1935, la recensione di Croce a quest'ultima, contenente una risposta alle obiezioni di Cantimori, sulla Critica del 20 maggio 1935, la rassegna cantimoriana del '36 intorno alla più recente storiografia sulla Riforma in Italia e sui Riformatori italiani all'estero, che conteneva un'ultima messa a punto sulle tesi di Croce. Riassumiamo schematicamente: Croce difendeva e valorizzava i germi di modernità insiti nel calvinismo, sia sul piano speculativo (la difesa del dogma trinitario contiene «l'esigenza del concetto speculativo, che non è né l'unità astratta né l'astratta molteplicità, ma l'uno che è molteplice e il molteplice che è uno, e di una logica adeguata, non più intellettualistica e statica, ma dialettica e dinamica») sia sul piano politico («la dottrina della predestinazione precorre qualcosa di più importante e di più comprensivo, che è il principio della libera gara per l'elezione e la prevalenza del migliore, e perciò dell'eguaglianza dinanzi alla legge, ma non della eguaglianza materiale dei singoli, la quale condurrebbe alla stasi e all'arresto della storia umana. Al calvinismo e al suo concetto della predestinazione si deve quanto di austero è trapassato nel liberalismo, quanto esso ritiene di nemico al volgo e di aristocratico, di doloroso e di fiducioso insieme, di umile e di ardito»). Croce sapeva che queste potenzialità si sarebbero sviluppate nei secoli (ed egli pensava certo alla Ginevra di Rousseau, di Mallet-du Pan, di Constant, di Sismondi, di M.me de Staël, quella che per lui era la culla del liberalismo europeo) e che sulle prime la riforma ginevrina aveva conosciuto i roghi e le repressioni, ma li giudicava «un necessario momento conservatore dopo compiuta una così grossa rivoluzione come l'abbattimento dell'autorità papale e la rottura dell'unità ecclesiastica dell'Europa, e nell'insorgente pericolo dell'anarchia delle opinioni, che faceva temere la perdita di quanto si era acquistato, il dissolvimento della riforma stessa e una reazione che avrebbe ricondotto a più pesante idolatria». Da qui un giudizio critico sugli antitrinitari, gli antipredestinatari, sul piano speculativo estranei alla dialettica, e semmai precursori del «razionalismo» e dell'«intellettualismo» moderni (e non eran queste per Croce qualificazioni positive), sul piano politico propensi a teorie egalitarie: Croce insisteva sul nesso che si era stabilito fra antitrinitarismo e anabattismo, «due sètte che furono comprese nella medesima avversione e quasi tra loro identificate, e, in verità, coltivando [...] il radicalismo intellettualistico e l'egualitarismo, tendevano a distruggere tutti i dogmi religiosi e, nelle loro conseguenze pratiche, menavano all'estremo democratismo e al comunismo». [148]
63. Nella prefazione a Church, Cantimori controbatteva alla critica 'speculativa' dell'antitrinitarismo, mostrando che Calvino e gli ortodossi «non difesero quel dogma per il suo valore filosofico, ma perché la negazione di esso minava l'autorità della loro nuova gerarchia: non lo difesero infatti filosoficamente, ma politicamente, cioè all'occorrenza con le pene che allora venivano comunemente riconosciute, della prigione, e del rogo»; ma raccoglieva e sviluppava (dandole, però, un segno tutto diverso) l'indicazione crociana del risvolto politico-sociale dell'antitrinitarismo e del suo nesso con l'anabattismo e quindi del legame col «popolo» di alcune delle più evolute regioni italiane che gli antitrinitari avevano cercato di instaurare. [149] Dalla prefazione inedita alla traduzione tedesca degli Eretici e da altri documenti pubblicati da Prosperi, ora conosciamo l'importanza che questa discussione pubblica con Croce (Cantimori accenna anche a quella epistolare, ma la sua lettera del 13 aprile 1935, che pubblicheremo più oltre, e quella del 2 giugno 1936, che Prosperi ha messo a nostra disposizione, non sembrano, sotto questo riguardo, molto significative) ebbe nel lavoro cantimoriano: egli aveva già compreso che una storia come quella degli eretici italiani non poteva essere meramente teologico-filosofica, ma doveva divenire «storia della cultura», ora ne comprendeva il carattere storico-politico: essa diventava «storia delle dottrine e dei movimenti politici». Urgeva, perciò, un passaggio risoluto dalla 'filosofia' alla 'storia', che già si nota nel primo abbozzo manoscritto di quello che poi sarà il volume del 1939, che risale all'estate del '34, di cui ora conosciamo i tratti fondamentali (Prosperi, Introduzione, XXXV-XXXVIII; «Eretici», 12-13).
Ma nel dibattito erano avvertibili anche questioni politiche piuttosto intricate. Si assisteva a un apparente scambio di ruoli: Cantimori, di cui Croce conosceva il fascismo militante, si faceva paladino di eretici che resistevano intrepidamente all'intolleranza religiosa, cattolica e calvinistica, e andavano transfughi per l'Europa libertatis causa; il filosofo liberale in qualche modo giustificava le repressioni calvinistiche e prendeva le distanze da coloro che, da non pochi, venivano indicati come gli antesignani della libertà religiosa in Europa. Croce stesso avvertiva l'ambiguità e se ne usciva, nella recensione alla traduzione italiana del Church, con le celebri parole:
Non so quale sia la fede politica del d.r Cantimori; ma, a stare alle sue parole, dovrebbe dirsi che egli si è lasciato accecare e trasportare fuori dei confini del vero dal suo ardente amore per la libertà, dal suo affetto per tutti i ribelli e per tutti i perseguitati e le vittime delle tirannie sacre e profane. E starei quasi per fargli le congratulazioni di questo nobile eccesso, se non temessi di prendere abbaglio sul suo vero sentimento: tanta è la confusione e la contradizione degli atteggiamenti mentali e morali nei giorni che corrono. [150]
64. La polemica era sanguinosa, ma poneva (e pone) dei problemi reali (Vivanti, Le approssimazioni, 912; Prosperi, «Eretici», 727), sulla circolarità esistente (o meno) fra l'impegno politico del Cantimori di allora (ma - come Prosperi rileva - anche di quello comunista) e i suoi interessi storiografici. Ma cos'erano per lui gli 'eretici' che veniva studiando? e il concetto di tolleranza religiosa da essi elaborato? Richiamando l'ambiente di mazzinianesimo sovversivo in cui Cantimori si formò, abbiamo già accennato al tratto 'libertario' che ne derivò: chi ha studiato quel mondo, sa bene che questo sovversivismo si è variamente intrecciato alla scelta fascista che molti operarono, senza scomparire del tutto: «vecchio fascista anarchico» si definiva scherzosamente lo storico in una lettera a Giulio Einaudi del 29 novembre 1956 (PSC, 794). Sasso ha poi acutamente richiamato il tema 'libertario' presente - al di là delle prime apparenze e delle stesse scelte politiche del suo autore - nell'attualismo gentiliano, per il quale «giudice supremo delle istituzioni, delle 'chiese', dei governi cristallizzati in sistemi giuridici divenuti dogmi oppressivi, è la libertà, norma sui, dello spirito». [151] L'interesse per una cultura d'opposizione, per gli sforzi di rinnovamento etico-culturale del mondo italiano dei quali, ancora nel 1935, sottolineava la «perenne tragicità», [152] affonda dunque le sue radici in questo retroterra politico e filosofico.
Ma è poi necessario specificare meglio il discorso e seguire, sia pure con grande rapidità, lo snodarsi degli interessi ereticali di Cantimori. Ci si accorgerà allora agevolmente che il tema della tolleranza e della libertà religiosa è importante, ma non centrale nel suo approccio: fin dal saggio sul Boscoli gli eretici italiani sono gli eredi dell'Umanesimo italiano e dei suoi valori, che tuttavia superano il preteso carattere 'estetico', tutto soggettivo e 'letterario', del Rinascimento, entrano nell'attualità della vita concreta, fondano il mondo moderno. Nel saggio sull'Ochino, emerge un altro tema, quello della 'italianità' del loro pensiero (si ricordino le coeve riflessioni cantimoriane sulla nazione): essi, ricollegandosi alla tradizione italiana dell'Umanesimo e innestandone alcuni temi nella esperienza della Riforma, garantiscono loro una circolazione europea e sottolineano l'importanza del contributo italiano alla comune civiltà. [153] Nella lunga recensione (settembre 1932) all'edizione americana degli Italian Reformers di Frederic C. Church (è uno scritto interessante, perché vi si avvertono le prime acquisizioni, anche documentarie, del soggiorno a Basilea) si critica il carattere prammatico dell'opera, tutta intenta ad analizzare l'opera del 'riformatori' italiani in funzione della riforma ecclesiastica, mentre l'originalità e l'importanza del gruppo italiano indipendente sta altrove, nello «sforzo sempre più chiaro e consapevole» compiuto da questi eredi della critica umanistica del Valla «di dissolvere la astratta teologia in religiosità etica, in pura religione, di procedere dalla trascendenza esteriore legale della legge divina di Calvino alla sua interiorità, dal misticismo nebuloso allo spiritualismo purificato dalla ragione»: [154] questa linea si disperderà poi nel deismo e nell'illuminismo, ma c'è da credere che il giovane attualista, che aveva discusso pochi anni prima del rapporto fra le religioni ufficiali e la religiosità di cui si faceva portatore il movimento filosofico italiano, si sentisse, in qualche modo, erede delle aspirazioni di quegli uomini.
65. Nella prefazione alla traduzione italiana della ricerca di Church si insiste - lo abbiamo visto - sul fatto che questi irregolari non sono degli isolati e intrattengono legami col mondo dell'anabattismo popolare, spesso con gente di umile condizione: gli eretici, dunque, sono la negazione del letterato italiano, mostrano «storicamente la strada, drammatica, rischiosa, ma conseguente, che alcuni intellettuali italiani, partendo da quelle esigenze di rinnovamento spirituale [...] avevano percorso». [155] Nello stesso scritto, Cantimori chiarisce il loro (e il suo) concetto di tolleranza religiosa, distanziandolo da quello dei «loro esaltatori positivistici» e da «quello della tolleranza-indifferenza». Esso non consiste tanto in una garanzia giuridica della libertà religiosa, ma in una posizione teoretica, nel «superamento della posizione dommatico-mitologica del problema teologico»: la conseguente dissoluzione della teologia in religiosità, della Chiesa autorità e gerarchia in riunione di uomini delle stesse convinzioni e degli stessi principî, comporta una «necessaria distinzione fra organizzazione giuridica, politica e istituzioni teocratiche (teologico-giuridiche) da una parte e pensiero religioso dall'altra, e [il concetto] della autonomia del pensiero teoretico da ogni implicazione 'contingente', politica, pratica, che piaccia porvi surrettiziamente per scopo polemico». Non è più necessaria una chiesa istituzionale che imponga obbedienza a certe formulazioni dogmatiche, ma è l'«autonoma e intima eticità» del pensiero, «manifestantesi direttamente nella rettitudine delle azioni e nella radicale e piena attuazione dei propri postulati, [l'] unico fondamento per poter esigere (non imporre) che gli altri vi ubbidiscano». [156] La tolleranza nasce, quindi, dalla dissoluzione delle Chiese, dalla prevalenza della 'religiosità' sulla 'religione' insite nelle dottrine degli antitrinitari: l'affermazione della libertà religiosa non era il presupposto, ma un corollario della loro dottrina teologico-politica, che andava quindi studiata nella sua positività, nella sua intierezza, non solo in relazione a tale problema, e inserita in una storia del movimento generale degli spiriti religiosi del Cinquecento, e solo in sottordine in quella della Riforma. I Socini - afferma nel 1929 -sono i «fondatori del moderno razionalismo europeo» (PSC, 70), ed essenzialmente in grazia di ciò - possiamo aggiungere - fautori della libertà religiosa. Una tale impostazione distingueva subito le ricerche ereticali che Cantimori stava compiendo da quelle del liberale Francesco Ruffini, iniziate nella prima metà degli anni '20 e poi portate avanti fino alla morte, nel 1934. Questa distanza era già stata colta con grande lucidità da Marino Berengo [157] ed ora Prosperi ha riportato una pagina di Cantimori, che precedeva la stesura provvisoria degli Eretici, quella del '34, in cui la distinzione fra storia «positiva» delle idee ereticali, da lui perseguita, e quella «giuridica» di Ruffini, era chiaramente, direi programmaticamente, enunciata (Prosperi, Introduzione, XXXIV).
66. In una pagina del Caracciolo, e poi nel necrologio di Ruffini, anche Croce prendeva le distanze da questa impostazione eminentemente giuridica. [158] Tuttavia, le riserve di Cantimori avevano implicazioni ancora più vaste. Croce esaltava il «nuovo abito morale» favorito dall'affermarsi del calvinismo e la «funzione mediatrice» che ebbe nel «mondo moderno e laico»:
Quel nuovo abito morale contribuì all'indipendenza dell'Olanda, alla libertà dell'Inghilterra, alla vita delle colonie americane che diventarono gli Stati uniti, e promosse dappertutto la cultura, l'industria, i commerci, gl'istituti politici, lo stesso libero pensiero, e, in ultimo, mercé del calvinista Gian Giacomo Rousseau, diè la mano all'etica moderna e kantiana. [159]
Partendo dal calvinismo, delineava una genealogia del mondo moderno, che era essenzialmente una genealogia dell'etica e delle istituzioni liberali. Cantimori non accettò mai questa identificazione: com'è noto, ben presto maturò ed espresse la convinzione che i fenomeni storici vanno giudicati di per sé, non per caratterizzare valori potenziali, e maturò quindi un'insofferenza verso ogni considerazione tendenzialmente teleologica (Vivanti, Intorno, 789, 792), ma è innegabile che anch'egli avesse, almeno in quegli anni '30, una visione complessiva della storia moderna. Solo le attribuiva un 'senso' che era diverso da quello di Croce. Corrado Vivanti ha richiamato l'attenzione sul saggio del 1938 Umanesimo e Riforma, rimasto per allora inedito: Cantimori vi esplicita quanto si coglie in molti dei suoi scritti di allora, cioè la netta «antitesi» che egli pone fra l'Umanesimo (le «humanae litterae, che fioriscono in Italia nel Quattrocento e che alla fine di questo secolo e ai primi del seguente si diffusero in tutta l'Europa») e la Riforma, luterana e calvinista in ispecie, che si mostra avversa al programma umanistico, alla sua fede nelle capacità degli uomini e nella ragione umana. La Riforma e la Controriforma svolgono un'analoga funzione 'normalizzatrice', ciascuna nel loro ambito, dei valori, delle speranze, dei fermenti dell'Umanesimo, che, nella nuova atmosfera europea, solo sopravvivono nei gruppi ereticali, prevalentemente italiani, dispersi, isolati per l'Europa. [160]
67. E' interessante vedere come in quegli anni, per esempio nelle voci dedicate alle varie correnti della Riforma nel Dizionario di politica, egli delineasse i loro esiti politici. Il luteranesimo sfocia in una «mobilitazione» degli spiriti in favore dell'autorità politica, la quale riceve impronta divina: «E certo da questo fenomeno - scrive Cantimori - si deve partire per comprendere le origini della dottrina hegeliana dello stato etico, la quale, pur avendo carattere schiettamente teorico e filosofico, era stata preparata dalla lunga esperienza luterana». [161] Molti degli studiosi recenti, in particolare Luisa Mangoni, si sono poi soffermati sul rilievo attribuito da Cantimori alla presenza e al ruolo della teologia luterana e calvinista nella vita etica e culturale e nelle forme terribili e sconcertanti di lotta politica della Germania a lui contemporanea (Mangoni, XXIII-XXVIII, XXXIII-XXXVII). Diverse e non convergenti sono le 'valenze' politiche del calvinismo: a Croce era parso, anni prima, che ne derivasse «il principio della libera gara per l'elezione e la prevalenza del migliore», Cantimori afferma ora che il calvinismo «contribuì moltissimo a creare quella buona coscienza farisaica per la smania di guadagno del capitalismo, che ancor oggi, dopo che i motivi religiosi sono scomparsi, permane in varie forme [...] nella società americana in ispecie e in quella anglosassone in genere, ed ha costituito una delle basi dell'antico liberalismo, con la sua austerità e rigidezza di costumi e col suo progressismo industrialistico, oltre che col suo individualismo». Di più: Cantimori avverte la tendenza a passare dalla elezione individuale a quella di un intero popolo:
la difesa delle istituzioni della comunità degli eletti si allarga al concetto della vocazione di un intiero popolo ad adempiere una missione divina; il nemico di queste istituzioni diventa il nemico di Dio, la personificazione del male, dell'irreligione. Ancora oggi le popolazioni anglosassoni conservano questa concezione che fa di esse il 'popolo eletto' da Dio a portare la civiltà nel mondo, intendendo per civiltà le istituzioni democratiche e liberali, e i costumi delle popolazioni anglosassoni stesse. [162]
Sono pagine scritte con tutta probabilità fra il 1938 e il 1939, e - riprendendo la già citata osservazione di Momigliano - possono essere lette «in chiave fascista o in chiave comunista»: le abbiamo ricordate qui, perché l'estraneità di Cantimori a certi nuclei di valori trapassa, sostanzialmente immutata, dall'una all'altra fede politica.
68. La tradizione a cui Cantimori si richiamava (e che contrapponeva alle varie che scaturivano dalla Riforma, ma anche a quella cattolico-controriformistica che tanto aveva combattuta nell'Italia post-concordataria) prendeva dunque le mosse dall'Umanesimo italiano e dagli eretici, che ne avevano serbato i valori nell'Europa della Riforma e della Controriforma, che avevano fondato il «razionalismo», il «pensiero moderno», il «mondo moderno» (per il giovane Cantimori sono espressioni equivalenti): l'idealismo ne era l'estrema propaggine e l'etica dell'idealismo era quella con cui il fascismo voleva plasmare il popolo italiano. Nel 1929, polemizzando in nome della 'modernità' del fascismo contro ogni sua interpretazione in chiave chauvinistica, Cantimori esclamava:
Non per nulla l'ultima epoca di splendore dell'Italia è stata - prima degli anni recentissimi [successivi all'avvento del fascismo, N.d.A.] - quella del Rinascimento, tutta Europea, predominio spirituale di forti personalità italiane. Non per nulla tra i ricordi che esaltano di più il nostro orgoglio d'italiani ora torna su bocche autorevoli quello di quando noi eravamo il 'quinto elemento del mondo': questo mondo era poi l'Europa. Non per nulla noi Italiani ci sentiamo figli spirituali dell'ultimo grande movimento veramente europeo, del Rinascimento. Non per nulla rivendichiamo l'italianità dei Socini, fondatori del moderno razionalismo europeo. E così via (PSC, 69-70).
Coglieva perciò nel segno Michele Ciliberto, quando avvertiva che, in questi anni, «si poteva essere fascisti e corporativisti (in un certo modo, naturalmente) e studiare Bernardino Ochino, avviando una ricerca sul movimento ereticale italiano»; [163] partendo da una concezione del fascismo come quella che Cantimori aveva elaborata, lo si poteva considerare lo sbocco di una tradizione filosofica e politica che prendeva le mosse dall'Umanesimo italiano e, attraverso gli eretici, aveva dato origine al pensiero moderno; e contrapporre tale tradizione a quella controriformistica e reazionaria, ma anche a quella calvinistico-liberale.
Abbiamo visto come, dopo la discussione con Croce del 1933-35, Cantimori andò valorizzando i contenuti politico-sociali del pensiero e dell'azione degli eretici italiani, soprattutto il loro rapporto con l'anabattismo popolare in Italia: sono questi elementi, non tanto la questione della tolleranza religiosa, che costituiscono il trait d'union fra le ricerche ereticali e quelle successive sugli 'utopisti e riformatori' italiani fra '700 e '800. [164] Nel corso di queste, come scriveva a Werner Kaegi il 25 settembre 1942, «quasi di sorpresa era ritornato nelle indagini di storia religiosa, trovando in quegli uomini [utopisti e riformatori] una religiosità entusiastica, che li presenta in tutt'altra luce, da quella nella quale finora eran veduti»; vi aveva trovato, insomma, un aspetto 'ereticale' che si affrettava a comunicare all'amico (Mangoni, XV nota 9). Anche nell'Introduzione agli Utopisti, poi, dopo aver insistito sulla loro «convinzione che il rinnovamento del genere umano, millenaristicamente atteso [...] dovesse coincidere necessariamente [...] con una trasformazione religiosa» e che quindi la rivoluzione da loro vagheggiata dovesse essere, nel contempo, sociale, morale e religiosa, Cantimori ritornava sul tema della tolleranza, avvertiva come in questi ambienti se ne trattasse spesso e poneva un nesso con eresie specifiche del periodo della Riforma e della Controriforma. [165] Ma anche in questo caso sono illuminanti le osservazioni di Berengo: nel Cantimori studioso delle idee di riforma sociale la tolleranza è strettamente connessa con l'uguaglianza, non deriva dalla battaglia illuministica di Voltaire, ma dalle utopie egalitarie di certo illuminismo e, retrocedendo alle sue radici prime, ai grandi temi dell'eresia cinquecentesca. Fra questa tolleranza tesa verso l'uguaglianza dei beni e quella intesa come garanzia costituzionale di diritti individuali e misura di concordia civile, quella lato sensu liberale, insomma, esiste una «frattura»: [166] il Cantimori, ormai intimamente orientato verso il comunismo, guardava alla prima più che alla seconda.
69. Abbiamo cercato sommariamente di mostrare come e perché Cantimori sia sempre stato «costitutivamente lontano dalla Weltanschauung crociana» [167] e di individuare i nessi, non così evidenti, fra il suo essere stato storico di perseguitati, di utopisti e di ribelli e le sue scelte politiche, prima e dopo la guerra. Allo storico di problemi ereticali o della cultura religiosa del Cinquecento o del giacobinismo italiano, che miri a una ricostruzione della storia del suo problema e quindi alla valutazione dell'incremento reale (critico, documentario, ermeneutico) apportato da Cantimori a tale storiografia, questi aspetti interesseranno marginalmente: per lo studioso della cultura italiana fra le due guerre appaiono di notevole interesse. Tutto ciò non esaurisce però il problema dei suoi atteggiamenti verso Croce, che, in un uomo così spesso lacerato e complesso, furono non semplici: sentì di muoversi in un ordine diverso e lontano e persino opposto rispetto al suo, al tempo stesso ne desiderò il rispetto e la considerazione e dal filosofo, che sapeva cogliere come pochi l'ambiguità di certe situazioni, ebbe talora parole pungenti. Più o meno consapevolmente, gli attribuì una funzione di vaglio intellettuale (e morale), a cui non ci si poteva sottrarre. Due giorni dopo la sua morte, il 22 novembre 1952, scriveva all'einaudiano Luciano Foà a proposito di alcune traduzioni di Scheler e di Husserl che l'editore Einaudi progettava: «a forza di quella gente e di quei discorsi, i tedeschi si son trovati disarmati intellettualmente di fronte a chi seppe trarre le conseguenze dell'irrazionalismo. E noi li proponiamo di nuovo ai nostri italiani? [...] E ora, che è morto il Gran Vecchio? Mi copro la testa di cenere, e profetizzo tempi brutti. Dixi et salvavi, con quel che segue. Corsa all'abisso» (PSC, 822 nota 37).
70. Abbiamo già visto, nelle pagine precedenti, i temi e gli obiettivi delle polemiche di Cantimori, 'interne' al fascismo italiano, nel lustro che va dai Patti lateranensi al 1934 e oltre. Cercheremo ora di specificare a quali gruppi ed esponenti di quel mondo egli fosse vicino, o perché in sintonia con i temi della loro azione politico-culturale, o perché legato ad essi da rapporti personali, di lavoro intellettuale e di politica accademica. Prima di entrare nei dettagli, bisogna sottolineare, in linea generale, il forte fascino che per tutti questi anni (il termine ad quem è, lo ripetiamo, il 1934-35) esercitò su di lui Benito Mussolini. Kaegi ricorda le parole che Cantimori gli disse nel maggio 1942, a Basilea, dopo aver scoperto sul suo scrittoio l'ultimo libro di Mussolini, Parlo con Bruno: «Come Lei può leggere il libro di un uomo che da '20 anni non ha più detto una parola ragionevole?». [168] Basta, tuttavia, scorrere i suoi interventi politici fino a sette, otto anni prima, per rendersi conto che i suoi richiami alle parole, agli scritti, ai giudizi del Duce sono tutt'altro che rituali, ma denotano un'attenzione e uno sforzo di comprensione approfonditi. Sembra riconoscergli una statura eminente e nel contempo un ruolo peculiare fra gli uomini politici del XX secolo: Mussolini «ha preso parte a tutti i movimenti più caratteristici dell'epoca presente [anche al socialismo, N.d.A.]» - scrive ancora nel 1937 -, la sua biografia, quindi, «investe la storia politica del suo paese e quella intellettuale dei gruppi d'avanguardia europei»; tracciandola, è possibile rivisitare tutti i fondamentali momenti della storia italiana ed europea, come non accade invece per quella di Hitler, che «s'è tenuto discosto dai movimenti politici della sua giovinezza, limitandosi ad osservarne alcuni e a far proprie alcune delle loro esperienze» (PSC, 635, 645).
Il documento più notevole di questa attenzione è la nota recensione, apparsa sul Leonardo del marzo 1935, ai primi otto volumi dell'edizione hoepliana degli Scritti e Discorsi di Mussolini (PSC, 577-587). Il saggio fu scritto all'indomani del «discorso alle Camicie nere e agli Operai di Milano, il 6 ottobre 1934, che - scrive Cantimori - è già passato alla storia» e nei giorni in cui stava maturando, alla frontiera somalo-etiopica, quell''incidente di Ual-Ual'che avrebbe portato l'Italia alla guerra coloniale. Nel discorso milanese Mussolini aveva annunziato «la fine di quel periodo che si può chiamare dell'economia liberale-capitalistica» e il «trapasso da una fase di civiltà a un'altra fase [...] Non più l'economia che mette l'accento sul profitto individuale, ma l'economia che si preoccupa dell'interesse collettivo»; nel contempo ribadiva l'originalità della soluzione corporativa intesa come «l'autodisciplina della produzione affidata ai produttori» e dava per avvenuto l'inserimento delle masse operaie nello stato fascista. Il discorso conteneva poi una seconda parte di politica estera, in cui poneva uno stretto nesso fra questa «più alta giustizia sociale per il popolo italiano» e la sua «preparazione militare e integrale»: «un popolo che non trovi nell'interno della Nazione condizioni di vita degne di questo tempo europeo, italiano e fascista, è un popolo che nell'ora del bisogno non può dare tutto il rendimento necessario». [169] Cantimori coglie molto bene questo nesso fra il problema sociale e quello dell'espansione nazionale, fra il benessere economico e la potenza politica del popolo italiano nel pensiero di Mussolini e mette in luce come il filo conduttore della sua personalità politica sia proprio la «volontà di potenza», l'identificazione di sé col proprio popolo e col proprio gruppo (l'Italia e il P.N.F.) in vista del raggiungimento di una grandezza che è sì spirituale, ma in primo luogo materiale; volontà che non rifugge dagli esiti militari e guerreschi: gli scritti e i discorsi mussoliniani - conclude - «sono la più grande ed eloquente manifestazione che abbia avuto nel nostro secolo tale idea» di pura potenza (PSC, 587).
71. La recensione, costruita con una «tecnica perfetta del montaggio delle citazioni» (Mangoni, XXXVIII), senza lasciare quasi alcuno spazio al giudizio soggettivo dello scrivente, è stata - da Miccoli e poi da Ciliberto [170] in poi - letta come uno dei primi documenti del distacco interiore di Cantimori dal fascismo, in quanto egli vi avvertirebbe il passaggio - per essere schematici - dal fascismo sociale e corporativo a quello imperiale, a cui sarebbe stato ab initio estraneo. E' un'ipotesi, tuttavia, che è altrettanto difficile sostenere che negare sulla base di quel testo: certe espressioni (il discorso di Milano «è già passato alla storia» e Cantimori scriveva qualche mese dopo) possono anzi farne dubitare. Ciò su cui, invece, conviene insistere è la lucidità con cui Cantimori percepisce questo passaggio cruciale della politica fascista, [171] e soprattutto l'acutezza e la profondità dei suoi giudizi sullo sfondo ideologico e sulla personalità di Mussolini, che non potevano che derivare da una lunga e attenta riflessione sul personaggio e il suo mondo.
Sui rapporti, non tanto culturali, quanto piuttosto personali e accademici fra Cantimori e Gentile, siamo ora informati, con maggior puntualità che per il passato, dalla documentazione contenuta nei lavori di Simoncelli. Nel volume su Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, egli ha abbondantemente attinto - spesso riproducendone ampi stralci nel testo come in nota - alle lettere di Cantimori al filosofo per l'arco di tempo che va dal 1930 al 1943, a quelle a Giovanni Gentile jr. del 17 dicembre 1927 e del 18 maggio 1930 e ha utilizzato la documentazione del fascicolo personale di Cantimori nella serie dei professori universitari, depositato dal ministero della Pubblica Istruzione presso l'Archivio centrale dello Stato. Nonostante il titolo, Cantimori non è l'esclusivo deuteragonista del volume: dopo un primo capitolo dedicato ai suoi anni normalistici, se ne apre un secondo dedicato alla carriera accademica di Luigi Russo e alla funzione che vi svolse il patronage di Gentile, un terzo alla 'chiamata' in Normale come lettore di tedesco di Paul Oskar Kristeller e alle vicende, in parte già note, che ne seguirono, soprattutto in seguito alla promulgazione delle leggi razziali in Italia (viene illuminato l'atteggiamento tenuto da Gentile, diretore della Scuola, in questa occasione, come - nel capitolo seguente - di fronte alle «inquietudini», di natura specialmente politica, diffuse negli ambienti normalistici fra il 1938 e il 1940). Cantimori torna di scena nel quinto capitolo, dedicato al suo ritorno in Normale come professore interno di storia nel novembre 1940 e poi nei due successivi che riguardano le tensioni politiche (il crescere e poi la scoperta del movimento liberalsocialista) e personali (specialmente fra il vice-direttore Vladimiro Arangio Ruiz da una parte e alcuni docenti e numerosi studenti dall'altra). L'ultima parte del volume è dedicata alla Normale durante il periodo della Repubblica sociale, al ruolo del ministro Biggini e del nuovo direttore Leonida Tonelli. Come si vede, l'autore non ha resistito all'abbondanza e al carattere largamente inedito del materiale, per cui dalla via principale se ne dipartono di secondarie, che egli puntualmente percorre: così si pubblicano nel testo, per pagine, un foglio matricolare (quello di Luigi Russo), con tutte le sue date e gli spostamenti di reparto, come lettere personali di valore disuguale, rapporti di polizia con le sottolineature a matita e relazioni concorsuali. [172] La tesi generale di Simoncelli, con cui cerca di dare un senso unitario alla vasta documentazione raccolta, è che Gentile, negli anni del fascismo, abbia garantito una grande autonomia morale e intellettuale alla Scuola Normale, ai suoi professori e studenti, compresi gli ebrei e gli ebrei tedeschi da lui personalmente difesi presso Mussolini dopo l'introduzione della legislazione razziale in Italia; che in particolare abbia considerato Cantimori come l'allievo prediletto, lo abbia voluto in Normale come collaboratore nella direzione e pensando probabilmente a lui per la successione.
72. Non si tratta, come si vede, di risultati particolarmente nuovi, ma anzi già presenti agli studiosi, sebbene non con la dovizia dei particolari ora a disposizione. E', tuttavia, necessario dare una valutazione più approfondita della 'politica' gentiliana, che non può essere storicamente spiegata solo con la 'liberalità', la 'generosità', il 'culto delle amicizie', l''attaccamento ai discepoli', tutte qualità di cui fu ricca la personalità del filosofo, ma facendo riferimento al ruolo contrastato che egli mantenne nella classe dirigente fascista negli anni '30, alla volontà di assicurare un'egemonia al suo progetto culturale nei quasi tre lustri che corrono dai Patti lateranensi alla crisi del luglio 1943, di limitare l'influenza di altri gruppi politici e tendenze culturali che la mettevano sempre più fortemente in discussione, di crearsi spazi propri di azione, non necessariamente coincidenti con quelli del regime. La ricca e precisa biografia gentiliana di Turi fornisce, in questa prospettiva, un quadro esauriente. C'è tuttavia un quid nel rapporto che le varie generazioni di discepoli gentiliani intrattennero col loro maestro e nella vasta influenza che egli ebbe sull'opera loro che non può essere spiegato in modo persuasivo restando unicamente sul piano dell''organizzazione della cultura': già per gli alunni palermitani dell'anteguerra, ma poi soprattutto per la 'generazione carsica' e per i coetanei di Cantimori la sua fu una filosofia che diede una ragione e uno sfondo alla loro esistenza, la base di una religiosità nuova con cui affrontare le battaglie della vita, trasformare il mondo, una riconquista della fede - come scriveva Omodeo - dopo il tramonto di quella tradizionale. [173] Da qui l'attaccamento profondissimo al banditore di quella nuova fede, che talvolta sopravvisse alle prove più aspre, talvolta non le superò, ma, nella sua crisi, produsse tensioni esistenziali dolorose e durature; da qui la presenza del suo insegnamento o di motivi della sua filosofia nelle ricerche dei discepoli, anche di quelli che ormai se ne sentivano più lontani.
Queste rapide considerazioni riguardano sia Russo che Cantimori, 'gentiliani' appartenenti a generazioni diverse, ciascuno dei quali ebbe, col filosofo, un rapporto peculiare: la corrispondenza ne è certamente una testimonianza preziosa, che tuttavia deve essere vagliata criticamente, 'relativizzata' - se così si può dire - nella considerazione delle reciproche posizioni e degli altri eventuali rapporti dei corrispondenti. Così, leggendo la corrispondenza di Russo con Gentile, bisogna tenere presenti altri rapporti intensi che egli parallelamente intrattenne, quelli con Croce, Omodeo e il loro gruppo, per essere in grado di valutare affermazioni o giudizi contenuti nelle lettere. Questo non è ancora possibile per Cantimori, per cui la dipendenza da una sola fonte (le lettere a Gentile), il riferimento pressoché esclusivo a un rapporto in cui egli era evidentemente in una posizione 'subalterna', ci deve indurre a una inevitabile cautela. Pur con questa riserva, che riguarda soprattutto la posizione interiore di Cantimori nei confronti di Gentile, va nettamente ribadito che la documentazione messa insieme da Simoncelli è importante e utile per chi vorrà delineare la biografia cantimoriana.
73. Tracciamo quindi un quadro schematico: Cantimori entra in contatto diretto con Gentile e la sua famiglia intorno al 1926-27 tramite l'amicizia con Giovannino, suo più anziano compagno in Normale. E' grazie a quest'ultimo e a Ugo Spirito che, nel 1927, trova finalmente ospitalità per «Il caso del Boscoli» sul Giornale critico. Nell'ottobre 1928, il filosofo è nominato regio commissario della Normale, dove il giovane laureato svolge il suo anno di perfezionamento e lavora alla tesi sul Concetto di Rinascimento: in quell'inverno, probabilmente, i loro rapporti si fanno più stretti e, già nel 1929, Cantimori insegna brevemente all'Università per Stranieri di Perugia, del cui consiglio direttivo fa parte Gentile. Nel 1930 questi è determinante nell'assegnazione di metà del premio Cantoni, gestito dall'università di Firenze, al giovane studioso, che intanto insegna nel liceo Dettori di Cagliari. Nel 1933 compare il primo contributo cantimoriano sull'Enciclopedia italiana (vol. XIX), dedicata ai Riformatori, compresi fra Gl'Italiani all'estero, nell'ampia voce Italia: la sua presenza nei volumi successivi, fino alla conclusione dell'opera e all'Appendice del 1938, sarà larghissima e varia. Nello stesso 1933 (è professore a Pavia) inizia la collaborazione al Leonardo, diretto da Federico Gentile, che lo coinvolge anche nell'attività della Sansoni. [174] Nell'autunno del 1934 è 'comandato' presso l'Istituto italiano di studi germanici di Roma, fondato due anni prima per iniziativa di Gentile, da lui presieduto e inquadrato nell'Istituto nazionale fascista di cultura, altra creatura gentiliana: si occupa della redazione di Studi germanici, della biblioteca, vi tiene corsi. Inizia la residenza romana, che rende ancora più diretto il rapporto col filosofo. Dal 1935 svolge praticamente le funzioni di redattore del Giornale critico (lo abbiamo visto nel caso di Löwith); conseguita la libera docenza in storia della Chiesa (20 dicembre 1936), è chiamato, per precipuo interressamento di Gentile, all'incarico di storia del Cristianesimo nella facoltà romana per l'anno accademico 1937-38 e poi ancora 1938-39 (Simoncelli, Note, 66-70). Nel maggio-giugno 1939, dopo un lavoro affannosissimo sui manoscritti e sulle bozze per le scadenze concorsuali che esigevano un rapida stampa del volume (Prosperi, Introduzione, LVII-LVIII), uscirono da Sansoni gli Eretici, che inviava a Gentile con la seguente dedica: «Quest'opera nata dalla riflessione delle sue pagine, offre con animo di antico scolaro e cuore di normalista, il suo Delio Cantimori». [175] Secondo in terna dopo Romolo Quazza e prima di Walter Maturi, è chiamato alla facoltà di Magistero di Messina dove insegna nel 1939-40, ma già dal giugno 1940 si ha notizia dell'impegno di Gentile di far rientrare Cantimori in Normale quanto prima. L'operazione è stata ampiamente illustrata da Simoncelli (comportò l'attribuzione di entrambe le cattedre di professore interno alla classe di lettere - furono destinate ad Arangio Ruiz e a Cantimori - in seguito alla rinunzia da parte degli 'scienziati' a quella loro spettante) e fu portata a termine da Gentile fra l'estate e l'autunno 1940: il 18 novembre 1940 Cantimori tornava a Pisa (Simoncelli, Cantimori, 111-116). Nell'anno accademico 1942-43, assunse interinalmente, a più riprese, la vice-direzione al posto di Arangio Ruiz. Nello stesso 1943, ancora la casa editrice Sansoni (non la torinese Einaudi, con cui pure aveva stretto rapporti intensi di collaborazione editoriale) pubblicava Utopisti e riformatori, in una prima edizione provvisoria di poche copie il 10 aprile, nell'edizione definitiva dopo l'armistizio, il 6 novembre: anche in questo caso fu un impegno accademico (la prassi che voleva il triennio di straordinariato concluso con un lavoro a stampa) che vinse la proverbiale ritrosia di Cantimori à faire le livre . [176]
74. Non può, dunque, esservi dubbio che la carriera scientifica, editoriale e accademica di Cantimori fino al 1943 si sia svolta in massima parte per impulso e sotto il segno di Gentile, indipendentemente dal travaglio politico e ideologico che egli, nell'intimo, visse negli anni successivi al 1935. Simoncelli ha chiaramente mostrato come egli abbia preso per la prima volta posizione contro un invito del filosofo, dopo il 25 luglio 1943: con la lettera del 2 agosto (e poi con le seguenti del 12 e del 21) respingeva la richiesta, avanzata da Gentile con un espresso del 26 luglio, di recarsi a Pisa a 'presidiare' la Normale e di assumerne ufficialmente la vice-direzione (Simoncelli, Cantimori, 153-162), secondo le proposte avanzate da Gentile anche nelle famose lettere al neo-ministro Severi. Nel far ciò, Cantimori mostrava la consapevolezza che con la caduta di Mussolini un periodo era finito e che, nella nuova situazione, il 'presidio' a tutela della continuità invocato dal filosofo non aveva ormai più senso.
Se ormai è molto documentato il rapporto di Cantimori con Gentile, poco o punto lo è (almeno finora) quello con Bottai e il suo ambiente. Col ministro delle Corporazioni non ebbe probabilmente un rapporto personale e diretto, quale intrattenne invece con alcuni uomini del suo entourage pisano, ma direi sicura una larga comunanza di idee e di impostazioni fin verso il 1934-35, favorita anche dalla «piena sintonia» [177] che in quegli anni si ebbe fra Gentile e il direttore della pisana Scuola di perfezionamento in scienze corporative. Era trascorso appena un mese dalla sua nomina a ministro delle Corporazioni (12 settembre 1929), che Bottai partecipava a Barcellona al sesto congresso della Federazione internazionale delle Unioni intellettuali con una relazione su «Le masse e la cultura» che subito attirava, per la sua «brillante analisi», l'attenzione di Cantimori, allora all'inizio della sua esperienza cagliaritana: «è l'unica relazione che abbia senso di realtà, e sia confortata dalla pratica: il Ministro delle Corporazioni vi esprime il principio filosofico-pedagogico che ha informato tutta la sua opera di organizzazione delle masse lavoratrici italiane» (PSC, 71). E' significativo che, nel 1962, Giuseppe Dessì, che fu suo allievo al liceo Dettori di Cagliari, lo ricordasse (erroneamente) come collaboratore di Critica fascista e che Cantimori negasse la collaborazione, ma confermasse che «era abbonato alla rivista e ne parlava e la faceva leggere (e la reprimenda l'ebbe proprio per questo, dalle autorità politiche del tempo!)» (CS, 141). Abbiamo già accennato all'importanza che tale lettura ebbe per le sue idee intorno all''universalità' del fascismo e alla necessità di contrapporsi ai vari movimenti reazionari che in Europa cercavano di richiamarsi all'esperienza italiana, all'interesse per il dibattito del 1931 su bolscevismo e fascismo (Roma o Mosca?), all'atteggiamento critico che la rivista, con le corrispondenze di da Silva e le analisi di Spirito e Bottai, serbarono a lungo verso il nazionalsocialismo al potere. Se si compie un rapido spoglio delle annate successive al 1929, ci imbattiamo in analisi del ruolo della Società delle Nazioni, in tentativi di definizione dell'europeismo fascista, in polemiche contro le frange reazionarie del fascismo (da Evola a Fanelli), in difese appassionate del ruolo di Gentile nella cultura fascista, in cui ritroviamo posizioni omogenee a quelle, qui già analizzate, di Cantimori. [178]
75. Ma fu certamente il «collettivismo accentuatissimo» (PSC, 588) della rivista, l'impegno di Bottai e dei suoi collaboratori nel dibattito sul corporativismo che attirò l'attenzione di Cantimori. E' vero - come è stato osservato - che la problematica corporativa «non assumerà mai nel suo discorso sviluppi analitici significativi e concreti», [179] che egli non partecipò con interventi specifici a quel dibattito (non risulta - tanto per fare degli esempi - che sia stato presente né a Ferrara nel maggio del '32, né a villa Aldobrandini, a Roma, al convegno italo-francese di studi corporativi del maggio 1935), ma è certo che il richiamo allo «stato etico corporativo», che fa di continuo in questi anni, svela un interesse di fondo: insomma anch'egli visse quello che - ancora nel 1940 - avrebbe chiamato il «gran momento del corporativismo» (PSC, 762-763). Documenti pubblicati di recente lo confermano: scrivendo nell'estate del 1932 a Capitini e in polemica con le sue scelte «religiose», ribadiva l'intenzione di vivere «attivamente» la politica, di «studiare il dibattito sul corporativismo all'indomani del convegno di Ferrara» e di «immergersi sempre più in tali questioni» (Mangoni, XXX). Da Pavia, il 9 marzo 1933, ribadiva a Giovanni Gentile jr. la sua fede nel corporativismo,
non come fatto ma come tendenza. Ma si può credere a un fatto? Ci credo perché non è un fatto ma un farsi. Ti dirò che ho letto con vera commozione gli articoli ultimi di Ugo Spirito, e l'avvertimento che gli è stato dato sull'Educazione Nazionale [recte fascista][...] Ma nonostante tutto, credo che Mussolini saprà trar fuori i giovani necessari a quest'opera, e saprà sopratutto dar la spinta motrice a tutto il 'sistema corporativo' e dar concretezza al generico 'andare al popolo' (Belardelli, 383-384).
Cantimori si mostra consapevole della grande varietà di interpretazioni che vengon date del corporativismo, «da quella del gruppo di 'Secolo Fascista' a quella del Pirelli» (PSC, 575) o come scriverà ancora nel 1935, «dal collettivismo accentuatissimo, per es. di 'Critica Fascista', all'accentuatissimo individualismo di A. Pirelli» (PSC, 588). [180] Dai suoi scritti emerge che la linea che egli seguì con maggiore attenzione e stima, a cui più spesso si richiamò (non voglio dire che con essa si sia completamente identificato) fu quella dei gentiliani che a Pisa si raccolsero attorno alla Scuola di scienze corporative di Bottai, in particolare quella di Ugo Spirito.
76. Non è la prima volta che il nome del filosofo ricorre in questa ricerca: sebbene, almeno per questi anni, non sia rimasta traccia di scambi epistolari fra i due, molti indizi fanno pensare a un rapporto di una certa consistenza, anche sul piano personale. Il 19 novembre 1936, Anna Maria Ratti, della redazione dell'Enciclopedia italiana, evocava questa loro familiarità, scrivendo a Spirito allora a Messina:
Emma e Cantimori, che vedo quasi tutte le settimane, la salutano e l'aspettano per chiacchierare un po' insieme all'aria aperta o davanti a una buona tazza di tè, a piacer suo. [181]
S'è visto - nelle lettere appena citate - il grande interesse che suscitò in lui il convegno di Ferrara e la «commozione» che gli provocarono gli articoli con cui Spirito venne difendendo le posizioni là espresse, ma anche (stava scrivendo a Giovanni jr.) la critica che loro rivolse Gentile su Educazione fascista. [182] Ci possiamo chiedere se Cantimori sia stato tra coloro che condivisero la tesi della «corporazione proprietaria», presentata da Spirito al convegno di Ferrara, e il suo 'comunismo fascista'. Nel gennaio del 1935, riconosceva che
nonostante violente critiche, assalti da ogni parte, le tesi sostenute dallo Spirito e dal Volpicelli si van dimostrando fra le più coerentemente e sodamente pensate di quante offra la pubblicistica corporativa italiana, e il sistema d'interpretazioni della 'Dottrina del Fascismo' del Duce. Il clamore e l'eterogeneità delle opposizioni sono la miglior testimonianza dell'ardire, e dello spirito di ricerca e d'investigazione che anima i due scrittori (PSC, 573).
Ma nel 1937, concludendo la recensione alla Vita come ricerca, lo storico se ne uscì con l'affermazione: «Insomma, pur dissentendo da quella sua posizione, preferivamo l'ultimo Ugo Spirito, il battagliero sostenitore del 'corporativismo', a questo [...]» (PSC, 629), che sembra alludere - in una simpatia di fondo - a un dissenso (ma si deve rammentare che lo scritto appariva sul Giornale critico, in un periodo in cui le tesi dei corporativisti estremi erano diventate vere e proprie eresie). Ci sono altre testimonianze, magari più tarde, che confermano un intenso coinvolgimento nel dibattito corporativo e che invece potrebbero far pensare a una più piena adesione alle tesi di Spirito. Nel 1955, recensendo le Cronache di filosofia italiana di Garin, Cantimori lamentava che l'autore non avesse saputo esplicitare il legame concreto fra i dibattiti filosofici e «la società, le classi, le università, le istituzioni in generale, i partiti, le tradizioni culturali locali oltre che quelle nazionali, ecc.», e aggiungeva:
Per esempio, a proposito della questione della 'corporazione proprietaria', ricorderemmo quali erano le riviste che appoggiarono con una qualche simpatia la tendenza guidata da U. Spirito, ritrovandovi facilmente la presenza di vecchi sindacalisti; ricorderemmo la presa di posizione di distacco netto dalla posizione di Spirito, assunta dal Gentile con una brevissima nota sulla rivista degli industriali diretta dal Trevisani (il Gentile affermava che le posizioni di Spirito non si potevano identificare con l'attualismo); e ricorderemmo anche come in quelle discussioni (oltre che nei 'littoriali') cominciarono a formarsi molti giovani oggi attivi nella vita culturale e politica (Studi, 760-761).
77. Cerchiamo di esplicitare questi ricordi: è probabile che col primo riferimento Cantimori alludesse a I Problemi del Lavoro di Rinaldo Rigola, che in effetti, se criticò l'andamento generale del convegno, accolse con interesse le proposte di Spirito, con favore quelle di Bottai e ironizzò sui sindacalisti fascisti per la contrarietà che manifestarono. [183] Più interessante è la seconda allusione: di Gentile, Cantimori non ricorda tanto la risposta a Spirito che da tutti viene citata, cioè la già ricordata nota Individuo e Stato comparsa nell'estate del 1932 su diversi periodici, ma un articolo, pubblicato nell'autunno di quell'anno sulla rivista di Renato Trevisani Politica sociale, in cui Gentile ribadiva di «ritenere erronea la deduzione logica della corporazione proprietaria (socializzazione della proprietà) dal concetto fascistico della identità di individuo e Stato». [184] Non possiamo ovviamente retrodatare tout court queste osservazioni del 1955 e affermare con sicurezza che già nel 1932 Cantimori individuasse una finalità conservatrice nelle critiche 'filosofiche' di Gentile a Spirito. Fa tuttavia pensare il fatto che si tratti di un ricordo diretto, non filtrato da successive ricostruzioni: infatti questo scritto di Gentile non è compreso nella bibliografia gentiliana di Vito A. Bellezza del 1950, che invece registra gli altri che, a partire dal 1929, il filosofo destinò al periodico di Trevisani (e, fra l'altro, non è stato raccolto nel recente volume che comprende gli interventi politici minori di Gentile durante il ventennio ed è rimasto - a quanto almeno mi è stato possibile vedere - sconosciuto, per cui lo ripubblichiamo in Appendice VI): lo storico attingeva dunque a suoi ricordi e impressioni personali di più di vent'anni prima. C'è infine da notare che qui Cantimori non sembra avere dubbi sul carattere 'avanzato' delle proposte di Spirito: esprime soltanto il dubbio che siano state usate strumentalmente dall'«azione generale di propaganda predisposta in vista della guerra d'Etiopia, che vide anche tentativi di riagganciare vecchi socialisti ecc.[allusione al 'caso Caldara', N.d.A.] per un clima di solidarietà nazionale generale» (Studi, 761). Quel carattere - è ben noto - è stato invece ampiamente demistificato da parte della storiografia successiva, che anzi ha affermato la natura 'oggettivamente' reazionaria delle tesi di Spirito, in quanto negatrici della funzione del sindacato operaio, che, anche allora, «malgrado tutto esercitava ancora una funzione di salvaguardia degli interessi dei lavoratori». [185] Resta tuttavia importante, anche su d'un piano autobiografico, la testimonianza sul loro valore formativo (anche e contrario, come rivelatrici della vera natura dell'establishment politico-economico che vi si oppose) per una parte delle nuove generazioni: nel 1961 avrebbe ribadito tale giudizio, alludendo alla attenta politica che verso molti fautori della «corporazione proprietaria» svolse il partito comunista e all'incontro che su questo terreno si ebbe dunque fra l'organizzazione comunista e diversi di costoro. [186]
78. Se dunque non possiamo essere certi dell'adesione di Cantimori alla proposta della «corporazione proprietaria», è invece sicuro che egli condivise pienamente la pars destruens della teoria di Spirito, la «critica radicale della vecchia 'scienza economica'» (PSC, 705), sviluppata dopo il 1927 sulla sua rivista e in diversi volumi, la critica quindi all''astratto formalismo', all''individualismo', [187] al 'liberismo' dell'economia «accademica», alla classica teoria dell'homo oeconomicus; l'affermazione della natura e destinazione sociale dell'individuo (nel 1977, Spirito avrebbe riconosciuto di avere speso tutta la sua vita «nella ricerca di un ideale di vita illuminato dal superamento dell'individualismo»); la negazione della capacità autoregolativa del mercato, la connessione fra anarchia economica e 'crisi del capitalismo', [188] la proposta di una 'economia programmatica' (della quale il corporativismo italiano è il paradigma migliore) come fuoriuscita dal capitalismo. L'anticapitalismo dell'antico ammiratore della konservative Revolution trovava ora nelle teorie di Ugo Spirito una conferma e una catarsi, un paradigma di scientificità: «nella sua impresa di darci una integrale condanna della vecchia scienza economica, [egli] l'ha accompagnata da uno sforzo veramente notevole di ricostruire teoricamente la scienza stessa», la sua opera risulta una polemica efficace «contro la vecchia scienza, la vecchia società, e le loro espressioni» (PSC, 573-575).
79. Un ultimo aspetto degno di nota è la collaborazione editoriale fra Cantimori e gli uomini della Scuola di scienze corporative, Spirito e Volpicelli in primo luogo. Abbiamo già accennato alla presenza del giovane storico-filosofo, come autore e come traduttore, sull'Archivio di studi corporativi e sui Nuovi studi (per questa rivista aggiungeremo qualche altra notizia). Ma notevole è anche il suo coinvolgimento nel 1934-35 nell'attività editoriale del gruppo, presso la casa editrice Sansoni, [189] ormai nelle mani di Federico Gentile, che operò - sembra - come intermediario fra i professori pisani e Cantimori. Terzo titolo della Biblioteca dell'«Archivio di studi corporativi», inaugurata dal volumetto di Spirito su Il corporativismo nazionalsocialista, citato - come s'è visto - da Cantimori, è Il piano De Man e l'Economia mista, introdotto da un saggio di Spirito, in pratica una critica dell'economia mista, e comprendente la traduzione cantimoriana del Plan du travail presentato da Henri de Man al congresso del Natale 1933 del Partito operaio belga e una Nota conclusiva dello stesso Cantimori. [190] La serie Documenti delle Pubblicazioni della Scuola di scienze corporative era inaugurata nel 1934 da Bolscevismo e capitalismo, in cui, dopo un'Avvertenza di Bottai, venivano offerti al pubblico italiano testi di Stalin (la relazione al XVII congresso del partito sovietico svoltosi fra il gennaio e il febbraio di quell'anno e che cominciò a consacrare - com'è noto - il culto staliniano), di Molotov, di Kujbysev e di Grinko: sappiamo ora che praticamente il volume fu messo insieme da Cantimori, allora a Berlino, che propose i testi a Federico Gentile (lettera del 21 febbraio 1934) e li procurò alla Sansoni per la traduzione, che poi fu affidata a G. Zamboni (Mangoni, XXXIV nota 85); mentre erano già note sia le disavventure censorie cui il volume, nonostante l'autorevole avallo dell'ex ministro delle Corporazioni, sulle prime andò incontro e la inopinata fortuna che ebbe in certi ambienti politicamente eterodossi. [191] Secondo volume della collana furono poi quei Principii politici del nazionalsocialismo di Schmitt, della cui genesi e struttura abbiamo già discorso. Si può allora comprendere perché Spirito, interpellato da Bottai nell'agosto 1940 per cercare eventuali collaboratori per lo studio di un piano corporativo, rispondesse che la scelta sarebbe stata difficile perché a partire dal 1935 non si era più scritto di corporativismo «con intento veramente scientifico» e tutto il «movimento di idee» si limitava ancora «a quello compiutosi con la scuola di Pisa»: ci si sarebbe dovuti accontentare, almeno sulle prime, «degli studiosi di quell'epoca» e fra questi raccomandava caldamente Delio Cantimori «il nostro miglior conoscitore del nazionalsocialismo». [192] Cantimori, dunque, nel ricordo del filosofo, aveva fatto parte del milieu della scuola pisana: come tutti, anche Spirito ignorava le profonde trasformazioni che, nel quinquennio trascorso, erano intervenute nelle sue convinzioni politiche.
80. L'analisi fin qui compiuta delle componenti ideali del fascismo di Cantimori ci consente di affrontare con maggior precisione il problema della successiva evoluzione politica dello storico, delle sue scansioni e del suo sbocco. Non poteva trattarsi di una metànoia repentina, come sembra credere chi sostiene che egli si sia orientato verso il movimento comunista fin dal 1934 (Vivanti, Le approssimazioni, 896, 901 nota 28): il fascismo fu l'asse ideale attorno al quale si svolse, per oltre un decennio, la sua vita intellettuale e certi rapassi non avvengono in modo lineare e indolore, ma con dubbi e ripensamenti provocati da sollecitazioni contrastanti. E' anche da escludere ogni lettura teleologica, quasi che la crisi del fascismo - considerata da taluni come un disvelamento inevitabile per un intellettuale della sua statura - dovesse quasi necessariamente comportare un avvicinamento consapevole e poi un approdo al comunismo: di fronte alla domanda di Kaegi, «del come un intellettuale dei suoi gusti 'poteva arrivare' [...] al 'comunismo'», lo storico si sarebbe schermito: «tante volte uno non pensa che si possa essere 'condotti', nel senso di Martin Lutero» (Storici, 286). Actus, quindi, non agens: il fascismo di Cantimori si dissolse perché nel giro di alcuni anni (grosso modo dal 1934 al 1938) quelli che erano stati i suoi elementi di fondo (corporativismo, rifiuto del reazionarismo e dell'anticomunismo, critica del nazionalsocialismo, anti-razzismo, eticità immanentistica e non confessionale) furono messi in crisi dalla effettiva politica del regime. Possiamo, in prima approssimazione, affermare che allora avvertì la natura 'ideologica' delle sue precedenti posizioni, senza tuttavia acquietarsi in un atteggiamento meramente critico o agnostico o riscoprire costellazioni ideologiche che riteneva definitivamente superate: il comunismo gli parve un nuovo «sistema di verità», [193] non esposto a torbidi irrazionalismi, nel quale trovava soddisfatte, su d'un piano storicamente concreto, non poche delle esigenze a cui, per anni, aveva creduto che il fascismo rispondesse. Fu un lavorio intellettuale continuo, di cui abbiamo non molti indizi e che quindi possiamo scandire solo a grandi linee con l'aiuto degli scritti allora pubblicati e dei documenti ora messici a disposizione: se ne ricavano talora elementi contraddittorî, che forse derivano dall'incompletezza della nostra informazione, forse dalla situazione di incertezza e di ripensamento dello stesso Cantimori: Prosperi, che ha avuto la possibilità di leggere alcuni dei diari cantimoriani di quegli anni, avverte che «nemmeno alle carte più segrete viene affidato il segreto dei suoi pensieri e delle sue scelte» (Introduzione, XLII).
81. Gran parte degli studiosi che si sono occupati di Cantimori negli anni '30 ha avvertito nel 1934 un anno di svolta. Se pensiamo che la sua collaborazione col gruppo dei corporativisti pisani fu particolarmente intensa fra quell'anno e il successivo, tanto da far supporre un rapporto (come si sarebbe detto una volta) 'organico', se dunque lo si inserisce in questo mondo, quel riferimento cronologico diviene meno generico: il 5 febbraio 1934 fu, infatti, promulgata - dopo tanti dibattiti - la legge istitutiva delle corporazioni, che per Bottai (che dal luglio del '32 non era più ministro) e i suoi fu motivo di insoddisfazione e di delusione cocente. Da quel momento fra il corporativismo in atto e quello dell'ex ministro, di Spirito e degli altri 'pisani' si allargò sempre di più la distanza: «il corporativismo inteso come sistematica tendenza a un ordine qualificato dalla corporazione - scriverà Bottai nel '52 - era finito. S'ebbero le corporazioni senza corporativismo, senza, cioè, un'atmosfera politica nella quale potessero respirare e agire». [194] Se Bottai, con l'ennesima risurrezione politica, tornò al governo alla fine del 1936 come ministro dell'Educazione nazionale, allora si iniziò invece la diaspora o l'emarginazione di molti dei 'corporativisti': un interessante documento, una nota del Minculpop del 1938 pubblicata da De Felice, [195] dimostra il clima di sospetto in cui erano tenuti, nell'Italia dell'Asse e del patto anti-Comintern, i «bolscevizzanti» Spirito, Volpicelli, Spampanato, Nasti. Lo stesso Spirito, che poco dopo la promulgazione della legge, si presentava a Bottai, dicendogli: «Io non sono più fascista e non ho più intenzione di fare niente per il fascismo», [196] alla fine del 1935, sarebbe stato privato dal ministro De Vecchi della cattedra pisana di politica ed economia corporativa per essere trasferito al Magistero di Messina, a quella di filosofia e storia: contemporaneamente venivano repentinamente interrotti i Nuovi studi. Il frutto di questa crisi politica (che per un totus philosophus come Spirito non poteva non essere anche filosofica) fu - com'è ben noto - La vita come ricerca del 1937, che coincise, per l'autore, con «l'abbandono del fascismo e dell'attualismo»: [197] vedremo che il confronto con questo esito della crisi del corporativismo (diverso da quello verso il quale si stava avviando) sarà un momento nodale del percorso cantimoriano di allora.
E' in questo quadro che va collocato il momento iniziale della crisi del fascismo cantimoriano: anch'egli è, a suo modo, un 'corporativista deluso'. Fino ai primi di settembre del 1934 Cantimori è all'estero, per il suo viaggio di studio: a Londra, nella sala di lettura del British Museum, scrive, il 30 agosto, un appunto autobiografico reso noto da Prosperi (Introduzione, XXI-XXIII), che è la prima testimonianza a noi nota del suo disagio politico. Lo storico trentenne vi ripercorre impietosamente gli inizi della sua militanza fascista, con il tono di chi si sente giunto a un tornante della propria esistenza e avverte un distacco crescente da ambienti e posizioni, che gli sono stati propri per più di dieci anni:
Ora sono nel British Museum; - scrive con movenze rilkiane - il continuo sfogliare delle grandi pagine del catalogo, col suo fruscio secco, la luce temperata, i sussurri che si sentono qualche volta fanno, insieme all'odore di acetosella del disinfettante o purificatore dell'aria, un'atmosfera che mi è diventata famigliare, e che mi piace più d'ogni altra di quelle che ho incontrato fin'ora nelle biblioteche e nei luoghi di studio. Qui si lavora bene, qui vorrei continuare a lavorare per anni, senza disturbi e senza perdite odiose di tempo.
82. La reazione è quella tipica dell'intellettuale, per molti anni fortemente impegnato in politica e che ne viene in qualche modo deluso o disgustato: il ritorno agli studi. E' di quell'estate la prima redazione, poi abbandonata, degli Eretici; nel 1935 la pubblicazione dei grandi saggi 'tedeschi' su Studi germanici e delle opere nelle collane della Scuola di scienze corporative di Pisa (in gran parte si tratta di lavori compiuti l'anno precedente) segna un po' la fine di questa fase 'militante'; sono sempre più frequenti i contributi più propriamente scientifici, attinenti al suo Fach. E' tornato a Roma, entrando in rapporti diretti con Gentile: la collaborazione al Giornale critico e la polemica di quell'autunno contro Carlini (cfr. supra nota 57) dànno il senso di questa nuova situazione. La recensione ai discorsi di Mussolini, pubblicata nel marzo 1935, così volutamente asettica eppur così acuta, è indicativa dell'approccio che terrà, negli anni successivi, verso i problemi della politica contemporanea.
Le prime perplessità politiche, la scelta di impegnarsi sempre
più nel lavoro scientifico lo spingono anche a riannodare rapporti
che si erano interrotti negli anni precedenti, in ambienti lontani e a
lungo avvertiti come ostili. Significativo è - a questo riguardo
- il tentativo di riaprire un contatto diretto con Croce, a cui torna
a scrivere il 13 aprile del 1935:
Roma, 13 aprile 1935
Istituto Italiano di Studî
Germanici, Villa Sciarra
Wurtz sul Gianicolo
Illustre Senatore,
mi permetto di mandarLe in omaggio quello che ho fatto in questi ultimi anni, riprendendomi da uno sviamento durato a lungo. Il tentativo storiografico sul Concetto di Rinascimento è stato il primo passo; l'ultimo compiuto è per ora una «Rassegna» sui più recenti studî sulla Riforma in Italia e sui Riformatori italiani all'estero, che mi permetterò di inviarLe appena sarà uscita.
I miei studî ora sono divisi fra la storia degli eretici italiani all'estero ('sociniani', antitrinitarî), che confido darà sostanza di dimostrazione alle affermazioni che fin'ora ho fatto al loro proposito - e alcune ricerche sulle idee del Proudhon e del Marx prequarantottesco.
Voglia accettare benevolmente il mio omaggio, che Le verrà portato dal Prof. Bottari, e i miei ossequi rispettosi.
Suo dev.mo
Delio Cantimori [198]
83. Attraverso lo studioso d'arte Stefano Bottari, Cantimori riprendeva la consuetudine, interrotta da anni, di presentare a Croce i suoi lavori scientifici (abbiamo visto come il filosofo fosse rimasto ferito da quel lungo silenzio) e lo informava dei suoi studi e dei suoi progetti, come se il lavoro storiografico fosse ormai la sua vera strada: è infatti interessante che consideri «uno sviamento durato a lungo» il confuso ondeggiare fra interessi diversi (la Rettorica, la 'storia della cultura', l'europeismo, la cultura romagnola, la Germania giovane e la sua cultura politica, la Riforma in Italia) di cui ci sono tracce ancora nelle lettere al filosofo del 1928 e ponga nel «tentativo storiografico sul Concetto del Rinascimento» il primo avviamento per una ricerca più propriamente scientifica. Croce, rispondendo il 18 aprile, avvertiva Cantimori di avere scritto un annunzio della traduzione del Church sulla Critica (che verrà pubblicato un mese dopo, nel fascicolo del 20 maggio), «prendendomela anche con alcune sue affermazioni» contenute nella prefazione (Prosperi, Introduzione, XXXVIII, nota 55). Si tratta della polemica pungente su cui ci siamo già soffermati (cfr. supra, VI, 63 )e che dovette bloccare ogni altro suo tentativo di avances: Cantimori percepì che il filosofo continuava a non fidarsi. Come aveva promesso, un anno dopo, il 2 giugno 1936, gli mandava la sua rassegna sulla storia della Riforma in Italia comparsa sulla Rivista storica italiana di Volpe, vi ammetteva «diseguaglianze e incertezze», ma chiedeva con fermezza «che queste non venissero interpretate che come provenienti da uno sforzo di orientamento culturale e intellettuale, e che non mi si attribuissero altre intenzioni che di cercare spiegazioni e chiarimenti, attraverso le mie obiezioni ed osservazioni» (ibid., nota 57), chiedeva insomma di esser giudicato per i risultati dei suoi studi e non per le convinzioni politiche che gli potessero essere attribuite.
Il distacco dalla politica militante e il senso dell'autonomia degli studi si convertì - per Cantimori - in un'acquisizione duratura. Già Ciliberto [199] insistette molto su questo aspetto: fra il '34 e il '35 emergerebbe quella nettissima distinzione fra attività scientifica e politica in actu, fra «idee» e «pensiero» (critico e disinteressato) da una parte, e «dottrine», che resta una costante anche nel successivo itinerario politico di Cantimori. Il fastidio del Cantimori post-bellico per l'intellettuale militante, per ogni praticismo culturale, il carattere etico, tante volte ribadito, della disinteressata ricerca della 'verità' e la sua rilevanza anche politica, per un partito come quello a cui aveva poi aderito, che si presentava come il portatore del pensiero critico moderno, hanno la loro radice nella fine del suo engagement giovanile e negli insegnamenti duraturi che seppe trarne.
84. Ai primi del 1936 sposava la comunista trentina (in odore di trockismo) Emma Mezzomonti: secondo alcuni, quel matrimonio proverebbe che la 'conversione' di Cantimori era già giunta a termine, perché «il rapporto - affettivo e intellettuale - stretto con la moglie non consentiva la possibilità che fra i due coniugi esistesse una divergenza di opinioni politiche e morali, quale ci sarebbe stata fra una comunista e un fascista» (Vivanti, Politica, 783). In realtà, alcuni documenti pubblicati di recente indicherebbero una situazione molto più mossa: da una lettera di Cantimori ad un'allieva del 5 ottobre 1961, la situazione era descritta diversamente:
Conosco una A comunista che tanti mai anni fa sposò un non comunista, B, antico fascista (non squadrista o altro), sinistrorsa umanitaria, piena di riserve antistaliniane ecc.; quando (si era in periodo 'cospirativo') A domandò consiglio a Emilio Sereni, questi rispose: purché non ti impedisca la tua attività, sapendo i rischi che comporta (Seidel Menchi, 781).
A quanto pare, non solo non c'era vicinanza politica fra i due fidanzati, ma la Mezzomonti ritenne opportuno l'avallo d'un autorevole dirigente del partito cui apparteneva, per il passo che stava per compiere. Questa tarda testimonianza sembra confortata da un documento coevo pubblicato da Prosperi (Introduzione, XXXIX nota 59), una cartolina-ricordo di una gita fatta da Delio a Caprarola e al lago di Vico il 22 settembre 1935, in cui si sottolineava l'assenza di Emma: «Un ripicco suo, da un mescolar cose umane con la vita pubblica, politica». Alla vigilia della guerra di Etiopia, dunque, fra Cantimori e la futura moglie non c'era ancora vicinanza politica. Questo, ovviamente, non esclude, anzi semmai conferma, che negli anni successivi l'aver a fianco una donna di non comune personalità come la Mezzomonti abbia fortemente pesato sulle scelte politiche dello storico. Claudio Varese ha, per esempio, ricordato che nella loro dimora romana era usuale la lettura dello Stato operaio [200] ed è plausibile che della politica comunista cominciasse ad avere una notizia diretta, oltre che dalla moglie, dalla stampa clandestina che passava per casa.
85. Non è facile, invece, fare ipotesi sull'atteggiamento di Cantimori di fronte alla guerra coloniale del 1935-36: sappiamo che precocemente intuì il nesso posto da Mussolini fra la politica corporativa, il tema della giustizia sociale, e i problemi di politica internazionale, della «giustizia per il popolo italiano» (cfr. supra, nota 171), ma il tono, al solito, 'oggettivo' di quelle pagine non ci consente di comprendere le vere posizioni dello scrivente. Si può notare come, in un clima di crescente mobilitazione nazionale, che coinvolse anche studiosi che per l'innanzi si erano tenuti a debita distanza dalla vita politica del tempo, [201] manchino negli scritti di Cantimori non solo adesioni esplicite, ma anche riferimenti precisi agli avvenimenti africani: ma è un argomento e silentio, che non può dirimere il problema. C'è tuttavia uno scritto che ci può dare qualche non trascurabile elemento: si tratta della recensione, uscita sul Leonardo nell'ottobre del 1935, di un libro del francese René Quinton di Massime sulla guerra, pubblicato da Mondadori come primo titolo della collana «Tempo nostro», in connessione evidente col clima bellico in cui il paese era entrato. Il Quinton, combattente della prima guerra mondiale, vi sviluppava tutta una serie di aforismi sulla «voluttà del rischio», sull'«abnegazione dell'animale», sulla lotta eterna fra maschi e femmine e altri analoghi stereotipi. Lo storicista Cantimori attacca con severità e durezza tutto questo campionario e soprattutto nega la sua attualità, che cioè possa essere considerato «come tipica [...] manifestazione di caratteristiche essenziali del periodo di tempo nel quale ci troviamo a vivere»:
nella Germania nazional-socialista per esempio, come altrove, celebra i suoi trionfi proprio una pseudofilosofia naturalistica e irrazionalistica, esaltatrice degli istinti più incomposti e degenerati degli uomini, con un misticismo cupo del sangue e della terra. Ma il fracasso che fanno queste pseudoidee, le vittime degne e indegne sacrificate a questi idoli, non debbono, non possono ipnotizzare gli uomini di coscienza vigile e di occhio chiaro [...] non è in nome della natura biologicamente e astrattamente intesa, non è in nome del sangue, non è in nome d'una voluttà non virile se pur ammantata di frasi eroiche che si combatteranno le lotte future.
In esse serviranno solo «tenace freddezza» e «durezza inflessibile». Il timore di Cantimori è che si voglia circondare la nuova guerra di simili motivi ideologici, che essa possa segnare, anche in Italia, il diffondersi di atteggiamenti ispirati dal naturalismo nazista o barrésiano: «le ore gravi che viviamo non possono che venir disturbate da considerazioni come queste». E' significativo che ad esse Cantimori accosti il «peggior D'Annunzio» e «quella bassa letteratura del dopo guerra, che va dal Mariani al Marinetti» e che invece, le contrapponga alle «osservazioni e ragionamenti [...] che un letterato italiano ebbe occasione di elaborare una ventina d'anni or sono, e che ebbero fortuna nei nostri ambienti militari», dove è chiaro il riferimento a Vita e morale militare di Luigi Russo. Come antidoto, Cantimori esorta a leggere «le lettere dei nostri morti in guerra, di recente raccolte e commentate», [202] cioè i Momenti della vita di guerra di Omodeo, pubblicati in volume nel 1934. Si tratta, dunque, di un invito alla freddezza e alla sobrietà (che fu presente anche in interventi di poco successivi di Gentile) da parte di chi forse non è entusiasta della piega assunta dalla politica italiana, ma accetta tuttavia la guerra per spirito di servizio e dovere nazionale.
86. Altrettanto poco documentato è l'atteggiamento di Cantimori nei confronti della guerra civile spagnola, scoppiata - come ognun sa - nel luglio del 1936 e dell'intervento italiano e tedesco a fianco del generale Franco. Nel marzo-aprile del '37 recensisce tuttavia due testi di argomento spagnolo: una raccolta di scritti di Ortega y Gasset curata da Lorenzo Giusso (e il giudizio è quello severo su cui abbiamo già richiamato l'attenzione) e la traduzione italiana del programma del partito falangista spagnolo, sul quale si sofferma polemicamente:
Se confrontiamo questo programma di un partito che è ai suoi inizi, con quello del movimento Fascista del 1919, e con le manifestazioni programmatiche dei primi anni del Fascismo, non possiamo non riscontrare nel programma spagnolo una grande genericità, un prevalere assoluto dell'elemento utopistico e polemico, di fronte alla concretezza politica e sociale di quei postulati fascisti (PSC, 637).
Sia che - come sostiene Ciliberto [203] - questo richiamarsi al programma del 1919 derivasse dalla lettura sullo Stato operaio della risoluzione del comitato centrale del partito comunista del settembre 1936, che - com'è noto - nell'appello ai «fratelli in camicia nera», metteva in evidenza gli elementi di libertà presenti in quel programma; sia che fosse un modo per continuare una polemica 'interna' al fascismo da parte di chi, anni prima, aveva negato ogni contiguità ideologica fra Mussolini e Primo de Rivera padre e ora sottolineava le distanze fra il fascismo e il partito di Primo de Rivera figlio, è evidente una presa di distanza dal mondo del falangismo spagnolo, allora impegnato, con i suoi alleati, nella guerra civile. Se pensiamo ai contenuti, su cui ci siamo soffermati, del fascismo di Cantimori, è da ritenere che proprio nella seconda metà del 1936 la sua crisi subisse un'accelerazione: il progressivo avvicinarsi alla Germania nazista culminato nella visita di Ciano a Hitler del 24 ottobre e nel discorso mussoliniano del 1° novembre a Milano, che sanciva la creazione dell'«asse» Berlino-Roma (Cantimori aveva sempre sottolineato le differenze ideologiche fra fascismo e nazismo) e la virata antibolscevica del regime; l'impegno comune nella guerra spagnola in chiave - almeno ufficialmente e propagandisticamente - anti-comunista (il fascismo italiano diventava baluardo dell'anticomunismo europeo, legandosi alle destre cattolico-reazionarie, una scelta di campo contro la cui eventualità il giovane fascista aveva polemizzato nel 1930-31) fino all'adesione al patto anti-Comintern il 6 novembre 1937; la progressiva prevalenza che il reazionarismo cattolico veniva acquistando nella cultura ufficiale del regime e nei contenuti della propaganda ideologica antibolscevica e antisovietica che allora cominciò ad essere organizzata e sviluppata (il 19 marzo 1937 Pio XI pubblica l'enciclica Divini Redemptoris, contro il comunismo ateo e il materialismo disgregatore); la diffusione, anche in Italia, di quella cultura naturalistica del «sangue» sul modello tedesco, contro cui Cantimori si scagliava ancora alla fine del '35, e quindi l'emergere sempre più netto di tematiche razzistiche e antisemite; insomma il clima ideologico che si viene affermando dalla seconda metà del '36, [204] la direttiva filo-tedesca della politica estera fascista, la guerra spagnola in cui anche l'Italia si va impegnando, sono totalmente estranei a quelle che erano state le prospettive del fascismo cantimoriano, per cui è più che probabile che l'antico fascista stentasse a riconoscersi nella nuova situazione. Quando, nell'aprile del 1957, dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria e il suo distacco dal Pci, scriveva a Gastone Manacorda: «Le roi est mort, vive le roi: comincia un' altra epoca; ma quella cominciata con la guerra di Spagna è finita. Una lacrima, una prece, e peggio per noi: per il resto vedremo», [205] esprimeva un giudizio storico di notevole acume sulla storia dell'engagement intellettuale in questo secolo, ma faceva anche un'allusione autobiografica degna di nota relativa al tempo in cui la sua attenzione aveva cominciato a volgersi al comunismo.
87. Creatura tipica del clima di crociata ideologica anticomunista fu il Centro di studi anticomunisti, creato da Mussolini nell'aprile del 1937, un'agenzia - di cui fu magna pars Tommaso Napolitano, giurista e studioso della realtà sovietica - che aveva un duplice scopo: di fornire materiali per l'attività di propaganda e di informazione alle organizzazioni culturali fasciste e soprattutto di funzionare da strumento di studio della Russia sovietica per il gruppo dirigente del partito fascista. [206] Fra il gennaio e il febbraio del 1937, Cantimori ricevette da Gabetti, il direttore dell'Istituto di studi germanici, presso cui lavorava, la proposta di far parte del Centro, che era allora in formazione, col compito di esaminare le modalità e i temi della propaganda anticomunista in Germania: una tale proposta significa evidentemente che il suo più immediato superiore non aveva alcun dubbio sulla sua completa affidabilità politica e che niente era trapelato o poteva essere intuìto della sua crisi ideologica. Cantimori diede un'adesione di massima (tanto che il suo nome figura nell'organigramma contenuto in un documento del febbraio '37), ma sostanzialmente si defilò, soprattutto facendo presente di non essere adatto «per conferenze, esposizioni, insomma attività pratico-organizzativa» (Prosperi, Introduzione, XLI-XLII). Temette, per un istante, l'eventualità di ricadere in un'attività 'militante', da cui si era liberato negli anni precedenti? questo timore di essere distolto dagli studi celava in realtà qualcosa di più, un distacco interiore dal suo mondo precedente? aveva ormai per il comunismo e la lotta anticomunista un interesse di natura diversa da quella che era all'origine del Centro? Son tutte domande a cui non è possibile rispondere con precisione: non ci resta che registrare quella scelta.
Anche Napolitano era stato fra i 'bolscevizzanti' dei primi anni '30, collaboratore di Critica fascista: in effetti l'anticomunismo a cui era allora approdato non era assimilabile a quello cattolico o nazista, essendovi sottesa la speranza che la 'sfida' al bolscevismo significasse l'inizio di una nuova politica sociale del regime. [207] La sua era comunque una delle tante parabole, che si ebbero in quegli anni. Ancora una volta, Cantimori si confrontò da vicino con quella di Ugo Spirito, descritta e motivata nel volume del 1937 La vita come ricerca, recensito in un saggio impegnativo apparso sul Giornale critico alla fine di quell'anno. Scrivendo a Guido Calogero il 20 settembre 1937, Gentile lo aveva informato che «sul libro di Spirito piovono al Giornale critico lunghe e appassionate discussioni. Ne pubblicherò una del Cantimori, che mi pare equilibrata». [208] Sembrerebbe quindi che Cantimori non fosse stato richiesto della recensione da Gentile, ma si fosse spontaneamente misurato con il libro, e che la sua analisi fosse scelta fra le tante che erano pervenute al direttore del Giornale critico per il suo «equilibrio», cioè per i riconoscimenti che vi venivano compiuti e per la stima evidente per il recensito che, pur nel dissenso, vi si manifestava. [209] Gentile poneva così di fronte due studiosi (questo potrebbe essere un altro movente della sua scelta) accomunati da non poche esperienze filosofiche e politiche, a cui però stavano dando esiti diversi: l'antico teorico del corporativismo, con quel libro, voltava le spalle all'attualismo e (almeno per il momento) all'impegno politico, in nome di una 'ricerca' che rischiava di non acquietarsi mai in un risultato definitivo; il più giovane recensore, pur esprimendo comprensione per le sue posizioni, sembrava riaffermare le ragioni di fondo dell'idealismo filosofico e soprattutto di un impegno mondano, a cui l'ipercritica di Spirito si chiudeva.
88. Nel suo saggio, Cantimori, dopo una lunga esposizione del libro, svolgeva fondamentalmente tre punti. Innanzitutto storicizzava (e quindi relativizzava) la vicenda di Spirito e del gruppo di intellettuali che si erano riconosciuti nelle sue idee. La crisi, di cui il libro di Spirito era testimonianza, non aveva quella rilevanza complessiva, universale, ch'egli le attribuiva: esso
è sì il documento (impressionante di sincerità e di onestà) di uno stato d'animo diffuso: ma diffuso insomma in Italia, e fra gli intellettuali italiani di preparazione idealistica e di interessi prevalentemente logico-speculativi e filosofico-politici. [...] La perplessità filosofica e morale di un gruppo di intellettuali, in una particolare situazione sociale e politica, non può essere scambiata con una situazione generale, di 'tutti' [...] la dottrina della ricerca [...] riassume in sé i problemi di un gruppo di intellettuali italiani che lavorano nel campo filosofico, storico, economico, giuridico, alla luce delle idee dell'idealismo filosofico, polemizzando spesso aspramente fra loro, ma chiusi nell'ambito di quelle idee (PSC, 623, 626).
Criticava poi il concetto di 'ricerca': ricorrendo al proprio, tipico impianto categoriale, Cantimori gli riconosceva un grande «valore culturale» (come sintomo di un'insoddisfazione e dell'esigenza di affrontare i nuovi problemi e con nuova mente i vecchi), ma scarso rilievo «filosofico» (per tale suo carattere psicologico e sentimentale) e una fondamentale carenza etica, per l'immobilismo etico-politico che ne poteva derivare:
la dottrina della ricerca è la dottrina dell''intellettuale tipo' e non si può rimanere in essa eternamente, se si vuole giungere alla 'vita', alla 'verità', alla 'gioia' o soltanto mettersi sulla strada o su una delle strade per giungervi: a meno di 'intellettualizzare' la vita, cosa brutta quanto la parola qui usata [...] essa condurrebbe all'inattività e all'inoperosità e al disorientamento mentale (PSC, 626-627).
In tutta la sua ipercritica, tuttavia, Spirito non poteva rinunciare al «mito», l'elemento positivo che l'antinomia e la critica superano continuamente e che pure ritorna, per essere poi ulteriormente negato; ma - scrive il recensore - la convinzione che ne deriva è fredda, l'esaltazione, retorica, insomma quel mito così inteso è intimamente arido. Con una nota quasi pragmatistica, Cantimori rovescia la tematica della 'ricerca': anche nella consapevolezza del suo carattere mitico, limitato, razionalmente poco formulabile, bisogna lottare per una 'verità', che non avrà certo carattere assoluto, ma che diventerà fattore di storia e quindi troverà una sua collocazione e un suo valore nella dialettica della storia. La scelta di tale verità è compiuta essenzialmente per fini morali:
se il mito non è eliminabile ci si trova di fronte all'alternativa: o accettare tutti i miti o lottare per uno solo, pur consapevoli dei suoi limiti; o spandere incensi in un Pantheon, o seguire un piccolo Iddio, con tutti i suoi troppo umani vizi e peccati. O desiderare l'assoluto o impeciarsi nel particolare. Le metafore non contano: per il primo corno del dilemma stanno tutte le argomentazioni di Spirito in questo libro; per il secondo la considerazione, derivata dalla concezione dialettica della storia, che la verità e la gioia derivano dalla lotta e che l'assoluto è la storia stessa, cioè che il sentimento dell'insufficienza dei principî e dei miti e l'aspirazione all'universalità debbono trasformarsi, per aver reale valore, nella scelta per un principio o per un mito e nella lotta per esso [...] qui basta un appello alla coscienza e un richiamo al sentimento; che cioè per prender parte basta una convinzione morale, un impulso morale, anche se non esplicitamente e razionalmente formulabile [...] non ci si può accontentare di un superamento fondato sulla proiezione all'infinito di uno dei termini della antitesi invece che su una nuova sintesi (PSC, 629).
89. Come molti dei testi cantimoriani di questi anni, questo si può prestare a una duplice lettura: poteva sembrare la reazione dell'attualista (e del fascista) che non si nasconde la crisi di un sistema di pensiero (e di un certo tipo di impegno politico), anzi in qualche modo ne partecipa, ma ribadisce la validità di fondo di certe scelte e quindi la necessità di uscire da tale disagio con un approfondimento e un rinnovamento, ma in una sostanziale continuità (non si dimentichi che Cantimori difendeva l'idealismo dall'accusa di essere in sé conservatore e l'ideale umanistico di educazione dalle critiche 'modernizzanti' di Spirito). Sembra che lo stesso Spirito abbia allora inteso questo scritto «come un richiamo all'impegno e alla lotta intellettuale da condursi nell'ambito della filosofia idealistica»: [210] di questo tipo fu anche la reazione di alcuni recensori di parte fascista e, nell'ambito di un discorso più complesso, dello stesso Gentile. Oggi, chi conosca la situazione complessiva del Cantimori di quegli anni, può anche ritrovarvi altri propositi: può leggervi la presa d'atto della crisi di una generazione di giovani attualisti e fascisti, che avevano partecipato al clima culturale dei primi anni '30 e che poi, dopo il '35, avevano taciuto, crisi culturale ma in primis politica; la convinzione del carattere intimamente conservatore e immobilistico di una soluzione ipercritica e semi-scettica, propria dello spettatore disincantato che non prende più posizione, perché scopre il carattere mitico di ogni nuova soluzione come delle antiche; la necessità, quindi, di contrapporre alla Weltanschauung tramontata una nuova, capace di essere una «nuova sintesi» attraverso cui inserirsi nella storia e operare nel mondo, pur essendo consapevoli dei suoi limiti e degli elementi mitici in essa insiti.
Già Manacorda aveva datato «intorno al 1938» l'emergere del nuovo orientamento politico di Cantimori. [211] A questo riguardo, è sfuggita un po' a tutti una testimonianza di notevole rilievo fornitaci da Sergio Bertelli: «Attento studioso del mondo germanico - egli scrive - quando si era costituito il Comitato Anti-Kòmintern Cantimori aveva compiuto un lungo e periglioso viaggio (per dirla con Zangrandi), interessandosi al comunismo da un'opposta sponda. Solo l'antifascismo della moglie Emma e un lungo incontro a Parigi con Donini erano riusciti a distaccarlo da quel mondo di barbarie». [212] Non mancano, qui come in tutto quel libro, imprecisioni e qualche lapsus, ma l'importante da rilevare è questo: un decisivo ruolo maieutico nel determinare il distacco di Cantimori dai suoi precedenti orizzonti politici e quindi nell'avvicinarlo al comunismo svolse un incontro con Ambrogio Donini a Parigi (e Bertelli cita una testimonianza a lui fornita dallo stesso Donini in data 1° marzo 1978). In effetti Cantimori fu a Parigi nell'agosto-settembre 1938 [213] e dovette avvenire in quell'occasione il colloquio con l'antico discepolo di Ernesto Buonaiuti, diventato rivoluzionario professionale, da anni intento a intessere rapporti fra il suo partito, il mondo intellettuale [214] e quello cattolico. Poco prima del viaggio parigino era apparsa sul Leonardo del maggio 1938 la lunga rassegna a cui si riferisce Bertelli, quando ricorda l'interesse di Cantimori per il comunismo «da un'opposta sponda». Essa potrebbe essere un esempio di ciò che i promotori del Centro di studi anticomunisti gli avevano chiesto l'anno avanti: il suo oggetto è infatti «il metodo della polemica, della critica e della propaganda politica» seguito dalla pubblicistica cattolica contro il comunismo nel periodo immediatamente precedente e successivo alla Divini Redemptoris (19 marzo 1937). Non mancano cenni (in genere non positivi) anche ad altre iniziative extra-cattoliche, nell'ambito di quella «vasta fioritura» di scritti anti-comunisti che si ebbe nella seconda metà del 1937: La vita italiana di Preziosi, i quaderni dei Comitati d'azione per l'universalità di Roma (CAUR), che sembravano ispirarsi ai modelli dell'anti-bolscevismo nazista e del suo mensile Contrakomintern (ma avevano ospitato anche la traduzione dell'enciclica, curata da quel padre Cordovani di cui Cantimori parla poi a lungo); ma, come s'è detto, è soprattutto alla polemica cattolica che rivolge la sua attenzione.
90. Cantimori sapeva bene che il Russicum, l'istituto per il clero russo creato nel 1928, era diventato un notevolissimo centro di studi e di propaganda antibolscevica, anche attraverso il periodico Lettres de Rome del gesuita padre Giuseppe Ledit e che non poca della polemica anti-sovietica fascista, da Guido Manacorda a Tommaso Napolitano, attingeva largamente alla sua documentazione; [215] anzi comincia ora ad emergere in lui la convinzione che la chiesa cattolica abbia in qualche modo vinto la partita ideologica col fascismo iniziatasi all'indomani dei Patti del Laterano e che i temi dell'anticomunismo siano fra quelli in cui tale egemonia si viene affermando. E' proprio all'opera di Ledit che Cantimori offre maggiore considerazione per il suo «rigoroso realismo di interpretazione»: essa costituisce un modello di come debba essere condotta una critica «fondata su una conoscenza precisa dei fatti, delle cose, degli uomini [...], raggiungibile solo se fondata sulla coscienza di essere al polo opposto, quindi libera da necessità polemiche o propagandistiche immediate». Lo studioso la ricollega alla tradizione gesuitica degli inizi, nel suo comprendere e studiare l'avversario, «superandone i metodi, corrispondendo e soddisfacendo alle esigenze e ai motivi profondi ai quali esso vuole corrispondere, essendo sorto per soddisfarle» (PSC, 717). Propone perciò questo modello di «critica superiore», [216] anche ai polemisti fascisti, che devono porre l'accento non solo sugli aspetti immediatamente negativi dell'avversario, «ma su quelli positivi del Fascismo dai quali dedurre la polemica, che diventa quindi critica e chiarimento, in quanto fa centro su di noi [fascisti], e non semplicemente propaganda (che fa centro sull'avversario e finisce per aver valore solo in funzione di esso); da noi - conclude Cantimori - i più vicini a questa posizione sono gli scrittori di 'Critica Fascista'» (PSC, 716) e, fra questi, poco prima aveva indicato Agostino Nasti (PSC, 712). C'è da chiedersi se Cantimori, in quei primi mesi del 1938, ritenesse il fascismo italiano, non singoli suoi esponenti, capace di una critica siffatta, fondata, non sulla ritorsione polemica con argomentazioni magari mutuate dalla coeva pubblicistica nazionalsocialista o cattolica, ma sulla positiva elaborazione di contenuti propri da contrapporre, in una sfida continua, a quelli dell'avversario. Come al solito, il testo è ambiguo: si afferma che «il fascista e il nazionalsocialista hanno da opporre al comunista il loro Stato e le loro dottrine, che non coincidono certo sempre con quelli cattolici», ma nel contempo si avverte che «attualmente la tendenza politica» punta più sul «motivo fervidamente religioso» e sull'«attivismo conducente all'attacco [...] ma non si parla di istituzioni contro istituzioni» e si aggiunge: «ma qui si rende conto dei libri e non di altro, che spetta ad altro luogo» (PSC, 717).
91. Ma - da questo punto di vista - c'è un passo particolarmente interessante, anche per quanto attiene la biografia politica di Cantimori, che dimostra il distacco che sembra avesse ormai maturato nei confronti dell'esperienza corporativa:
Questa linea di polemica - scrive - è analoga a quella che fino a qualche anno fa ha condotto il battagliero corporativismo dello Spirito e dei suoi seguaci, in nome di un soddisfacimento più completo e radicale delle esigenze che si postulavano presso gli avversari [i comunisti, come si intuirà subito dopo, N.d.A.], riducendole a un comune denominatore generale, e spogliandole della loro reale concretezza storica. In questo tipo di polemica la parte più interessante è in genere quella negativa, critica, che non è volta direttamente contro l'avversario, ma contro un 'falso scopo' (capitalismo, ingiustizia sociale), col quale si dimostra identificarsi alla fine l'avversario che si combatte (ad es. comunismo eguale capitalismo di Stato, o eguale ingiustizia sociale). Sono tutte argomentazioni efficaci, e giuste: ma rimangono nell'astratto e nell'affermazione generale e programmatica quanto al positivo, poiché si tratta solo d'un gioco di concetti e di definizioni; quanto al negativo, esse ripetono in generale le critiche, ormai comuni, alla società contemporanea. Ma la violenza della negazione non implica sempre perentoriamente quella forza affermativa della quale vorrebbe essere indizio (PSC, 710).
Dunque il vero avversario del corporativismo, anche del migliore, quello di Ugo Spirito, era stato il comunismo, e il capitalismo, l'ingiustizia sociale erano stati diversivi polemici, utili essenzialmente a stabilire equazioni polemiche col comunismo. Anche il corporativismo più combattivo - afferma, nel suo stile intricato, Cantimori - non era andato al di là di una critica negativa del comunismo (con argomentazioni non originali, ma prese in prestito dalle comuni lamentele sulle caratteristiche della società contemporanea, il suo materialismo, il suo meccanicismo, il suo carattere di massa, il dispregio dei valori spirituali); la critica positiva era stata essenzialmente un gioco concettuale (il superamento del socialismo e del liberalismo, il corporativismo come liberalismo assoluto e socialismo assoluto). Quindi la critica negativa era stata perentoria, ma nascondeva in realtà una debolezza propositiva. Se questa era la conclusione cui era arrivato sul 'gran momento del corporativismo', c'è da credere che fosse ancora più perplesso per il presente: che cioè il comunismo gli sembrasse un modello di stato e di organizzazione sociale a cui il fascismo non sapesse contrapporre valori propri, ma solo una propaganda coi temi classici dell'anticomunismo cattolico o nazionalsocialista.
92. Se accettiamo la testimonianza di Donini, si può dunque affermare che Cantimori, nelle settimane di Monaco, fece un passo decisivo verso il comunismo, senza - si badi bene - aderire al partito a cui si iscriverà dieci anni dopo, al principio del 1948. Sembra che abbia poi accettato senza traumi anche le svolte più clamorose della politica dell'URSS, come il patto russo-tedesco dell'agosto 1939. Ancora Varese ha ricordato la «comprensione» del realista Cantimori per quel revirement della politica estera sovietica e della linea del Comintern: ma, a ben leggere, essa risulta con sufficiente evidenza da un suo scritto apparso sul Leonardo del settembre-ottobre 1940, la recensione ai Documenti intorno alla rivoluzione russa, pubblicati nel maggio del '40 in una collana dell'Ispi diretta da Volpe, da Wolf Giusti, un ex-comunista, allora fortemente impegnato nel nascente movimento liberalsocialista. [217] L'atteggiamento largamente difensivo nei confronti della realtà sovietica da sempre tipico di Cantimori non è mutato: al Giusti, che, riprendendo posizioni condivise un tempo dal Cantimori lettore di Rosenberg, vede nella rivoluzione russa un «fatto nazionale russo», rimprovera di porsi così «sul piano della storiografia più propriamente politica, nel senso tradizionale, che su quello della storiografia dei movimenti politico-sociali a carattere sopranazionale» (PSC, 675), ribadendo così il nesso fra gli interessi sovietici e quelli del movimento comunista internazionale; avverte nella larghezza con cui il curatore ha riportato «gli aspetti della retorica politica russa, o se vogliamo, i tipi dell'eloquenza e della propaganda interna dell'U.R.S.S.» un intento sottilmente polemico, «un'eco delle polemiche condotte dai quotidiani degli altri paesi» (PSC, 675-676). Molto abile è il modo con cui poi tratta dei processi del 1938: critica Giusti per non aver rilevato a sufficienza la loro importanza politica e - a tal proposito - si fa schermo di una fonte insospettabile, la rivista di Alfred Rosenberg Nationalsozialistische Monatshefte, che aveva visto in quel processo un episodio clamoroso della lotta di movimenti a carattere nazionalistico-etnico entro l'URSS, contro il centralismo «ebraico-bolscevico» (PSC, 676-677). Con questo diversivo, il recensore finiva dunque per accettare la versione ufficiale che vedeva uno degli obiettivi dei processi nel 'nazionalismo borghese' e nel 'nazionalismo asiatico', come si espressero gli accusatori. [218] Giusti aveva infine pubblicato molti trattati conclusi dall'URSS, fra cui anche il recente patto tedesco-sovietico, forse con lo scopo di «rilevare, attraverso anche le contraddizioni fra un trattato e l'altro, o fra qualche discorso programmatico e qualche recente trattato, i movimenti della politica sovietica». Allora - aggiunge Cantimori - sarebbe stato opportuno anche «riportare il trattato di Brest-Litowski (il Giusti pubblica solo due scritti polemici in proposito), al quale è ovvio pensare ci si debba rifare per la storia diplomatica dell'U.R.S.S., e alla 'revisione' del quale sembra ovvio sia diretta almeno in parte la politica dello stato russo, almeno nella sua nuova tendenza [...] del 'patriottismo socialista'» (PSC, 676): il patto di non aggressione del 1939 - sembra dire Cantimori - non può essere inteso senza la pace coatta di ventun anni prima, con esso l'Unione sovietica non solo ricupera territori allora perduti, ma si sottrae alla possibilità di dover soccombere ancora una volta da sola alla potenza tedesca.
93. Di una sua reale attività all'interno dell'organizzazione comunista abbiamo notizie dirette solo nel 1943-44, nella elaborazione del catalogo della «Nuova biblioteca editrice», che porta la data del 7 giugno 1944, tre giorni dopo la liberazione di Roma, e che nell'Avvertenza si dice frutto di un lavoro iniziato nel febbraio 1943. [219] Per gli anni precedenti solo testimonianze indirette: Varese ricorda che egli avrebbe partecipato attivamente alla raccolta di fondi in aiuto della Spagna repubblicana; Velio Spano viene ospitato nella casa romana dei Cantimori durante uno o più viaggi clandestini in Italia; Giorgio Amendola, anticipando i tempi, riferisce che
a Roma, per un certo periodo, attorno al 1936-1937, il professor Paolo Milano, poi il professore Delio Cantimori, la professoressa Emma Mezzomonti Cantimori e lo slavista Wolfango Giusti, furono considerati da altri gruppi antifascisti come esponenti del PCd'I. Si andava infatti, da parte di antifascisti di altre correnti, alla ricerca dei comunisti, non tanto per elaborare programmi di azione comune, quanto per affrontare tesi ideali e politiche, in un periodo che ancora si considerava, malgrado la drammaticità degli eventi, come di preparazione intellettuale. [220]
Vivanti, infine, riporta un ricordo dello stesso Cantimori, che narrava «di una sua avventura, nei giorni dell'Anschluss austriaco, come 'fenicottero' (così venivano chiamati dal partito comunista coloro che, appunto perché 'candidi' agli occhi della polizia e insospettabili, erano incaricati di introdurre clandestinamente in Italia materiale di propaganda 'rosso')» (Vivanti, Politica, 783): l'Anschluss è del marzo 1938 e non si hanno notizie di viaggi all'estero di Cantimori in quel periodo; il fatto potrebbe essere posticipato all'agosto-settembre, dopo il colloquio con Donini. Si ha comunque l'impressione che il motore della maggior parte di queste iniziative sia stata la moglie, antica militante del Soccorso Rosso, e che complessivamente l'azione cospirativa di Delio, se vi è stata, sia stata in quegli anni del tutto marginale.
94. Un discorso analogo va fatto per la sua attività alla Scuola Normale dal 1940 al 1943: sia che lo imponessero le dure regole cospirative del partito a cui era vicino, sia che pesasse anche un sentimento di lealtà verso chi lo aveva richiamato a Pisa, sia che avvertisse una certa qual ritrosia a mostrare sentimenti politici così lontani da quelli sostenuti in tanti scritti fino a pochi anni prima e in tanti ambienti che ancora frequentava, sia che entrassero in gioco elementi di temperamento personale, sembra tuttavia che nel gran fermento politico in cui visse la Scuola pisana in quei primi anni di guerra egli abbia svolto un ruolo tutto sommato secondario. I documenti pubblicati da Simoncelli dimostrano un'estraneità di fondo rispetto a quella turbolenza (a parte una lettera del 7 luglio 1940 in cui si annunzia a Gentile la morte di Claudio Baglietto - siamo nell'estate precedente la chiamata in Normale, - si ha notizia solo di un'attività di mediazione fra Gentile e l'alunno Giorgio Piovano, che Cantimori svolge nel febbraio 1942, subito dopo il fermo di Calogero: Simoncelli, Cantimori, 123, 127). Fra le testimonianze successive, forse l'unica che esplicitamente nega «ogni giudizio che si riferisca a un disimpegno politico di Cantimori in quegli anni» è quella di Franco Ferri, normalista dal '41 al '43, e poi nel dopoguerra, il quale però fa poi riferimento essenzialmente ai seminari cantimoriani come «momento di maturazione culturale e di maturazione politica», non tanto per il loro argomento (anche se Ferri ricorda il corso del 1941-42 sul Socialismo utopistico da Babeuf al 1848) o per un chiaro discorso da parte del docente, quanto per il «richiamo costante a rifuggire dalla discettazione astratta, [...] il richiamo a un impegno sistematico nella ricerca filologica, anche erudita», che veniva sentito dagli allievi «come una risposta a quella esigenza di rinnovamento della cultura, della politica e degli ideali, avvertita da tanti giovani». L'impegno di Cantimori era, quindi, essenzialmente di insegnante e si esplicitava nella vocazione a un diverso costume di lavoro: col Ferri sembra che il legame sia divenuto anche politico, «pur sempre cauto», e non diminuì il senso di rispetto e di timore verso il professore «tanto rigoroso nel richiamare costantemente alla serietà dell'impegno di studio più severo, senza tuttavia scoraggiare altre attività di carattere politico delle quali non si parlava, ma che erano sottintese». [221]
Il problema che qui ci siamo posti mi sembra impostato in modo più convincente in una recente testimonianza di Alessandro Natta, normalista dal 1936 al 1940, che - per lumeggiare la funzione svolta da Cantimori in quegli anni - ritiene utile compiere una sorta di parallelo con l'insegnamento e l'azione dell'altro discepolo di Gentile operante in Normale, Guido Calogero:
Quando alla Scuola Normale è tornato Cantimori, la sua è stata una presenza di valore straordinario, per il campo di interessi e di ricerche in cui egli era ormai un maestro affermato. E' il momento in cui passa, nella sua attività di storico, dagli eretici del Cinquecento al filone dell'illuminismo, del giacobinismo, che deve essere inteso come uno dei terreni della rivoluzione culturale contro il fascismo. I richiami alla Rivoluzione francese e al Risorgimento azionista sono degli elementi importanti per capire le basi culturali dell'antifascismo di tipo liberalsocialista. Cantimori, un grande maestro, un grande studioso, era il più legato ai comunisti, ma aveva una cautela estrema. Non era uomo di impegno attivo, era un grande studioso e aveva i modi tipici dello studioso. Calogero, invece, è stato il più vicino e il più stimolante per noi, per la sua professione esplicita di antifascismo. Io sono stato legatissimo a Cantimori, sono stato vicino a lui per un anno, ma non sono mai riuscito a farmi dire che non solo era antifascista ma anche comunista. Invece Calogero è sceso in campo chiaramente e quindi ci ha aiutato di più, per stimoli culturali. [...] Calogero elabora i programmi, i progetti, le idee, i manifesti del '40 e del '41, ma viene anche a fare le scritte sui muri con noi, nel '40, al momento della guerra. Questo per sottolineare la differenza fra Russo (al quale non avremmo mai chiesto di fare una cosa del genere) e Calogero. [...] Ma anche Calogero ha avuto delle difficoltà. Per esempio, Gentile - pur nella sua liberalità - non gli ha mai permesso di pernottare alla Scuola Normale, mentre Pasquali, che veniva da Firenze, lo faceva sempre. Ma Pasquali non era pericoloso [...] mentre Calogero era un agitatore. Cioè, era sceso nel campo della politica vera e propria. Infatti nel '42 è stato arrestato, mentre nessuno di questi altri grandi intellettuali ha avuto questa sorte. [222]
95. Insomma si può concludere che, in Normale, dal 1940 al 1943, la funzione di Cantimori fu di straordinaria importanza su un piano più propriamente culturale, sia per i temi nuovi che propose nei suoi corsi e nei suoi studi, sia per il metodo rigorosamente filologico e critico che impose; tutto ciò può avere avuto, sia pure indirettamente, una ricaduta politica, ma da un'azione politica di qualunque tipo Cantimori si tenne, in quell'ambito, rigorosamente lontano.
Dopo il 1938 e fino al 1942, sia pure con ritmi più blandi, Cantimori continuò ancora a scrivere di argomenti storico-politici di attualità e a collaborare con le istituzioni culturali del regime: scrisse - al pari di altri storici accademici come Chabod, Maturi, Morandi, Sestan - non poche voci per il Dizionario di politica del PNF, e sono testi in cui, nel tono volutamente scientifico, si insinuano significativi giudizi politici (abbiamo accennato a quelli sulle democrazie occidentali e sugli esiti politici delle varie correnti della Riforma); porta avanti la sua rubrica Politica sul Leonardo di Federico Gentile; si impegna per la collana «Documenti di storia e di pensiero politico» diretta per l'Ispi da Gioacchino Volpe, per un volume sul Partito nazionalsocialista dal 1919 al 1932-33; gli è affidato l'allestimento della sezione dedicata all'Umanesimo nella «Mostra della civiltà italiana» che si sarebbe dovuta svolgere in occasione dell'Esposizione universale del 1942; [223] soprattutto si è sottolineata (Belardelli, 401-403) l'importanza di una nuova collaborazione iniziatasi nel marzo 1940 e protrattasi fino al febbraio 1941 (con un'appendice nel 1942), quella a Civiltà fascista, organo dell'Istituto nazionale di cultura fascista, del quale diveniva allora presidente Camillo Pellizzi, [224] che cercò di dare alla rivista «un indirizzo di maggiore attualità e agilità, anche polemica» diretto «all'approfondimento ed alla divulgazione degli aspetti e dei problemi, caratteristici di questa nostra guerra di liberazione»: «tutto sommato, - commentava Critica fascista nell'ottobre 1940 - si deve segnalare con soddisfazione come la guerra guerreggiata non rallenti il ritmo della nostra guerra ideale, nella quale tanta parte e tanta responsabilità competono al Partito e specie ai suoi organi culturali». [225] Insomma Pellizzi tentava un ricupero di vaste cerchie intellettuali, in parte estraniatesi dalla politica del regime, per dare un contenuto ideale alla guerra verso cui l'Italia si stava avviando, che avesse toni e finalità autonome rispetto a quelle dell'alleato tedesco. In questa situazione quali margini di manovra aveva Cantimori come commentatore politico? margini, intendiamo dire, che non lo portassero a smentire i suoi nuovi orientamenti, ma che al tempo stesso gli consentissero di comparire su quella rivista o più in generale di collaborare a quelle iniziative. Lo storico curò sulla rivista di Pellizzi per tutto il 1940 una rubrica di Cronache di politica religiosa, in cui sottopose ad analisi i nuovi orientamenti della curia romana e del cattolicesimo italiano all'alba del nuovo pontificato e di fronte alla guerra europea: dall'analisi del primo e più importante di quegli scritti potremo ricavare elementi per una risposta al quesito che ci siamo posti.
96. Si tratta di una Lettura dell'enciclica «Summi pontificatus», la prima di Pio XII, pubblicata il 20 ottobre 1939, dopo poco più di sette mesi dall'elezione: l'articolo risulta scritto nei primi mesi del 1940, prima dell'entrata in guerra dell'Italia e dopo che il patto Molotov-Ribbentrop ha permesso la spartizione della Polonia e dell'est europeo. L'enciclica è stata letta, soprattutto per i passi di condanna della finis Poloniae, come favorevole alle «grandi democrazie» belligeranti e agli Stati Uniti:
I sostenitori delle idee democratiche hanno certo trovato nell'Enciclica larghissimi passi che confortano le loro dottrine [...] E siccome la loro propaganda è impostata precipuamente su queste dottrine [si noti il ricorso ai termini 'propaganda' e 'dottrine', che hanno significati specifici nel lessico cantimoriano, N.d.A.], esse han potuto accentuare senza riserve e con proprio vantaggio la loro devozione e il loro consenso a questa parte dottrinale dell'Enciclica pontificia (PSC, 748).
Di fronte a questa appropriazione, la risposta di Cantimori è cauta, ma percepibile: mette subito in chiaro che la condanna della Chiesa è ben più globale, è per il mondo uscito dalla Riforma, dalla rottura dell'unità cattolica, «dalla quale [...] hanno avuto origine tutti i mali del mondo moderno, e alla quale bisogna rifarsi per comprenderli, eliminarli, condannarli». La Chiesa è quindi altrettanto polemica col liberalismo, di cui sono paladine proprio le democrazie occidentali (PSC, 734, 735 nota 9). Queste non debbono farsi illusioni: la libertà che essa difende non è quella liberale, ma quella cristiana. Chi non lo capisce, trascura «la distinzione fra liberalismo storico e dottrine fondate su un concetto di libertà religiosa» (PSC, 749 nota 25). Da qui la polemica tipicamente cattolica contro la 'statolatria', cioè contro tutti gli Stati moderni, «nei quali non sia esplicitamente riconosciuto e sostenuto dalle autorità politiche il principio dell'educazione religiosa riserbata alla Chiesa. La condanna investe dunque, al di là delle differenze delle ideologie politiche, larga parte della società contemporanea, in nome di un principio strettamente ecclesiastico e religioso che si pone però anche come rivendicazione di diritti individuali e familiari» (PSC, 740). Così a quelle stesse democrazie che «più insistentemente hanno invocato i principii del diritto internazionale» (PSC, 741) non dovrebbe sfuggire «la diffidenza radicale [di Pio XII] verso le possibilità di azione dei politici in vista di una riorganizzazione europea e di una pace duratura» (PSC, 742): non ci sarà pace senza il magistero della Chiesa, il modello che il papa propone è ancora quello novalisiano della Christenheit oder Europa (PSC, 734, 737-738).
La lettura ingenua o interessata dell'enciclica l'ha vista diretta contro «nazionalismo e razzismo», ma «la riprovazione delle dottrine razzistiche appare, ad una considerazione attenta, molto limitata» e non così intransigente «come suol farsi da altre istanze politiche e culturali» (PSC, 737). Il suo vero bersaglio è il comunismo (PSC, 736, 743-744), non il nazionalsocialismo, come invece appare nella propaganda dei paesi democratici (PSC, 750): «da un punto di vista più strettamente politico, la condanna recisa, benché anch'essa non esplicitamente pronunciata, è ancora solo quella contro la negazione della religione, contro le dottrine comunistiche». Su questo terreno, «di fronte alla realtà dei fatti politici e dei movimenti anticristiani» (il comunismo e forse anche il nazismo), Cantimori prevede una convergenza fra l'assolutismo ecclesiastico e le democrazie, ma queste dovranno passare «attraverso l'obliterazione dell'anticlericalesimo e delle loro idee sullo Stato laico e sull'autonomia dello Stato» e operare un ritorno nel seno della Chiesa (PSC, 751-752). E' notevole il ruolo che attribuiva, in questo «fenomeno della rinascita di vita cattolica che si può constatare in larghi settori della società europea ed extraeuropea» (PSC, 752) alle organizzazioni laicali, all'Azione cattolica in particolare, cui dedicherà ben due articoli successivi, e il valore paradigmatico che - a suo modo di vedere - rivestivano, nella prospettiva del pontefice, i Patti del Laterano, soprattutto il Concordato, come modello di instaurazione in una società moderna della pax Christi (PSC, 732).
97. In questo modo Cantimori poteva polemizzare contro il cant, l'ipocrisia, l'umanitarismo delle democrazie liberali e contro i sempre più decisi tentativi di riscossa cattolica (abbiamo visto che anche Spirito, in quei mesi, indicava nel cattolicismo e nel liberalismo le «posizioni più tradizionali» in cui si era ritirata la classe intellettuale italiana, «sempre più antirivoluzionaria»: cfr. supra nota 197; e Galvano Della Volpe, citando il saggio di Cantimori nella rubrica che teneva su Primato, poteva rilevare come la realtà politica di quell'estate 1940 desse concretezza storica alla «polemica una e duplice contro la democrazia e il cristianesimo» di Nietzsche «il maggior profeta forse di quest'epoca»), non scoprirsi sul fascismo e sul nazismo e sostanzialmente indicare nel comunismo sovietico il vero antagonista dell'oltranzismo ecclesiastico e degli stati capitalistico-parlamentari: sono questi i temi dei suoi interventi politici degli anni che vanno dal 1939 al 1941. Per la polemica anti-liberale è stata ricordata da Turi e poi da Belardelli la recensione assai critica alla traduzione di un testo così significativo come La rivoluzione inglese del 1688-89 di G. M. Trevelyan; [226] più sopra abbiamo illustrato nelle voci del Dizionario di politica la critica degli esiti politici delle varie correnti della Riforma e della «identificazione della propria causa con quella della moralità e della giustizia» su cui si fondava «anche questa volta» [cioè nel 1939-41, N.d.A.] la propaganda anglo-francese (PSC, 750-751) Ma si deve richiamare anche la nota introduttiva ai Discorsi parlamentari di Cavour curati per l'editore Einaudi nel 1942, dove sostanzialmente si nega ogni vero respiro ideale all'opera cavouriana e al suo liberalismo, di cui si sottolineano i risvolti conservatori e anti-socialisti, e in una prospettiva - non sembri strano - ancora sostanzialmente gentiliana, si insiste sul suo realismo realizzatore, la sua spregiudicatezza tattica, l'abilità manovriera. [227]
Il guardingo sviluppo di queste tematiche fu possibile in quello 'strano
interludio', in quella sorta di coesistenza ideologico-politica fra il
comunismo sovietico e le potenze dell'Asse che si ebbe fra il patto Molotov-Ribbentrop
e i primi mesi del 1941: ancora una volta, non è possibile sapere
se e fino a che punto Cantimori veramente giudicò le democrazie
occidentali le responsabili prime del conflitto, o la guerra come una
lotta interimperialistica, in cui i paesi capitalistici più poveri
(Germania e Italia) potevano svolgere 'oggettivamente' una funzione di
indebolimento del capitalismo internazionale, come affermava la propaganda
sovietica prontamente ripresa dai partiti vassalli; [228]
se quindi ebbe una qualche fiducia in elaborazioni come quella di Ugo
Spirito, che, dopo anni di isolamento, riprese una funzione di consigliere
di Bottai e scrisse del conflitto in corso come di una 'guerra rivoluzionaria';
[229] o se si limitò
a sfruttare gli spazi di manovra che quella situazione poteva offrire
a un comunista latomico qual egli ormai era, per poi tacere quando l'aggressione
tedesca all'Unione sovietica troncò ogni possibilità di
equivoco.
98. Si pone infine un ultimo problema: quello di chiarire il rapporto fra il nuovo orientamento politico e l'approfondimento ideologico del marxismo e dei classici del pensiero socialista. Più o meno tutti gli studiosi hanno opportunamente accettato l'impostazione data a suo tempo da Ciliberto, per cui «è il comunismo che trae dietro di sé il marxismo; è la politica che produce una riconsiderazione della teoria; è la scoperta del comunismo che determina una rielaborazione complessiva del 'socialismo scientifico'». [230] Carlo Ludovico Ragghianti, entrato in Normale alla fine del 1928 imbevuto di idee marxistiche, ricordava gli aspri attacchi che Cantimori, «dall'alto delle sue hegeliane e gentiliane certezze di superamento ed onnivore riduzioni dialettiche che unificavano i fenomeni», aveva portati, nelle discussioni del 1929, al suo materialismo e marxismo e socialismo «non solo mentale, ma appassionatamente militante»; aggiungeva poi di aver passato all'amico la «piccola biblioteca proibita di testi di 'socialismo scientifico'» raccolta durante quel suo giovanile appassionamento per il marxismo, presto superato, e accettata da Cantimori «forse [...] per la mania di bibliofilo che già l'occupava, ma - aggiunge - doveva tornarvi anni dopo, tra il '38 e il 40 [...]»: [231] anche questa testimonianza conferma che lo studio sistematico del marxismo deve essere stato iniziato da Cantimori dopo il 1938. Questo non significa assolutamente che Cantimori non avesse un interesse spiccato per Marx già da molti anni ed è noto che egli conobbe i termini del dibattito marxistico in Europa, forse come nessuno in Italia. Ci sono semmai da chiarire i caratteri di questa sua attenzione e soprattutto le caratteristiche della cultura marxistica che in un primo momento più lo attirò.
Notizie interessanti si apprendono dal saggio della Seidel Menchi, che pubblica diversi stralci delle lettere inviatele da Cantimori nel 1961, mentre la giovane studiosa si trovava a Basilea. Fu proprio nella città svizzera, dove Cantimori aveva studiato dal dicembre 1931 al luglio del 1932, che lo storico ricorda di aver scoperto Marx, soprattutto il giovane Marx, quello degli Ökonomisch-philosophische Manuskripte allora pubblicati. La Menchi conclude che «Cantimori originariamente lesse Marx in chiave individualistica, privatizzandolo e trasformandolo in un maestro di saggezza di vita»; è giustamente molto prudente nel cercare di determinare cronologicamente il passaggio a un diverso approccio, cioè al Marx «chiave di interpretazione della società e della storia» e lo pone non prima del 1937 (Seidel Menchi, 779-781). Che per molti anni il Marx di Cantimori sia piuttosto il discepolo di Hegel (dello Hegel della Fenomenologia, non della Filosofia del diritto), un discepolo che si distingue per «vigore dialettico» e «afflato idealistico» (PSC, 152); un Marx, quindi, lontano dal materialismo dialettico della vulgata terzinternazionalista, ma anche dagli schemi economicistici, meccanicistici, evoluzionistici del marxismo tardo ottocentesco, autore di una Kulturkritik nella quale ritrova alcuni motivi del suo idealismo rivoluzionario, è confermato dal fatto che i suoi autori marxisti di allora sono alcuni eterodossi ed eretici come Rosenberg, Korsch e Lukàcs, probabilmente anche Trockij.
99. Per Lukács non si trovano riferimenti espliciti negli scritti degli anni '30; abbiamo invece diversi spunti autobiografici in lettere a Felice Balbo e a Giulio Einaudi del 1949 e del 1956 (PSC, 793-794), che confermerebbero una lettura particolarmente attenta con glosse, appunti, sottolineature, di Geschichte und Klassbewußtsein fin dal 1933 (ma il giudizio negli anni '50 non è univoco e non mancano giudizi severi: PSC, 793 nota 16). Un interesse per Trockij è ipotizzato da Ciliberto sulla base di riferimenti testuali non molto sicuri, [232] ma comunque non è in contrasto col quadro generale della cultura marxista del Cantimori dei primi anni '30. Abbiamo già accennato all'attenzione per Arthur Rosenberg, connesso a quello per Korsch, il cui nome ricorre invece nelle pagine cantimoriane di quegli anni: mi pare importante - per mostrare la circolarità di certi interessi - il riferimento del 1933 alla collaborazione di Korsch a Der Gegner, la rivista di area 'nazional-bolscevica' diretta da Harro Schulze-Boysen, nipote dell'ammiraglio von Tirpitz, in stretto rapporto con Ernst von Salomon e quindi, indirettamente, con Jünger (svolgerà un ruolo di primo piano nella Rote Kapelle e verrà impiccato, dopo atroci torture, nel dicembre del 1942). [233] La collaborazione di Korsch, che si affiancava a quelle di Salomon e di Otto Strasser, non significava contiguità ideologica, ma per il giovane Cantimori anche queste riviste erano un tramite per conoscere autori marxisti e le loro idee, ovviamente quegli autori e quelle idee che, nel loro radicalismo e nella loro eterodossia, potevano trovarvi ospitalità. Chi allora lo conobbe, è ricorso, per definire la sua posizione, a curiosi ossimori ideologici: per Cordié, il Cantimori dei primi anni '30 era un «fascista di sinistra, ma filospartachista», per Aldo Garosci, egli «aveva fama di essere un fascista-trotzkista». [234]
Fu dopo il 1934-35 che cominciò a pensare a uno studio più approfondito e 'scientifico' del giovane Marx: nella già ricordata lettera a Croce del 13 aprile 1935, gli annunziava, accanto ai suoi studi ereticali, anche «alcune ricerche sulle idee del Proudhon e del Marx prequarantottesco». Di questi studi l'unico frutto, per allora, sembra essere una recensione al Proudhon di Giuseppe Santonastaso, comparsa, alla fine del 1935, sull'ultimo numero, prima dell'interruzione, dei Nuovi studi di Spirito e Volpicelli: anche questo scritto non è stato annoverato nella bibliografia Perini-Tedeschi e quindi è rimasto sconosciuto (lo pubblichiamo in Appendice IV). E' soprattutto interessante per noi perché indica il nucleo del suo interesse per Proudhon:
Questi uomini non c'interessano ormai molto per tentativi come quello delle banche a credito gratuito, e neppur molto per le loro specifiche formulazioni di programmi e soluzioni di problemi del loro tempo - se non in sede storica. Quel che ci affascina nel Pr. è il vigore e la lucidità della sua consapevolezza del problema etico, per la fermezza e l'intransigenza ideale insita nel suo fervore pei principî etici, base e fondamento primi d'ogni convivenza veramente umana, d'ogni storia. Ad essi ogni azione di reale importanza innovatrice, di valore veramente universale, deve prima di tutto informarsi, ad essi deve tener fermo su ogni altra cosa, al di sopra delle situazioni politiche, al di sopra della tecnica, al di sopra dell'economia. Non che il S. abbia trascurato questo punto, ma avrebbe dovuto dargli, ci pare, rilievo molto maggiore, come al filo conduttore del pensiero proudhoniano. [235]
100. Era un approccio evidentemente simpatetico a un autore spesso considerato 'alternativo' a Marx per il suo antimaterialismo, il suo anticollettivismo, il suo patriottismo (da qui una sua fortuna anche in ambienti lontani da ogni ispirazione socialista): Cantimori sembrerebbe qui ancora l'idealista etico che abbiamo conosciuto (anche se altre sue riflessioni dello stesso anno - si pensi all'allusione alla teoria del valore-lavoro e al grande progresso che essa ha comportato nella comprensione del problema sociale (cfr. supra, I, 11) - dànno un'altra impressione) e c'è da chiedersi quale sarà stata, allora, 1935, la sua lettura di Marx: è - come si vede - un quadro contraddittorio, a cui tuttavia dobbiamo far riferimento per valutare (non vogliamo dire ridimensionare) il suo «semimarxismo» del 1936, rammentato nel 1962 (Storici, 351).
E' dopo la criptica adesione al comunismo e la pubblicazione degli Eretici che Cantimori inizia uno studio sistematico di Marx e del marxismo che lo occuperà circa fino al 1949. Direi che tutti gli studiosi più recenti ammettono che egli fu più studioso di storia e di problemi del marxismo, che storico marxista; che l'interesse per l'opera di Marx è profondo, ma non si traduce nell'accoglimento di canoni marxistici nel suo concreto lavoro storiografico (Vivanti, Le approssimazioni, 893, 916). Frequentatore di biblioteche, ma non di archivi, gli mancò la familiarità con la documentazione che poteva precisare meglio, non solo lo sfondo culturale, ma anche quello sociale dei suoi eretici, il cui legame con le classi subalterne era affermato, ma non dettagliatamente analizzato (Firpo, [236] 740-743; Rotondò, 772). Vivanti ha rilevato che un tentativo (da neofita, potrebbe dirsi) di applicare i canoni del materialismo storico alla storia religiosa e della cultura, in termini che non si ripeteranno in seguito più tanto evidenti, si trova in alcune voci del Dizionario di politica del '40, in particolare Controriforma, Riforma e Rinascimento, ma con molta finezza aggiunge che certe formulazioni che in esse si rinvengono (per esempio, l'Umanesimo come rappresentante delle classi cittadine italiane, della 'borghesia' italiana che si era venuta lentamente affermando e consolidando contro il ceto feudale e contro l'organizzazione ecclesiastica della società cristiana) sembrano ritornare piuttosto a certi schemi marxisti che erano stati adottati dalla scuola economico-giuridica italiana (Intorno, 794-795). Turi e Santomassimo hanno, per parte loro, messo a confronto le «Note sul nazionalsocialismo» del 1934 e le 'voci' sul medesimo tema del Dizionario di politica, ponendo in rilievo l'accentuazione degli elementi di critica e di definizione in termini classisti presente in queste ultime. [237] Ci sembra quindi legittimo concludere che il marxismo fu per Cantimori essenzialmente un approfondimento (senza nessuna vera 'scissione') in senso realistico e critico delle ragioni del suo precedente storicismo, un nuovo metodo di storicizzazione, di relativizzazione e di critica delle varie forme di cultura connessa con l'individuazione della loro base materiale e dello loro radici di classe.
Chi tornerà ad analizzare la sua produzione 'marxistica' del quinquennio
1945-1949, dovrà confrontarsi col milieu degli anni '30
sopra sommariamente descritto, per stabilire se quelle radici eterodosse
sopravvivano in qualche modo e per verificare se e fino a qual punto (al
di là delle dichiarazioni ufficiali) essa si inserisca nel marxismo-leninismo
della vulgata staliniana, e quanto invece conservi una sua peculiarità,
connotando così il marxismo cantimoriano rispetto alla coeva produzione
italiana.
101. Quando, vent'anni or sono, uscì il libro di Ciliberto su Cantimori, molto si discusse sul carattere più o meno paradigmatico dell'esperienza politica cantimoriana fra fascismo e comunismo, se cioè essa potesse essere indicata come esemplare della vicenda di un'intera generazione di intellettuali italiani o avesse una sua insormontabile unicità. Per definire correttamente il problema, bisogna procedere - sulle orme del vecchio Aristotele - individuando il genere prossimo e la differenza specifica. Anche senza considerare, per un istante, i frutti del suo lavoro di storico, tanto nuovi per tematiche e metodi, può ben dirsi che nessun intellettuale italiano di allora intrattenne un così assiduo contatto con certi aspetti della 'nuova' cultura europea, affisò lo sguardo sui movimenti che mettevano a soqquadro il vecchio continente, cercò di indagarne i paradigmi mentali e i miti; lesse con tanta partecipazione critica Jünger e Schmitt, Korsch e Lukács alla luce della lezione di uno storicismo idealistico originalmente ripensato. Non c'è dubbio che, da questo punto di vista, la figura di Cantimori sia un unicum nella cultura italiana degli anni '30. Pensiamo che questa nostra ricerca possa aver dato, in tale prospettiva, un qualche contributo a chiarire meglio e le origini e gli sviluppi di quella che egli avrebbe volentieri chiamata (con un termine mutuato dagli ambienti della konservative Revolution tedesca) la sua Weltanschauung e la ricaduta che essa ebbe sulla sua storiografia.
Eppure la vicenda cantimoriana mostra anche una sua paradigmaticità, che non è tanto nella sua (peraltro effimera) confluenza post-bellica nel PCI, nel suo incontro col 'partito della classe operaia', come, con un teleologismo che già allora fu severamente giudicato, Ciliberto indicava nel suo libro, ma di una più generale vicenda: quella di gruppi intellettuali (se non vogliamo usare il termine ambiguo di 'generazioni') cresciuti fra le due guerre che fecero il loro noviziato culturale e politico nella certezza che tutto un mondo fosse finito irrevocabilmente nel 1914, quello dell'Europa liberale e 'borghese' ottocentesca e dei suoi valori, della democrazia e del socialismo riformista; che una vasta rivoluzione politica stesse scuotendo il vecchio continente, che nuove forme di organizzazione sociale si stessero sperimentando in diversi paesi. Parteciparono criticamente a molti aspetti di quella 'cultura della crisi', che spesso i più nobili esponenti della residua tradizione culturale di ascendenza liberale deprecavano o cercavano di esorcizzare, più che di comprendere ab intus (e questa partecipazione critica dà ai loro scritti una capacità di analizzare il nuovo che sta germinando nella cultura europea, che invece spesso manca a questi ultimi). Se in costoro non riuscivano più a identificarsi, neanche lo potevano nei pensatori reazionari, loro tradizionali nemici, ma in una serie di forze nuove che sembravano loro in sintonia con la rivoluzione in corso: per Cantimori, e per molti della sua generazione in Italia, questa forza nuova fu il fascismo, un fascismo certo peculiarmente interpretato, che egli considerò per più di un decennio la risposta più alta alla crisi europea allora elaborata. Col fallimento della proposta corporativa, evidente intorno alla metà degli anni '30, molti di questi giovani intellettuali ripresero la loro strada e non pochi di loro aderirono, dopo un travaglio più o meno lungo, alcuni dopo un breve 'transito' liberale o liberaldemocratico che invece Cantimori non conobbe, al comunismo. Certo cominciò allora per loro una vita nova, ma essi ritrovarono nel nuovo àmbito ideologico non solo una conferma delle proprie idiosincrasie culturali e politiche e di non poche delle precedenti convinzioni, ma anche una risposta a molte delle esigenze che in precedenza avevano credute soddisfatte nel fascismo. Crediamo che il presente lavoro abbia indicato le une come le altre: esso può quindi portare un contributo alla storia di questi gruppi di intellettuali italiani e del loro periplo ideologico e politico.
Appendice I: Dalla tesi di laura del 1928
Appendice II: Un articolo politico dell'inizio del 1929
Appendice III: La collaborazione a Pattuglia
Appendice IV: Una recensione del 1935 sui Nuovi studi di diritto, economia e politica
Appendice V: Tre quesiti bibliografici, una mezza risposta e un'agnizione di lettura
Appendice VI: Un articolo dimenticato di Giovanni Gentile
102. Cantimori si laureò in filosofia il 21 giugno 1928 con una
tesi in storia della filosofia, relatore Giuseppe Saitta. Il titolo della
tesi era «Ulrico di Hutten e le relazioni fra Rinascimento e Riforma.
Saggio monografico». Se ne offre l'indice: Introduzione
(p. 1); Vita, opere ed imprese (p. 25); Osservazioni sul carattere
(p. 50); Regula vitae (p. 58); Fortuna (p. 68); Dio
(p. 81); Il nazionalismo degli umanisti tedeschi (p. 90); Il
concetto di Nazione in Hutten (p. 100); Nazione e libertà;
fondazione del culto di Arminio (p. 115); La nazione e le concezioni
politiche del medioevo (p. 125); Nazione e rivoluzione (p.
135); Le idee di Hutten e il manifesto di Lutero «Alla nobiltà
tedesca» (p. 145); Humana et divina (p. 153); Poesie
(p. 163); Conclusione Rinascimento e Riforma (p. 170); Appendice
[Osservazioni sulla fortuna di Hutten nel periodo Romantico della letteratura
tedesca] (p. 184). Il lavoro subì una revisione piuttosto incisiva
in vista della pubblicazione nel secondo fascicolo 1930 degli Annali
della Scuola Normale Superiore di Pisa e in estratto autonomo, col
titolo leggermente modificato: «Ulrico von Hutten e i Rapporti tra
Rinascimento e Riforma». Come abbiamo già accennato (cfr.
supra, III, 29) scomparve l'Introduzione, di cui riportiamo
qui il secondo paragrafo (pp. 9-15), che fissa con nettezza le sue concezioni
di allora sui rapporti fra individuo, nazione e Stato. Il testo della
tesi è dattiloscritto, con qualche aggiunta manoscritta che abbiamo
inserita senz'altro; gli errori di battitura sono stati tacitamente corretti.
Abbiamo conservato anche nelle note lo stile dello scrivente, cambiando
solo la loro numerazione, che nell'originale va dalla 18 alla 25. La tesi
si conserva nella Biblioteca Universitaria di Pisa, Tesi di laurea,
3687.
103. La nostra vita è la nostra storia. E la nostra storia non è storia di un individuo astratto, ma di un uomo, nella nazione; sopra, fuori la nazione, ma ad ogni modo, in relazione positiva o negativa con la nazione. La nazionalità dell'individuo è ben chiara, sempre: per la lingua, per i costumi, per il carattere, che sono la concreta espressione d'una lunga e varia tradizione. Un individuo che non parla non esiste; e non parlerà certo in esperanto (o almeno in esperanto non penserà). La lingua non è un elemento naturalistico; e nel parlare e nel vivere, nel pensare, si rifletteranno tutti quegli elementi che si chiaman tradizione, la quale poi si riduce al dogmatizzarsi e schematizzarsi della storia: e neppur questi sono elementi naturalistici.[238]
Se la nostra spiritualità consiste in fondo nel nostro tendere e sforzarsi al bene, non così in generale, ma al bene attivo, concreto, che può essere a volta a volta sapere, conoscere, combattere, amare, cantare, e via dicendo, [239] se questa spiritualità non può essere distinta in empirica ed assoluta, ma è tutt'una nella personalità, [240] nella individualità storica, nella vita, e se l'individualità si svolge in realtà attraverso la nazionalità della lingua, del costume, del carattere, della tradizione, possiamo dire d'aver trovata la ragione e la significazione di quella boria delle nazioni che non è solo nella pretesa d'esser le più antiche e le prime del mondo nel tempo, ma anche nel merito, nelle qualità morali; di quelle che si chiaman missioni delle nazioni, e che poi a lor volta si mostran come espressioni di quella boria od orgoglio, e che cagionan l'odio, delle nazioni. [241]
La storia nazionale è il primo grado di allargamento e di universalizzarsi dell'individuo dalla sua storia personale, ch'egli se non vuol considerarsi chiuso nello spazio e nel tempo, cioè se non vuol cessare d'essere come spirito, morire, allarga ed innalza sempre più. Da essa l'uomo trae le ragioni della sua più profonda vita, respiro più largo, e chiare determinazioni al suo sforzo verso il bene, al suo amore. E come nella sua singolarità egli, nell'agire e nel compiere piuttosto l'una che l'altra azione, s'erge giudice delle altre azioni (si pensi al tipo classico del 'malvagio' che odia il 'buono' perché già il ben fare gli suona quasi condanna) così nell'acquistar coscienza di sé nella storia, come elemento dell'una o dell'altra nazione, vede, per la tendenza all'infinito e all'universale che è il carattere distintivo della vera spiritualità, - la sua nazione come missione al bene, come bene. Infinita nel tempo e nello spazio, (boria, imperialismo, nelle considerazioni empiriche, astratte, che il Vico condannava, che ognuno condanna), universale, aspaziale e atemporale (miti nazionali, di nuovo borie): amore, moralità, eticità in concreto.
104. La filosofia, per solito, si è tenuta lontana, nei propositi, dalla nazionalità: e questa, lasciata ai letterati e ai politici empirici, tecnici, ha assunto sempre più caratteri naturalistici, empirici, così che si è acquistata la sensazione che la nazionalità sia un elemento naturalistico da superare per arrivare ad una considerazione filosofica: e si teme di por le mani nel guazzabuglio di pseudoconcetti sociologici, e perfin geografici che le si son formati attorno.
Infatti non si può pretendere, senza cadere nell'assurdo, che
un pensiero o un'opera d'arte debbano essere italiani, o tedeschi
o francesi. Ma non si può neppur negare che non ci sia nessun
pensiero che non appaia come francese, tedesco, italiano. Le difficoltà,
riconosciute insuperabili, del problema del tradurre [242]
sono una riprova della esistenza e importanza storica, spirituale, vitale
della nazionalità.
Il problema dunque non va posto nel senso che la nazionalità vada superata come naturalità, come astrattezza (come fanno più o meno tutte le filosofie spiritualistiche eredi del cosmopolitismo pagano e dell'universalismo medioevale), e neppure nel senso che la nazione sia un dato di fatto indipendente da noi, cui obbedire volenti o nolenti (come fanno le filosofie positivistiche e materialistiche, quando lo fanno). Queste due posizioni conducono ad una umanità astratta e vuota di significato, per cui il bene e la moralità si esauriscono e impiccioliscono nel particulare di Tizio, Caio, Sempronio, o si disperdono nel progresso umano, nella società, e via dicendo, con un salto brusco dal piccolo o quasi nulla al tutto, che ancora una volta si identificano e confondono.
La sopra ricordata boria o orgoglio deve essere intesa nel suo vero significato: dogmatizzamento della storia, tradizione, e la su ricordata missione deve essere ancora intesa nel vero significato di illecita proiezione nel futuro della storia, di desiderio d'universalità, - quando se ne veda al fondo: e si superano da sé stesse.
Di qui si vede come l'astrattezza del dogmatizzamento della storia e del desiderio di universalità (ricordiamo dunque che il Dio che onoriamo nei nostri tempii è pur un Dio nazionale che ha adempito questo desiderio, contro e malgrado la nazione che lo creò!) abbiano indotto ad una errata valutazione della nazione, come elemento naturale, come fatto. Si potebbe dire anche che la nazionalità è un fatto, come è un fatto la lingua: perché noi non sappiamo quel che diciamo prima d'averlo detto, e quando l'abbiam detto esso ci sta dinanzi; è un fatto che non possiam mutare e che opera su di noi e nella storia anche se noi non vogliamo. Eppure se non parliamo (se non ci esprimiamo: quel che s'è detto per la lingua vale per ogni espressione) non pensiamo, non viviamo, non siamo come è noto. Onde anche è spiegata la nazionalità di ogni storia, e come anche nelle teorie universali le nationes o le nazioni, nel senso veramente naturalistico antico o nel senso moderno, [243] siano sempre come momenti o gradi ineliminabili dello svolgimento totale.
Dunque: la vita, e la storia personali diventano, attraverso la storia e la vita nazionali, storia e vita universali. Il momento della nazionalità è un momento ineliminabile della vita morale dello spirito. E non consiste nello spirito della razza, o nella missione della nazione, o in altri elementi, e neppur soltanto nella lingua: ma nell'amore (sforzo verso il bene), che spiritualizza la storia dogmatizzata (tradizione) e che si esprime per le azioni, per la vita, e attraverso di esse nella storia viva (e svolgentesi continuamente, sì da dare l'impressione del caos e del tumulto vano). Amore che non può esplicarsi (non può vivere, svilupparsi) astrattamente, superando d'un salto la storia, ma che per essere veramente umano è prima nazionale: chi più 'italiano', e più universale di Dante?
105. Questo essenziale carattere di eticità ha cagionato la svalutazione notoria della poesia patriottica nelle estetiche romantico-illuministiche, con il preteso carattere contingente. [244]
Da questa riduzione della nazionalità a momento di moralità,
discende pure ovviamente la spiegazione della eticità della guerra,
e pare abbia un po' di luce anche la eticità della politica: eticità
che significa anche spiritualità.
Se si dirà che qui si vuol rifare una fenomenologia dello spirito,
si potrà anche osservare come si cerchi solo di ritrovare le distinzioni
e la varietà dal punto di vista morale nella indifferenziata
unità dello spirito. Questa nazionalità intesa come espressione
di volontà morale è l'unica poi che si possa identificare
veramente con lo stato della filosofia moderna, e che lo riempia
di quel contenuto, che possa farlo non solo capire, non solo temere,
ma anche amare e venerare. Cosicché questa dottrina si presenta
non come propedeutica alla dottrina dello stato, né come
completamento o integramento di essa: ma come collegamento, mediazione;
fra la spiritualità come amore e la spiritualità come legge.
[245] Con questo concetto
si evita di cadere nel mitologismo della missione: non c'è
una missione propria (perché?) di nessun popolo, oltre quella di
far avanzare e continuare la propria storia, che è storia di nazione
in quanto storia di uomini, e viceversa. Onde non c'è un passaggio
dall'uno all'altro popolo o nazione nell'incarnazione dello spirito universale,
(benché questo passaggio del dominio mondiale prima o poi avvenga
sempre in realtà), ma bensì lo sforzo morale di tutti i
popoli ad essere sé stessi, cioè veramente popoli, come
gli uomini vogliono essere sempre e più veramente e profondamente
uomini e superuomini. Così si può considerare inverato anche
il pensiero di Hegel e Gioberti, a questo proposito. Il pensiero di Gioberti
è stato a volte accettato senz'altro perché lusinga il nostro
sentimento patriottico: l'idea d'una missione del popolo italiano può
ben servire pedagogicamente, per svegliare e incitare: ma alla fine sembra
insostenibile nella stessa filosofia che mostra su tutto la moralità
e l'eticità dello spirito.
106. Nel febbraio 1929, nelle settimane dei Patti del Laterano, Cantimori
pubblicava questo articoletto su Il Campano, la rivista mensile
del G.U.F. di Pisa e dei sotto-gruppi di Lucca, Livorno e Carrara, sulla
quale cfr. P. Nello, «Il Campano». Autobiografia politica
del fascismo universitario pisano (1926-1944) (Pisa, Nistri-Lischi,
1983), che accenna anche a questo intervento cantimoriano (p. 39), senza
rilevarne l'assenza dalla bibliografia Perini-Tedeschi. Lo studioso venticinquenne,
laureatosi nel giugno precedente e ancora a Pisa per l'anno di perfezionamento,
torna sul suo concetto di nazione e su quello che ritiene il modo migliore
di servire la patria, con parole che riprendono quasi alla lettera quanto
aveva scritto nel 1927: «lasciamo ai chiacchieroni, ai dannunziani
ed ai futuristi l'amare la patria, ma lavoriamo per essa:
che è il vero amare!» (PSC, 26). C'è anche
un invito insistente ad approfondire la conoscenza della nazione italiana,
per evitare che l'entusiasmo e la fede fascista diano per risolti problemi
che forse non lo sono; col rischio che qualora questi emergano ne
derivi un'inevitabile delusione, simile a quella che gli interventisti
democratici avevano vissuta, «quando s'accorsero che non tutta l'Italia
era dietro a loro con l'arme in pugno, che c'erano torbidi interessi e
vili speculatori fra quegli italiani pei quali essi morivano». Si
ha insomma l'impressione - per prendere a prestito il gergo di allora
che per Cantimori la 'vecchia Italia' non sia ancora morta e che quindi
i giovani fascisti debbano compiere uno sforzo di approfondimento e di
conoscenza per rendersi criticamente conto del cammino che resta da percorrere.
Sulle nostre bocche, nei nostri canti risuonano ora sempre le grandi parole di nazione, di stato, di patria. L'Italia, diciamo, è grande realtà e ancor più grande ideale per noi.
Però non dobbiamo solo dire; dobbiamo anche sapere, sopratutto sapere cos'è questa nostra nazione, questo nostro Stato, questa nostra patria. Non dobbiamo accontentarci di vagheggiare in queste parole gli ideali di forza e di grandezza che ognuno di noi si fa mentre s'affaccia alla vita, e misura le vie da percorrere, le cime da salire per portarvi il nome italiano, la forza e la saggezza italiane.
Molti dei nostri fratelli maggiori e dei nostri padri andarono a dar la vita per gli ideali della loro giovinezza, e quando s'accorsero che la realtà mostrava un duro viso, lontano dalle immagini vagheggiate nei primi entusiasmi, sorrisero amaro, imprecarono alle loro fuggite illusioni, negarono con esse le grandi realtà che attraverso esse si erano affermate. Quanti andarono a combattere «per far guerra alla guerra» impersonata dal militarismo alemanno e poi, visto sorgere dal loro sangue, al posto d'una rosea pace, l'orgoglio gallico, negarono fede a chi li aveva guidati? Quanti andarono a combattere in nome del liberalismo e del repubblicanesimo oggi tanto deprecati? Quanti giovani tornarono scettici e delusi dalla immane lotta, non avendo trovato, in quel popolo incolto che oggi tutti veneriamo nel Milite Ignoto, corrispondenza ai propri ideali formati nell'aria elevata delle scuole? Quanti avevano identificato la patria con i loro ideali più o meno vaghi, e fecero «Caporetto» quando s'accorsero che non tutta l'Italia era dietro a loro con l'arme in pugno, che c'erano torbidi interessi e vili speculatori fra quegli italiani pei quali essi morivano?
107. Oggi, i torbidi interessi strisciano nascosti e l'opera vigile del Duce li vien strappando sempre più dal terreno italiano, gli speculatori sono eliminati dalla nostra vita nazionale. Ma siamo sicuri noi giovani di non essere troppo spensierati nel nostro entusiasmo, e di non confondere, nel nostro amore, la nostra patria con qualche particolare ideale che ci nasca nel cuore?
Mi spiego: siamo tutti pronti a dare la nostra vita, senza discutere. Questi ormai sono presupposti; è una cosa naturale; non c'è bisogno di dirla o di ripeterla tanto, altrimenti diventa retorica. Ma dare la vita in uno slancio eroico è, per il giovane fascista, naturale. Forse è più difficile dare alla patria tutta la vita, giorno per giorno, ora per ora, col pensiero che nessun istante dev'essere perduto, perché il tempo stringe, grandi destini aleggiano pei cieli del mondo, ed ognuno, secondo le sue attitudini e secondo le sue capacità, deve lavorare silenziosamente e trovarsi, quando il dovere chiami, pronto a dire: darò la mia vita, ma ho già dato e il fatto conta sempre più del da farsi il mio lavoro, l'opera della mia intelligenza, del mio pensiero, della mia anima.
Per questo, per potere servire la Patria, l'Italia, non dobbiamo
solo amarla di passione, ma dobbiamo essere coscienti e consapevoli
di essa, dei suoi caratteri, della sua storia che ce ne indica i bisogni.
Non dobbiamo credere ch'essa sia una dea al di sopra dei cieli per la
quale come per una bella donna sia bello morire, o che si identifichi
solo con l'una o l'altra delle grandi tradizioni che animano la nostra
molteplice vita nazionale, con l'uno o l'altro dei nostri particolari
ideali, o che sia questo paese, questa terra, questa città, queste
case, questo cielo, questo mare questo tutto che va dal nostro sole
ai nostri capi. Noi amiamo il nostro sole e veneriamo i nostri capi: ma
se vogliamo che la nostra vita sia veramente di giovani italiani consapevoli
e attenti, dobbiamo sapere che cosa sia la nazione italiana, renderci
conto di quali siano i doveri che abbiamo verso di essa, per potere
dir sempre giorno per giorno, ora per ora: agisco per l'Italia, sono degno
di essere italiano.
Delio Cantimori
della Scuola Normale Superiore di Pisa
[Il Campano, anno V, n. 1, Febbraio VII [1929], pp. 10-11]
108. Nella lettera a Francesco C. Rossi del giugno 1962, in cui in seguito ad alcune affermazioni del suo vecchio alunno al liceo di Cagliari, Giuseppe Dessì cercava di spiegare le ragioni e i contenuti del suo fascismo, ricordando anche gli anni cagliaritani e gli ambienti con cui era entrato in contatto, Cantimori affermava: «non dovevano creder molto alle mie convinzioni quegli amici e conoscenti nuovi che feci a Cagliari; essi tornavano sempre a discutere e a contestare questa o quella mia affermazione, uscita in qualcuno degli articoletti che scrissi sul giornale locale di studenti fascisti, proclamandomi europeista» (CS, 139). Di questi «articoletti» non si trova traccia nella prima redazione della bibliografia cantimoriana di Perini e Tedeschi, uscita come già s'è detto sulla Rivista storica italiana, nell'ultimo fascicolo del 1967. Quel cenno autobiografico non sfuggì invece a Garin, che - nel necrologio apparso in Belfagor, 22 (1967): 623-660 cita il primo di quegli scritti, «Europa» (pubblicato il 5 ottobre 1929 sul settimanale degli universitari fascisti cagliaritani Pattuglia), che quindi venne accolto nella nuova edizione, «con correzioni e aggiunte», della bibliografia, in appendice al più volte citato volume di Miccoli del 1970. Ma quegli «articoletti» come Cantimori aveva chiaramente indicato sono più d'uno, più precisamente quattro.
Pattuglia, settimanale fascista degli universitari di Cagliari aveva iniziato le sue pubblicazioni l'11 maggio 1929 e tirò avanti - almeno secondo la collezione presente nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze fino al marzo 1930. Ebbe una vita travagliata: in un articolo di fine 1929, si vantavano «33 numeri, 2 sequestri, molte censure, interminabili grane, cordialità timide, inimicizie palesi, indispensabili, corroboranti. Questo, all'incirca, il nostro bilancio senza scoperti». [246] Cantimori giunse nel capoluogo sardo nel settembre del '29, vincitore (terzo in graduatoria, secondo per l'abilitazione) del concorso a cattedre di storia, filosofia, economia, diritto corporativo nei licei e iniziò il suo insegnamento nel locale liceo ginnasio. Dovette prendere subito contatto col GUF locale e lo stesso giornaletto ci dà notizie della sua attività in quest'àmbito. [247] Iniziò presto la collaborazione a Pattuglia e gli scritti che vi apparvero restano la testimonianza più interessante e compiuta di quello che sopra abbiamo chiamato il suo 'europeismo' e 'societarismo' fascisti.
L'antefatto del primo articolo è un episodio delle interminabili trattative ginevrine sul disarmo che impegnarono i governi europei nel ventennio fra le due guerre: nel settembre 1929, il rappresentate inglese lord Cecil aveva proposto all'improvviso una revisione radicale dei principî già concordati nella Commisione preparatoria, operando uno stralcio dei problemi del disarmo navale, e il nuovo governo laburista inglese aveva preso a discuterne direttamente con una potenza estranea alla Società delle Nazioni come gli Stati Uniti. La ferma reazione di Francia, Italia e Giappone aveva bloccato questa iniziativa unilaterale che sembrava vanificare il lungo lavoro svolto su tali questioni in sede societaria. Il commento di molti autorevoli osservatori italiani (e quindi delle veline governative) poneva in luce come «ancora una volta [...] .gli stessi creatori e massimi protettori della Società delle Nazioni fossero in certi casi i primi a offendere e svalutare l'opera del consesso ginevrino, per il quale invece l'Italia, che vi aderì disinteressatamente e senza cercarvi egemonie né privilegi, conserva lealmente e dignitosamente tutta la sua deferenza». [248] Nello stesso mese di settembre, il 5, alla decima assemblea della Società delle Nazioni, Aristide Briand, in un intervento in qualche modo 'storico', aveva lanciato l'idea di una federazione europea, che avrebbe dovuto agire sul terreno politico ed economico; il 9, Stresemann, nel discorso che fu un po' il suo canto del cigno, definì attuabile l'idea di Briand, ma per ora solo sul piano economico. Di fronte a questi scenari, Cantimori intervenne col suo primo articolo (abbiamo corretto i refusi, le note sono tutte nostre):
109. L'«Europa» è una espressione geografica. Così si potrebbe adattare ai nostri tempi la celebre frase del Metternich, e su questo tono di politica realistica e scettica si potrebbe continuare a lungo.
Ma bisogna guardarsi dal fare del realismo una pregiudiziale: chi volesse essere realista ad ogni costo, potrebbe finire col non capir più nulla di politica. Tutti noi ricordiamo quanti sarcasmi siano stati usati verso la Società delle Nazioni, strumento di politica inglese, e via dicendo: chi avesse preso sul serio quei sarcasmi e quei lunghi articoli pieni di osservazioni scettiche, e avesse creduto ch'essi fossero qualcosa di più che mezzi di lotta e di polemica, sarebbe poi rimasto meravigliato e sconcertato. Ecco infatti che negli ultimi tempi la Società delle Nazioni s'è prestata ad una bella azione politica contro la prepotenza inglese: ed abbiamo potuto leggere che la S.d.N. ha una sua ragion d'essere. Del resto, se non l'avesse avuta, la partecipazione italiana sarebbe stata molto meno attiva di quel che non sia sempre stata. Questi fatti è opportuno ricordarli, perché lo scetticismo per la S.d.N. è troppo diffuso, e l'interesse per essa è troppo scarso: ma è dalle nostre file che dovranno esser scelti i rappresentanti dell'Italia di domani nelle lotte internazionali: e non si può ben agire se non si sa, e non si sa se non si è avuto interesse.
Torniamo all'Europa. Ora si parla molto degli stati uniti d'Europa, secondo il piano Coudenhove-Kalergi adottato dal Briand. Ideologie umanitarie, fantasie a sfondo confuso e torbido, d'accordo. Mascheratura d'interessi egemonici, ancora d'accordo.
Ma, e per questo dobbiamo disinteressarcene e riderne soltanto? Se avessimo fatto così alla S.d.N., ora l'Italia non avrebbe potuto compiere, insieme con la Francia e con il Giappone, quell'azione che ha fermato Lord Cecil. Certo questi nuovi Stati Uniti minacciano d'essere ancor più accademici della S.d.N.: ma, cosa vuol dire accademici? Che la loro azione si ridurrà tutta a logomachie, a lotta di parole, di ideologie. Ma chi poi disprezzasse tanto le parole, le ideologie, commetterebbe un grave errore.
Ricordiamo, per esempio [***]. Nella maggiore collezione non ufficiale di libri sulla guerra che si pubblichi in Italia, quella Mondadori, è uscito un libro sulle origini appunto della guerra, del Lumbroso. [249] Questo storico, già accanito germanofobo, ora crede d'aver dimostrato che la responsabilità della guerra ricade sulla Gran Bretagna. Il che può anche dimostrare che la responsabilità ricade su entrambi. Ora, chi non ricorda quale enorme forza di propaganda e di coesione fu, presso i popoli dell'Intesa, l'accusa fatta al nemico: «tu hai voluto la guerra» ? Ed eran parole: opuscoli, libri, collezioni: parole terribili, che han fatto molto più di quel che non si creda.
Ed è noto quanto male faccia la propaganda antifascista e massonica: parole, parole in gran parte, sarcasmi, storielle, invettive, richiami a principii morali e via dicendo. Le questioni accademiche, guardate a questa luce, diventano abbastanza interessanti; si fa presto a passare da una questione accademica sullo stato a una ideologia politica, da una affermazione morale a una diffamazione.
110. Ora, noi italiani non dobbiamo lasciare questa potentissima arma nelle mani degli altri, che poi ci rifiuterebbero la parola, col dire: voi non ci credete, voi parlate per puro machiavellismo. Nell'accademia europea abbiamo anche noi la nostra parola e un'alta parola! da dire. Sia pure per affermare l'«antieuropa» [250] - quella di Cornelio di Marzio e di Roberto Suster -, noi [251] dobbiamo metterci dentro questa Europa. Ben vengano gli Stati Uniti d'Europa: noi ci metteremo al loro capo, se saremo preparati. Quindi la presente reazione italiana a questa ideologia, dev'essere intesa non come un rifiuto a priori, una pregiudiziale antieuropea, ma come una riserva, che ci permetta di agire liberamente domani. Le pregiudiziali, e soprattutto quelle che s'ammantano di realismo, sono pericolose: tutti lo sappiamo, ma spesso ce ne dimentichiamo.
Dov'è che si deve affermare l'antieuropa? In Asia o in Africa forse? No: in Europa. Non ci dimentichiamo di questo. E non ricadiamo nell'errore degli ideologi russi del secolo scorso. Essi furono i primi inventori del mito d'un'Europa staccata dalla Russia, asiatica, che Curzio Malaparte ci ha illustrato sulla «Stampa» di quest'estate [252] -, di una Europa in decadenza, che la Russia avrebbe dovuto rigenerare, immettendovi forze vergini. Intanto, credevano l'Europa finita, rovinata, esausta: e se la son trovata di fronte tanto resistente, e forte ancora!
Quegli ideologi parlavano dell'Italia come culla, con Roma latina e papale e col Rinascimento, della civiltà europea, ed essi volevano combattere appunto contro il razionalismo italiano, da essi accusato di ipocrisia e falsità. Così come ancora oggi i diplomatici russi accusano l'Europa di ipocrisia e falsità. Noi, non dobbiamo credere che tutte queste accuse alla civiltà creata da noi stessi siano poi completamente vere: l'Italia deve creare il suo impero spirituale in Europa, e non lo può fare se non ha fede nella materia che deve lavorare. Se l'Europa fosse così corrotta come ci dipingono, non ci sarebbe che prendere il vapore o l'aeroplano, e andarcene in America, per non lasciarci appestare da tale corruzione. Noi invece rimaniamo nel bel centro di questa Europa, e la ricondurremo alle sue origini, latine e italiane, perché crediamo nonostante tutto in essa. La stessa ideologia antieuropea, si volge più contro la Russia e l'Europa non europea, americanizzata, che contro la vera Europa, la nostra Europa.
Guardiamo con attenzione, ma senza quella diffidenza pregiudiziale che
conduce all'incomprensione, alle nuove ideologie europee: e cerchiamo
di farle nostre: di dar loro l'impronta italiana.
Delio Cantimori
[Pattuglia, I, 22, 5 ottobre 1929, 1]
111. L'articolo di Cantimori dovette sembrare subito piuttosto eterodosso
ai fascisti di Pattuglia, tanto che gli veniva apposta in calce
questa nota:
Abbiamo pubblicato l'articolo del valoroso collega Cantimori pur non condividendo le sue belle idee sulla S.d.N. E' vero che la S.d.N. non deve essere ignorata, ma è, a nostro modesto modo di vedere, pur vero che non deve essere soverchiamente tenuta in considerazione. Ciò non ostante, apriamo in tal modo le nostre colonne a questo argomento, oggi, tra i più vitali ed interessanti che a penna di scrittore si possano presentare.
Nel numero successivo interveniva infatti Carlo Angioni, che poneva radicalmente in discussione le tesi di Cantimori: difendeva innanzitutto il «realismo» («Guai quando si prescinda in tema di politica dal realismo, e ci si lasci trasportare nel campo aereo delle sottili speculazioni teoriche. Noi siamo realisti, positivisti, assolutamente anti-ideologi»); su questa base rinnovava le critiche consuete alla Società delle Nazioni («L'areopago Ginevrino è senza dubbio una bella palestra oratoria, dove spesso ammiransi i più bei campioni della democrazia Europea cercare con i mezzi più attrezzati per la difesa, il modo di sembrare i meno guerrafondai, i più pacifisti possibili»); soprattutto esprimeva dubbi sul fine ultimo della Società espresso nell'art. 10 dello statuto, il mantenimento della pace:
Idea mitica questa, tanto bella quanto affascinante e che ha riempito d'entusiasmo il cuore della cara sorella latina e della vecchia Albione. Arrestare d'un tratto la storia, potersi fermare a Versailles, in fondo non è una cosa tanto brutta, in ispecie poi quando, sazi fino alla nausea di bottino, stracarichi di mandati e di colonie, ci si mette al sicuro dagli attacchi dei popoli fratelli ricchi di uomini e di energia ma poveri, infinitamente più poveri, di ricchezze. [...] Concludendo dunque noi non riconosciamo la S. d. N. come organismo operante, ma guardiamo con occhio calmo ma vigile l'attuale politica Europea ed in ispecie quella dei Balcani, classica terra di bombe e fucilate, condurci inevitabilmente ad un nuovo attentato di Serajevo. [253]
Quella dell'Angioni era dunque una prospettiva tipicamente 'revisionistica', che faceva anche appello ad alcune affermazioni di Mussolini, nell'intervista a un giornalista americano dell'inizio di quel 1929: «Il nostro obiettivo non è la guerra, bensì l'esser pronti. Io credo che nel 1935 si verificheranno circostanze, le quali renderanno necessario un mutamento dell'attuale assetto Europeo [...]». A queste obiezioni, che dovevano essere tutt'altro che isolate, Cantimori rispose con un secondo articolo:
112. La serie interessante di osservazioni, di mise à point del camerata Angioni, a proposito del mio articolo Europa mi induce a chiedervi ancora una volta ospitalità, per chiarire il mio pensiero: la politica è negozio troppo delicato, perché si possa tacere ad un'accusa, anche implicita, di scarso realismo politico e di ideologismo: cioè di non vigile fascismo.
Chiariamo anzitutto l'argomento della questione: qui non si tratta di Europa e di Antieuropa, si tratta della S. d. N., che sono cose ben differenti, tanto che una delle maggiori preoccupazioni degli europeisti meno platonici è proprio quella delle relazioni fra l'ipotetica unione europea, e la S. d. N., così come l'altra, del modo di servirsi della Società stessa per gli scopi europei, come del resto ben si sa. Ora, in quell'articolo incriminato, io parlavo dell'Europa (proprio di quell'Europa che interessa tanto i realisti come Roberto Suster, di «Antieuropa», cfr. anno I, n. 5), e solo per incidente della S. d. N. E ricordavo un semplice ed incontrovertibile fatto, un fatto reale: la S. d. N. si è dimostrata utile all'azione combinata Italia-Francia-Giappone contro l'Inghilterra, ed ha così dimostrato di «esserci per qualche cosa» (Aldo Valori, Corriere d. Sera, 21 sett. c.a.) avviandosi così anche per la via più chiara e realistica, che a quell'acuto politico del De Marinis pare di poterle augurare per il suo prossimo avvenire (Corriere, 1 ott.). [254] Va bene?
Non dicevo affatto di credere allo statuto: non bisogna, se si vuole essere realisti per davvero, guardare ai regolamenti, ma agli scopi ai quali quei regolamenti possono servire; non bisogna guardare alle parole, ma a ciò che se ne può trarre per i nostri scopi. Se proprio dovessimo star lontani dalla S. d. N. perché nel suo statuto ci sono alcune espressioni poco realistiche, umanitarie, pacifiste, faremmo lo stesso errore di coloro (c'era anche Sonnino, in un primo momento) che avrebbero voluto la nostra entrata in guerra a fianco degli imperi centrali: in quel caso, intento nobilissimo di tenere alto il nome dell'Italia seguendo le parole del trattato e la interpretazione altrui, anche se contro i nostri interessi; nel nostro caso, preoccupazione di non accedere ad una concezione per noi dannosa, secondo le parole di uno statuto, e l'interpretazione datane dagli altri. E in entrambi i casi, una preoccupazione ed una pregiudiziale: cioè ciò che di meno realistico si possa dare.
Tornando alla S. d. N. , dunque, vedi che il mio atteggiamento ha, se non altro, l'intenzione ed il proposito, almeno teorici, di essere veramente realistico, e scettico sul serio, cioè criticamente, pronto a rivedere il suo stesso scetticismo al lume dei fatti, nudi e crudi, uno per uno, e senza tener conto troppo del passato, quello della S. d. N. merita i suoi scherzi e le sue derisioni, ma questo ha a che fare con la storia, e non con la politica -, o dei regolamenti, degli statuti, o dei discorsi, che son da valutare come tali, fatti speciali fra gli altri fatti, ma non certo più probativi delle azioni.
113. Dunque? Dunque, mi pare che proprio l'A. si sia lasciato prendere dall'entusiasmo, ed abbia fatto della teoria vera e propria, ed anche di quella, più insidiosa: la teoria del realismo. Quando l'Angioni parla della palestra oratoria sul lago di Ginevra, intende parla- [***] sicuro. Forse perché essi vi fan sentire la nota giuridica, essenzialmente realistica già, appunto pronta a servirsi di quello statuto secondo l'interesse del loro paese. Questi son fatti e non parole: Scialoia, [255] e gli altri rappresentanti dell'Italia, hanno un atteggiamento scettico, sì, ma non di quello scetticismo negativo, che non si appaga che nella critica sterile! anzi, di uno scetticismo sempre più costruttivo. E poi, perché i nostri nuclei [256] dovrebbero desiderare la «quasi vivissima simpatia generale» di quella brava gente, se non avessero una certa stima della sua forza?
Ed ora guardiamo realisticamente, ma davvero, alle teorie sulla guerra e sulla pace. Crede davvero l'A. che se avessimo noi il bottino dell'Inghilterra o della Francia, noi saremmo proprio così umanitarii e supremamente buoni, da regalarlo alla sorella latina? E crede che i nostri lontani pronipoti, che godranno dell'impero italiano, desidereranno molto la guerra disturbatrice di quell'impero?
La guerra perpetua è altrettanto poco reale quanto la pace perpetua, se concepiamo, come mi pare che l'A. faccia, la teoria della guerra in contrapposto a quella della pace [. La guerra e la pace] sono[257] dati di fatto da riconoscere (come nella celebre frase del Capo del Governo, che tu citi) e non teorie, scettiche o meno, da bandire. Io non concepisco la S. d. N. come il suo statuto pretenderebbe, cioè come una società d'assicurazione per la pace, ma piuttosto come essa veramente è, come un terreno di lotta nel quale ci son molte battaglie da combattere, alle quali noi ci dobbiamo preparare.
L'A. parla di conflitto fra idea (teoria) e realtà (pratica): ma questo conflitto è una pura apparenza. Ci sono invece tante ideologie (non idee), che servono a mascherare gli interessi: è così; e non bisogna prendersela chi si scandalizzasse di questo, mostrerebbe di avere in fondo all'animo tenere, magari inconsapevoli, nostalgie per un mondo tutto di persone oneste, che dicessero sempre la verità, che facessero il bottino per gli altri, e così via dicendo: idealità quanto mai utopistica e democratica! E se non si sta attenti si perde proprio la calma, e si impreca contro gli altri popoli, che non sanno [258] pensare ai più poveri. L'Italia fascista non impreca, come per un'elemosina rifiutata, o per rosee speranze deluse, contro la ipocrisia altrui non è che ce ne accorgiamo adesso soltanto! ma guarda, preparandosi, non all'Europa soltanto, ma al mondo intero. Italiani ce n'è per tutto il mondo, ricordiamocelo bene! E focolai di guerra non ce n'è solo in Europa, ma in tutto il mondo, ed una nuova guerra non potrà essere che mondiale, teniamo presente anche questo.
Ecco dunque che alla luce dei fatti, l'accusa dell'A. per me era una vera e propria accusa mi è sembrata ingiustificata, in quanto a realismo: io parlavo di fatti, e non facevo teorie, né esaltatrici, né denigratrici: constatavo, come soltanto, a mio parere, bisogna fare in politica. Ho voluto rispondere così a lungo, anche perché dagli sviluppi dell'articolo dell'A. poteva parere che io nutrissi ideologie pacifiste: il che è lontanissimo dalle mie idee; come è lontanissimo da me l'utopismo, di tutti i generi, mistici o meno.
L'A. scusi che l'ho intrattenuto a lungo; ma spero di avergli dimostrato che, almeno nelle intenzioni e sono quelle che contano andiamo d'accordo, come è dovere di buoni colleghi e camerati. Spero che potremo continuare a discutere fra noi, senz'annoiare oltre i lettori di «Pattuglia», perché andando avanti finiremo in un campo tecnico, di ristretto interesse per gli altri.
Delio Cantimori
[Pattuglia, I, 24, 19 ottobre 1929, 1]
Cantimori svolgeva alcune di queste idee anche in un successivo articolo:
114. «Ogni cittadino senza passaporto corre il rischio di essere una pedina inutile nel giuoco dell'imperialismo fascista». Così Camillo Pellizzi in un articolo di fondo sul «Popolo d'Italia» del 6 agosto di quest'anno, articolo poi riportato da varii giornali, fra i quali notevole l'«Assalto» di Bologna. L'amico che me lo mostrava sorrideva, un po' amaramente, un po' ironicamente, di quella frase: ed infatti non le si può negare un certo aspetto paradossale ed urtante a prima vista. Come? non si potrà essere buoni cittadini d'Italia, dell'Italia imperiale, se non si sarà usciti dai suoi confini, per andare a prender diretto contatto con le varie degenerazioni europee, a guastar la nostra salute paesana nelle «metropoli tentacolari»? Non si sarà buoni fascisti se non si sarà passato qualche tempo nei focolai dell'umanitarismo, della democrazia, dell'internazionalismo?
Sarebbe certo una cosa molto strana. Ma il geniale sostenitore della «concezione aristocratica del fascismo» non la pensava certamente a questo modo. Egli scriveva anche: «Tutto può giovare fuorché una cosa sola: l'isolamento; tutto giova fuorché il rinchiudersi nei propri confini e là ripetere ogni giorno l'affermazione, vana perché inutile ed unilaterale, della propria superiorità, della virtù propria al cospetto degli errori degli altri». Parole molto sagge e degne d'esser meditate. E particolarmente da noi, che dobbiamo essere i pionieri della grandezza italiana, se non vogliamo tradire il sacrificio dei nostri padri e dei nostri fratelli maggiori.
Noi [ci] dobbiamo ormai liberare, come dallo sterile scetticismo, anche dallo sterile e rettorico nazionalismo, che ci porterebbe, o al positivismo mascherato dell'«Action Française», o alla torbida esaltazione della razza eletta tipo pangermanistico. Per non essere frainteso, dirò che la grande funzione compiuta dal movimento nazionalistico italiano non deve ora essere guastata e condotta alla degenerazione da noi, per i quali non è più che troppo facile affermare la nostra italianità, e la grandezza futura della nostra nazione. La nostra futura azione deve essere imperiale, non più nazionale; noi presupponiamo il nazionalismo, ne siamo figli, ma è noto che il figlio degno del padre è quello che ne prosegue l'opera e quindi lo supera. La nostra azione, l'azione della futura classe dirigente italiana deve essere internazionale, o, se la parola fa paura, supernazionale, per essere veramente imperiale. E' un antichissimo detto di saggezza universalmente riconosciuta, che colui che vuol vincere gli altri deve prima aver vinto se stesso. Noi dobbiam vincere il nostro amore per la madre comune, per la facile vita in patria, per la grandezza della nostra cultura e della nostra civiltà, ed allargare i nostri polmoni alla fredda aria della vita mondiale, dove non troveremo il viso amico, od il calore di un entusiasmo comune, ma visi duri, ed anche diffidenze da vincere.
115. E non sempre con il nostro coraggio, e con la nostra prontezza e senso politico, potremo vincere quei nemici: occorrerà esser preparati alle loro lotte, alla loro mentalità, conoscer le vie del loro cuore, come quelle delle loro ambizioni e dei loro orgogli, da non urtare, come noi non vogliamo che si urti il nostro, e da conoscere in ogni modo, per poterli efficacemente rintuzzare, al caso. Dobbiamo prepararci a pensare ed a decidere, a prender le iniziative per conto degli altri, se è vero che gli altri han perso la via e noi invece abbiamo trovato quella giusta.
Ma questo gigantesco compito che i giovani italiani si assumono, non può esser soddisfatto se essi non cominciano a pensare universalmente, in modo valido non solo per la politica italiana interna, ma per la politica mondiale. Ha detto il Capo del Governo: «a mio avviso non ha diritto a governare una nazione chi non sia capace di guardare almeno a 50 anni di distanza» (prefazione a «Regresso delle nascite, morte dei popoli», p. 11). [259] Questo monito altissimo vale non solo per il tempo, ma anche per lo spazio: e se il realismo italiano rifugge dai programmi a lunga scadenza, è però capace di fissare molto lontano il suo sguardo, e di dominare orizzonti molto vasti.
Bisogna che noi ci assuefacciamo a questi orizzonti, e che ci consideriamo, appunto perché ed in quanto italiani e fascisti, banditori di un'idea universale, cittadini dell'Europa e del mondo.
Per poter far questo dobbiamo però imparare a pensare tanto a cinquanta anni di distanza, se non altro per poter capire i nostri futuri governanti, quanto in modo da poterci rendere conto delle varie mentalità e delle varie tradizioni storiche che si urtano e cercano di affermarsi nel mondo, e specialmente in Europa, attorno a noi. Occorre aver chiara coscienza che se ci presenteremo agli altri popoli portando all'ombra delle nostre baionette soltanto la nostra passione nazionale desteremo contro di noi le altre pur legittime passioni nazionali. Anche in questo, del resto, non abbiamo altro da fare che rivolgerci all'esempio del nostro Capo del Governo: è ancor fresco il ricordo del suo articolo, pubblicato sulla stampa internazionale, riguardo al problema dei rapporti economici fra Europa ed America. [260] Sempre a scanso di equivoci, è bene avvertire che solo guardando a questi esempi noi parliamo e possiamo parlare di forma di pensiero al di là del nostro sentimento nazionale. Anzi, si potrebbe dire che si tratta soltanto di un approfondimento e di una dilatazione di esso stesso.
116. Ancora durante l'estate ormai scorsa, Gino Olivetti ha pubblicato sulla «Stampa» di Torino una interessante serie di articoli, per indurre giovani delle classi borghesi italiane a viaggiare di più, a rendersi conto «de visu» dei vari mercati, ad avere più intraprendenza, a non guardare come a più alta meta all'impiego, al posticino sicuro, nella città o nella regione natìa. Il nostro governo favorisce con tutti i mezzi l'emigrazione temporanea per ragioni di studio: noi, che dobbiamo formare l'aristocrazia culturale di domani, dobbiamo sopratutto andare incontro a queste volontà del nostro governo, ed entrare risolutamente per le strade che esso ci offre. Roberto Suster lamentava sull'«Educazione Fascista» di luglio alcune deficienze della organizzazione informativa estera dei nostri anche massimi giornali: [261] a noi fornire gli uomini per tale impresa, procurandoci anzitutto, ancora qui in patria, le conoscenze e le capacità tecniche necessarie, per poter poi rappresentare con dignità la nostra cultura, la nostra civiltà. Ricordiamo l'importanza del giornale nella vita odierna.
E sopratutto liberararci dalla bardatura mentale dell'ultima guerra. Uno studente di Torino, morto in guerra scriveva: noi non vogliamo la guerra per Trento e Trieste, noi vogliamo la guerra per la grandezza e la dignità d'Italia. Molti puri eroi morirono invece proprio per Trento e Trieste, molti andarono a combattere per la sorella latina, che difendeva la democrazia, la libertà, la umanità. Ora ci potremo avvicinare, se sarà interesse comune, alla Francia, ma quelle illusioni dei nostri padri non torneranno più.
Così noi dobbiamo esser consci delle tante ideologie che la guerra ha lasciato, ed assumere rispetto ad esse lo stesso atteggiamento guardingo che abbiamo di fronte alle loro conseguenze: alla S. d. N., a Versailles, alla politica pacifista anglo-sassone, che è pur la stessa che ha creato l'ideologia della colpa della guerra e via dicendo, mentre d'altra parte si ignora la nostra vittoria, e si confonde il nostro sentimento nazionale con il pangermanismo tedesco, ed il nostro rigido atteggiamento di difesa dello stato con la politica austriaca d'anteguerra (vedi commenti alla condanna di Gortan). [262] Sono questi tutti aspetti e lati in apparenza soltanto lontani, di un medesimo atteggiamento mentale, che noi dobbiamo assolutamente evitare di conservare nella nostra azione. Per esempio: se volessimo fare dell'irredentismo invece che un'attività una teoria politica, basata sul famoso diritto d'autodecisione, dovremmo rinunciare agli imprescindibili diritti dello stato italiano sugli allogeni. La teoria dell'irredentismo è quel famoso diritto delle minoranze inventato ora dalla Germania! Così, se il nostro governo avesse voluto restar fedele a certe nobili passioni, che tutti noi abbiamo sentito, e che ci potranno sempre ancora agitare, non avrebbe, come fra i primi ha fatto, riconosciuto la U.R.S.S., con la quale è stato recentissimo uno scambio di nette cordialità militari, a proposito della crociera aviatoria dell'estate passata. [263]
117. Tale è la mentalità che noi ci dobbiamo creare, libera da preconcetti e da schiavitù anche alle più nobili passioni. Dobbiamo cercare cioè di imparare a dominare le passioni, ed i sentimenti, per poterli formare ed educare secondo la saggezza della nostra civiltà: dobbiamo essere freddi politici, cogli occhi aperti prima di tutto su noi stessi, pronti a trattenere il fuoco della nostra anima, qualora esso possa farci compiere mosse precipitose ed arrischiate. L'amore per la nostra patria deve indurci sopratutto a lavorare per lei, più che a cantarle la nostra passione. Dobbiamo esserne poi figli degni, e non rimanerle appiccicati alle gonnelle; allora veramente saremo italiani quando ci sentiremo universali, senza pur mai dimenticare la nostra italianità. Dobbiamo assimilarci i frutti delle altre civiltà, poiché ormai il fascismo ci fa sicuri che non ce ne potremo più fare servi, come altra volta accadde; dobbiamo cercare di capire gli altri, ora che sappiamo ben rispondere alle loro incomprensioni e mostrarci anche in questo a loro superiori; dobbiamo entrare in relazione con questo mondo che vogliamo far nostro, e quindi imparare a parlarne la lingua, a conoscerne le idee.
Allora potremo dire di esserci creata veramente una mentalità imperiale, che è il minimo presupposto, in questa epoca di imperi mondiali, per l'affermazione della nostra potenza.
Delio Cantimori
[Pattuglia, I, 25, 2 novembre 1929, 1]
Abbiamo presentato di seguito questi articoli che sviluppano una medesima
argomentazione, ma fra il primo e il secondo, nel numero del 12 ottobre,
Cantimori aveva pubblicato un breve corsivo in terza pagina, che prendeva
spunto dalla nuova denominazione (Ministero dell'Educazione Nazionale)
che aveva assunto allora (r.d. 12 settembre 1929, n. 1661) il vecchio
dicastero della Pubblica Istruzione. E' utile confrontare lo scritto di
Cantimori con G. Maggiore, «Dall''istruzione pubblica' all''educazione
nazionale'», in Critica fascista, 7 (1929): 373-374. Si noti
nell'ultimo capoverso un accenno polemico contro la scuola religiosa (siamo
a pochi mesi dai Patti lateranensi).
118. Scuole medie, scuole elementari, Università, non sono ormai più istituti d'istruzione, ma di educazione. Qual è il significato di questo cambiamento, che è un'altra prova dell'importanza che hanno le parole?
Pubblica istruzione: scienza come abilità tecnica, come massa di cognizioni, impartita alla maggior quantità di persone. Il pane della scienza spezzettato in tante briciole, pronto per tutti: divulgato, dato al volgo, al pubblico. Democrazia: la massa anonima dei padri di famiglia, irresponsabile degli errori e della ignoranza dei figli gravava in nome dei suoi interessi e dei suoi sentimenti sulla scuola, che del resto non aveva alcuna autorità morale che la facesse rispettare, in quanto voleva soltanto rilasciare attestati di cognizioni apprese. L'intransigenza non ha a che fare con la tecnica. Bisognava servire il pubblico, e basta.
Educazione nazionale: formazione morale dell'italiano. Preparazione alla vita di cittadino: scelta dei migliori. Le cognizioni e il loro apprendimento posti ancora alla base, come imprescindibili materialmente; ma non più sufficienti: punto di partenza, strumento di elevazione e di forza. Ma sopra di esse la chiara coscienza dei doveri del cittadino, che impara a riconoscere, attraverso il vario mondo delle cognizioni, la vita superiore dello stato. Aristocrazia: intransigenza morale che premia il capace e forma il senso della responsabilità. La scuola nella vita: così scompare il vecchio dualismo, tanto abusato dai pietosi raccomandatori.
Aperta a tutti: ma a tutti coloro che sanno, possono e vogliono; non ai pigri dunque e ai disgraziati: i quali si devono elevare alla sua dignità e non devono pretendere che essa si abbassi fino a loro. E sopratutto libera da istituzioni [264] estranee, da interessi che non siano i suoi propri e da sentimentalismi fuori di luogo nella vita moderna. Per una persona poco istruita si poteva anche avere qualche riguardo; per una persona poco educata, nessuno; tanto più che, data la nazionalità dell'educazione impartita nella scuola, la mancanza di essa verrà anche a significare mancanza di italianità.
Come significa mancanza di coscienza nazionale il ricorrere a fonti di educazione differenti da quelle offerte dallo Stato.
Delio Cantimori
[Pattuglia, I, 23, 12 ottobre 1929, 3]
Ricordiamo ancora, a dimostrazione del legame di Cantimori con Pattuglia,
la recensione firmata dallo pseudonimo ciorì (che potrebbe
nascondere lo stesso C[antim]ori), del romanzo del padre La strada
mia corta [265] e la
collaborazione su temi prevalentemente letterari di Claudio Varese, normalista
dal 1928 al 1930, di cui si segnala l'articolo «Scuola di Diritto
Corporativo nella Università di Pisa» (Pattuglia,
II, 5, 1° marzo 1930).
119. Sull'ultimo numero della rivista di Spirito e Volpicelli, prima della forzata interruzione, uscì questa dimenticata recensione di Cantimori al volume di Giuseppe Santonastaso su Proudhon, ulteriore conferma del legame che intratteneva con Spirito e il suo gruppo:
G. SANTONASTASO, Proudhon, Bari, Laterza, 1935 (Bibl. di cultura
moderna, n. 264), p. 200, L. 12.
Questo nuovo libro del Santonastaso potrebbe esser definito «introduzione allo studio del Proudhon»: ottima, se pure più di carattere riassuntivo ed espositivo che critico. Il Santonastaso s'è fatto tutt'uno col Pr., forse per una certa congenialità della sua mente fervida e dai larghi interessi con questo scrittore appassionato, di vaste letture, dai molteplici interessi, ricco di formule suggestive ed eloquenti, - oltre che di profondità e acutezza di pensiero, e di vigore politico. Ne è venuto un libro un po' rapsodico, che offre però un ottimo strumento per un primo contatto con il mare magno delle opere proudhoniane: è un panorama molto chiaro, nel quale ci si può orientare per iniziare lo studio del Pr., e che allo stesso tempo offre un sommario efficace e vivido delle idee di lui per chi voglia esserne informato.
L'elaborazione critica e la valutazione storica del Pr. rimangono però solo implicite, e il filo di esse si perde un po' attraverso la grande quantità di argomenti che il S. ha dovuto toccare e comprendere nel suo libro.
Pare che il S. abbia tenuto d'occhio più le soluzioni di singoli, se pure importantissimi problemi, offerteci dal Pr., che la ispirazione etica fondamentale di questi.
Infatti alla fine il S. sente il bisogno di affermare il primato della categoria etico-politica su quella economica, che secondo lui sarebbe la categoria fondamentale del pensiero proudhoniano (p. 180). Invece tutto il pensiero del Pr. è accentrato sulla esigenza della eticità politica e della moralità individuale. I «fondamenti del progresso» (è il cap. II del Santonastaso), sono la libertà e la giustizia: sono esse che fanno la storia, sono esse l'elemento attivo della vita degli uomini, secondo il Pr. L'una, intesa come «spontaneità collettiva e individuale», l'altra, come rapporto fra uomini liberi, come «rispetto spontaneamente provocato e reciprocamente garantito dalla dignità umana, in qualsiasi persona e in qualunque circostanza essa si trovi compromessa e a qualsiasi rischio ci esponga la sua difesa» (p. 32, nota in fine). Il S. sembra qui aver visto chiaro come l'esigenza etica, della dignità dell'uomo, sia alla base di tutto il sistema, e venga idealmente prima di libertà e di giustizia, e d'ogni altra cosa. Questi uomini non c'interessano ormai molto per tentativi come quello delle banche a credito gratuito, e neppur molto per le loro specifiche formulazioni di programmi e soluzioni di problemi del loro tempo se non in sede storica. Quel che ci affascina nel Pr. è il vigore e la lucidità della sua consapevolezza del problema etico, per la fermezza e l'intransigenza ideale insita nel suo fervore pei principî etici, base e fondamento primi d'ogni convivenza veramente umana, d'ogni storia. Ad essi ogni azione di reale importanza innovatrice, di valore veramente universale, deve prima di tutto informarsi, ad essi deve tener fermo su ogni altra cosa, al di sopra delle situazioni politiche, al di sopra della tecnica, al di sopra dell'economia. Non che il S. abbia trascurato questo punto, ma avrebbe dovuto dargli, ci pare, rilievo molto maggiore, come al filo conduttore del pensiero proudhoniano. Egli invece si preoccupa di mostrare come nella realtà politica quei due fondamenti del progresso si presentano come esigenze del federalismo e delle autonomie locali, di contro allo statalismo accentratore: il sindacato sostituirà il governo, dice il Gurvitch, interprete giuridico del pensiero proudhoniano, seguito a ragione dal S. (p. 33 n. 2). Peccato che il S. non abbia svolto di più i pensieri di questo capitolo, che sono i più organici. Così il S., che è pur consapevole della importanza del problema religioso per il Pr., e ne ricorda la affermazione caratteristica: «L'esercizio del senso morale, della funzione giuridica è lento a stabilirsi nell'umanità: la religiosità, sorta di supplemento della giustizia, non è altra cosa, in fondo, che la prima forma ideale obiettiva simbolica della giustizia, forma che deve diminuire, atrofizzarsi attraverso il progresso della giustizia», non s'è fermato con coerenza su questo punto. Il cap. VIII («Critica religiosa») rileva soprattutto il carattere negativo della polemica antiecclesiastica proudhoniana, lasciandone in ombra il presupposto positivo, l'esigenza della eticità umana; alla stessa maniera, il cap. VII («Moralismo proudhoniano») si ferma su problemi particolari, della famiglia, della donna, dell'arte.
120. Anche per i problemi economici, che paiono interessargli di più, il S. si tiene piuttosto ad una esposizione riassuntiva, con qualche accenno di interpretazione. In fondo qui il S. fa propria la sostanza degli argomenti di Carlo Marx contro il Pr. affermando: «La nuova trasformazione della società può avverarsi solo a condizione che si eliminino tutte le istituzioni, mercè le quali alcuni individui possono sfruttare la massa»; e si è sempre su quel piano etico, che sopra abbiamo accennato.
Dopo aver indugiato sulla teoria del possesso, che il Pr. vuole sostituire alla proprietà nella prima fase del suo pensiero, il S. segue poi l'evoluzione di questo pensiero verso la giustificazione della proprietà, come salvaguardia contro l'assolutismo statale: «servire di contrappeso alla potenza pubblica, bilanciare lo Stato, tale dev'essere la funzione principale della proprietà» (p. 77), e ne illustra convenientemente il sostrato etico-politico, l'esigenza della libertà individuale come presupposto della eticità.
Qualche volta il pensiero del Pr. è trasportato con forse troppo grande arditezza in termini, diremmo, marxistici: «La guerra è il prodotto della civiltà capitalistica. L'anarchia economica che circola nel capitalismo, si conclude nella guerra; questa, essendo incompetente a risolvere i problemi economici, dovrà finire nell'avvenire» (p. 117). Non si nega che questo sia il pensiero del Pr.: ma non è certo il suo tono.
A proposito del problema del «federalismo europeo» e del giudizio negativo del Pr. sul moto unitario e nazionale del Risorgimento italiano, avremmo amato vedere approfondito, o per lo meno meglio precisato, il rapporto fra il Ferrari e il Pr.: il S., accedendo alla tradizionale interpretazione storica del Risorgimento, come moto di volontà unitaria e nazionalistica, è portato a riflettere questa opinione sul Pr., che secondo lui avversò il Risorgimento soprattutto come patriota francese.
Sorprende poi che il S., il quale ha riconosciuto l'importanza eccezionale del Carteggio del Pr., e gli ha anzi dedicato un capitolo apposito, non se ne sia servito ancor di più nel suo lavoro, ma gli abbia dedicato un saggio a parte, dove si parla più della psicologia e di lati secondari della persona del Pr., che delle sue idee, le quali sopratutto ci interessano. Ad ogni modo, così come sta, l'esposto che il S. ci offre del pensiero proudhoniano è utilissimo, perché serio, completo, assennato. C'è un'ottima bibliografia, preceduta da un breve saggio conclusivo sui principali giudizî dati sul Pr.
D. Cantimori
[Nuovi studi di diritto, economia e politica, 8 (1935): 305-306]
121. Nel suo saggio cantimoriano, Silvana Seidel Menchi riporta un brano di una lettera di Cantimori a lei diretta (24-25 ottobre 1961), in cui egli rievoca in questi termini una sua recensione degli anni '30 a un saggio di Salvatore Valitutti:
Cantimori [...] recensendo una volta uno scritto del Valitutti si congratulava perché Valitutti aveva riconosciuto che il socialismo aveva avuto una funzione educativa portando il popolo dal ribellismo e dall'estraniazione alla politica alla coscienza dei problemi politici. Tipiche deformazioni idealistiche della realtà: [...] erano le goffaggini, errori ed ingenuità dello studioso idealista che si avvicinava incespicando all'interesse per il socialismo e per il movimento operaio.
La Menchi identifica il saggio di Valitutti in un suo contributo, «Il socialismo e la Carta del lavoro», a un volumetto dell'Istituto nazionale di cultura fascista dedicato a La Carta del lavoro e il pensiero politico moderno pubblicato nel 1937, in cui veniva dato sul socialismo un giudizio simile a quello ricordato da Cantimori; ma non è riuscita a rintracciare la recensione in questione, che sarebbe rimasta sin qui sconosciuta. Ritiene che una sua identificazione «ci permetterebbe di datare con più precisione e definire meglio il primo, incerto approccio di Cantimori» ai valori del socialismo e del movimento operaio (Seidel Menchi, 782).
Ma nella bibliografia di Cantimori è compresa (e ristampata in PSC, 642) una sua segnalazione, comparsa sul Leonardo dell'ottobre-novembre 1937, a un lavoro di Valitutti: si tratta del commento scolastico (Firenze: Sansoni, 1936) alla Dottrina del Fascismo di Mussolini, che pare al recensore il migliore di quelli finora apparsi, «chiaro, preciso, bene informato, può essere utile anche fuori della scuola». Nell'Introduzione, fra l'altro, Valitutti scriveva:
Il movimento politico che effettivamente cominciò a vincere l'assenteismo del popolo fu il movimento socialista nell'ultimo decennio del secolo XIX e soprattutto nel primo decennio del secolo XX. Per quello che riguarda l'estensione quantitativa di questo iniziale risveglio politico popolare, operato dal socialismo non bisogna, però, esagerare come molti hanno fatto e continuano a fare; basti pensare al fatto che il socialismo, tranne che in alcune zone relativamente progredite, non penetrò nel popolo rurale. Ma sia pure in proporzioni minori di quelle vantate, questo incipiente risveglio fu reale, e fu il socialismo a produrlo. Certamente questo primo albore politico in alcune frazioni del popolo fu, all'inizio, un fattore positivo nell'immobilità corrosiva della vita italiana; e sempre più positivo sarebbe potuto diventare se la classe dirigente del socialismo fosse stata capace di interpretare le effettive esigenze del popolo che pur diceva di voler dirigere e guidare. La positività, a cui abbiamo accennato e che rimase, nacque dal fatto che per la prima volta larghi strati popolari cominciarono ad avere un sentimento, sia pure vago, di compiti sociali da adempiere, al di là del loro particolarismo, e si riunirono, al di fuori dei loro confini municipali e regionali, in questo sentimento. Furono questi i primi germi gettati in un terreno vergine e fino allora sterile e chiuso, germi che se fruttificarono male ebbero, tuttavia, il vantaggio di preparare la terra a nuove, più propizie e feconde seminagioni.
122. Seguiva il quadro consueto della trasformazione del socialismo da «elemento propulsore» a fattore retrivo e controrivoluzionario per il prevalere, nelle sue file, della filosofia evoluzionistica, positivistica e materialistica e del sentimento antinazionale; della originalità a principio del socialismo di Mussolini rispetto a quello degli altri dirigenti del partito e del ruolo svolto dal fascismo in continuazione e in completamento di quello svolto dal socialismo nella 'nazionalizzazione' delle masse italiane. [266]
Come si vede, anche questa Introduzione presenta i temi ricordati da Cantimori nel 1961 e quindi la recensione sul Leonardo potrebbe esser quella cui Cantimori faceva riferimento. Ma se la leggiamo, non troviamo, se non in termini molto criptici, le «congratulazioni» cui lo storico avrebbe alluso molti anni dopo:
Il Valitutti è uno dei pochi studiosi che sanno vedere la storia del Fascismo entro la storia sociale d'Italia, e che cercano di sollevarsi a una considerazione politica superiore. Non è il caso di stare a soppesare minutamente la maggiore o minore utilità che avrebbe avuto l'aggiungere una trattazione storica più precisa alla trattazione prevalentemente dottrinale che il Valitutti ci offre; né è il caso di discutere la maggiore o minore opportunità di ricordare il nazionalismo e personalità come l'Oriani, nell'Introduzione. Rileveremo invece la nota biografica, che pur nella sua estrema brevità, è suggestiva per citazioni ben scelte degli scritti di B. Mussolini, da ogni periodo della sua vita.
Dunque si sottolinea la capacità di Valitutti di calare il fascismo
«entro la storia sociale d'Italia» e gli si rimprovera il
credito accordato a Oriani e al nazionalismo fra le fonti della dottrina
fascista. Resta quindi il dubbio se sia veramente questa la recensione
cui Cantimori si riferiva nel 1961. In caso affermativo, c'è da
chiedersi se sia esistita magari una prima redazione in cui il suo apprezzamento
fosse più esplicito, o se il Cantimori 1961 ricordasse le riflessioni
che la lettura di quel testo avevano prodotto in lui, ma che poi non registrò
nella breve nota, o che semplicemente volesse fare un esempio, con generici
riferimenti testuali, di come uno studioso idealista potesse avvicinarsi,«incespicando»,
all'interesse per il socialismo e il movimento operaio: comunque siamo
alla fine del 1937.
123. Belardelli ha richiamato l'attenzione degli studiosi di Cantimori
sul volume Ricordi di Giovannino (Verona: dai torchi della Officina
Bodoni, 1942), la pubblicazione in morte di Giovanni Gentile jr., voluta
dal padre: vi sono infatti pubblicate alcune sue lettere a un C., che
- per lo meno in alcune deve essere identificato senz'altro in Cantimori
(Belardelli, 402-403 nota 69). In particolare ne viene riportata una datata:
Milano, 17 maggio 1940-A. XVIII, in cui si discute di un articolo di C.
sull'Università, in cui egli lamenterebbe «che, in genere,
nella Università manchi affatto quella che si può dire l'educazione
formativa del carattere degli studenti». Nella bibliografia cantimoriana
di Perini-Tedeschi, all'anno 1940, un tale articolo non compare, né
ve ne sono nel decennio precedente. Come avrà fatto Belardelli,
abbiamo esaminato anche noi le riviste dove Cantimori scriveva in quegli
anni, alla ricerca di tale scritto, ma senza risultato. E' anche possibile
che la data sia imprecisa, soprattutto l'indicazione dell'anno, che potrebbe
essere stato aggiunto dal curatore del volume: ove si ricordi che l'anno
seguente vide svolgersi su Primato l'inchiesta sull'università,
che il 15 maggio comparve sulla rivista di Bottai la risposta de Il
Campano di Pisa [267]
e che tale risposta, nello stile e negli argomenti, potrebbe anche essere
cantimoriana, si potrebbe anche ipotizzare che la lettera di Giovannino
fosse del 17 maggio 1941, che i giovani del G.U.F. di Pisa avessero chiesto
al giovane docente della Normale di scrivere quella risposta e che Giovannino
lo sapesse. Ma poi non c'è una piena corrispondenza fra quello
scritto e le osservazioni contenute nella lettera e soprattutto l'ipotesi
ora avanzata è troppo elaborata e basata su ulteriori ipotesi:
e queste come si sa non sunt multiplicandae. Ve n'è
un'altra più semplice: che dietro quel C. si celino corrispondenti
diversi.
E' noto che Cantimori scrisse al «caro Rossi» per la rivista Itinerarî la lettera del giugno 1962, più sopra, a varie riprese, utilizzata, prendendo spunto da un articolo di Giuseppe Dessì sul quotidiano romano Paese sera del 1° giugno 1962, nel quale lo scrittore sardo ricordava il suo insegnamento al liceo Dettori di Cagliari e fra l'altro affermava che il professore «scriveva in quel periodo su 'Critica fascista'» (CS, 143). Cantimori annotava:
Il Dessì parla del professore come collaboratore di «Critica fascista»: è un errore, nel senso che quegli anni 1929-30, 1930-31, il professore era abbonato alla rivista e ne parlava e la faceva leggere (e la reprimenda l'ebbe proprio per questo, dalle autorità politiche del tempo!): ma non ne era collaboratore. Vi scrisse una volta sola, molti anni dopo, quando il professore era sempre ancora professore liceale e l'antico studente era stato nominato o stava per esere nominato provveditore agli studi (CS, 141).
Cantimori ammette dunque una sua isolata collaborazione alla rivista
di Bottai, molti anni dopo il 1929-30, ma prima del 1939, anno in cui
diventò professore universitario. La bibliografia Perini-Tedeschi
non la comprende; uno spoglio piuttosto accurato del quindicinale ha dato
esiti negativi. Si tratta di un lapsus? Cantimori si confonde con
un'altra pubblicazione di Bottai, che potrebbe essere l'Archivio di
studi corporativi, in cui nel 1934 pubblicò le «Note
sul nazionalsocialismo»? Se comparso su Critica fascista,
l'articolo potrebbe essere rimasto anonimo o firmato con uno pseudonimo.
Anche in questo caso le ipotesi possibili sono troppe e quindi vane. L'identificazione
di quell'articolo sarebbe tuttavia di notevole interesse per la biografia
politica del Cantimori degli anni '30.
124. Giovanni Nencioni ha chiamato «agnizioni di lettura» quei riconoscimenti di rapporti di lingua e di stile, anche nell'uso di singole espressioni, fra autori diversi e spesso lontani, che càpita talora di compiere in sede di lettura critica. [268] Vorremmo segnalarne una riguardante Cantimori, che ci pare di un certo interesse. Negli «Appunti sullo 'storicismo'» del 1945, egli rileva come «le tipizzazioni sociologiche [...] appiattiscono, schiacciano sullo stesso piano dell'infinito, la concreta, rugosa e rilevata realtà storica» (Studi, 17): questo della «rugosa» realtà, a cui lo storico deve restare aderente nel suo lavoro, è diventato poi uno dei topoi cantimoriani più celebrati e più spesso citati da biografi ed esegeti. Esso ha tuttavia un'origine letteraria piuttosto nota: nell'Adieu della Saison en enfer, Rimbaud scriveva:
Moi! moi qui me suis dit mage ou ange, dispensé de toute morale, je suis rendu au sol, avec un devoir à chercher, et la réalité rugueuse à étreindre! Paysan! [269]
Cantimori, bibliofilo appassionato e lettore onnivoro, possedeva, nella sua biblioteca, libri di Rimbaud e quindi non è impossibile che abbia mutuato quella «rugosa realtà» del 1945 da una lettura diretta del poeta francese o, comunque, da una citazione esplicita (il passo, per esempio, era stato riportato e ampiamente commentato da Croce nelle sue polemiche rimbaudiane durante la prima guerra mondiale); [270] ma può anche darsi che quell'espressione sia giunta a lui in maniera tralatizia e inconsapevole. Colpisce la sua presenza nelle pagine di Riccardo Bacchelli: all'inizio del suo romanzo Mal d'Africa, uscito nel 1934, troviamo: «Del resto, sotto ogni riguardo, le cose in Italia volgevano non prospere né liete, e, compiuta l'unità, gli entusiasmi avevan ceduto il luogo al rugoso sembiante della realtà; l'inquietudine e lo scontento eran perfino esagerati». [271] In un altro romanzo bacchelliano Il fiore della mirabilis, del 1942, leggiamo ancora: «Dunque, non più miraggi! E costernato riconosceva la nuda e scabra, la rugosa realtà; e la costernazione era l'aspro scotto da pagare per riconoscerla, foss'anche povera, meschina, sciatta, risibile». [272] Darei per certo che ulteriori sondaggi nell'opera fluviale dello scrittore bolognese ci darebbero altre «rugose realtà».
Che Cantimori sia stato lettore attento della narrativa bacchelliana è confermato da un cenno dell'aprile 1962, in una delle lettere al «caro Rossi», in cui pur nella brevità il giudizio è acuto:
Caro Rossi, volevo parlarLe questa volta dei romanzi storici di Riccardo Bacchelli e in particolare di Non ti chiamerò più padre, che si presta a varie considerazioni. Ma non è cosa facile; i libri di Bacchelli sono, come si suol dire, «pensati», e mi occorre riflettere ancora prima di scriverne senza temere di dire cose insensate. Così questa volta mi soffermerò su una questione più tecnica e limitata, anche se in certo modo attuale e bruciante [...] (CS, 112).
Purtroppo quell'intenzione rimase tale e lo storico non tornò
più sui romanzi del suo collega linceo. Quanto detto non comporta
ovviamente un'adesione piena al modello letterario e all''ideologia' di
Bacchelli: a Chabod che in una nota delle sue Premesse (p. 362
nota 4) citava il Diavolo al Pontelungo e il Mulino del Po
a proposito dell'«indifferenza [...] delle masse per l'ideale politico
del Risorgimento - libertà, indipendenza, unità»,
Cantimori obiettava - in una glossa posta a margine che avrebbe dovuto
citare Gramsci (il volume si trova nella biblioteca della Scuola Normale
Superiore di Pisa: devo la segnalazione al collega Mauro Moretti). Questa
piccola (a qualcuno potrà sembrare anche frivola) 'agnizione' indica,
fra gli altri, un problema che richiederebbe approfondimento: quello della
cultura 'letteraria' di Cantimori e del suo riverberarsi nella sua varia
operosità di storico. Prosperi ha accennato alla costante presenza
carducciana e l'ha messa giustamente in relazione con gli ambienti di
repubblicanesimo romagnolo in cui Cantimori si formò (Introduzione,
XVIII e nota 12), ma altri scavi meriterebbero di essere fatti.
125. Siamo risaliti a questo articolo lo si è già mostrato
(cfr. supra, VII, 77) da un cenno di Cantimori contenuto nella
recensione alle Cronache di filosofia di Garin, del 1955. Gentile
aveva preso a collaborare a Politica sociale, rivista diretta da
Renato Trevisani, nel 1929, anno della sua fondazione. Nella bibliografia
gentiliana di Vito A. Bellezza vengono segnalati tutti i precedenti saggi,
ma non questo, che non è stato ricuperato nemmeno nel secondo dei
due recenti volumi di Politica e cultura (Firenze, Le Lettere,
1991), nel quale sono stati raccolti gli interventi, anche secondari,
del filosofo nel dibattito politico-culturale degli anni del fascismo.
Le note al testo sono nostre.
La politica sociale del vecchio regime era di provvidenze, per dir così, paterne: assistenza ai vecchi, ai fanciulli, alle donne lavoratrici, agl'invalidi: assistenze di carattere legislativo, che sottraevano perciò questa difesa della società, specialmente negli strati più vasti della Nazione che sono quelli delle classi operaie, all'arbitrio e all'alea della semplice filantropia; ed erano certamente un indizio e un effetto del nuovo concetto, che si faceva strada, dello Stato, non più forma agnostica di un contenuto autonomo nelle sue forze sociali ed economiche, ma attività organizzatrice della vita del popolo, e quindi aderente, anzi intrinseca alle stesse forze sociali della Nazione. Erano una prima forma d'interessamento e d'intervento dello Stato nella economia nazionale, e quindi un primo passo del superamento del concetto liberale dello Stato stesso. L'azione del socialismo corrodeva già il carattere puramente liberale, o più propriamente liberalistico, dello Stato.
Il Regime fascista non ha abbandonato questa forma di politica sociale. Anzi la ha accentuata con leggi e istituti organici, che sistematicamente disciplinassero l'azione assistenziale dello Stato agl'individui alla cui conservazione e al cui normale sviluppo è legata la forza e la vita dell'intera Nazione; e gl'interessi dei quali cessano perciò di essere interessi privati per diventare pubblici e di Stato. Basti ricordare, per questo riguardo, la grande Opera per la Maternità e Infanzia, che organizzata come un'opera parastatale, tende, al pari dell'Opera Nazionale Balilla, ad essere assorbita nel circolo dell'attività dello Stato, poiché infatti risponde a una funzione analoga dell'Opera Balilla, che è per rientrare di pieno diritto nella competenza del Ministero della Educazione Nazionale. Un identico interesse nazionale e sociale è alla base della Maternità e Infanzia, poiché l'allevamento come l'educazione fisica è l'inizio necessario ed essenziale di ogni educazione spirituale e spetta a quel medesimo ordine di attività onde lo Stato provvede alle sue finalità etiche promovendo la formazione e sviluppo delle forze intellettuali e morali della Nazione.
126. Ma la politica sociale del Regime fascista da questa funzione paterna e indirizzata bensì alla soddisfazione di bisogni nazionali, ma direttamente rivolta alla formazione dell'individuo sociale, è passata a un più vasto campo dal giorno che ha cominciato a realizzare il suo concetto dello Stato come forma concreta della effettiva organizzazione sociale derivante dai mutui rapporti del capitale e del lavoro in tutte le loro determinazioni: conseguenza così del concetto etico dello Stato, come realtà ideale che gl'individui recano in atto superando i loro limiti naturali, proponendosi scopi superiori ai loro interessi e alla loro stessa esistenza che è l'affermazione più rigorosa ed assoluta del valore dello Stato; come delle estreme forme sindacaliste del movimento socialista, che lo Stato negavano perché non aderente alla realtà economica e spirituale delle masse sotto la spinta dei loro naturali rapporti tendenti a ordinarsi nei sindacati. Punto di convergenza e superamento storico del liberalismo, che, attraverso la critica interna del concetto di libertà, era pervenuto all'idea dello Stato come sostanza morale, e del socialismo che, attraverso la lotta di classe disgregatrice e annullatrice dell'unità statale, era sboccato nella concezione sindacalista che il potere politico risolve e immedesima nella stessa struttura economica della società. Il Fascismo, pertanto, è antiliberale (e si dovrebbe dire, antiliberalista) quanto è antisindacalista. Beninteso però, che l'opposizione in entrambi i casi non è pura negazione, ma correzione e integramento di quel che di astratto e unilaterale era così nel liberalismo come nel sindacalismo. Giacché bisognerebbe una volta cominciare ad intendersi circa il valore di quella polemica fascista contro gl'immortali principii, di cui si fanno forti i liberali nel campo astrattamente teorico rappresentando il fascismo come semplice autoritarismo e anacronistico reazionarismo. Mussolini ha molte volte protestato contro queste stolte accuse, e fieramente affermato che egli va avanti e non torma indietro. In verità, non è in giuoco la libertà, bensì soltanto il concetto angusto di essa. Il vecchio liberale ha un concetto falso della libertà, perché, concependola come un diritto naturale ossia come un attributo proprio dello spirito nella sua stessa immediata individualità idealmente anteriore allo Stato nella cui storica universalità l'individuo propriamente realizza e conquista i suoi valori ne fa qualche cosa di contradittorio e di assurdo. Contradittorio, perché chi dice libertà dice non natura, anzi negazione della natura, ossia di tutto ciò che si può presumere originariamente esistente e bello e formato. Dice non una dote, ma una conquista, come il sapere, la virtù e tutto ciò che dice vita e valore spirituale. Il fascista si oppone al liberale perché vuole la libertà sul serio: la sola libertà che sia logicamente concepibile ed effettivamente realizzabile; cioé la concreta libertà che un cittadino può raggiungere mediante l'organizzazione, la disciplina, lo sviluppo e la potenza della sua nazione vivente nella forma essenziale di Stato. Libertà, non astrattamente infinita, ossia indeterminata, ma quella libertà che si ottiene attraverso il movimento storico estremamente vario e circostanziato della vita sociale nella sola forma in cui questa vita esiste in concreto, cioè nello Stato. Che perciò rimane sempre la base e il principio di ogni libertà.
D'altra parte, il Fascismo è anticomunismo e anche antisocialismo. Ma, anche qui, bisogna intendersi. Non meno del socialismo il Fascismo si oppone alla concezione dell'economia liberale, negando lo stesso soggetto che quell'economia poneva a fondamento dell'attività economica, e, coerentemente alla sua dottrina politica, mettendo la società alla stessa base dell'individuo agente come forza economica, e mostrando perciò l'inseparabilità dell'interesse individuale da quello nazionale. L'errore del socialismo è doppio: 1) non vede l'interdipendenza delle categorie economiche sociali, e vede il contrasto dove non è possibile che solidarietà; 2) si lascia anche sfuggire che la vita umana e quindi la vita sociale non si esaurisce nella economia; e che perciò lo Stato, concreta forma di questa vita sociale, trascende la sfera della semplice economia; e lungi pertanto dal risolversi nella frammentaria e anarchica struttura dei diversi sindacati indipendenti, li contiene come tutte le formazioni e strutture in cui si articola l'economia sociale - come materia, che la forma statale può organizzare, animare, spiritualizzare appunto con la sua superiore, autonoma, originaria attività etico-politica.
127. Il socialismo, negatore dello Stato anche quando comunisticamente ne fa l'unico o unitario agente economico, riducendo la politica ad economia, spoglia la materia dello Stato, ossia della concreta vita spirituale della Nazione, della sua forma ideale e d'ogni suo valore morale, e ne fa una massa inerte e morta. Ma ha ben ragione di affermare l'esistenza innegabile del contenuto; di tutta la massa degli interessi, che sono naturalmente alla base della vita morale dell'uomo; di tutto il ricchissimo humus da cui germoglia l'umana individualità con le sue istintive tendenze, con i suoi bisogni e interessi elementari, con quella indistruttibile e inesauribile natura che si agita nel fondo di ogni animo umano; dove non è tutta la vita dell'uomo, ma è certo una sua parte essenziale.
Gettare questo contenuto nella vecchia forma, stringere insieme e fondere i due principii nell'unità vivente dello Stato che è interesse e ideale, che è economia e missione, che è individuo particolare e coscienza e volontà universale, che è libertà e autorità, questa è la potente e storica originalità, la creazione del Fascismo. Il quale perciò è una rivoluzione e inizia una nuova epoca.
E la prova più evidente è appunto in quell'aspetto bifronte che esso ha agli occhi di molti, che non sanno rendersi conto di questo fatto, che ora il Fascismo pare conservazione e ora rivoluzione, e che esso è certo il più fiero avversario del comunismo ma è anche innegabile che, limitando e osteggiando la libertà economica e facendo intervenire l'azione dello Stato come corporazione nel regolamento dei rapporti economici, esso pur socializza la proprietà, e ha potuto far pensare a taluno che tenda anch'esso al limite del bolscevismo.
E la verità è, anche questa volta, che le due tesi opposte nell'interpretazione del Fascismo sono entrambe vere ed entrambe false, come può facilmente vedere da se stesso chi si sia reso conto delle precedenti considerazioni. Dalle quali risulta infatti, che ognuna delle due interpretazioni è falsa in quanto è unilaterale. E ne risulta altresì la complessità e lo storico significato del Fascismo. Del quale la fisionomia essenziale si scorge nella struttura corporativa dello Stato: forma caratteristica, come tutti più o meno chiaramente riconoscono, dello Stato fascista.
Ho detto altrove [273] perché sia da ritenere erronea la deduzione logica della corporazione proprietaria (socializzazione della proprietà) dal concetto fascistico della identità di individuo e Stato. Certo, lo Stato corporativo reca in sé la negazione di tutto ciò che nell'individuo, economicamente e moralmente, rappresenta un limite di fronte allo Stato: qualche cosa di particolare che sfugge e si sottrae all'energia comunitativa dello Stato. Ma questa negazione è quel medesimo processo spirituale e storico (immanente alla vita umana sociale) in cui consiste il processo eterno e infinito dello Stato. Il cui carattere spirituale importa appunto l'infinità inesauribile della sua attuazione, e quindi la indistruttibile presenza del punto di partenza da cui esso prende le mosse per attuarsi: punto di partenza sempre diverso ma sempre identico, ossia sempre relativamente universale (statale) e perciò sempre relativamente particolare (individuale): e, secondo la terminologia sopra adoperata, sempre 'contenuto' che deve organizzarsi nella 'forma' storicamente determinata di Stato.
128. In questa logica, che mi sono studiato di rendere più evidente
che ho potuto, è il principio della politica sociale del Regime:
di quella che il Duce, nel suo discorso di Torino, [274]
ha definito come sistema di solidarietà sociale, non più
intesa come un semplice fatto morale, ma come il carattere essenziale,
concreto e attuale, della vita sociale politicamente disciplinata. Dove
l'assistenza è l'eccezione; e la regola è l'individuo che
di assistenza non ha bisogno, perché lavora e del suo lavoro vive
in un sistema di garenzie immancabili, che sono le garenzie della corporazione.
Dove l'interesse dello Stato coincide con quello dell'individuo, e la
fortuna e benessere di questo è la fortuna e benessere di quello.
Il quale, a sua volta, curando l'interesse dell'individuo cura il suo
proprio interesse; e non per un atto di semplice buona volontà,
come era quello delle provvidenze della vecchia politica sociale, ma per
una necessità immanente alla sua stessa natura di Stato eticamente
concepito, ossia di persona che è in quanto si attua, ed ha coscienza
di sé in quanto si vuole. Sicché può mancare a se
stesso; ma dove si riscuota, e abbia il senso esatto della propria dignità,
non può non volere la sua propria potenza nella sua propria prosperità
che si attua nella prosperità del corpo sociale, in cui tutti gl'interessi
particolari sono incorporati.
GIOVANNI GENTILE
[Politica sociale, 4 (1932): 533-538]
[*]
Roberto Pertici è attualmente ricercatore di storia contemporanea
presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dopo essere stato borsista
dellIstituto italiano per gli studi storici di Napoli, della Fondazione
Einaudi di Torino, e alunno della Scuola di storia moderna e contemporanea
presso lIstituto storico italiano per letà moderna e contemporanea.
E studioso della politica, della cultura e della storiografia italiana
dellOtto e del Novecento. Questo su Cantimori fa seguito ad altri suoi
profili di storici del nostro secolo (Giorgio Candeloro, Adolfo Omodeo,
Emanuele Artom, Piero Treves) pubblicati negli ultimi anni.
Il presente saggio è in corso di pubblicazione anche sulla rivista
Storia della Storiografia.
[1] - D. Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), a cura di L. Mangoni (Torino: Einaudi, 1991), introdotto dal saggio della Mangoni, «Europa sotterranea» (XIII-XLII): citeremo direttamente da questo volume indicato come PSC, seguito dal numero della pagina, gli scritti ivi contenuti; di quelli non raccolti sarà data per esteso lindicazione bibliografica; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a cura di A. Prosperi (ivi, 1992): l«Introduzione» del curatore è alle XI-LXII. In questo lavoro si prenderanno in esame, oltre i volumi appena citati, i seguenti contributi: C. Vivanti, «Politica e riflessione storiografica: Delio Cantimori», in Studi storici, 32 (1991): 777-797; B. Bongiovanni, «Cantimori, Schmitt e la rivoluzione conservatrice», in Ventesimo secolo, 2 (1992): 21-44; A. Prosperi, «Eretici da rileggere», in Studi storici, 34 (1993): 727-735; M. Firpo, «Per una discussione su Delio Cantimori e la nuova edizione degli Eretici italiani», ibid.: 737-756; G. Miccoli, «La ricerca storica come storia positiva», ibid.: 757-768; A. Rotondò, «Alcune considerazioni su Eretici italiani del Cinquecento», ibid.: 769-775; S. Seidel Menchi, «Ein neues Leben: contributo allo studio di Delio Cantimori», ibid.: 777-786; C. Vivanti, «Intorno a Umanesimo e Riforma», ibid: 787-798; B. Bongiovanni, «Rivoluzione e controrivoluzione conservatrice», ibid.: 799-810; E. Collotti, «Gli scritti di Cantimori sulla crisi tedesca», ibid.: 811-818; J. Petersen, «Cantimori e la Germania», ibid.: 819-825; C. Vivanti, «Le approssimazioni al marxismo di Delio Cantimori», in Critica storica, 27 (1991, ma ottobre 1993): 893-950; G. Belardelli, «Dal fascismo al comunismo. Gli scritti politici di Delio Cantimori», in Storia contemporanea, 24 (1993): 379-403; Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Profili e documenti (Milano:Angeli, 1994) ; Id., «Note cantimoriane», in Storia contemporanea, 26 (1995): 57-73. I saggi ora citati verranno indicati col nome dellautore e, se necessario, con la prima parola del titolo, seguiti dal numero della pagina. La «Bibliografia degli scritti di Delio Cantimori», a cura di L. Perini e J. A. Tedeschi, apparsa originariamente in Rivista storica italiana, 79 (1967): 1173-1208, venne ristampata con correzioni e aggiunte in G. Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica (Torino: Einaudi, 1970), 375-412. Le raccolte cantimoriane Studi di storia (Torino: Einaudi, 1959), Conversando di storia (Bari: Laterza, 1967); Storici e storia (Torino: Einaudi, 1971) vengono indicate rispettivamente come Studi, CS, Storici.
[2] - G. Salvemini, Mazzini (Firenze: La Voce, 1925), ora in Id.., Scritti sul Risorgimento, a cura di Pieri e C. Pischedda (Milano: Feltrinelli, 1961), 147. Sulla figura di Carlo Cantimori non si ricava molto da Zama, «Ricordo di Carlo Cantimori (21 ottobre 1878-22 agosto 1963)», in Studi romagnoli, 17 (1966): 109-122, se non la conferma di una contiguità ideologico-politica: si ricordi che lo Zama fu studioso di una certa fama, editore di carteggi di Oriani e autore di un volume di storia militare risorgimentale dal titolo emblematico: La Marcia su Roma del 1831. Il generale Sercognani (Milano: Moneta, 1931).
[3] - C. Cantimori, «Popolani e studenti in Parma fine Ottocento», in Aurea Parma, 43 (1959): 209-226. Le vicende degli anni parmensi sono al centro del romanzo autobiografico La strada mia corta (Milano:Alpes, 1929): nei personaggi Pietro Longa e Alceta si riconoscono facilmente Campolonghi e De Ambris. Ancora il 2 settembre 1950, scrivendo da Russi al compagno di fede mazziniana Alfredo Bottai (zio dell'ex ministro Giuseppe), rievocava gli «anni indimenticabili della mia giovinezza parmigiana, tra il 1896, l'anno dell'insurrezione dell'oltretorrente per la guerra d'Africa, e il sanguinoso maggio del 1898» (Domus Mazziniana di Pisa, Fondo Alfredo Bottai, G III m 46/24). Sulla figura di Alfredo Bottai, belle pagine sono in G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G. B. Guerri (Milano: Rizzoli, 1982), 41-45.
[4] - L. Gestri, Capitalismo e classe operaia in provincia di Massa-Carrara. Dall'Unità d'Italia all'età giolittiana (Firenze: Olschki, 1976), 184, ma v. anche 176-185.
[5] - D. Cantimori, «Prefazione all'edizione di Basilea. Redazione inedita» (Eretici, 11-14, 11).
[6] - Si veda, per esempio, C. Cantimori, «Piccolo Mondo moderno», in La Educazione politica, 3 (1901): 190-192, graffiante analisi ideologica del romanzo di Fogazzaro.
[7] - Id., La nostra idea. Le sue ragioni. Il suo valore (Milano, per cura del Comitato Centrale, 1901), 8, 15-17, 21, 27.
[8] - C. Cantimori ad A.Ghisleri, Russi 31 luglio 1901 (Domus Mazziniana di Pisa, Carte Ghisleri, A III B 3/1).
[9] - C. Cantimori, Saggio sull'idealismo di Giuseppe Mazzini (Faenza: Casa Tipogr. Ed. G. Montanari, 1904), 319-331. Analoghe posizioni in «Il pensiero etico mazziniano (Divagazioni storiche)», in XXI Giugno 1905. Genova a Giuseppe Mazzini nel centesimo anniversario della nascita (Roma-Napoli, a cura della Rivista Popolare, 1905), 41-42.
[10] - A. Galante Garrone, Salvemini e Mazzini (Messina-Firenze: D'Anna, 1981), 136-156. Riferimenti al sansimonismo sono in Cantimori, Saggio, 43-45, 152, 298-299. La prolusione salveminiana fu pubblicata in Annuario della R. Università di Messina, 1904-1905 (anno CCCLV) (Messina: D'Angelo, 1905), 15-138.
[11] - C. Cantimori, «Dopo il centenario», in Il Resto del Carlino, 4 settembre 1905. Per il dialogo epistolare di allora fra Cantimori e Salvemini, si vedano le lettere o cartoline postali di Cantimori a Salvemini del 7, 12, 14, 20 dicembre 1904 e del 3 gennaio e 4 settembre 1905 (Istituto storico per la Resistenza in Toscana, Firenze, Carte Salvemini, fasc. Carlo Cantimori).
[12] - Id., «Mazzini e la rinascenza religiosa del suo secolo», conferenza tenuta il 21 maggio 1905 nell'aula magna dell'Università di Genova, in Mazzini. Conferenze tenute a Genova (Maggio-Giugno 1905), (Genova: Libreria Federico Chiesa, 1906), 3-27. Nel testo si allude a W. James, Le varie forme della coscienza religiosa: studio sulla natura umana, trad. G. C. Ferrari e M. Calderoni, pref. di R. Ardigò (Torino: Bocca, 1904).
[13] - C. Cantimori, «Polemichetta mazziniana», in La Ragione (Roma), 17 luglio 1909, in risposta ad A. Carlini, «Ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero di G. Mazzini», ibid., 7 e 9 luglio 1909; Carlini avrebbe poi replicato in «Polemichetta mazziniana», ibid., 20 luglio 1909. Carlini aveva, a suo tempo, recensito il Saggio mazziniano di Cantimori in «La Romagna», 1904: 96. Ora si comprende meglio il riferimento di Delio Cantimori all'«amicizia personale» fra Carlini e suo padre contenuto nella lettera a Federico Gentile del 13 ottobre 1937 (Mangoni, XXVIII, nota 61).
[14] - B. Croce, «Documenti carducciani, I: Una dimenticata polemica tra il Carducci, F.Fiorentino e A.C. De Meis (1868)», in La Critica, 8 (1910): 401-421, 420-421 in particolare. La risposta di Gentile si arguisce da alcune affermazioni dello stesso Cantimori in una lettera ad Alfredo Bottai (Russi, 30 settembre 1946): «I malumori crociani verso il Mazzini sono di vecchia data [...] Ricordo che 35 anni fa, nel 911, scrissi al Gentile facendogli notare qualche errore in quei malumori, il Gentile mi rispose che non ne avrebbe parlato al Croce perché tanto questi sarebbe rimasto del suo parere. Tuttavia, qualche tardivo riconoscimento c'è stato verso il M. nel Croce (amplissimo fu invece il riconoscimento del Gentile dopo un aspro e anche meschino giudizio del 903» (Domus Mazziniana di Pisa, Fondo Alfredo Bottai, G III m 46/11): Cantimori qui si riferisce alla recensione gentiliana alla biografia di Bolton King, in La Critica, 1 (1903): 453-464, poi in G. Gentile, Albori della nuova Italia. Varietà e documenti, parte prima, 2° ediz. riveduta e accresciuta a cura di V.A. Bellezza (Firenze: Sansoni, 1969), 195-214. La «Relazione della Commissione giudicatrice del Concorso generale a cattedre di pedagogia e morale nelle scuole normali maschili governative», datata: Roma, 19 febbraio 1910, è nel Bollettino ufficiale del Ministero dell'Istruzione Pubblica, 1910, vol. II, 3371-3377. Carlo Cantimori risultò vincitore, secondo in graduatoria.
[15] - L. Lotti, I repubblicani in Romagna dal 1894 al 1915, pref. di G. Spadolini (Faenza: Lega, 1957), 230, 293. Interessanti riflessioni sull'ambiente politico romagnolo e sui contrasti fra socialisti e repubblicani sono in C. Cantimori, «Fra repubblicani e socialisti in Romagna», in Rivista popolare, 15 (1909): 64-66.
[16] - Id., «L'ombra di Mazzini di G. Barni, 'Avanti!' 5 luglio 1913», in L'Iniziativa (Roma), 12 luglio 1913; Id., «Ancora dell''ombra di Mazzini'», ibid., 2 agosto 1913.
[17] - M. Tesoro, I repubblicani nell'età giolittiana (Firenze: Le Monnier, 1978), passim.
[18] - E. Gentile, Le origini dell'ideologia fascista (Bari: Laterza, 1975), 343-369; G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia (Firenze: Giunti, 1995), 124, 233-234 e passim; G. Sabbatucci, «La grande guerra e i miti del Risorgimento», in Il Risorgimento, 47 (1995): 215-226, 221-223. Nel testo mi riferisco a G. Gentile, «Mazzini», in Politica, 1 (1919): 184-205; «Ciò che è vivo di Mazzini», ibid., 336-354, subito ristampati in volumetto col titolo Mazzini (Caserta: Marino, 1919), poi in I profeti del Risorgimento italiano (Firenze: Vallecchi, 1923).
[19] - C. Cantimori, Saggio sull'idealismo di Giuseppe Mazzini (Roma: Libreria politica moderna, 1922), 296-302. L'Avvertenza è datata: Ravenna, 25 febbraio 1922. Del testo di Cantimori sono ancora da segnalare almeno il persistente antigiolittismo (323-324), il rifiuto di «ogni forma [...] d'imperialismo» (326), la critica del «determinismo etnico e nazionalista» (332) e quindi un'idea di nazione in senso storico, l'interesse per la rivoluzione russa considerata come vittoria contro il determinismo, quindi in qualche modo mazziniana (337), il riconoscimento del valore della lotta del proletariato «per la conquista della propria umanità, negatagli dall'egoismo e dalla cecità dei dirigenti e dei governi di classe» (325).
[20] - D. Cantimori, «Il mio liceo a Ravenna (1919-1922)», in Ravenna. Una capitale. Storia, costumi, tradizioni (Bologna: Alfa, 1965), 249-253, 251.
[21] - C. Cantimori, «Il problema della scuola (Relazione del prof. Cantimori al Congresso repubblicano)», in L'Educazione Nazionale, 4 , 5-6 (maggio-giugno 1922) :13-17. Ma cfr. anche Id., «Il problema della scuola», in La Critica politica, 2 (1922): 206-212, dove si afferma che «l'accettare [...] la libertà d'insegnamento secondo lo spirito del progetto sull'esame di Stato presentato già dal Croce e oggi ripreso dall'Anile, non è certo per noi uno scostarci dalle nostre 'dottrine' o un contraddire ad esse» (212) e si indicano come idola da distruggere l'anticlericalismo e il vittimismo della scuola di Stato. Già nel 1914 Carlo Cantimori figurava fra i collaboratori della collana «Scienza e vita», diretta da Lombardo Radice per l'editore catanese Francesco Battiato: v. I. Picco, Militanti dell'ideale. Giuseppe Lombardo-Radice e Giuseppe Prezzolini. Lettere 1908-1938 (Locarno: Armando Dadò editore, 1991), 163.
[22] - S. Fedele, «Il Partito Repubblicano Italiano nel primo dopoguerra 1918-1922. Dal congresso di Ancona alla marcia su Roma», in Archivio Trimestrale, 6(1980) : 509-544, da cui si apprende che Cantimori era stato messo in minoranza al congresso regionale romagnolo-emiliano (23 ott. 1921) da Ubaldo Comandini per il suo filosocialismo e antifascismo (533). Per il suo atteggiamento al congresso di Trieste, ibid., 538.
[23] - Cfr. soprattutto «Più vero e maggiore», in L'Iniziativa, settimanale della Federazione Repubblicana Romagnola-Emiliana, I, 1 (3 marzo 1922), contro Giolitti; «Continuando», ibid., I, 15 (14 aprile 1922), su D'Annunzio; «Lo sciopero generale», ibid., I, 31 (5 agosto 1922), sullo 'sciopero legalitario' promosso dall'Alleanza del Lavoro, in cui viene ribadito l'appoggio agli scioperanti, il valore della lotta contro la violenza fascista, ma si critica anche l'impostazione dello sciopero, troppo limitato negli obiettivi, e si ribadisce l'importanza del mutamento istituzionale. Alcuni di questi articoli sono siglati con una X, ma sono di Cantimori (cfr. Zama, «Ricordo»).
[24] - D. Cantimori, «Prefazione» a R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920 (Torino: Einaudi, 1965), XIV-XV.
[25] - C. Cantimori, La strada mia corta, 304-305. Conviene riportare parte della breve recensione che ne apparve su Pattuglia, il settimanale fascista degli universitari cagliaritani a cui collaborò come vedremo più sotto lo stesso Delio, anche perché non è escluso che ne sia autore lui stesso (è firmata ciorì, cioè la lettera iniziale e le tre finali di Cantimori): «Questo libro che è stato intitolato romanzo e che se si volesse badare alle etichette, meglio si intitolerebbe racconto ci trasporta nel cuore romantico e generoso di quella Romagna che amiamo attraverso Panzini, Beltramelli e Pascoli. La trama di questo racconto è, nel suo nocciolo, palesemente autobiografica; è la tragedia di un romagnolo che studente a Parma in mezzo a inquietudini ed incertezze spirituali non rinnegando la lotta, ma cercando di superare quel rancore di contese faziose, per il quale era stato ucciso suo padre repubblicano giunge lentamente alla comprensione del valore severo della storia più bella dell'utopia. La vita del bambino spaurito fra le contese fratricide e dell'adolescente ansioso dell'ideale e insoddisfatto della piccola passioncella e della piccola bega dei procaccianti, è, in questo libro, rivissuta attraverso un velo discreto di nostalgia, come un paesaggio lontano impigliato nella rete malinconica di una pioggia autunnale.[...] Per noi fascisti il racconto di Carlo Cantimori è anche un interessante documento di quella gretta lotta politica che immiseriva un popolo di così sincera e fiera tempra: a Parma le barricate socialiste, in Romagna il culto commosso delle idealità repubblicane, del risorgimento ci ricordano un tempo appassionato ma rissoso, che ora si è maturato in una nuova passione ma in una serena passione italiana. Questo racconto in cui sono tante pagine delicate con toni ingenuamente ma non grossolanamente romantici, potrebbe chiamarsi il diario spirituale di un italiano, di quell'italiano idealista, ardente, che ama anche al di là dell'amore la donna con tenerezza accorata e che gusta l'arte e si entusiasma per un nobile sogno, italiano che non è stato e non è soltanto un 'cliché' sbiadito di una rettorica morta» (Pattuglia, I, 24 [19 ottobre 1929]: 3). Il secondo romanzo, Pènsaci (Torino: Sei, 1932) è la storia di un giovane di umile condizione sullo sfondo della Romagna del primo quarto di questo secolo, con le sue lotte politiche e sociali. Qui la conclusione è ancora più esplicita: narrando dei primi anni Venti, Carlo Cantimori scrive: «Già stava passando il tristo baccanale della speculazione sui morti, sui lutti, sulle lacrime; già la nazione seguiva Chi l'aveva scortata dal baratro e le mostrava il cammino. Riprenderla, l'esistenza: oh! con qual nuovo coraggio! Con qual fede! Tutti al loro posto, come allora lassù, come nei reggimenti che avevano marciato ognuno con il proprio compito e per la propria via, magari l'uno senza sapere dell'altro, ma vòlti tutti alla stessa meta, verso la riscossa, verso la vittoria. I lavoratori, gli industriali, le classi, le attività, le intelligenze e le braccia, ognuno al proprio posto e la Nazione sopra tutti, perché entro il miglior cuore di tutti» (214-215).
[26] - C. Cantimori ad A. Bottai, Parma 31 maggio 1945 (Domus Mazziniana di Pisa, Fondo Alfredo Bottai, G III m 46/1).
[27] - C. Cantimori, «9 febbraio 1849. La Repubblica Romana», in La Gazzetta di Parma, 8 febbraio 1944. Cantimori faceva riferimento al discorso pronunciato da Mussolini a Roma, sul Gianicolo, la mattina del 3 novembre 1941 alla cerimonia per l'inaugurazione del monumento ossario ai caduti garibaldini nella difesa di Roma del 1849, in cui dopo aver ricordato che francesi erano stati i fucili che avevano soffocato la Repubblica mazziniana e che avevano fatto miracoli a Mentana nel 1867 concludeva: «Dai nostri spesso lunghi e qualche volta necessarî silenzi nessuno sia indotto a trarre conclusioni arbitrarie. Noi non dimentichiamo» (B. Mussolini, Opera omnia, XXX, 132). Per l'interesse che la stampa di Salò ebbe per Mazzini e per il Risorgimento sconfitto (da qui i continui richiami alla Repubblica romana e ai martiri mazziniani) v. G. Parlato, «Il mito del Risorgimento e la sinistra fascista», in Il Risorgimento, 47 (1995): 244-283, 271-276.
[28] - G. Belardelli, «Il fantasma di Rousseau: fascismo, nazionalsocialismo e la 'vera democrazia'», in Storia contemporanea, 25 (1994): 361-389, in particolare 375-380. I caratteri illiberali di certa tradizione mazziniana e dei suoi esiti sono stati chiaramente posti in luce da Roberto Vivarelli, in rapporto sia alla mentalità massimalistica che caratterizzò la più parte del socialismo italiano (R. Vivarelli, «Rivoluzione e reazione in Italia negli anni 1918-1922», in Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo [Bologna: Il Mulino, 1981], 137-138; Id., Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, II, ivi, 1991, 396-398) sia a temi poi confluiti nel nazionalismo e nel fascismo (Id., «Salvemini e Mazzini», in Rivista storica italiana, 97 [1985]: 42-68, 50-58). Rinvio anche a R. Pertici, «Per la storia del 'vario nazionalismo italiano': l'itinerario politico di un poeta repubblicano, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi», in Rivista storica italiana, 97 (1985): 810-871, dove, partendo dall'esame di certi ambienti di repubblicanesimo sovversivo, si cercava di avanzare anche ipotesi più generali. Sulla predilezione di Carlo Cantimori per l'opera letteraria di Ceccardo, cfr. C. Cordié, «L'alunno perfezionando Delio Cantimori (Scuola Normale Superiore di Pisa, 1928-'29), III Appunti e ricordi», in Rivista di studi crociani, 13 (1976): 53-71, 60.
[29] - D. Cantimori, Utopisti e riformatori italiani 1794-1847. Ricerche storiche (Firenze: Sansoni, 1943), 11-12, 127, 144-147, 175-176.
[30] - M. Berengo, «La ricerca storica di Delio Cantimori», in Rivista storica italiana, 79 (1967): 902-943, 903. Berengo ricorda, tuttavia, il corso fiorentino del 1955-56 dedicato a Giuseppe Mazzini e il mazzinianesimo, la cui traccia può leggersi in G. Miccoli e L. Perini, «Corsi e seminari di Delio Cantimori (1935-1966)», in Miccoli, Delio Cantimori, 357-358.
[31] - D. Caccamo, «Il problema degli 'eretici' del Cinquecento nella storiografia italiana», in Cultura e scuola, 10, n. 38 (aprile-giugno 1971): 113-129, 115-117. Ci limitiamo a fare solo pochi esempi: nel saggio del 1928 «Osservazioni sui concetti di cultura e storia della cultura», Cantimori avverte che «Mazzini è uno dei più caratteristici rappresentanti di queste personalità che trovan la loro valutazione adeguata nella storia della cultura», nella storia cioè di quella produzione intellettuale non 'scientifica' né originale, ma pur capace di diffusione, di proselitismo, di farsi insomma forza storica: «È notevole aggiunge che Mazzini, la cui importanza nella storia della cultura italiana dell'ultimo tempo abbiamo già segnalata, abbia avuto gran diffusione fra gli studenti ed il popolo, cioè fra le persone che si formano come possono una cultura non accettata, ma viva» (PSC, 5 e 12n). Altrove ricorda le «argomentazioni di Mazzini contro gli 'adoratori del fatto'» (D. Cantimori, Ulrico von Hutten e i rapporti tra Rinascimento e Riform, [Pisa: Mariotti, 1930], 52). Importanti (e trascurate dalla storiografia mazziniana) sono le pagine dedicate a Mazzini in «Sulla storia del concetto di Rinascimento» del 1932 (Storici, 413-462, 438-440). Ma si veda PSC, ad nomen, e inoltre 255n, 285, 451, 500, 594. Interessante è una delle note a margine, di data non precisata, al volume Incontri di Bottai (1930), a proposito del saggio bottaiano «Il pensiero e l'azione di Giuseppe Mazzini», pubblicata in S. Barbera e G. Campioni, «Dalla filosofia alla storiografia: gli inizi di Delio Cantimori (1922-1937)», in G. Campioni, F. Lo Moro, S. Barbera, Sulla crisi dell'attualismo: Della Volpe, Cantimori, De Ruggiero, Lombardo-Radice (Milano: Angeli, 1981), 37-106, 103 nota 166, in cui Cantimori critica l'operazione politico-propagandistica intorno al pensiero mazziniano operata da Bottai. L'avviamento a una nuova riflessione su Mazzini nel dopoguerra può individuarsi nelle pagine a lui dedicate in «Idee di riforma sociale in Italia» del 1948 (Studi, 571-605, 596-600).
[32] - L'opuscolo di Sbarbaro, Da Socino a Mazzini (Roma: Perino, 1886) è ricordato in D. Cantimori, «Riformatori italiani», in Il Nuovo corriere (Firenze), 30 ottobre 1955, rec. a F. Ruffini, Studi sui riformatori italiani, a cura di A. Bertola, L. Firpo, E. Ruffini (Torino: Ramella, 1955). Sul Levi, cfr. D. Cantimori, «Note su utopisti e riformatori italiani, VI: Un sansimoniano italiano: David Levi, dal socialismo al liberalismo massonico», in Socialismo, 3 (1947): 38-41, poi rifuso in «Idee di riforma sociale in Italia», 590-594.
[33] Cantimori,«Il mio liceo a Ravenna», cit. sopra alla nota 20.
[34] Barbera e Campioni, «Dalla filosofia alla storiografia», 38. Alle 107-121 sono riportate le glosse di cui il saggio discute.
[35] Ibid., 117.
[36] E. Garin, «Delio Cantimori» (1967), in Intellettuali italiani del XX secolo (Roma: Editori Riuniti, 1974), 171-213, 176 nota 6, dove si afferma che «il suo esemplare [...] è fittamente postillato, pieno di consensi, ma anche di dissensi e di dubbi». A 204, sempre in riferimento alla Teoria generale, si parla di «primitiva adesione entusiastica». In E. Garin, «Delio Cantimori e gli studi sull'età del Rinascimento», in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere, storia e filosofia, s. II, vol. XXXVII (1968), 221-232, si ricorda che Cantimori «sul cadere del '24 fittamente postillava, e con profondo consenso, l'Atto puro di Giovanni Gentile» (221), ma poi si ribadisce che l'esemplare di Cantimori «è pieno di consensi, ma anche di dubbi e di dissensi» (226). Nell'Introduzione a Campioni, Lo Moro, Barbera, Sulla crisi dell'attualismo, 9-16, si afferma che quelle postille erano «a volte di netto e duro rifiuto» (15). Cantimori informa delle sue letture dei Discorsi di religione e del Giordano Bruno, in Eretici, 11; dei Profeti del Risorgimento italiano, in Storici, 285; dell'acquisto dell'edizione Spoerri della Teoria generale dello spirito come atto puro nel «negozietto ombroso e pulitissimo del Salvestrini davanti alla Sapienza», in Studi, 427. Si aggiunga, a titolo puramente informativo, che la sua copia del gentiliano Sistema di logica, presente nella biblioteca della Scuola Normale, porta il 1925 come data d'acquisto.
[37] G. Pedullà, Il mercato delle idee. Giovanni Gentile e la Casa editrice Sansoni (Bologna: Il Mulino, 1986), 339 nota 113; Belardelli, 393-394.
[38] Garin, «Delio Cantimori e gli studi sull'età del Rinascimento», 227. Anche per Kaegi, Gentile «con il suo libro su Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento ha fornito in qualche modo a Cantimori il tema dell'opera della sua vita» (W. Kaegi, «Ricordo di Delio Cantimori», in Rivista storica italiana, 79 [1967], 883-901, 886).
[39] G. Miccoli, Delio Cantimori, 63-69. L'interesse dello stesso Gentile per questi problemi può esser confermato dalla pubblicazione sul Giornale critico della filosofia italiana, 16 (1935): 10-37, del saggio di A. Momigliano, «Genesi storica e funzione attuale del concetto di ellenismo», non lontano, negli intendimenti, da quello di Cantimori sul concetto di Rinascimento (ora si può leggere in A. Momigliano, Sui fondamenti della storia antica [Torino: Einaudi, 1984], 153-184). Sulla presenza di Gentile nel giovane Momigliano ha insistito G. Sasso, «Il 'contributo' di Arnaldo Momigliano», in Il guardiano della storiografia. Profilo di Federico Chabod e altri saggi (Napoli: Guida, 1985), 189-256. È notevole (e non notissima) una testimonianza di Cantimori sul Momigliano di quegli anni: «Ricordo la recensione di un giovane, già allora insigne fra i giovani storici, a un libro del Roth; vi si parlava degli ebrei italiani come di un'altra entità regionale italiana. Più tardi quello studioso mi dichiarò insostenibile e antiquata quella teoria. Nell'emigrazione forzata, non aveva voluto far niente contro il suo paese di nascita, e ne aveva avuto durezze immediate, ma poi grande e meritato rispetto» (D. Cantimori, Prefazione a R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo [Torino: Einaudi, 1961], XXX ).
[40] La datazione al 1923 è resa possibile dalla lettera di Cantimori a Croce (Pisa, 21 marzo 1926) in cui si fa risalire a tre anni addietro l'accendersi del suo interesse per il caso del Boscoli (Prosperi, Introduzione, LIV e nota 98). Lo stesso Prosperi (ibid., XVII, nota 10) riferisce che Cantimori aveva riassunto in tre quaderni, per 165 pagine complessive, la Istoria del concilio tridentino di Paolo Sarpi e che sulla copertina del primo, nel 1957, aveva così annotato : «Questi sono i miei primi tentativi, e risalgono alla seconda classe del liceo, a Forlì, anno scolastico 1920-21 [...] Chissà perché l'ho sempre conservato». Affermazione, questa, evidentemente contraddittoria, perché nel 1920-21, Cantimori frequentava la quinta ginnasiale a Ravenna: per un lapsus memoriae, egli cade in errore o nell'indicazione della classe o nell'indicazione dell'anno scolastico. Anche stando alla succitata lettera a Croce, è molto più probabile questa seconda ipotesi e quindi i suoi «primi tentativi» risalgono alla seconda liceale, a Forlì, nel 1922-23. Non sono infrequenti, nel Cantimori autobiografico, questi lapsus cronologici: si pensi al celebre e citatissimo «Nell'anno che Chabod aiutava Salvemini a passare clandestinamente il confine, io mi iscrivevo al partito fascista [...]» (Storici, 285), che daterebbe quindi al 1925 tale iscrizione (Salvemini espatriò nell'agosto del 1925), mentre, secondo l'importante frammento autobiografico del 30 agosto 1934 (Prosperi, Introduzione, XXI-XXIII) e certe affermazioni del 1962 (CS, 138) essa risale all'anno successivo, 1926. È quindi necessaria, almeno ove possibile, una verifica.
[41] J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. D. Valbusa rivista da G. Zippel (Firenze: Sansoni, 1968), 59, 504-506. Sul nesso fra la lettura del Burckhardt e l'interessamento per il caso del Boscoli, cfr. Cantimori, Eretici, 11. Lo stesso episodio trovava discusso nel saggio di Gentile Il carattere dell'Umanesimo e del Rinascimento, in G. Gentile, Giordano Bruno, 241-267, altra lettura decisiva del giovane Cantimori.
[42] D. Cantimori, «Il caso del Boscoli e la vita del Rinascimento», in Giornale critico della filosofia italiana, 8 (1927): 241-255, 247.
[43] Anni dopo, nel 1935, ricorderà ancora «certe orazioni e discorsi che si tenevano anche da noi, quando i tempi erano calmi, nelle adunanze minori di certi partiti politici dove l'elemento 'ideale' era o voleva essere più forte. Non importa, in questo tipo di discorsi - o di scritti -, il valore assoluto di quel che si dice, il contributo critico e scientifico alla risoluzione dei problemi, ma piuttosto la manifestazione ideale [...] la presa di posizione, la riaffermazione d'un'idea» (PSC, 285).
[44] Prosperi avverte che «mediatore del rapporto tra Cantimori e Croce fu Vittorio Enzo Alfieri», suo condiscepolo in Normale (Introduzione, LIV, nota 98); è strano perciò che né lui né altri fra gli autori dei saggi che qui discutiamo si siano rifatti alle lettere di Croce ad Alfieri, da questi pubblicate nel 1976 e fuggevolmente utilizzate in una nota da M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio Cantimori (Bari: De Donato, 1977), 135-136 nota 9. Queste lettere danno invece notizie interessanti sulle attività del giovane Cantimori, sui suoi rapporti col filosofo e con lo stesso Alfieri. Ne risulta che intenzione di Cantimori, ai primi del 1926, era di ripubblicare il testo di Della Robbia, preceduto da una sua introduzione; per questo aveva inviato, nella prima metà di marzo, il saggio introduttivo a Croce, attraverso Alfieri. Il filosofo rispondeva, intorno alla metà del mese: «Ho letto assai volentieri il lavoro del suo amico. Io ho sempre pensato che convenisse ristampare e far meglio conoscere quella relazione di Luca della Robbia, e il saggio del Cantimori potrebbe servire di opportuna introduzione. I concetti che vi sono espressi a me paiono giusti e persuasivi, senonché la forma è troppo lunga e troppo piena di ripetizioni. Se gli stessi concetti si stringessero in quindici pagine, farebbero miglior figura. Forse la ristampa si potrebbe offrire al Balsamo-Crivelli, per la collezioncina dell'Unione tipogr. editrice. Ma di ciò è probabile che parleremo a voce» (B. Croce, Lettere a Vittorio Enzo Alfieri 1925-1952 [Milazzo: Sicilia Nuova ed., 1976], 7-8). Fu dopo questa lettera che Cantimori scrisse al filosofo la sua prima del 21 marzo e poi ancora quella del 1° aprile 1926, che Prosperi cita (Introduzione, LIV): la collezioncina diretta per la Utet da Gustavo Balsamo Crivelli era quella dei Classici italiani, nella quale - per intenderci - due anni prima Chabod aveva pubblicato Il Principe di Machiavelli. Il 24 aprile Croce tornava a scrivere all'Alfieri: «Vedo che il mio tentativo presso il B.C. è fallito. Non mi pare cattivo consiglio quello di pubblicare lo studio - il solo studio - nella N. R. Stor. In seguito si potrà pensare a una ristampa del testo preceduta da quello studio» (ibid., 9). Il consiglio di pubblicare il saggio sulla Nuova rivista storica non fu accolto da Cantimori, - come vedremo - per la distanza che, fascista convinto, sentiva dall'ambiente di Barbagallo e degli altri collaboratori della rivista: v. infra l'importante lettera di Cantimori a Croce del 19 luglio 1926. Ma le speranze di Cantimori di pubblicare il suo saggio e il testo di Della Robbia non erano del tutto tramontate: il 14 novembre 1926, Cantimori ne aveva scritto a Ernesto Codignola, direttore delle collezioni della casa Vallecchi, preceduto da una lettera di presentazione di suo padre: «Il lavoro è stato letto anno scorso, in una prima redazione, dal Croce, dal Carlini, dal Valgimigli e dal prof. Francesco Arnaldi, vice-direttore e professore interno della Scuola Normale Superiore alla quale appartengo [...] Il Carlini e il Valgimigli m'han consigliato di rivolgermi a Papini per Carabba: ma non ho avuto nemmeno risposta». Dopo aver proposto la pubblicazione alla Vallecchi, Cantimori soggiungeva: «Se non si potesse pubblicare tutto, pubblicherei, con qualche altra modificazione, il lavoro mio in una rivista che Le piacesse consigliarmi» (Archivio Codignola presso il Centro di documentazione pedagogica di Scandicci-Firenze, fasc. Cantimori Delio). Il saggio, poi, com'è ben noto, fu pubblicato sul Giornale critico della filosofia italiana, 8 (1927): 241-255, e vi pervenne - ora lo sappiamo - attraverso la mediazione di Giovanni Gentile jr., il grande amico degli anni normalistici di Cantimori, che lo inviò a Ugo Spirito, redattore-capo della rivista (Simoncelli, Cantimori, 23, lettera di Cantimori a G. Gentile jr., Cagliari 18 maggio 1930). Si spiega, così, perché questa restasse - fino al 1934 - una collaborazione isolata alla rivista di Gentile.
[45] «Mi pare che in questo pensatore [Platone], in maggior quantità che in altri, si possan trovare molti spunti importanti nella parte che si chiama non sistematica nel senso stretto: nei punti poetici o eloquenti mi par che ci sia molto da mostrare che non ho trovato mostrato dagli storici e dai trattatisti». Così Cantimori scriveva a Croce, da Forlì, il 19 luglio 1926 (Archivio della Fondazione «Biblioteca Benedetto Croce», Napoli, Carteggio di B.Croce). È questo il nesso fra le riflessioni sulla Rettorica e il coevo lavoro su Platone, che Cantimori iniziò a Pisa sotto la guida di Valgimigli, di cui ancora scrive a Croce in questa lettera (cit. parzialmente anche in Prosperi, Introduzione, LIV nota 99) e che poi abbandonò quando Valgimigli lasciò Pisa per Padova (fine '26): cfr. Studi, 428 e infra, nota 64.
[46] A giudizio di Cantimori, solo un'indagine «culturale» (nel senso ora chiarito) poteva valutare adeguatamente una figura come quella di Hutten: «[...] non si è visto nella sua opera che la pubblicistica, cioè l'oratoria, mentre non tutto è soltanto volto a persuadere od entusiasmare, negli scritti dello Hutten. Tale pubblicistica così superbamente conscia di sé pare non possa ridursi a opera contingente di agitatore; l'idea affermata in essa e in essa vibrante non poteva altrimenti esprimersi, e la forma trae in inganno, tanto più che la pubblicistica vera e propria non manca, e facilita così la confusione, nell'opera dello Hutten. La mancanza di autocritica, l'entusiasmo continuo, lo streben stesso verso il nuovo mondo, la continua fiducia - ingenua, barbara, giovanile fiducia - nel mondo nascente e intraveduto han fatto sì che lo Hutten esprimesse in forma esortatoria la sua nuova intuizione, che sopra la cavalleria, i principi, e anche contro l'impero e il papato estranei ed opprimenti, c'è la nazione, universale-particolare, liberatrice. Soprattutto liberatrice. Quei suoi caratteri l'hanno però anche indotto a cercare d'attuare quell'ideale, cosicché non è rimasto un pubblicista isolato, ma s'è a forza inserito nello svolgimento della storia, e il suo nome rimane in essa. Solo quella barbarie, quella giovanilità astratta, quella semplice fiducia non possono a lungo durare, devono essere superate dalla calma critica; e questa è l''inferiorità' dello Hutten di fronte ad Erasmo. Non si può quindi accettare la definizione di ideologia, per quella nazione che risuona sempre nei suoi scritti: le ideologie sono solo mascherature ideali di concreti interessi: onde la pubblicistica. La stessa solitudine dello Hutten [...] prova l'idealità della sua azione, oltre che dei suoi pensieri. L'ideale Hutteniano, la sua nuova intuizione, era la nazione come libertà. Speculativamente povera, torbida e commista di sentimento, di avanzi di ideologie di classe, ma piena di germi vitali. E di carattere essenzialmente politico, indipendente da motivi religiosi..» (Cantimori, Ulrico von Hutten, 53-54), dove sono evidenti le corrispondenze, anche sul piano lessicale, con le Osservazioni del 1928. Queste furono redatte dal 1 al 10 marzo 1928 (Mangoni, XVII nota 11), nelle settimane, cioè, in cui Cantimori stava ultimando la tesi di laurea su Hutten, discussa poi il 21 giugno di quell'anno.
[47] «Chiamiamo culturali queste indagini perché volte a riscontrare, attraverso la molteplicità della loro concreta attuazione, e le distinzioni che ne conseguono, l'unità fondamentale della vita dello spirito. Unità che non deve rimanere un puro postulato, od una semplice affermazione preliminare alle varie ricerche, ma deve esserne sempre alla base, non come dogma, ma come metodo e criterio di esame. Ora, questa unità si riscontra concretamente nel momento della cultura, dove si manifesta generalmente, germinalmente, cioè nella vera sua idealità, nel suo divenire. La considerazione estetica dell'opera d'arte rifiuta ogni presupposto, ogni storia; così la considerazione di una concezione filosofica rifiuta ogni estensione a manifestazioni artistiche che pure ad essa si ricolleghino. Ed è facile mantenere tali distinzioni e separazioni, con l'uso di qualche comune scaltrimento dialettico. Ma tale rapporto rimane, in realtà: nelle opere poetiche e nelle opere filosofiche c'è filosofia e c'è poesia, c'è umanità variamente viva ed atteggiantesi. Cogliere il divenire e la vita di tale unità in quanto tale è ufficio della storia della cultura. Riguardo all'opera hebbeliana ch'è l'argomento di questo lavoro l'indagine culturale ha modo di mostrare nettamente e specificatamente le sue caratteristiche. Ci troviamo di fronte ad un'opera d'arte, al nascere della quale hanno contribuito elementi lontanissimi e diversi totalmente fra loro, dalla preoccupazione teatrale del poeta ai suoi studii filosofici, alle idee politiche dell'anno 1848, alle suggestioni della bellezza, alle critiche letterarie del tempo. Il carattere generale dello Hebbel, poeta, come abbiamo detto di motivi e di pensiero, la cui 'Weltanschauung' è radicata nel mondo filosofico del romanticismo tedesco, critico e trattatista d'estetica, preoccupato sempre di tutti i problemi della vita, dai più meschini ai più tragici, persuaso della missione storica e morale del drammaturgo, esige per se stesso un'indagine sul tipo da noi accennato. Ogni indagine particolarmente estetica, filosofica, letteraria o di storia delle dottrine 'farebbe torto' ad Hebbel, e non ci permetterebbe di cogliere il suo sentimento fondamentale della vita. Per Hebbel, più che per ogni altro poeta, l'indagine storico-culturale è necessaria ad una vera comprensione»: così scriveva in L'«Agnes Bernauer» di Friedrich Hebbel, tesi di laurea in letteratura tedesca presso la R. Università di Pisa, presentata da Delio Cantimori, Pisa, 1931/IX, 26-28 (Biblioteca universitaria di Pisa, Tesi, 6060). Non occorre insistere sullo sfondo gentiliano di queste posizioni, che potrebbero essere utilmente confrontate con altre di analoga derivazione: dell'Omodeo recensore dell'Orazio lirico di Pasquali, di Luigi Russo, di Walter Binni, fino al Luporini 'leopardiano'. La tesi di laurea fu quasi integralmente pubblicata (ma le singole parti subirono un rimescolamento) in D. Cantimori, «L'Agnes Bernauer di Friedrich Hebbel e la rappresentazione romantica dello Stato (Saggio di storia della cultura)», in Civiltà moderna, 5 (1933): 428-437; 6 (1934): 51-59, 311-324.
[48] Storici, 30-31, nella Commemorazione normalistica del 28 aprile 1947. Nel testo si allude alla prolusione pubblicata col titolo «Il valore umano della storia cristiana», in Giornale critico della filosofia italiana, 4 (1923):332-352, poi in A. Omodeo, Tradizioni morali e disciplina storica (Bari: Laterza, 1929), 9-41.
[49] Garin, «Delio Cantimori e gli studi sull'età del Rinascimento», 228-229.
[50] La Critica, 26 (1928): 454-456, poi in Conversazioni critiche. Serie quarta (Bari: Laterza, 1932), 140-145. Che il concetto di cultura scaturisca in Cantimori dall'esigenza gentiliana di preservare l'unità dello spirito in polemica con la concezione crociana delle storie particolari è ribadito da Caccamo, «Il problema degli 'eretici' del Cinquecento nella storiografia italiana», 114-115.
[51] Cfr. M. Mustè, Adolfo Omodeo. Storiografia e pensiero politico (Bologna: Il Mulino, 1990), 171-178, 270-276 e passim; per le origini di tale problematica v. R. Pertici, «Preistoria di Adolfo Omodeo», in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di lettere e filosofia, s. III, XII.2 (1992): 513-615, 566-572. È significativo che nel 1948 Cantimori riconoscesse proprio nelle «sue riflessioni e considerazioni sul pensiero 'mitico' e sui problemi da esso provocati (per esempio rapporti fra risultati dell'avanzamento del pensiero come si presentano alle menti più lucide e penetranti, e preparazione e maturità delle masse da organizzare secondo quei principî) [...] il contributo specifico e originale dell'Omodeo» alla metodologia della «scuola crociana» (Storici, 45, ma anche 30, 35).
[52] Cantimori, Utopisti e riformatori italiani, 9-11, su cui v. Miccoli, Delio Cantimori, 184-188, che fa opportunamente un parallelo fra il Pisacane di Cantimori e quello di Giaime Pintor (ma si dovrebbe aggiungere anche quello di Nello Rosselli). Molte notizie sull'interesse per la sinistra risorgimentale, specie per Pisacane, presente in ambienti di fascismo sindacale e 'antiborghese' fino agli anni della seconda guerra mondiale, sono in Parlato, «Il mito del Risorgimento e la sinistra fascista», 258-271; il mito di Pisacane, ispiratore di un socialismo 'nazionale', era già presente - intorno al 1910 - in frange di sindacalismo rivoluzionario e di revisionismo socialista poi, in maggioranza, confluite nel fascismo: alcuni esempi in Pertici, «L'itinerario politico di un poeta repubblicano, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi», 853-861.
[53] Sarebbe interessante seguire, nei vari scritti di Cantimori, le tracce di questo suo interesse per Hölderlin: si vedano solo i cenni alle letture di Walter F. Otto e di Martin Heidegger dell'elegia Brot und Wein (PSC, 349-350) o quel passo delle pagine conclusive dell'Iperione, a cui spesso ricorreva (per es. Studi, 195) per descrivere l'alienazione nella società capitalistica: «Tu vedi operai, ma non uomini; vedi pensatori, ma non uomini; sacerdoti, ma non uomini; padroni e schiavi, giovani e gente posata, ma non uomini [...]». Fonte ne era, oltre che la lettura diretta del testo, la lettera di Ruge a Marx del marzo 1843 citata proprio nella prima pagina della Geschichte des Bolschewismus di Arthur Rosenberg. A proposito della conferenza di M. Heidegger su «Hölderlin e l'essenza della poesia», tenuta a Roma, all'Istituto di studi germanici il 2 aprile 1936, poi pubblicata in Studi germanici, 2 (1937): 5-20, cui accenna anche in PSC, 350 nota 1, Cantimori ricorderà come «M. Heidegger stesso in una sua visita a Roma s'intendesse certo meglio con l'Antoni che con qualche altro [lo stesso Cantimori], ben più appassionato di Hölderlin e più interessato dell'Antoni a quel che Heidegger disse del poeta amico di Hegel» (D. Cantimori, «Carlo Antoni», in Nuova rivista storica, 44 [1960]: 174-178, 177).
[54] Già nelle Osservazioni del 1928 si rileva che le posizioni del Novalis della Christenheit oder Europa «sono per lo più puramente fantastiche» (PSC, 10 nota 8). Lo Schmitt di Politische Romantik è già espressamente richiamato nel saggio del 1932 Sulla storia del concetto di Rinascimento (Storici, 439 nota 1) ed utilizzato nel saggio hebbeliano del 1933-34 (Civiltà moderna, 6 [1934]: 54).
[55] H. Rauschning, Die konservative Revolution. Versuch und Bruch mit Hitler (New York: Freedom Publ. Co., 1941); A. Mohler, Die konservative Revolution in Deutschland 1918-1932. Ein Handbuch (Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 19903). Della seconda edizione di quest'opera, del 1972 (la prima era stata del 1950) è stata curata un'edizione italiana La rivoluzione conservatrice in Germania 1918-1932. Una guida (Napoli-Firenze: Akropolis-La roccia di Erec, 1990): per una storia del termine konservative Revolution, cfr. ibid., 16-18. Non si ignorano i complessi problemi che l'uso di questo termine pone: ma noi qui ricorriamo ad esso con uno scopo meramente indicativo.
[56] Carlini «forniva un addottrinamento più vario e scaltrito, una conoscenza scolasticamente più esperta di sistemi e di concetti più rigorosi, pretendeva maggior disciplina di lavoro, ma appariva freddo e accademico, lontano dalle esigenze di quei giovani, e la disciplina di lavoro della scuola appariva mero tecnicismo; mentre il contenuto personale del suo insegnamento portava con sé un sopore di stanchezza decadente, e poi motivi di religiosità vaga e di richiami metafisici che lasciavano perplessi anche i più riguardosi. Così si sviluppò quella tendenza a preferire la scuola di storia della filosofia [del Saitta] dove la preparazione di tipo scolastico e le esigenze tecniche erano minori, ma dove si sentiva un calore ideale, una passione filosofica, un fervore per la verità, e una forza di convinzione spesso dura, e più che dura, ma più vicina a quei sentimenti e a quelle esigenze giovanili, una decisione innovatrice suggestiva e che sembrava offrire un orientamento non meramente accademico per la soluzione di quei problemi» (PSC, 131). Cfr. Garin, «Delio Cantimori», 176 nota 6, 181-183.
[57] A. Carlini, Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini (Roma: Istituto nazionale di cultura fascista, 1934), già apparso in saggio sulla Nuova Antologia: vi si attribuiva a Mussolini un pensiero molto simile al proprio, per lo meno negli obiettivi polemici e nello spirito cattolicheggiante. La crisi fra Carlini e Gentile sopravvenne per l'art. che il primo scrisse nella rubrica Orientamenti che teneva su Critica fascista (15 febbraio 1937), a cui Gentile rispose duramente con «Orientarsi sempre per non orientarsi mai», in Giornale critico della filosofia italiana, 17 (1936, ma uscito nella primavera del '37): 379-380. Alla rec. di Cantimori, Carlini rispose con «Critica e fede», in Critica fascista, 16 (1937-38): 47-48, poi ristampato in Saggio sul pensiero filosofico e religioso del fascismo (Roma: Biblioteca dell'Istituto nazionale di cultura fascista, 1942), 66-69, col titolo «Difesa del mio scritto sul Duce».
[58] Barbera e Campioni, «Dalla filosofia alla storiografia», 49 nota 38. I due autori cercano, giustamente, di correggere l'immagine un po' stereotipata d'un'avversione a principio di Cantimori verso Carlini e insistono sulla complessità del loro rapporto. In modo meno convincente ridimensionano l'importanza dell'insegnamento di Saitta (ibid., 60 nota 67).
[59] Turi, Giovanni Gentile, 368-369 con la bibliografia ivi citata.
[60] Si tratta d'un appunto autobiografico scritto a margine del vol. di A. Grilli, Serra tra Pascoli e Panzini (Firenze, 1956), riportato in Campioni e Barbera, «Dalla filosofia alla storiografia», 49 nota 38. Cantimori aggiungeva: «Carlini che si prende deliberatamente le botte fasciste private destinate a Valgimigli, a Pisa (1925? 1926?) - me lo disse il Capitini..». Quest'ultimo riferimento è chiarito da un ricordo di Mario Untersteiner: «I fascisti avevano deciso di bastonarlo [Valgimigli], in occasione di una passeggiata che egli stava facendo in compagnia di un collega, notoriamente favorevole al regime [Carlini]. Per uno scambio di persona, dovuto forse ad analoga foggia nel vestire, bastonato fu l'altro» (M. Untersteiner, Incontri [Milano: Guerini e Associati, 1990], 76).
[61] V.E. Alfieri, «L'attualismo e la religione. I-Premessa polemica», in Ricerche religiose, 2 (1926): 440-443. L'Alfieri prendeva spunto da G. Gentile, «Avvertimenti attualisti», in Giornale critico della filosofia, 7 (1926): 3-23. La lettera di Croce ad Alfieri (Torino, 10 ott. 1925) è ora in Croce, Lettere a Vittorio Enzo Alfieri, 4-6, ma è stata più volte pubblicata nel dopoguerra: «Il mio liberalismo - vi si leggeva - è cosa che porto nel sangue, come figlio morale degli uomini che fecero il Risorgimento italiano, figlio di Francesco De Sanctis, e degli altri che ho salutato sempre miei maestri di vita. La storia mi metterà tra i vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non mi riguarda. Io sento che ho quel posto da difendere; che pel bene dell'Italia quel posto dev'essere difeso da qualcuno, e tra i qualcuni sono chiamato anch'io a quell'ufficio. Ecco tutto. Ella, frugando in se stessa, troverà forse lo stesso o simile o analogo motivo del suo giovanile liberalismo. E anche a Lei basterà. L'amore è l'amore» (5).
[62] «Il Direttore [Luigi Bianchi] propone che a carico dell'alunno interno Alfieri colpevole di aver mancato di rispetto a un suo professore, il prof. Carlini, in una nota inopportuna pubblicata sulla Rivista 'Ricerche religiose' venga preso un provvedimento. Il Consiglio incarica il Rettore di formulare per iscritto l'ammonizione da farsi alla presenza del Consiglio stesso al giovane, secondo l'art. 44 lettera b del Regolamento. E il Rettore, invitato a presentarsi il giovane, pronuncia la seguente ammonizione, riservandosi di darne notizia al prof. Carlini: 'Il Consiglio Direttivo è profondamente addolorato che uno scolaro della Scuola normale non abbia sentita tutta la sconvenienza di usare espressioni, che non esita a chiamare ineducate, a proposito di un dissenso di pensiero con un suo Maestro. Dissensi di pensiero non giustificano l'uso di espressioni volgari. Tutti dobbiamo avere quella facoltà che si chiama inibizione che si richiede negli uomini di studio. Non possiamo quindi non deplorare il suo comportamento e speriamo ancora che più della nostra parola varrà la sua coscienza a richiamarla a quella austerità di forma e di atti che sono caratteristiche dei veri uomini'» (Scuola Normale Superiore di Pisa-Archivio Storico, Consigli direttivi, b. 1, reg. 4, 142-143, adunanza del 10 novembre 1926).
[63] D. Cantimori, «Note filosofiche. I- L'idealismo attualista, la religione e l'attualismo filosofico», in Il Pensiero (Bergamo), (I, 42, 27 nov. 1926): 3. Sulla stessa rivistina Cantimori pubblicava «Note filosofiche: II-La religione dell'attualismo», ibid., (I, 44, 11 dic. 1926): 3 e «Note filosofiche: III-La posizione di Croce e la posizione degli attualisti di fronte alla religione», ibid., (II, 3, 15 genn. 1927): 3. Seguiva poi un art. conclusivo «Religione e religiosità. Chiarimenti sulla concezione attualista della religione», in Vita nova, 3 (1927):32-35. Questi articoli sono stati ripubblicati in appendice al più volte cit. saggio di Barbera e Campioni , 126-144; l'ultimo si trova anche in PSC, 14-21. L'Alfieri controbatteva in una Nota posta in calce al suo «L'attualismo e la religione: II-La posizione del problema del conoscere nell'Attualismo», in Ricerche religiose, 3 (1927): 1-35. Per questa polemica molte notizie in Cordié, «L'alunno perfezionando», in Rivista di studi crociani, 12 (1975): 309-312 , 13 (1976): 53-58.
[64] Cfr. supra, nota 45. Nel luglio del 1926, scrivendo a Croce (la lettera sarà più sotto riportata integralmente), Cantimori annunziava: «Per la scuola [Normale] presenterò parte delle note che vado raccogliendo da ogni parte per le ricerche sui rapporti fra oratoria e poesia: precisamente le note su Platone, e su varî spunti del suo pensiero: questo s'allontana dal lavoro principale, quindi ne farò un lavoretto a sé, perché è un punto che non so lasciare». Le note su Platone dovevano quindi costituire il materiale per la tesina del terzo anno (verosimilmente con Valgimigli relatore): fu dopo la partenza dell'illustre grecista da Pisa alla fine del '26, che Cantimori iniziò a lavorare con Saitta e si concentrò sullo studio di Ochino in vista della tesina.
[65] A. Prosperi, «Cantimori, Delio», in Dizionario di storiografia (Milano: Bruno Mondadori, 1996), 164-165, 164. Echi delle passioni di allora durarono a lungo: nel 1935, Henry Wickham Steed, dal 1914 Foreign Editor, dal 1919 al 1922 redattore capo del Times, che - com'è ben noto - fu uno dei 'referenti' inglesi della 'politica delle nazionalità' sostenuta in Italia da Albertini, Salvemini, etc. e poi uno degli esponenti della lobby filo-jugoslava e filo-cecoslovacca che contrastò le richieste italiane alla conferenza di Versailles, era ancora per Cantimori il «famigerato Wickam (sic) Steed» (PSC, 308 nota 1). Probabilmente, tuttavia, in questa avversione giocava anche la costante azione a favore della piccola Intesa e quindi contro la politica italiana nei Balcani che, ancora negli anni Trenta, il giornalista inglese conduceva: cfr. J. Petersen, Hitler e Mussolini. La difficile alleanza (Bari: Laterza, 1975), 86-87, 476 nota 67. Nel 1941 era diventato il «famoso Wickam Steed» (PSC, 698).
[66] Per questa rapida ricostruzione mi sono avvalso dei frammenti autobiografici del 30 agosto 1934 e del 28 marzo 1956 pubblicati rispettivamente in Prosperi, Introduzione, XXI-XXIII e in Mangoni, XLI; di molte pagine del saggio in morte di Chabod (Storici, 281-304), della lettera del giugno 1962 a Francesco C. Rossi (CS, 132-144), dello scritto «Il mio liceo a Ravenna». Su Carlo Cantimori e D'Annunzio cfr. supra nota 23; anche a Kaegi Delio Cantimori accennò «di essersi unito al fascismo partendo precisamente dall'ala dannunziana» (Kaegi, «Ricordo di Delio Cantimori», 886). Su Dino Silvestroni cfr. la corrispondenza da Ravenna «I nostri morti», in L'Iniziativa (Bologna), I, 32 (18 agosto 1922), 4.
[67] Il volume cit. sopra alla nota 1 contiene un'ampia scelta degli scritti 'politici' o comunque frutto dell'attività pubblicistica di Cantimori dal 1927 al 1942, compiuta col proposito di «segnalare l'importanza del tema 'storia della cultura' e la centralità e la complessità della riflessione sulla Germania, come essenziali anche alla comprensione degli altri scritti raccolti» (XLIII). Per questo gli scritti sono stati divisi in quattro sezioni: Aspetti di una formazione: storia della cultura e ideologie politiche (5-134) che comprende quasi tutta la collaborazione alla rivista bolognese Vita nova (1927-1932), è aperta dalle Osservazioni del 1928 e conclusa dalla rec. a Meli del 1935; Correnti ideologiche e religiose nella Germania contemporanea (137-561) contenente le recensioni e i saggi di argomento tedesco dal 1933 al 1942: è la sezione più cospicua, anche per l'orientamento che - come s'è visto - ha ispirato la curatrice; Fascismo: propaganda, ideologia e cultura (565-699) con scritti dal 1933 al 1941; nella quarta sezione, Chiesa cattolica e società contemporanea (703-780), compaiono scritti apparsi dal 1933 al 1940. All'interno di ciascuna sezione gli scritti sono disposti cronologicamente, eccetto che nella prima dove si è ritenuto opportuno premettere le Osservazioni del 1928 come chiave di lettura degli scritti successivi. Nell'ambito di ogni anno si è seguito l'ordine della bibliografia Perini-Tedeschi: prima i saggi, poi le recensioni, quindi le postille. I testi sono stati corretti dei refusi più evidenti; talvolta, però, sono rimasti quelli più insidiosi, che conducono cioè a una nuova parola di diverso significato, che magari permette ancora di avere una frase grammaticalmente corretta e di senso compiuto, ma logicamente diverso da quello che l'autore intendeva esprimere. Facciamo qualche esempio, con la correzione congetturata: «le differenze, le distinzioni, le oppressioni [opposizioni] son della concretezza piena, che unifica poi in un altro modo quel molteplice» (PSC, 7-8, nota 5); «[...] una forma aconfessionale di religiosità è, in molti casi, e per gli uomini, non per le donne e i bambini, più forse è vero [forte e vera] e vivificante nel mondo moderno, che ogni altra» (PSC, 27); «essi hanno terrore di quell'eresia che si vivifica [recte: vivifica] tutta la società occidentale [...]» (PSC, 120); «In questa confusione ha la sua parte la polemica liberale contro le confessioni, e specialmente la cattolica, che spesso [...] finiva per identificare con la creazione [reazione] ogni religiosità, ogni religione, ogni confessione» (PSC, 125); il neopaganesimo «va distinto dal classicismo e dalle tendenze immanentistiche, soggettivistiche, naturalistiche, nazionalistiche della civiltà contemporanea [...], che non presentano un carattere esplicitamente religioso, culturale [cultuale] e rituale, come il neopaganesimo germanico» (PSC, 489); «mutualismo pitagorico, razionalismo socratico, comunismo platonico, umanitarismo storico [stoico], pacifismo neo-cristiano [...]» (PSC, 601). Non si trova nel testo originario, invece, il refuso curioso di 364: «[...] non suscettibile di ungere [fungere] come orientamento di pensiero [...]». Son rimaste non poche stroppiature di parole straniere o latine non ascrivibili certamente a Cantimori, ma imputabili - come una volta si diceva - al proto: skachtpolitik per Schlachtpolitik (PSC, 179), retrorum per retrorsum (PSC, 211 nota 4), Planwistschaft per Planwirtschaft (PSC, 225), Wiedeserinnerung per Wiedererinnerung (PSC, 350), pendent per pendant (PSC, 353), rechtsursenschaftlichen per rechtswissenschaftlichen (PSC, 392). Discorso più complesso per le grafie erronee dei nomi propri, (Kaiserling per Keyserling, a p. 28; Willy Münzberg per Münzenberg, a p. 177 nota 24; Chreigton per Creighton, a p. 211 nota 4; Frantz per Franz, a p. 290; A. Lietzmann per H[ans] Lietzmann, p. 324 nota 11; Stahl-Johlson per Stahl-Jolson, a p. 387; Sir Growe per Sir Crowe, a p. 532; Morrasso per Morasso a p. 558, in grafia esatta a p. 648; e cfr. anche sopra nota 65, etc.), per cui non è sempre facile distinguere quelli che certamente furono refusi tipografici dai veri e propri errori dell'autore; si aggiunga il curioso lapsus per cui, in tutte le Note sul nazionalsocialismo, si parla di Georg, invece che di Gregor Strasser (PSC, 163-191). In nessuno di questi casi si è reputato necessario intervenire, né con una correzione tacita, né con un qualche intervento correttivo: probabilmente si è confidato in una funzione di rettifica dell'Indice dei nomi (nel complesso non impeccabile), che talora effettivamente dà la grafia esatta, ma talvolta ribadisce quella erronea (è il caso di Morrasso), più spesso non registra i nomi errati. Analogamente non si è ritenuto utile evidenziare né correggere i pesci presenti nel testo dei vari articoli. Solo pochi esempi: «Intanto però questa dichiarazione di insussistenza da parte dei filosofi idealisti, mentre le religioni positive affermano nettamente, ognuna per conto suo, [***] solo come ancilla, mette subito e senz'altro la filosofia moderna [...] al di sopra di queste religioni positive» (PSC, 16); «E come la tolleranza sembrò un pericolo per le confessioni religiose, e se ne misero in rilievo con compiacenza le diaboliche origini sociniane ed eretiche, o addirittura 'atee', così [***] un pericolo e come degenerazione rovinosa da parte dei nazionalismi reazionari, che ne mettono in rilievo [...]» (PSC, 96); «Il processo di idoleggiamento di un dato periodo storico, caratteristico della mentalità astrattamente storicistica e progressistica, è semplicemente e tranquillamente [***] medioevo alla età degli ipotetici lumi dei loro avversari» (PSC, 121); «si proclama una nuova forma di dottrina 'socialistica', che del socialismo in senso proprio mantiene il collettivismo, la disciplina gerarchica, il senso della solidarietà, - si trasferisce tutto questo dal piano sociale su quello nazionale, ritornando - come sempre avviene quando si vuole rinnovare un movimento dal di dentro - [***]. Questo processo non è certamente mai così consapevole [...]» (PSC, 299), etc. Il vol. è concluso da un'assai interessante raccolta di Pareri editoriali di Delio Cantimori (783-823) per la Sansoni prima, per Einaudi dopo il 1941: sarebbe auspicabile una pubblicazione del carteggio di Cantimori con Federico Gentile, ora consegnato all'importante tesi di O. Pugliese, «Germania e Italia degli anni Trenta attraverso il carteggio Delio Cantimori-Federico Gentile 1932-1962», università di Firenze, relatore Renzo Pecchioli, a.a. 1982-83.
[68] M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 17-44. Su questo libro cfr. le osservazioni di G. Santomassimo, «Intellettuali e fascismo. Un saggio su Delio Cantimori», in Italia contemporanea, 30, n. 131 (apr.-giu. 1978), 89-92.
[69] Archivio della Fondazione «Biblioteca di Benedetto Croce», Napoli, Carteggio di B. Croce. Il primo capoverso della lettera è parzialmente citato in Prosperi, Introduzione, LIV, nota 99. Cantimori non poteva sapere che, quasi vent'anni prima, Croce aveva invitato Renato Serra a scrivere sulla «Cultura romagnola e bolognese» per la Critica e che il letterato cesenate, dopo avervi pensato per qualche tempo e raccolto anche del materiale, aveva accantonato il progetto: R. Serra a B. Croce, Cesena 7 ottobre 1909, in Epistolario di Renato Serra, a cura di L. Ambrosini, G. De Robertis, A. Grilli (Firenze: Le Monnier, 19532), 290 e nota 1. È significativo che Croce non abbia risposto a questa lettera di Cantimori: ne riferiva in termini vaghi ad Alfieri: «Ebbi la lettera del Cantimori, e non ho risposto un po' perché ho in questa settimana trascurato la corrispondenza, nescio quid meditans nugarum, totus in illis; e un po' perché dar consigli sul modo di preparare un lavoro sulla cultura romagnola io non potrei se non in una conversazione, e in dialogo. Spero che di questo mi si offrirà l'occasione. Potrei anche in una delle mie gite fermarmi un giorno a Pisa, e lei potrebbe avvertirne il Valgimigli e nessun altro dei professori» (Croce ad Alfieri, Meana di Susa 7 agosto 1926, Lettere, 13), tacendone il contenuto 'politico'. Seguì la polemica fra Cantimori e Alfieri su attualismo e religione, cui s'è accennato nel testo (Croce aveva preventivamente letto e approvato l'attacco di Alfieri a Carlini: ibid., 10-11, lettera del 10 giugno 1926), e i rapporti epistolari fra Cantimori e Croce paiono interrompersi, fino alla lettera del normalista, ormai laureando, del 4 febbraio 1928, in cui si informava il filosofo del nuovo campo di studi cui si era dedicato nell'ultimo anno, «la Riforma italiana» (Prosperi, Introduzione, LV nota 101). Il 1° agosto dello stesso anno Cantimori informava Croce del definitivo abbandono del progetto sulla cultura romagnola (ibid.).
[70] Sul fascismo come «religione», come «concezione totale della vita», cfr. G. Gentile, Che cosa è il fascismo. Discorsi e polemiche (Firenze: Vallecchi, 1926), 38-39, 107-108, 144-145, nella conferenza fiorentina dell'8 marzo 1925, nel discorso di chiusura del 30 marzo 1925 al congresso di cultura fascista a Bologna, nell'importante saggio sui «Caratteri religiosi della presente lotta politica», apparso su L'Educazione politica dello stesso mese. Il «carattere religioso del fascismo» era stato ribadito nel «Manifesto degli intellettuali del fascismo», redatto - come ognun sa - da Gentile e pubblicato il 21 aprile di quell'anno e fortemente e diffusamente oppugnato nel 'contromanifesto' crociano: «Ma il maltrattamento delle dottrine e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell'abuso che vi si fa della parola 'religione'; perché, a senso dei signori intellettuali fascistici, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur piegarsi; - e ne recano a prova l'odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani», ma si veda il testo nella sua intierezza in B. Croce, Pagine sparse, II (Bari: Laterza, 1960), 487-491. Su questi problemi, si veda ora E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell'Italia fascista (Bari: Laterza, 1993), 111-117, dove si sottolinea il contributo di Gentile e dei suoi discepoli nell'elaborazione di una 'religione' fascista.
[71] Cito per comodità dalla voce «Fascismo-Dottrina-Idee fondamentali», in Enciclopedia italiana, XIV, 1932, 848. Cfr. anche E. Gentile, «La nazione del fascismo. Alle origini del declino dello Stato nazionale», in Aa. Vv., Nazione e nazionalità in Italia. Dall'alba del secolo ai giorni nostri, a cura di G. Spadolini (Bari: Laterza, 1994), 65-124, 82-84.
[72] D. Cantimori, «Ulrico di Hutten e le relazioni fra Rinascimento e Riforma. Saggio monografico», tesi di laurea in storia della filosofia, Pisa 1928, 1-8, 6 (Biblioteca Universitaria di Pisa, Tesi di laurea, 3687).
[73] Ibid., 9-15 e 23 nota 25. Cfr. infra, Appendice I.
[74] Cfr. L. Mangoni, L'interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo (Bari: Laterza, 1974), 187, in relazione a G. Saitta, Filosofia italiana e umanesimo (Venezia: La Nuova Italia, 1928). Nel libro della Mangoni vi sono pagine assai ricche sulla rivista bolognese Vita nova, diretta da Saitta e a cui collaborò dal 1927 al 1932 anche Cantimori (186-194). Si pongano in relazione le posizioni qui espresse da Cantimori con quelle della molto citata lettera a Capitini del 1932, pubblicata per la prima volta in M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 117-118, in cui critica la «confusa teoria dello Stato etico», ma mantiene l'esigenza di superare una concezione individualistica della libertà in una realtà più comprensiva: «accettiamo lo Stato come imposizione e forza in quanto in esso vediamo (io vedo) l'espressione di una collettività, di un raggrupparsi (storicamente condizionato), sociale, di elementi di quella societas humana nella quale e non nello Stato (e forse è in parte solo questione terminologica) risiede l'eticità (in quanto legge sopraindividuale), insomma perché esso è il rappresentante della reale immanenza della mente umana nella vita subumana della società, nel suo procedere (processo infinito) all'Umanità (cultura, civiltà); perché lo Stato è la collettività all'infuori della quale il nostro vivere come agire nel senso più generale non avrebbe significato»: anche qui, come nella tesi del 1928, lo Stato non è in sé la sede dell'eticità (legge morale superindividuale), ma solo in quanto «espressione di una collettività, di un raggrupparsi (storicamente determinato), sociale di elementi di quella societas humana nella quale [...] risiede l'eticità [...]»: nel 1932, tuttavia, questa societas non è espressamente identificata con la nazione.
[75] Cantimori, «Ulrico di Hutten», tesi di laurea, 177-178.
[76] Id., Ulrico von Hutten, VI, 63. Per le osservazioni precedenti, ibid., 19-20, 36-39, 44-47, 54-55, 59-61.
[77] I giovani della destra tedesca «non sono contro gli israeliti della loro nazione senza una ragione. Questa abbiamo cercato di capirla, senza volerla fare nostra ma per mettere in guardia contro eventuali malintesi» (PSC, 32). Così rispetto al razzismo: si può comprenderlo, «senza volerlo giustificare e senza (Dio ne guardi!) metterci dalla parte dei razzisti» (PSC, 36). A questo riguardo, vale la pena di ricordare l'incredibile affermazione compresa nel primo art. sulla Germania giovane (1927), secondo cui «A Berlino, per es., i tre quarti della popolazione sono costituiti da Ebrei; 'puri tedeschi' sono soltanto nelle classi povere» (PSC, 30), dove è probabile che sia caduta qualche parola, ad esempio: «della popolazione [ricca]». Come che sia, sono luoghi tipici delle 'fonti' tedesche del Cantimori di questi anni.
[78] Adesso sappiamo (lettera a G. Gentile jr., da Pisa, del 17 dicembre 1927, in Simoncelli, Cantimori, 19-20) che Cantimori ebbe anche contatti personali con ambienti della gioventù «nazionalista» berlinese e cercò di promuovere scambi culturali in vista della costituzione di una «società di studi italo-tedeschi». Per i contatti fra ambienti ed esponenti del fascismo italiano e la destra tedesca negli anni Venti, all'interno dei quali devono essere collocati anche questi di Cantimori, cfr. R. De Felice, I rapporti tra fascismo e nazionalsocialismo fino all'andata al potere di Hitler (1922-1933). Appunti e documenti (Napoli: Esi, 1971), 9-96; Petersen, Hitler e Mussolini, 5-53, dove (33, 466 nota 160) si ricorda, fra le altre, la missione in Italia (1925-26) di H. Franke, editore della rivista nazionalistica Standarte, letta e ampiamente citata da Cantimori (PSC, 47-48).
[79] Si ricordi che il 5 febbraio 1926 il presidente del consiglio bavarese Held aveva denunciato i metodi seguiti dal governo fascista in Alto Adige: gli aveva risposto aggressivamente Mussolini nei discorsi alla Camera del 6 e al Senato del 10 febbraio 1926. Nel dicembre di quell'anno era stata creata la provincia di Bolzano. L'antefatto diretto degli interventi di Cantimori del 1928 è il discorso del cancelliere austriaco mons. Seipel, la risposta di Mussolini nel discorso parlamentare del 3 marzo 1928, in cui è compresa l'affermazione «Conviene di proclamare che l'Italia non è andata a prendere, bensì a portare un contributo possente di civiltà nella provincia di Bolzano» citata da lui con compiacimento (PSC, 44) e l'intervista del duce al giornale tedesco Tag del 28 aprile 1928, in cui Mussolini aveva fatto capire di essere disposto a fare certe concessioni (Opera omnia, XXIII, 135 sgg.). È a questa intervista che fa riferimento Cantimori per sostenere le proprie proposte: «accenni a una tale soluzione o impostazione del problema erano già in una intervista concessa nell'estate di quest'anno dal Duce ad un quotato giornalista tedesco, che il 'Corriere della Sera' non identificava più precisamente, ma che era di parte nazionalista» (PSC, 51). Per tutti questi problemi, cfr. M. Toscano, Storia diplomatica della questione dell'Alto Adige, (Bari: Laterza, 1967), 108-112. Il giovane normalista era stato nell'estate del 1926 a campeggiare con un gruppo di avanguardisti della provincia di Forlì in provincia di Bolzano: cfr. D. Cantimori, «Le avanguardie della provincia di Forlì nell'Alto Adige», in Vita nova, 3 (1927): 91-92.
[80] Collotti ha colto l'importanza di questo nesso Stato-nazione (o Stato-società, come egli dice) nel giovane Cantimori e lo ha giustamente considerato «come uno dei punti di contatto più stretti» fra i suoi primi scritti sul fascismo e quelli sulla Germania giovane, ma ha poi ritenuto - con una interpretazione che nel testo non ho seguita - che lo studioso italiano auspicasse una valorizzazione degli elementi della società civile rispetto allo Stato e quindi ha rilevato una contraddizione fra questo auspicio e il suo fascismo (Collotti, 813).
[81] Turi, Giovanni Gentile, 393-407. Il discorso di Gentile del 12 aprile 1930 fu subito ripubblicato da Civiltà moderna di Codignola e da Educazione fascista, il mensile dell'Istituto nazionale fascista di cultura presieduto dallo stesso Gentile, col titolo I problemi attuali della politica scolastica (poi in La riforma della scuola in Italia, [Firenze: Sansoni, 19372], 453-477).
[82] Il momento centrale della battaglia post-concordataria di Ernesto Codignola fu - com'è noto - la fondazione di Civiltà moderna, il cui primo numero reca la data del 15 giugno 1929. Cantimori, che pubblicava allora l'Ochino, ricevette un'offerta di collaborazione alla rivista ancora in gestazione nel marzo del 1929 e rispose, accettando, il 10 aprile, da Pisa. Sono per noi interessanti i progetti di lavoro e gl'interessi culturali che delineava: «Comincio fin d'ora a preparare un nuovo lavoretto sulla cultura, e sulle relazioni che la storiografia della cultura ha avuto con le correnti politiche e sociali in generale, e coi movimenti filosofici religiosi e appunto 'culturali' dell'ultimo cinquantennio. Recensirò molto volentieri quante opere Ella mi farà inviare, tanto francesi quanto tedesche. Oltre il Rinascimento e la Riforma sono stati e sono miei argomenti di studio l'Europeismo (nel senso del Troeltsch e del Croce) e i suoi rapporti coll'europeismo politico e le sue influenze sulla storiografia; e le opere di politica morale: tali opere recensirei con maggiore sicurezza e, credo di poterlo dire, con una qualche preparazione» (Archivio Codignola, presso il Centro di documentazione pedagogica di Scandicci, Firenze, fasc. Delio Cantimori). Si colga il riferimento a E. Troeltsch, Europäismus (1926), su cui cfr. C. Curcio, Europa. Storia di un'idea, II (Firenze: Vallecchi, 1958), 840-841.
[83] Si trattò anche di un'autocritica: nell'ultimo articolo comparso su Vita nova, Chiarificazione di idee. De minimis del 1932, egli arrivava a criticare risolutamente il ricorso a tutta una terminologia religiosa da parte degli immanentisti per significare la propria «fede nell'uomo, nella ragione dell'uomo» (PSC, 124-130). È probabile - com'è stato rilevato (Vivanti, Politica, 780 nota 7) - che l'obiettivo polemico fosse la crociana 'religione della libertà' (era appena uscita la Storia d'Europa), ma certo gli accenti e i problemi delle discussioni del 1926-27 con Alfieri erano ormai superati.
[84] Per tutti questi problemi è ancora molto utile, e vi sono ricorso a più riprese, Curcio, Europa, 789-880, per i dibattiti fra le due guerre; opus, se si vuole, oratorium maxime, ma ricchissimo di indicazioni bibliografiche e soprattutto scritto da un testimone che visse direttamente e partecipò a quel clima culturale; ma cfr. anche il più recente saggio di M. Nacci, «La crisi della civiltà: fascismo e cultura europea», in Aa.Vv., Tendenze della filosofia italiana nell'età del fascismo, a cura di O. Pompeo Faracovi (Livorno: Belforte, 1985), 41-71.
[85] D. Cantimori, rec. a H. Daniel-Rops, Il mondo senz'anima (Brescia, 1933), in Leonardo, 4 (1933): 269-270.
[86] L'art. di Cantimori «Ritorno al Medioevo e crisi di viltà» (Vita nova, 8, 1932, 95-97: PSC, 119-123) è una risposta estremamente polemica a J. Evola, «Note circa il 'Ritorno al medievo'», ibid., 7 (1931): 956-960. Pur con riferimenti ad altri testi, questa antitesi Evola-Cantimori è stata còlta in Bongiovanni, Rivoluzione, 801-802.
[87] Ancora nel 1961, Cantimori porrà «relazioni strette fra i razzisti tedeschi e i panslavisti teorizzatori della spinta russa verso occidente» («Prefazione» a De Felice, Storia degli ebrei italiani, XVII).
[88] In questa lettera veniva fatto, ad deterrendum, il nome di Hans Mühlestein, lo svizzero storico della cultura, allievo di Bachofen: quando Croce ne ebbe recensito sulla Critica, nel 1926, il volume Russland und die Psychomachie Europas, uno dei tanti in cui si paventava «la finis Europae, l'arresto del suo svolgimento per effetto dell'arido meccanismo, privo di entusiasmo etico e religioso, o addirittura la sommersione della sua civiltà per opera della Russia semiasiatica, alleata dell'Asia», Cantimori, colpito evidentemente dal libro o dalla recensione, ne propose al filosofo la traduzione, e solo di fronte allo scetticismo di questi («Il libro è un po', anzi molto verboso, e il succo di esso si può spremere in un articolo non lungo») la proposta non ebbe seguito: cfr. la lettera (Napoli, 4 dicembre 1926) di Croce ad Alfieri, tramite il quale Cantimori aveva avanzato la proposta, in Croce, Lettere a V.E. Alfieri, 17, dove è da rettificare la nota 1 a 18; la rec. a H. Mühlestein, Russland und die Psychomachie Europas. Versuch über dem Zusammenhang der religiösen und der politischen Weltkrisis (München, 1925) è ora in B. Croce, Nuove pagine sparse, II (Bari: Laterza, 19662), 247-249. Ma ancora nella lettera del 15 dicembre 1928 chiedeva a Croce un parere sul movimento del Coudenhove-Kalergi e sulla Europäische Revue del Rohan (Prosperi, Introduzione, LV nota 102), e in quella del 10 aprile 1929 a Codignola qui già citata (supra, nota 82), poneva fra i suoi argomenti di studio l'europeismo e i suoi rapporti coi movimenti politici e la storiografia. Nel novembre 1928, lettore e abbonato della rivista del Rohan, polemizzava su Vita nova contro l'europeismo incentrato su un asse franco-tedesco che emergeva in alcuni articoli della Europäische Revue (PSC, 54-57) e riceveva una risposta da Max Clauss, redattore responsabile della rivista («Europa-Gesprach mit Italien», in Europäische Revue, 1929, 875-877), che nel 1930 avrebbe ospitato la traduzione di un altro intervento cantimoriano di Vita nova, Stati uniti d'Europa: «Italiens Rolle in Europa», ibid., 1930, 619-624 (questa traduzione, sfuggita alla bibliografia Perini-Tedeschi, era già stata segnalata da Barbera-Campioni, «Dalla filosofia alla storiografia», 79 nota 107). Sulla personalità del Rohan e sulla sua rivista è utile K.- Hoepke, La destra tedesca e il fascismo, (trad. it., Bologna: Il Mulino, 1971), 41-62, 66-70.
[89] D. Cantimori, «Passaporto per l'impero», in Pattuglia, I, 25 (2 novembre 1929): 1, riportato in Appendice III. Nonostante il richiamo a Croce nella lettera cit. a Codignola (cfr. supra nota 82), è evidente la distanza fra l'europeismo del Cantimori di questi anni e quello liberale del filosofo. Lo conferma un appunto datato 17.IX.'32 e pubblicato nel più volte citato lavoro di Barbera-Campioni (82) a proposito di quel passo dell'«Epilogo» della crociana Storia d' Europa, in cui si afferma che «a quel modo che, or sono settant'anni, un napoletano dell'antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l'esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri s'innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all'Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate». Cantimori commentava: «I migliori e più vivi italiani dal 1870 in poi hanno perso la loro fedeltà al proprio passato di piemontesi, lombardi, siciliani - e come italiani si sono abbandonati ad una incessante ricerca cosmopolitica del nuovo e sempre nuovo: in questo senso, Marinetti è il simbolo della terza Italia, e il profeta della nuova Europa, intanto ch'essa non avrà miglior storia di quella del Croce», dove mi pare evidente - nonostante le considerazioni successive di Barbera-Campioni - il sarcasmo di Cantimori, anche in considerazione del suo, più volte ribadito, anti-futurismo.
[90] E. Gentile, «La nazione del fascismo», 90: in questo saggio, il paragrafo dedicato a La civiltà imperiale (89-95), con le copiose citazioni di autori cari a Cantimori, come Gentile, Pellizzi, Berto Ricci, l'anonimo editorialista di Critica fascista, è molto utile per comprendere i suoi scritti cagliaritani; per la storia successiva dell''europeismo' fascista, v. D. Cofrancesco, «Il mito europeo del fascismo (1939-1945)», in Storia contemporanea, 14 (1983): 5-45, 5-9 sui precedenti.
[91] B. Mussolini, «Il numero come forza», in Gerarchia, settembre 1928, prefazione a R. Korherr, Regresso delle nascite morte dei popoli (Roma, 1928), ora in B. Mussolini, Opera omnia, XXIII, 209-216. Sul suo significato, cfr. R. De Felice, Mussolini il duce, I - Gli anni del consenso 1929-1936 (Torino: Einaudi, 1974), 39-41. Cantimori la commenta almeno in «L'Italia e l'Europa» del 1929 (PSC, 58-60) e in «Passaporto per l'impero», cit. alla nota 89.
[92] P.Nello, Un fedele disubbidiente. Dino Grandi da Palazzo Chigi al 25 luglio (Bologna: Il Mulino, 1993), 72 e passim.
[93] G. Santomassimo,«Ugo Spirito e il corporativismo», in Studi storici, 14 (1973): 61-113, 90-91.
[94] B. Mussolini, Opera omnia, XXIV, 283. Per tutti questi temi mi son servito di M. Ledeen, L'internazionale fascista (Bari: Laterza, 1973), passim.
[95] Mi riferisco ai saggi «Fascismo, nazionalismi e reazioni» e «Fascismo, rivoluzione e non reazione europea» del 1931 e «Ritorno al Medioevo e crisi di viltà» del 1932 (PSC, 81-87, 111-118, 119-123). Il secondo era preceduto da una nota della direzione della rivista (G. Saitta) non riportata in PSC: «Ci permettiamo di richiamare l'attenzione della stampa fascista su questo articolo importantissimo del nostro valoroso amico e scolaro professore Cantimori». L'articolo da cui il primo prende le mosse è Critica fascista, «Note al discorso di Palazzo Venezia», in Critica fascista, 8 (1930): 402-404: «Contro il Fascismo è schierata la Vandea reazionaria di tutta l'Europa, che si sente battuta in breccia dall'implacabile procedere vittorioso di un regime saturo di giovinezza e di vita, maestro di energia, assertore di sincerità e di forza. L'Italia e la Russia sono i due soli (per quanto antitetici) principii di rinnovamento del mondo moderno. O con Mussolini o con Lenin: non c'è altro scampo per la decrepita società borghese che ci odia, ma deve ammirarci e soprattutto temerci:[...] Se non vorrà morire l'Europa dovrà intendere l'ammonimento che le viene dal Fascismo, e conformarsi ai principi della nostra Rivoluzione. [...] Quello che possiamo e dobbiamo imporre [su scala internazionale] è lo spirito del Fascismo, che contro le convenzionali formule politiche pone i valori essenziali della vita e dell'azione. In base ad esso noi abbiamo risolto il problema dello Stato, e dei suoi rapporti con gli individui, con i gruppi organizzati, e dei gruppi fra loro. La nostra esperienza corporativa dà al mondo che si dibatte nella rete delle interferenze fra Stato, gruppi e individui, norme chiare e precise sul mutuo comportamento di questi fattori. All'indifferenza e all'apatia liberali, all'utopistico travisamento socialista succede la realtà fascista» .
[96] Si pensi solo all'importante scritto di G. Gentile, «L'essenza del fascismo» (1928), poi in Origini e dottrina del fascismo, (Roma: Istituto nazionale fascista di cultura, 19343), 7-55, dove, specialmente nei capitoli XII e XIII dedicati a «La dottrina dello Stato» e allo «Stato fascista come Stato democratico» (44-49) si pongono chiaramente in luce quelle che il filosofo considerava le divergenze fondamentali fra la dottrina nazionalista e la politica fascista. Su questo problema, molti altri autori (tutti presenti a Cantimori come Pellizzi e Bottai) e temi sono presentati in E. Gentile, Le origini dell'ideologia fascista, 323-400.
[97] D. Cantimori, rec. a Universalità del fascismo. Raccolta di giudizi di personalità e della stampa di tutto il mondo, 1922-1932, con prefazione di E.Coselschi (Firenze, 1933), in Leonardo, 4 (1933): 270-271. Per questo libro, cfr. Petersen, Hitler e Mussolini, 107, 484 nota 33. Su Coselschi e la fondazione dei CAUR, cfr. Ledeen, L'internazionale fascista, 136-137 e passim. Un cenno di Cantimori 1938 in PSC, 708-709.
[98] Su questa figura cfr. R.Vivarelli, «Le origini del fascismo in Toscana: considerazioni introduttive», in Aa. Vv., 28 ottobre e dintorni. Le basi sociali e politiche del fascismo in Toscana (Firenze: Ediz. Polistampa, 1994),9-22, 15-16 con bibliografia.
[99] V. Morello (Rastignac), Il conflitto dopo la Conciliazione (Milano: Bompiani, 1932), 158-159, 161. Per posizioni di Rocco, ibid., 162-163; per quelle di Coppola, 183-186.
[100] Alludo a G. Paladino, Il processo per la sètta dell''Unità italiana' e la reazione borbonica dopo il 1848 (Firenze: Le Monnier, 1928), ma anche a W. Maturi, Il concordato del 1818 tra la Santa Sede e le due Sicilie (ivi, 1928), cui sembra riferirsi lo stesso Cantimori quando ricorda il «disastroso (per lo stato) concordato del 1818» (PSC, 113), rovesciando il giudizio di Maturi e accogliendo quello dell'Omodeo recensore (Difesa del Risorgimento, [Torino: Einaudi, 1951], 454-461). La 'difesa del Risorgimento' operata in quegli anni dall'Omodeo ebbe, ovviamente, un' intenzione politica antitetica a quella della polemica cantimoriana, ma obbiettivi spesso non dissimili. Questi giudizi sopravvissero anche in sede di bilancio storiografico nelle Note sugli studi storici in Italia (1926-51) del gennaio 1952: si veda quello su Maturi, il suo Principe di Canosa e la tendenza a considerare «con troppo amore le figure dell'antirisorgimento, e con troppo facile distacco l'Omodeo» (Storici, 277). Ma nell'opera del Maturi son vive anche altre implicazioni che qui Cantimori non sembra scorgere.
[101] C. Lovera di Castiglione-I. Rinieri S. J., Clemente Solaro della Margarita (Torino: Bocca, 1931), 3 voll.
[102] Per la varia fortuna di Maistre in Italia negli anni Venti, cenni in R. Pertici, «Giorgio Candeloro storico delle dottrine politiche (1931-1949)», in La storiografia sull'Italia contemporanea, atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro, Pisa, 9-10 novembre 1989, a cura di C. Cassina (Pisa: Giardini, 1991), 69-122, in particolare 78-80. Il lavoro di Candeloro, Lo svolgimento del pensiero politico di Giuseppe de Maistre (Roma: Tipografia del Senato, 1931) è il più netto tentativo da parte di un gentiliano 'ortodosso' di distanziare lo storicismo idealistico da quello anti-rivoluzionario del pensatore savoiardo.
[103] A. Luzio, Carlo Alberto e Mazzini (Torino: Bocca, 1923); E. Passamonti, Nuova luce sui processi del 1833 in Piemonte (Firenze: Le Monnier, 1930).
[104] Su questo scritto cfr. Hoepke, La destra tedesca, 68 nota 81.
[105] Mohler, La rivoluzione conservatrice, 56-61, 160-164; L. Dupeux, Stratégie communiste et dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l'expression «National-bolchévisme» en Allémagne, sous la République de Weimar (1919-1933) (Paris: Librairie Honoré Champion, 1976), 244-363.
[106] La rec. di Croce a R. Fülöp-Miller, Geist und Gesicht des Bolschewismus. Darstellung und Kritik des kulturellen Lebens in Sowiet Russland (Wien, 1926), comparsa sulla Critica nel 1926, è ora in Croce, Nuove pagine sparse, II, 249-251; sulle corrispondenze russe di Malaparte, poi raccolte nel vol. Intelligenza di Lenin (Milano: Treves, 1930), cfr. D. Cantimori, «Europa», in Pattuglia, I, 22 (5 ottobre 1929), 1 (cfr. Appendice III); sulla sua Technique, cfr. Studi, 626 e Id., «Il 'Machiavelli'», in Belfagor, 16 (1961): 749-757, 754. La rec. a Peregrinus [ Vita Finzi], Grandezza e servitù bolsceviche. Sguardo d'insieme all'esperimento sovietico (Roma, 1934) è in Leonardo, 5 (1934): 275-276. Questo libretto non merita, né per la personalità dell'autore, né per il contenuto, né per la sede ove fu in parte anticipato (La Cultura, 11 [1932]: 560-580) la definizione di «grossolano opuscolo di propaganda fascista», opera di un «anonimo scrittore del regime» che da Berengo («La ricerca storica di Delio Cantimori», 937) in poi gli è stata attribuita dalla critica cantimoriana: in proposito si veda L. Zani, «L'immagine dell'URSS: i viaggiatori», in Storia contemporanea, 21 (1990): 1197-1223, 1201 nota 16, 1202-1203, 1223 e le memorie dello stesso Vita-Finzi, Giorni lontani (Bologna: Il Mulino, 1989). La rec. a G. Ciocca, Giudizio sul Bolscevismo (Come è finito il Piano Quinquennale) (Milano, 1933) è in Leonardo, 4 (1933): 542-543: sul Ciocca, ingegnere della Riv-Officine di Villar Perosa e la sua missione in Urss nel 1930-31 per la costruzione di una fabbrica di cuscinetti a sfera a Mosca, cfr. M. Cecchini, «Due missioni tecniche italiane in URSS 1930-1936», in Storia contemporanea, 18 (1987): 731-765, 731-747. La Geschichte des Bolschewismus di Rosenberg fu recensita nell'edizione tedesca (Leonardo, 4 [1933], 78-81) e nella traduzione italiana (Firenze: Sansoni, 1933) in La nuova Italia, 4 (1933): 354-356: la prima rec. è l'unico scritto cantimoriano di questi anni dedicato all'URSS e al bolscevismo raccolto in PSC (137-141). La rec. a M. Eastman, Artists in Uniform. A Study of Literature and Bureaucratism (London, 1934) è in Leonardo, 6 (1935): 86-87. La traduzione di W. Leontieff, «Il bilancio unitario statale dell'URSS per il 1935 (valuta e livello dei salari)», è in Archivio di studi corporativi, 6 (1935): 301-311. La voce «U.R.S.S. - Ordinamento scolastico» è in Enciclopedia italiana, XXXIV, 829.
[107] Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 54-62, 96-105.
[108] D. Cantimori, rec. Rosenberg, Storia del bolscevismo, 355-356. Questa volontà difensiva porta Cantimori ad affermazioni contraddittorie: contro l'identificazione di comunismo e anarchia, compiuta da un polemista cattolico, il recensore ricorda che «lo statalismo assoluto comunistico è agli antipodi dell'autarchia decentralizzata anarchica» e «nella fattispecie, il Lenin si fece vanto spesso d'avere spuntato le armi degli anarchici con una spregiudicata autocritica» (PSC, 705). Nello stesso 1933, alle accuse di accentramento statalistico del Ciocca, risponde che «il bolscevismo, o comunismo leninistico, nega addirittura lo Stato, e quanto alla situazione provvisoria, storicamente condizionata, della dittatura del proletariato, basterà per tutto ricordare la teoria leninistica che lo Stato è un prodotto della inconciliabilità dei contrasti di classe» (rec. Ciocca, 542).
[109] Rec. Ciocca, 543.
[110] Rec. Peregrinus, 276.
[111] Rec. Eastman, 86-87: per questa rec. cfr. L. Canfora, Ideologie del classicismo (Torino: Einaudi, 1980), 73-74. Su Eastman, fra i primi critici dello stalinismo, cenni interessanti in F. A. von Hayek, La via della schiavitù, trad. it. di D. Antiseri e R. De Mucci (Milano: Rusconi, 1995), 73-74.
[112] D. Cantimori, rec. di G. Ritter von Kreitner, Altri 467 milioni di Bolscevichi? (Venezia, 1933), in Leonardo, 5 (1934): 137.
[113] G. Petracchi, «'Il colosso dai piedi d'argilla': l'URSS nell'immagine del fascismo», in L'Italia e la politica di potenza in Europa (1938-1940), a cura di B. Vigezzi, R. Rainero e E. Di Nolfo (Milano: Marzorati, 1985), 149-170, 150, che afferma: «Nel complesso [...] l'immagine della Russia resa dalla pubblicistica degli anni 1928-35 non fu una piatta acritica cristallizzazione dei luoghi comuni antibolscevichi, ma una rappresentazione mossa e variegata, dove le azioni dei bolscevichi non erano rappresentate come malvagie e assurde, dove si era raggiunto qualche sorta di contatto con la mentalità di coloro a cui ci si interessava. E dove proprio dai fascisti veniva fatta giustizia dei luoghi comuni a tanta cultura europea, che il bolscevismo fosse un fenomeno puramente asiatico, un regime di tirannia e di disordine materiale e morale» (153). Molte notizie anche in R. Quartararo, «Roma e Mosca. L'immagine dell'Urss nella stampa fascista (1925-1935)», in Storia contemporanea, 27 (1996): 447-472. Per un'impostazione generale delle relazioni fra il regime fascista e quello bolscevico, cfr. G. Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo-sovietiche 1917-25, pref. di R. De Felice (Bari: Laterza, 1982), 225-232.
[114] S. Panunzio, «La fine di un regno», in Critica fascista, 9 (1931): 342-344; seguirono L. Ingianni, «La Rivoluzione Fascista lo spirito e gli interessi» (381-383); R. Fiorini, «A proposito dell'antitesi Roma o Mosca» (383-385); M. Rivoire, «Affinità ed antitesi fra Roma e Mosca» (411-414); A. Luchini, «Obbiezioni al neo-moscovitismo (Lettera a Bottai sulla moscofilia)» (432-434); B. Spampanato, «Roma e Mosca contro la vecchia Europa» (434-436); L. Ingianni, «Nettissima antitesi» (455-457); A. Tosti, «L'abisso» (457-459). Si aggiunga l'art. elogiativo di M. Da Silva, «Il 'compagno' Koba detto Stalin» (476-477). Su questi dibattiti, cfr. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 3-19; A. J. De Grand, Bottai e la cultura fascista (Bari: Laterza, 1978), 102-103, 168-169 e passim; F. Malgeri, Giuseppe Bottai e «Critica fascista», presentazione di G. De Rosa (S. Giovanni Valdarno: Landi, 1980): LXXXVIII e note 185 e 186.
[115] D. Cantimori, «Passaporto per l'impero» cit. supra alla nota 89, alludendo a C. Pellizzi, Fascismo-aristocrazia (Milano, 1925). Cantimori trova e apprezza in Pellizzi anche la condanna del nazionalismo (PSC, 84-85). Coevi agli articoli di Cantimori su Vita nova, di cui si è discorso ripetutamente nel testo, sono i quattro di Pellizzi sul Selvaggio (30 ottobre 1931-1 maggio 1932) su i quali ha richiamato giustamente l'attenzione De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 239-241, in cui, fra l'altro, si affermava che «il fascismo è, nella sua intima e universale significazione, un comunismo libero» e che «il comunismo fascista si chiama corporativismo» (ibid., 241 nota 1). Si ricordi che Cantimori era lettore ed abbonato dell'Italiano e del Selvaggio (CS, 137). Questa ammirazione giovanile per Pellizzi e queste consonanze (bisognerebbe anche appurare se ci siano stati allora rapporti personali) potrebbero contribuire a spiegare la collaborazione di Cantimori a Civiltà fascista nel 1940-42, quando (aprile 1940) la rivista e l'Istituto nazionale di cultura fascista, di cui essa era organo, passarono sotto la sua direzione: cfr. Belardelli, 401-402. Su Pellizzi si deve lamentare l'assenza di uno studio complessivo: comunque non poche notizie sulle sue posizioni si trovano in R. Suzzi Valli, «Il fascio italiano a Londra. L'attività politica di Camillo Pellizzi», in Storia contemporanea, 26 (1995): 957-1001, per gli anni Venti; G. Longo, «La presidenza di Camillo Pellizzi all'Istituto nazionale di cultura fascista (1940-1943)», ibid., 24 (1993): 901-948.
[116] « Il fascismo è troppo aderente alla storia per negare sic et simpliciter il socialismo, questo lievito sociale che colorisce la vita politica da tanti decenni: il fascismo anzi rivendica a suo grande titolo di merito l'aver risolto in sé le esigenze più vitali del movimento socialista, riconoscendo giuridicamente i sindacati e ponendo alla pari capitale e lavoro. Inutile quindi scandalizzarsi al solo nome del socialismo quando si ha fede in un regime che ha tanta forza da accogliere e inverare lo stesso socialismo. E non credo perciò che si renda un buon servigio al fascismo quando lo si contrappone in maniera affatto antitetica al bolscevismo, come il bene al male o la verità all'errore. Noi siamo oggi l'unica nazione che può giudicare con serenità la rivoluzione bolscevica, perché siamo l'unica nazione che ha già fatto suo e può, senza preconcetti o limiti estrinseci, continuare a far suo quanto di vivo e fecondo si trova nella grande esperienza russa.[...] Se oggi le energie in cui si esprime il nuovo orientamento politico sono fascismo e bolscevismo, è chiaro che il domani non sarà di uno di questi due regimi in quanto avrà negato l'altro, ma di quello dei due che avrà saputo incorporare e superare l'altro in una forma sempre più alta. E nulla può esservi di più pericoloso, ai fini di questo superamento, che l'insistere in un'astratta contrapposizione che svaluta il fascismo agli occhi dei simpatizzanti del movimento socialista e bolscevico, e insieme ingrandisce e innalza l'ideale bolscevico agli occhi di chi va in cerca del nuovo. Di fronte ai ribelli e agli scontenti, che dipingono il fascismo come reazione e che in tutta Europa guardano con aperto o con malcelato compiacimento agli eventi della Russia, e di fronte ai giovani, che, sempre protesi al futuro, sono in qualche modo accarezzati dal fascino di una esperienza più radicale, il fascismo ha il dovere di far sentire che esso rappresenta una forza costruttrice che va storicamente all'avanguardia e che si lascia alle spalle, dopo averli riassorbiti, socialismo e bolscevismo» (U. Spirito, «Individuo e Stato nell'economia corporativa», in Capitalismo e corporativismo, [Firenze: Sansoni, 1933], 3-15, 14-15).
[117] Per tutto questo cfr. De Felice, I rapporti tra fascismo e nazionalsocialismo, 97-150; Id., Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 418-467; Petersen, Hitler e Mussolini, 99-102, 112-114, 249-258.
[118] Ibid., 235-236 (per l'uscita della Germania dalla Società delle nazioni), 208 (per i commenti italiani alla legislazione nazista sul lavoro), 271-272 (per la Comune di Vienna). Su Bottai, Spirito e il 'corporativismo' tedesco, cfr. De Grand, Bottai, 171 e nota 132, ma soprattutto G. Parlato, «Ugo Spirito e il sindacalismo fascista (1932-1942)», in Aa.Vv., Il pensiero di Ugo Spirito (Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1988), 79-120, 89-92. L'art. di Spirito, «Il corporativismo nazionalsocialista» comparve su Critica fascista, 12 (1934): 117-120, seguìto da una postilla di Bottai, che cercava di dissipare l'impressione che esso comportasse un «qualche contrasto» col durissimo scritto di da Silva sul medesimo tema («Tra il capitalismo privato e lo statalismo», ibid., 73-75): questo era «informato a una valutazione essenzialmente politica, [e] non poteva non essere risolutamente negativo», quello, condotto «con metodo esegetico, non poteva esimersi dal mettere in rilievo tratti tecnicamente importanti della legge tedesca, quale, per esempio, l'assunzione dell'azienda a elemento costitutivo d'un ordinamento sociale ed economico nuovo», ma, sotto un riguardo politico, «le conclusioni cui perviene Spirito, sono [...] non meno negative di quelle di Da Silva». Il saggio di Spirito servì poi da introduzione a U. Spirito, Il corporativismo nazionalsocialista seguito dalla legge sull'ordinamento del lavoro nazionale del 24 gennaio 1934 (Firenze: Sansoni, 1934), primo volumetto della Biblioteca dell'«Archivio di studi corporativi», che Cantimori cita (PSC, 188 nota 39).
[119] D. Cantimori, rec. di G. Bortolotto, Fascismo e Nazionalsocialismo (Bologna, 1933), in Leonardo, 5 (1934): 368-369. Su quest'opera cfr. ora De Felice, I rapporti tra fascismo e nazionalsocialismo, 185. Non può esservi dubbio che Cantimori, coerentemente al suo idealismo e alla sua formazione mazziniana, abbia provato fin dall'inizio un sentimento di repulsione culturale e morale per l'antisemitismo razzista e si deve dunque credergli quando, nel 1961, affermava che «educato mazzianianamente, - non si era mai accorto che tanti compagni e amici di giuochi e di scuola fossero differenti da tutti gli altri» (Cantimori, Prefazione a De Felice, Storia degli ebrei italiani, XXX). Altro discorso concerne la valutazione data da lui sulla natura delle ideologie antisemite e sulla funzione da loro svolta nei movimenti politici contemporanei. Per la prima questione, è da notare che, mentre nel 1928 le elaborazioni razzistiche venivano sussunte nella categoria cantimoriana di 'cultura', dopo il 1935 vengono ridotte a mere ideologie, attinenti la sfera pratica, «che avranno a che fare con la politica e con la sociologia, ma non riguardano la vita intellettuale» (PSC, 313-314). La loro analisi è perciò compito dell'analista politico, che deve considerarle sulla base della logica che gli compete, quella dell'utilità politica. Ritenere un'abiezione naturalistica il «problema antropologico della razza» non esime dall'affrontare il «problema politico del razzismo»: «una analisi del sostrato psicologico e sociale di questi tipici miti di tante parti delle classi moderne dovrebbe esser possibile, e senza passione politica o religiosa immediatamente rivelantesi», anche perché lo sdegno non basta. «Per coloro - aggiunge - che credono di potersela cavare con lo scherno e con lo scandalo, bisognerà poi avvertire che questi metodi non hanno fatto buona prova in Germania» (PSC, 636). È tuttavia da notare che questi presupposti metodici, così lucidamente enunciati, stentano poi a calarsi nell'indagine storico-politica proprio del movimento e poi del regime nazionalsocialista. Nelle Note del 1934 e nei saggi successivi, l'antisemitismo e la mitologia razzistica del nazionalsocialismo vengono considerati peculiarità appariscenti, ma meno importanti di altre (i tratti socialnazionali, mistico-religiosi, etc.) più meritevoli - a suo giudizio - di approfondimento (PSC, 163 nota 1): com'è stato scritto, l'antisemitismo nazionalsocialista è per lui «il rigurgito di un passato oscuro ed oscurantistico, [...] un peccato contro la cultura messo in opera dal romanticismo fuori tempo massimo di teorici confusi e confusionari» (Bongiovanni, Cantimori, 35), ma l'attenzione di Cantimori - più che agli «stolti antisemiti» e ai «razzisti fanatici» - si rivolge ai 'reazionari' come Schmitt o ai 'socialisti nazionali' come gli Strasser, quasi che questi fossero gli elementi nuovi, il nocciolo duro, del nazismo, gli altri un tragico déjà vu nella tradizione secolare germanica. Da qui un'incompleta tematizzazione della «specificità antisemita del regime tedesco» (ibid.). Considerazioni analoghe fa anche Collotti, che constata come l'affermazione contenuta nella voce Germania: storia e problemi politici del Dizionario di politica del 1940, secondo cui le leggi Norimberga del 1935 «in gran parte si riducono al rinnovo delle interdizioni israelitiche» (PSC, 439) «non può non apparire fortemente riduttiva o, se si confronta con altri passaggi dello stesso scritto, dettata da eccessiva cautela» (Collotti, 815), mentre accenti diversi si trovano nella voce Nazionalsocialismo (PSC, 452-488).
[120] D. Cantimori, rec. a H. R. Knickerbocker, Ci sarà la guerra in Europa? (Milano, 1934), in Leonardo, 5 (1934): 468. Sull'atteggiamento dell'opinione pubblica italiana nei confronti della Germania nazista dopo l'assassinio di Dolfuss molte notizie (e spoglio dei giornali) in Petersen, Hitler e Mussolini, 323-324 e 549-550 nota 155, dove si rileva che l'atteggiamento assai cauto dei giornali italiani (e quindi del governo che li controllava) dopo i fatti del 30 giugno si tramutò in una tempesta di indignazione, definita dagli ambienti diplomatici tedeschi una «campagna d'odio concertata dall'alto», dopo quelli del 25 luglio '34. È sintomatico dei rapporti sempre più stretti dalla seconda metà del 1936 fra i regimi germanico e italiano e della 'cautela' con cui Cantimori dovette scrivere le voci 'tedesch' del Dizionario di politica il fatto che in quella dedicata al Nazionalsocialismo accenni appena all'assassinio di Dolfuss e all'«urto con le potenze occidentali» che ne derivò, tacendo completamente della grave tensione con l'Italia dell'estate 1934 (PSC, 464, 466).
[121] Cfr. soprattutto D. Cantimori, rec. a Romanesimo e Germanesimo (La crisi dell'Occidente), saggi di M. Bendiscioli et al. (Brescia 1933), in Leonardo, 5 (1934): 467, dove pesanti critiche vengono rivolte a diversi tratti della cultura tedesca.
[122] E. Codignola, Il rinnovamento spirituale dei giovani (Milano: Mondadori, 1933). Il libretto era stato commissionato a Codignola da Achille Starace, segretario del PNF, con lettera del 1° febbraio 1932 ed ebbe una fortuna particolare fra i testi della collana, tanto che se ne rese necessaria una seconda edizione nel 1938: cfr. R. Gori, «Gentilianesimo e fascismo nella biografia di Ernesto Codignola: alcune messe a punto», in Critica storica, 24 (1987): 203-286, 280-282, che accenna alla lettera di Starace e riporta il programma della collana «I panorami di vita fascista» (280-281 nota 93). Fa riferimento al volumetto e alla rec. di Cantimori G. Turi, «La 'coscienza storica' di Ernesto Codignola», introduzione a L'epistolario di Ernesto Codignola conservato nel Centro di studi pedagogici 'Ernesto e Maria Codignola' di Firenze, catalogo a cura di R. Gori (Firenze: Giunta regionale toscana-La nuova Italia, 1987), VII-XXIII, XXII-XXIII. Il libro di Codignola aveva attirato l'attenzione anche degli ambienti del fuoriuscitismo: era considerato «interessante per conoscere quello che vorrebbe essere paradossalmente un fascismo liberale, per il quale la soppressione della libertà di stampa, l'istituzione del tribunale speciale non sono che ombre passeggere del quadro» (Gianfranchi [F. Venturi], «Panorami di vita fascista», in Giustizia e libertà, Parigi, 3 agosto 1934, 3).
[123] Cantimori era ben consapevole delle limitazioni che il regime poneva alla libertà di stampa, di discussione, etc. : nel 1931 annotava però che «chi per l'età comincia ora ad interessarsi sul serio della vita politica e dei suoi problemi, non si sente affatto limitato nelle sue discussioni e nell'approfondimento delle sue indagini [dall'ordine fascista], chi vuol lavorare in qualsiasi senso lo fa, perché ormai quelle che per altri sono o sono state limitazioni, per loro sono presupposti, dati di fatto ormai, condizioni sulle quali ci si basa per proseguire» (PSC, 82), che mi pare una notazione da tenere sempre presente nel giudicare i suoi scritti di questi anni. Parlando dell'opera di Nello Quilici, Banca Romana (Milano: 1935), Cantimori avvertiva che «in tempi come il nostro di raccoglimento politico, nei quali la stampa quotidiana viene disciplinata dall'alto e severamente controllata, una attività pubblicistica autonoma e personale riesce meglio volgendosi al passato, riprendendo l'analisi della cronaca degli ultimi lustri», che può servire «a intendere la più recente storia politica del paese» (Leonardo, 7 [1936]: 267).
[124] Petersen, Hitler e Mussolini, 308-309, 543.
[125] Per l'atteggiamento di Bottai e Critica fascista e per le corrispondenze di da Silva, cfr. De Felice, I rapporti tra fascismo e nazionalsocialismo, 148-150; De Grand, Bottai, 170 e nota 129, 171-173; Malgeri, Bottai e «Critica fascista», LXXXIX; per Spirito, cfr. supra, nota 118; per gli ambienti del sindacalismo fascista, v. G. Parlato, Il sindacalismo fascista. II - Dalla 'grande crisi' alla caduta del regime (1930-1945), (Roma: Bonacci, 1989), 114 e nota 132; per Gentile, cfr. G. Sasso, «Gentile e il nazionalsocialismo. Appunti e documenti», in La cultura, 23 (1995): 5-22. Le corrispondenze di Mario da Silva mostrano un'evoluzione nel giudizio sul nazionalsocialismo, più benevolo nel 1932, negli ultimi mesi della repubblica di Weimar, assai duro per tutto il 1934. Concludendo le sue «Note sul nazionalsocialismo» (PSC, 191 nota 42) Cantimori cita quella del 15 novembre 1934 («Il Reich tedesco e la nazione germanica», in Critica fascista, 13 [1934-35]: 33-35), evidenziando una divergenza di giudizio sui fatti del 30 giugno 1934: mentre egli - come abbiamo visto - sottolinea il carattere 'reazionario' di quella svolta, da Silva negherebbe un'interruzione del processo rivoluzionario. Se però andiamo a leggere quella Lettera dalla Germania, possiamo cogliere il senso vero dell'analisi di da Silva: egli polemizza contro quanti si sono foggiati «della rivoluzione nazionalsocialista una immagine tutta di superficie e di apparenze esteriori, destinata, a ogni urto colla realtà, a rimettergli davanti al naso il problema tedesco come una equazione a infinite incognite, che poi, per comodo, si cerca di risolvere con un diversivo qualsiasi». Nell'àmbito dell'ideologia nazionalsocialista, costoro hanno dato risalto a elementi in qualche modo secondari, ignorando «quel che invece è l'essenza stessa del movimento hitleriano [...]: il razzismo pseudo-scientifico, pseudo-biologico», che «è la base fondamentale, originale (benché come nucleo d'idee superatissimo dagli sviluppi spirituali avuti nel nostro secolo dal concetto nazionale) e ineluttabile del movimento hitleriano, cui debbono riportarsi tutte le fila della odierna matassa tedesca, quando non se ne voglia perdere il bandolo» (34). Insomma, chi come Cantimori aveva rivolto la sua attenzione ai contenuti sociali di certo nazionalsocialismo, poteva giudicare come una svolta reazionaria la notte del 30 giugno, chi come da Silva riteneva che fosse il razzismo e l'antisemitismo il nucleo di tale ideologia, poteva credere che la 'rivoluzione' (dando a tale parole un valore neutro, di mutamento radicale e violento) andasse avanti. Su questa base gli era possibile prevedere il carattere sovvertitore dell'ordine europeo (e dello stato di diritto, all'interno della Germania) che il nazionalsocialismo avrebbe avuto.
[126] Sulla ricezione di Schmitt in Italia, cfr. G. Malgieri, «La recezione di Carl Schmitt in Italia», in Cahiers Vilfredo Pareto, nº 44 (1978): 181-186 (su Cantimori, 185); C. Galli, «Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica», in Materiali per una storia della cultura giuridica, 9 (1979): 81-160 (per Curcio e Lo Stato, 87-88; per il saggio di Löwith-Fiala, 88-92; per Cantimori, 93-96); I. Staff, Staatsdenken im Italien des 20. Jahrhunderts - Ein Beitrag zur Carl Schmitt-Rezeption (Baden-Baden: Nomos Verlagsgesellschaft, 1991), su Cantimori, 27-37.
[127] U. Fiala [K. Löwith], «Il 'Concetto della politica di Carlo Schmitt' e il problema della decisione», in Nuovi studi di diritto, economia e politica, 8 (1935): 58-83, già uscito in edizione tedesca nell'Internationale Zeitschrift für Theorie des Rechts, 9 (1935), n. 2., col titolo Politischer Dezisionismus. La traduzione di Der Begriff des Politischen in Il concetto della politica invece che del politico è stata rimproverata a Cantimori da Tommissen, «Schmitt et la polémologie», in Cahiers Vilfredo Pareto. Revue européenne des sciences sociales, nº 44 (1978): 141-170, 148 nota 19 (che si riferisce alla traduzione del saggio per i Principii politici del nazionalsocialismo) ma nel testo ricorre spesso anche il neutro 'il politico'.
[128] Per le origini e i primi anni dell'Istituto di studi germanici, la funzione di Gentile, l'operosità di Gabetti, Antoni e Cantimori, cfr. Chiarini, «Giovanni Gentile e l'Istituto italiano di studi germanici», in Giovanni Gentile. La filosofia, la politica, l'organizzazione della cultura (Venezia: Marsilio, 1995), 150-155.
[129] K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, trad. it. di E. Grillo (Milano: Il Saggiatore, 1988), 119. Non fu questa l'unica traduzione (anonima) che Cantimori fece di scritti di Löwith: scrivendo a Felice Balbo il 5 marzo 1949 a proposito del Da Hegel a Nietzsche, egli ricordava: «conosco l'autore, e ho tradotto io assieme all'autore stesso quelle parti del libro che sono state pubblicate sul 'Giornale Critico della Filosofia Italiana'» (PSC, 793), ove si riferiva evidentemente a K. Löwith, «La conchiusione della filosofia classica con Hegel e la sua dissoluzione in Marx e Kierkegaard», in Giornale critico della filosofia italiana, 16 (1935): 343-371, che - con tutta probabilità - è la versione italiana del saggio «sul rapporto di Marx e Kierkegaard con il compimento hegeliano della filosofia, che - ricorda Löwith - avevo scritto già a Marburgo e che conteneva le linee fondamentali del mio libro successivo sull'evoluzione tedesca 'da Hegel a Nietzsche' - scritto in Giappone - [e che] mi fu rispedito dalle 'Kantstudien' dopo un anno di attesa, con la motivazione che per 'ragioni tecniche' era impossibile stamparlo, come mi era stato promesso. Le ragioni tecniche naturalmente erano che Marx in Germania era tabù e l'autore non era ariano. Il redattore, in una pietosa lettera, mi chiedeva comprensione per una situazione difficile. Replicai che la mia era semmai ancor più difficile. Subito dopo il pover'uomo venne perfino allontanato dalla redazione. Non fu colpa sua dunque se la promessa fatta nel 1934, un anno dopo non aveva potuto mantenerla» (Löwith, La mia vita, 141-142). È comunque significativo che questo saggio trovasse ospitalità nella traduzione di Cantimori - nei primi mesi del '36 - sulla rivista di Gentile e in francese sulle Recherches philosophiques, la rivista di Alexandre Koyrè, 4 (1934-35): 232-267.
[130] A. Volpicelli, «I principii politici del nazionalsocialismo secondo C. Schmitt», in Nuovi studi di diritto, economia e politica, 8 (1935). 84-87. Con argomenti analoghi, ma forse con durezza ancora maggiore, criticava i presupposti del pensiero schmittiano un altro gentiliano, Felice Battaglia, recensendo proprio i Principii politici del nazionalsocialismo curati da Cantimori: F. Battaglia, «Stato, politica e diritto secondo Carlo Schmitt», in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 16 (1936): 419-423: «Sia detto con tutto il riguardo al convincimento dell'autore che noi non riteniamo l'elemento razza possa introdurre un elemento di oggettività nella valutazione giuridica e tanto meno possa sostituire l'oggettività della legge che egli ritiene perduta. Ci sembra piuttosto gravemente sintomatico che un popolo di alta tradizione giuridica come il tedesco si affianchi al bolscevismo russo, il quale anche ha perduto il senso oggettivo della legge, ritenendo che ogni diritto soggettivo, anche se espressamente derivante dalla norma, abbia efficacia solo in conformità al c.d. scopo rivoluzionario, lasciando tale valutazione al giudice rivoluzionario. Il vero è che, perduta la vera nozione del diritto, che è e sempre è stato posizione di oggettivi permanenti valori nella disciplina della vita, venuta meno la fiducia nella legge in sé e per sé, nulla può sostituirsi come efficiente direttiva umana [...] E se il diritto e la legge di un popolo è già saldo criterio di retto giudizio, senza il ricorso ad elementi personalistici e razzistici, il diritto e la legge dell'uomo in assoluto è controllo, esigenza di più profonda giustizia. È il caso di ricordarli tra tanti turbamenti, poiché così vuole non solo una coerente dottrina, ma altresì insegna la sana tradizione italiana, cristiana e latina» (423).
[131] G. Sasso, «Leo Naphta e Hugo Fiala», in La cultura, 12 (1974): 100-112, ora in Id., Il guardiano della storiografia, 283-299, seguìto da una Postilla (299-302).
[132] Id., «Ancora su Leo Naphta e Hugo Fiala», in La cultura, 30 (1992): 119-124, 121, dove si tornava sull'argomento prendendo spunto da un'osservazione di I. Cervelli (Studi storici, 30 [1989], 61 nota 10).
[133] Cantimori, «Carlo Antoni», 177. La Mangoni riporta larghe citazioni da «una recensione, rimasta inedita, al volume postumo di Carlo Antoni Gratitudine» esistente nel fondo Cantimori alla Scuola Normale di Pisa (Mangoni, XXXIX note 109 e 110): quei brani si ritrovano, tuttavia, pressoché identici nel succitato necrologio, che si presenta proprio come una recensione a Gratitudine, inserita dalla direzione della Nuova rivista storica nella rubrica «I nostri morti». Viene da chiedersi se quella recensione sia veramente inedita o, almeno, in quali rapporti sia col testo pubblicato.
[134] Cantimori, Prefazione, XXXI.
[135] Cit. in Petersen, Hitler e Mussolini, 38-39.
[136] Un'analisi esemplare ne traccia N. Matteucci, «Liberalismo», in Enciclopedia del Novecento, vol. VIII (Supplemento), (Roma: Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1989), 559-572.
[137] D. Cantimori, rec. ad A. Thibaudet, Les idées politiques de la France (Paris, 1932), in Leonardo, 4 (1932): 220-221, 221.
[138] Leonardo, 7 (1936): 267-269, 267.
[139] Id., rec. a N. M. Butler, Points de vue, II: Centre européen de la Dotation Carnegie. Publications de la conciliation internationale (Paris, 1934), in Leonardo, 7 (1936): 383. Sull'anti-americanismo culturale e politico di Cantimori ha insistito Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 154-155, 188-189 e passim. Sui dibattiti attorno a Tocqueville in quel periodo, cfr. Pertici, «Giorgio Candeloro», 88-95.
[140] Sul liberalismo come forma possibile di «fariseismo», cfr. Cantimori, rec. Thibaudet, 47. Sulla Kulturkritik di Nietzsche e di Marx molto importante è la rec. del 1933 a H. Fischer; Nietzsche Apostata, oder die Philosophie des Aergernisses (Erfurt, 1933), ora in PSC, 154-159. Su Fischer, giovane intellettuale Nationalrevolutionär, notizie in M. Montinari, «Delio Cantimori e Nietzsche», in Storia e storiografia. Studi su Delio Cantimori, atti del convegno tenuto a Russi (Ravenna) il 7-8 ottobre 1978, a cura di B. V. Bandini (Roma: Editori Riuniti, 1979), 128-151, 138-141, ma tutto questo saggio è importante per notizie e considerazioni.
[141] D. Cantimori, rec. a N. Cuneo, Spagna cattolica e rivoluzionaria (Milano, 1934), in Leonardo, 5 (1934): 468. Anche nel '37, Cantimori insiste sulla «cultura e formazione tedesca» di Ortega (PSC, 637) facendo evidentemente riferimento ai suoi studi a Lipsia, Berlino e Marburgo fra il 1905 e il 1907, per «inghiottire», «divorare» (come ebbe a esprimersi ripetutamente) la cultura tedesca.
[142] L. Volpicelli, «Libri sulla 'crisi'», in Civiltà fascista, 5 (1938): 560-566, 564. Oltre al testo di Huizinga, nella traduzione einaudiana del 1937 curata da Barbara Allason, Luigi Volpicelli prendeva in esame Daniel-Rops, Quel che muore e quel che nasce (Brescia, 1937), A. Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa (Bari, 1937), U. Spirito, La vita come ricerca (Firenze, 1937).
[143] ag.[ostino] n.[asti], «La crisi della civiltà», in Critica fascista, 16 (1937-38): 174. «Secondo questa diagnosi - scrive Nasti - la civiltà umana è in pericolo, anzi è certamente sull'orlo dell'abisso perché gli uomini non considerano più al primo posto i fattori spirituali della vita e la cultura. A questo punto il lettore ha già bell'e capito. E difatti, a poco a poco, l'A. vuota il sacco. [...] Ma l'A. alla fine dice di essere un professore, e allora si capisce tutto. Siamo di fronte all'ennesimo caso di un sacerdote della cultura, il quale, vede tutto l'universo, e la realtà, e la vita, in termini di cultura; per cui se vede in giro qualche teoria che non quadra perfettamente con tutta la sua formazione mentale crede già di vedere oscurarsi il cielo e di sentir tremare la terra di terribili brividi. Ma no, professore, tranquillizzatevi. Voi ce l'avete coi regimi totalitari, particolarmente col nazismo (una delle cose che vi fanno sorridere di compatimento è il razzismo) e con certe dottrine professate in Germania per sistemare teoricamente il regime nazista. Ebbene, non temete per la cultura e lo spirito. La vostra cultura è superata, non la cultura. E pensate alla salute, ché tutto s'accomoda. E la civiltà non perirà. Tutt'al più cambierà di tono e di sapore. Che c'è di male?». Per altre recensioni alla traduzione italiana, cfr. G. Turi, «I limiti del consenso: le origini della casa editrice Einaudi», in Id., Il fascismo e il consenso degli intellettuali (Bologna: Il Mulino, 1980), 193-375, 264-267.
[144] A. Momigliano, «L'Agonale di J. Burckhardt e l'Homo ludens di J. Huizinga» (1974), in Id., Sui fondamenti della storia antica, 410-414, 412. Molte fondate obiezioni alle critiche cantimoriane del 1936 e del 1962 sono in O. Capitani, Introduzione a J. Huizinga, La mia via alla storia e altri saggi (Bari: Laterza, 1967), V-LI, V-VI, XLV-XLVI.
[145] Sono omessi i riferimenti alla «rivoluzione sociale che in Europa si va compiendo» e all'irritazione che il libro suscita necessariamente nel «lettore di un paese così impegnato nella lotta politica e sociale di oggi come questa nostra Italia»: lo aveva già notato Turi, «I limiti del consenso», 266, a giudizio del quale Cantimori era allora «forse già 'semi-marxista' - come si dichiarerà più tardi -, ma comunque attivamente impegnato nella difesa degli orientamenti politici del regime» (265).
[146] Cordié, «L'alunno perfezionando», III, 62 e 64-65.
[147] Croce, Lettere a Vittorio Enzo Alfieri, 65, 68-69, 73.
[148] Id., «Galeazzo Caracciolo marchese di Vico», in Vite di avventure di fede e di passione, a cura di G. Galasso (Milano: Adelphi, 1989), 228, 230, 225-226, 265. La «Nota del curatore» dà le notizie sulla composizione del Caracciolo (450-451) che abbiamo richiamate nel testo. La prima edizione di quest'opera uscì presso Laterza ai primi del 1936, ma con la data 1935.
[149] D. Cantimori, «Prefazione del traduttore», in F. Church, I riformatori italiani (Milano: Il Saggiatore, 1967), 15-30, 22-24. La prima edizione italiana dell'opera apparve nel 1935, presso la Nuova Italia editrice di Firenze.
[150] B. Croce, rec. a F. Church, I riformatori italiani (Firenze, 1935), in La Critica, 33 (1935): 223-224, poi in Pagine sparse, III, 482-485, 485. La replica conclusiva di Cantimori è in «Recenti studi intorno alla Riforma in Italia e ai Riformatori italiani all'estero (1924-1934)», in Rivista storica italiana, 53 (1936), fasc. I: 83-110 (Storici, 463-494, 480-481).
[151] G. Sasso, «Federico Chabod, la storia del pensiero, la storia delle idee», in Il guardiano della storiografia, 176-177. Su questa analisi di Sasso cfr. anche Belardelli, 393.
[152] D. Cantimori, rec. ad A. Corsano, Umanesimo e religione in G. B. Vico (Bari, 1935), in Giornale critico della filosofia italiana, 16 (1935): 91-94, 94.
[153] Cantimori, «Il caso del Boscoli», 255; Id. «Bernardino Ochino», 35.
[154] Id., «I Riformati italiani», in La nuova Italia, 3 (1932): 333-342, 342, ma anche 334.
[155] L. Perini, «Gioacchino Volpe e Delio Cantimori», in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere, storia e filosofia, s. II, vol. XXXVII (1968): 241-248, 246.
[156] Id., «Prefazione del traduttore», 25-26.
[157] «Al grande giurista piemontese quel che stava veramente a cuore erano non le idee di quel Matteo Gribaldi Mofa o di quel Francesco Stancaro che così mirabilmente studiava, ma la loro ostinata e intransigente difesa della libertà di pensare e di ricercare; e per le idee di quegli uomini il laico e liberale Ruffini provava un rispetto talora un po' freddo, non scevro di un'affettuosa ironia.[...] Per lui la battaglia animosamente combattuta dagli emigrati italiani del '500 era una battaglia per la libertà, il cui contenuto specifico era un po' astruso e magari puntiglioso; a Cantimori invece proprio quel contenuto interessava, e il suo naturale rivestirsi dell'idea di libertà religiosa» (Berengo, «La ricerca storica di Delio Cantimori», 925-926).
[158] Croce, «Galeazzo Caracciolo», 271-272; Id. , «Francesco Ruffini», in Pagine sparse, II, 96-98.
[159] Id., «Galeazzo Caracciolo», 228.
[160] D. Cantimori, «Umanesimo e Riforma», in Id., Umanesimo e religione nel Rinascimento (Torino: Einaudi, 1975), 142-157. Anche questa era una ripresa di espliciti giudizi gentiliani: v., per esempio, Gentile, «Il carattere dell'Umanesimo e del Rinascimento», in Giordano Bruno, 264.
[161] Id. , «Riforma», in Dizionario di politica, a cura del Partito Nazionale Fascista (Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana, XVIII [1940]), vol. IV, 53-57, 56.
[162] Id., «Calvinismo», ibid., I, 365-368, 367.
[163] M. Ciliberto, «Cantimori e gli eretici. Filosofia, storiografia e politica tra gli anni venti e gli anni trenta», in Storia e storiografia, 152-193, 177, in polemica contro quanti «hanno visto nell'interesse per gli eretici, fin dall'inizio, il segno - e l'effetto - d'una scelta politica orientata in senso antifascista».
[164] Su questo aspetto aveva già ben visto Miccoli, Delio Cantimori, 180-185, correggendo l'analisi di Walter Maturi.
[165] Cantimori, Utopisti e riformatori, 17-19.
[166] Berengo, «La ricerca storica di Delio Cantimori», 933.
[167] Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 51, ma cfr. anche 75-81, 133-136, 250-255.
[168] Kaegi, «Ricordo di Delio Cantimori», 891.
[169] B. Mussolini, Opera omnia, XXVI, 355-359. Per il discorso del 6 ottobre 1934, cfr. L. Salvatorelli e G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, nuova edizione (Torino: Einaudi, 1964), 583-585.
[170] Miccoli, Delio Cantimori, 154-159; Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 63-66. Sono note le importanti indicazioni ermeneutiche sulla figura di Mussolini, che da queste pagine di Cantimori hanno ricavato R. De Felice, Mussolini il fascista, II - L'organizzazione dello Stato fascista 1925-1929 (Torino: Einaudi, 1968), 358-359 e A. Del Noce, «Appunti per una definizione storica del fascismo», in Id., L'epoca della secolarizzazione (Milano: Giuffrè, 1970), 113-135, 122-123.
[171] Ancora più esplicita è l'analisi di Cantimori nella successiva recensione dell'estate 1936 ai discosi mussoliniani del 1934-35: «Anno delle corporazioni dunque e del problema sociale il XII [1934]: anno di guerra e di politica estera il XIII [1935], che comincia con gli accordi fra Italia e Francia e continua, 'anno cruciale', con quella che è in primavera la 'vertenza Italo-Etiopica', per terminare col discorso della mobilitazione del 2 ottobre. (Perché lo si chiama discorso della mobilitazione, mentre è ormai in bocca al popolo 'Discorso dell'adunata'?). Quanta differenza, penserebbe qualcuno, fra la 'più alta giustizia sociale' e l'anno della guerra, il grido 'Italia proletaria e fascista, in piedi!'. Ma questo qualcuno si sbaglierebbe. Non c'è soluzione di continuità fra i due anni, e fra gli scritti e i discorsi delle due parti, anche a voler prescindere dalle parole 'grido di giustizia' che stanno a termine di discorso del 2 ottobre.[...] la giustizia sociale diventando giustizia per il popolo italiano e per la Nazione italiana diventa un problema di politica internazionale, da risolversi con le armi e con la disciplina militare di quel popolo, di quella Nazione stessi» (PSC, 606-607).
[172] Simoncelli insiste molto sulle «tendenze crociane» che avrebbero caratterizzato la cultura di Russo, nonostante le quali Gentile lo avrebbe protetto e garantito nella carriera accademica, etc. Ora la più recente letteratura critica (si veda G. Turi, «Luigi Russo, la fortuna di Gentile e il fascismo», in Belfagor, 47 [1992]: 1-29, ma già prima A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per un'interpretazione filosofica della storia contemporanea, [Bologna: Il Mulino, 1990], 135, e M. Mirri, «Fra Vicenza e Pisa: esperienze morali, intellettuali e politiche di giovani negli anni Quaranta», in Il contributo dell'università di Pisa e della Scuola Normale Superiore alla lotta antifascista ed alla guerra di liberazione, atti del Convegno 24/25 aprile 1985, [Pisa: Giardini, 1989], 267-402, 361-365) ha invece posto in luce il profondo influsso esercitato negli anni post-bellici da Gentile su Russo, non solo nel campo della critica letteraria, ma nella più ampia concezione della storia d'Italia, nella delineazione del ruolo dell'intellettuale (il tema del 'tramonto del letterato'), nella 'vera religione' che sarebbe, per i suoi 'militi', la filosofia idealistica, per i temi della riforma della scuola, etc. Se non lo avesse sentito come 'uomo suo', si pensa veramente che Gentile avrebbe affidato a Russo la delicatissima direzione del Leonardo? o avrebbe contribuito alla sua sistemazione in un ambiente tutto gentiliano come l'Istituto superiore di Magistero di Firenze, diretto da Codignola? Lo stesso Turi mostra come progressivamente, negli anni della direzione del Leonardo, le loro posizioni si siano divaricate fino alla crisi del 1929-1930, che segna un grave allentamento del loro rapporto; ma bisogna aggiungere che Gentile fu molto abile a ricucire lo strappo e a ricuperare Russo, facendolo chiamare a Pisa, dove succedette nell'autunno del '34 ad Attilio Momigliano, e poi coinvolgendolo anche nel lavoro seminariale in Normale, fino a patrocinare nel 1937 il passaggio a Roma, bloccato - sembra - da un intervento dello stesso Mussolini. Per quanto riguarda le posizioni più schiettamente politiche, Russo, fino alla fine del 1929, finché cioé mantiene la direzione del Leonardo, è impegnato in una battaglia 'interna' al fascismo: partecipa al convegno degli intellettuali fascisti di Bologna del marzo 1925, da cui uscirà il manifesto gentiliano del 21 aprile, non firma ovviamente il manifesto Croce. In un documento che lo stesso Simoncelli ci fa conoscere (la lettera di Cantimori a Giovannino Gentile del 17 dicembre 1927) risulta che fra le Notabilitäten fasciste che il giovane normalista ha indicato a un gruppo giovanile berlinese per una serie di conferenze e di contatti, accanto a Giovanni e Federico Gentile, Saitta, Licitra, Spirito, Volpicelli, c'è anche Luigi Russo (Simoncelli, Cantimori, 19). In quegli anni Russo mantenne rapporti stretti anche con Croce e Omodeo e operò perché, fra le due anime dell'idealismo, potesse continuare un dialogo o per lo meno fosse possibile una lotta comune contro i comuni nemici, che poi eran quelli che - all'interno del fascismo - minacciavano le posizioni gentiliane. Fu probabilmente la pubblicazione della crociana Storia d'Italia, con le polemiche asperrime che ne seguirono, a rendere impossibile la continuazione di tale politica. La perdita della direzione del Leonardo, la fondazione della Nuova Italia, una rivista spostata nettamente su posizioni crociane e politicamente eterodosse, la fine traumatica della sua direzione nel luglio del 1931 segnarono, anche politicamente, l'esperienza di Russo. Ma è interessante rilevare come quelle polemiche fortissime, che interessarono intellettuali e giornali, passarono praticamente inosservate per le autorità di polizia, che si allertarono sul conto di Russo solo nel 1934, allorché una sua innocua lettera a Croce da Chamonix, dove villeggiava, fu - come cominciava ad avvenire regolarmente per la corrispondenza del filosofo, e qui si dovette avere l'aggravante che proveniva dall'estero - intercettata, aperta, letta dalla prefettura di Napoli e si chiesero informazioni sul mittente: il 14 novembre di quell'anno, il prefetto di Firenze ne dava di rassicuranti sul conto del professore, che nel frattempo era stato chiamato a Pisa e, probabilmente in vista di tale passaggio, aveva chiesto e ottenuto la tessera del N.F. nella nativa Delia, nel luglio 1933, visto che gli era stata rifiutata dal Fascio fiorentino (ibid., 45-51). È così significativo che, nonostante il carattere aperto e non ortodosso del suo insegnamento pisano, non abbia avuto più fastidi dalla polizia fino al 1942, quando, cioè, fu scoperta la rete liberalsocialista.
[173] A. Omodeo, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti (Bari: Laterza, 1934), 211. Ho insistito su questo aspetto in Pertici, «Preistoria di Adolfo Omodeo», 514, 572-584.
[174] Si vedano i pareri editoriali degli anni 1934-1939 per Federico Gentile in PSC, 783-786 e Pedullà, Il mercato delle idee, passim. Nella collana inaugurata da Giovanni Gentile nel 1936 «La civiltà europea» Cantimori avrebbe dovuto curare il volume dedicato alla Riforma (ibid., 198 nota 13).
[175] Ibid., 339 nota 113.
[176] E. Sestan, «Cantimori e i giacobini» (1968), in Id., Storiografia dell'Otto e Novecento, a cura di G. Pinto, (Firenze: Le Lettere, 1991), 495-503, 497, 499.
[177] Turi, Giovanni Gentile, 462.
[178] Nel 1929 si presta un'attenzione assai critica verso il ruolo svolto dalla Societa delle Nazioni e verso le proposte europeiste di Coudenhove-Kalergi e di Briand: Il Doganiere [G. Casini], «Giorgio Sorel e la Società delle Nazioni»; Id., «Dante precursore di Pan-Europa»; U. Nani, «Paneuropa», in Critica fascista, 7 (1929): 55, 338, 355-357, che sembra trasformarsi nel 1930 nella proposta di utilizzare le istituzioni ginevrine come cassa di risonanza per le idee corporative italiane, soluzione della crisi mondiale: Critica fascista, «L'asse dell'Europa» (adesione entusiastica alla politica estera di Grandi); Id., «Verso l'Europa»; C. E. Ferri, «L'unità dell'Europa»; Critica fascista, «Occhio a Ginevra!», ibid., 8 (1930): 181-182, 301-302, 343-344, 421-422. La polemica contro le forze reazionarie europee, la difesa della natura rivoluzionaria del fascismo, l'attenzione per il bolscevismo sono motivi ricorrenti: Il Doganiere [G. Casini],«Attenti alle contraffazioni!» («è lecito far paragoni fra i vari movimenti reazionari d'Europa e il Fascismo? [...] chi istituisce paralleli simili dimostra di non aver capito nulla del Fascismo [...] Tutte le somiglianze, le coincidenze, le aspirazioni sono puramente esteriori, ma la sostanza più intima è grandemente, profondamente diversa, e si riassume in quel semplice contrasto di parole che può essere rivoluzione-reazione»), ibid., 7 (1929): 438-439; Il Doganiere [G. Casini], «Loro, reazionari»; B. Spampanato, «Equazione rivoluzionaria: dal bolscevismo al fascismo»; A. Nasti, «A proposito di fascismo europeo», ibid., 8 (1930): 111, 152-154, 205-206; A. Mario, «Parole chiare sul 'Primoriverismo'» (rappresenta «una semplice e transitoria manifestazione reazionaria, a base militaristica, delle classi borghesi spagnole»), ibid., 9 (1931): 172-174. La polemica contro Evola: Il Doganiere [G. Casini], «Un profeta in mutande»; Id., «Il profeta senza mutande»; contro Fanelli: S. M. Cutelli, «La monarchia fascista», ibid., 8 (1930): 70-71, 111, 173-176. Su Gentile: A. Bertelé, «La dottrina fascista di Giovanni Gentile» (sostiene che l'attualismo non può considerarsi l'unica interpretazione ideale del fascismo); A. Nasti, «Giovanni Gentile» (adesione entusiastica), ibid., 134-135, 159; Id., «Gentile e il fascismo», ibid., 9 (1931): 404-405. Un' interessante summa di questi contenuti ideologici si trova in G. Bottai, Vent'anni e un giorno (Milano: Garzanti, 1949, 19772 da cui si cita), specie nei capitoli dedicati al corporativismo, ai rapporti col fascismo internazionale e alla «abdicazione ideologica» del fascismo «nelle mani del Nazismo» (45-72). Alcune pagine di questo libro (60-62), in cui Bottai rievoca il suo tentativo, condotto con «un metodo rigorosamente scientifico», di individuare «nell'essenza d'orientamenti sociali ed economici degli Stati moderni [...] quello che fu chiamato il 'fascismo involontario' [...] mettendo in luce connessioni e rapporti dottrinari e giuridici, dimostranti a piacere o la democraticità del Fascismo o la fascisticità delle democrazie» possono risultare utili nell'intendere meglio alcune delle pagine più discusse (probabilmente perché sovraccaricate di significato) di Cantimori nel 1937-38, quelle concernenti R. Bonnard, Le droit et l'État dans la doctrine Nationale-Socialiste (Paris, 1936), ora in PSC, 353-354, 389-390, che individuava nelle tendenze anti-individualistiche e potenzialmente autoritarie delle democrazie rappresentative moderne (Stati Uniti, Francia) un trait d'union con le esperienze nazista e fascista: le differenze che intercorrono fra esse sarebbero più di grado, di quantità, che di qualità. Nel '37 Cantimori afferma che tale conclusione «potrà sembrare paradossale, e non lo è» (PSC, 354) e sembrerebbe dunque in linea anche con le suddette posizioni di Bottai; nel '38 corregge il tiro e dichiara che questo accostamento pecca di «astrattezza dottrinaria, in quanto trascura le differenze storiche fra la Germania post-bellica e i paesi a ordinamento 'democratico'» (PSC, 390). Tornando sul medesimo volume nel 1947 (Studi, 625-626), sviluppa questa osservazione e associa la tesi di Bonnard alla critica liberale-conservatrice alla democrazia, mostrando quindi di credere che i parallelismi svolti fra democrazie e stati autoritari fossero stati compiuti ad deterrendum.
[179] Barbera- Campioni, «Dalla filosofia alla storiografia», 81.
[180] Il secolo fascista, la rivista diretta da Giuseppe Attilio Fanelli, uscì dal 15 maggio 1931 al giugno 1935, sosteneva un fascismo di 'destra', tradizionalista e monarchico: su Fanelli, il suo gruppo e le loro tesi corporative, cfr. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, ad nomen e soprattutto F. Perfetti, «Ugo Spirito e la concezione della 'corporazione proprietaria' al convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara», in Critica storica, 25 (1988): 202-243, 214, 222-223. Contro Alberto Pirelli, Cantimori poteva aver letto l'articolo polemico «Il corporativismo di Pirelli», in Critica fascista, 13 (1934-35): 8, in cui si dichiarava che la sintesi fra iniziativa privata e intervento disciplinatore dello Stato era da lui concepito «come l'eclettismo della vecchia politica liberale, alla quale il Pirelli la riporta, nonostante l'asserita genialità e originalità del Fascismo»: «Queste brevi considerazioni - continuava la rivista di Bottai - vogliono avere il solo scopo di chiarire, alla luce d'un documento fondamentale, l'attuale forma mentis dei vecchi ceti industriali italiani. Accanto a una adesione formale, o puramente sentimentale, bisogna riconoscere una sostanziale incomprensione. Nonostante l'ingegno e l'esperienza di grande industriale, oggi il Pirelli è in fondo un ingenuo: un ingenuo che plaude di cuore senza accorgersi di quello che avviene. Il regime capitalistico crolla ed egli entusiasticamente guarda al lavoro come a futuro soggetto dell'economia, ma poi, alla resa dei conti, tutto fila nella sua mente come se il domani dovesse ripetere l'ieri.[...] non possiamo più fare assegnamento su uomini che, per quanto benemeriti e tuttora utili in specifici campi d'azione, non possono trovar posto nelle supreme gerarchie, cui è commesso il compito di guidare il cammino della Rivoluzione. [...] per costituire le nuove gerarchie [il fascismo] deve puntare sugli uomini nuovi, intimamente persuasi che il corporativismo segna il trapasso da una fase di civiltà ad un'altra fase».
[181] A. M. Ratti a U. Spirito, 19 novembre 1936 (Fondazione Ugo Spirito, Roma: Carteggio Ugo Spirito, n° 01205).
[182] Gli articoli di Spirito comparvero soprattutto su i Nuovi studi e su Critica fascista, che rimase aperta alla sua collaborazione, nonostante il dissenso nei suoi confronti espresso da Bottai a Ferrara, e sono raccolti nel già cit. Corporativismo e capitalismo. La nota gentiliana «Individuo e Stato», contro la 'corporazione proprietaria' teorizzata dal discepolo, comparve nel Giornale critico della filosofia italiana, 13 (1932): 313-315, e nel numero d'agosto di Educazione fascista. La si può leggere in U. Spirito, Giovanni Gentile (Firenze: Sansoni, 1969), 293-297. Su tutto questo dibattito cfr. Perfetti, «Ugo Spirito e la concezione della 'corporazione proprietaria'», 217-227.
[183] Rigola sostenne che il vero trionfatore del convegno ferrarese era stato Gino Olivetti quando aveva affermato che il fondamento del corporativismo andava rintracciato nei due principi cardinali della proprietà individuale e dell'iniziativa privata (cfr. Perfetti, «Ugo Spirito», 222-223), ma aveva anche aggiunto: «la relazione Spirito ha provocato una chiara rivelazione dei diversi orientamenti dei convenuti; tanto che tuttora continuano gli echi di quel dibattito. Fra la interpretazione finalistica del prof. Spirito che conduceva alla 'corporazione proprietaria' e la interpretazione statica di taluni suoi contradditori per i quali 'proprietà ed iniziativa privata' sono colonne d'Ercole insuperabili (alle quali anzi l'ordinamento corporativo dovrebbe fare buona guardia), il discorso conclusivo dell'on. Bottai ha segnato una interpretazione progressiva che non chiude nessuna porta sull'avvenire. Nel suo discorso sono apparsi sereni riconoscimenti sul 'valore storico del socialismo' e sulla 'realtà della lotta di classe'', che non si sentono di frequente in assemblee di studiosi fascisti; e che debbono aver prodotto un senso di stupore in certo ambiente imprenditorio, agrario e industriale [...]. I dirigenti sindacali presenti al convegno non si sono distinti come propugnatori di tendenze molto dinamiche, e neppure gli esponenti delle confederazioni sindacali lavoratori. Dal che si dovrebbe dedurre che i milioni di lavoratori da essi rappresentati negli organi dell'ordinamento corporativo e dello Stato corporativo, sono perfettamente rassegnati alla perpetuazione del salariato e sono paghi di quel tanto che in regime capitalistico, corporativisticamente vigilato, può loro essere dato come migliore trattamento contrattuale ed assistenziale. Proprio queste sono le aspirazioni delle masse lavoratrici italiane?» («Gli studi sindacali corporativi al convegno di Ferrara», in I Problemi del Lavoro, 1° giugno 1932, 20).
[184] G. Gentile, «La politica sociale del Regime», in Politica sociale, 4 (1932): 533-538, 537. Si deve tuttavia aggiungere che, se questo passo del '55 ci dà questo elemento prezioso, è tuttavia anche alquanto confuso (cosa non rarissima nei ricordi cantimoriani): non so se Politica sociale possa definirsi «rivista degli industriali» (era anch'essa una pubblicazione di ambito bottaiano, diretta da uno studioso di diritto del lavoro, membro del Consiglio nazionale delle Corporazioni, che aveva ricoperto incarichi sindacali ed espresso su Gerarchia le sue riserve sulle tesi di Spirito: Perfetti, «Ugo Spirito», 219-220), non si tratta di una nota brevissima ma di un brevissimo riferimento in un articolo dedicato ad altro argomento; soprattutto c'è un evidente scambio di contenuto fra lo scritto di Politica sociale e la nota Individuo e stato, questo sì teso a negare ogni nesso diretto fra l'attualismo e la teoria della 'corporazione proprietaria' e quindi a difendere gli attualisti dalle accuse che - pretestuosamente, a detta di Gentile - da ogni parte venivano loro scagliate. Su tali accuse di 'bolscevismo' rivolte ad alcuni ambienti gentiliani, cfr. Turi, Giovanni Gentile, 467, 470.
[185] A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario (Torino: Einaudi, 1965), 201. Per la storiografia successiva, cfr. Perfetti, «Ugo Spirito», 242 nota 59, e Parlato, «Ugo Spirito e il sindacalismo fascista», 118-120: entrambi insistono sul carattere 'tecnocratico', più che 'sociale' o 'collettivistico', del pensiero di Spirito di questi anni.
[186] Cantimori, «Prefazione» a De Felice, Storia degli ebrei italiani, XXVIII. Sull'atteggiamento del partito comunista, cfr. Spriano, Storia del Partito comunista italiano - III. I fronti popolari, Stalin, la guerra (Torino: Einaudi, 1970), 95-112.
[187] U. Spirito, Memorie di un incosciente (Milano: Rusconi, 1977), 69.
[188] Si vedano le voci «Capitalismo. La crisi del capitalismo» ed «Economia programmatica» dell'Appendice del 1938 dell'Enciclopedia italiana (355-356, 536-538), sintesi particolarmente efficaci delle posizioni di Spirito degli anni precedenti.
[189] Pedullà, Il mercato delle idee, 78-82. Le collane erano: la Biblioteca dell'«Archivio di studi corporativi», cinque volumi dal 1934 al 1936; i Classici del liberalismo e del socialismo diretti da Spirito e Volpicelli, di cui uscirono solo Le carte dei diritti. Dalla «Magna Charta» alla «Carta del Lavoro», a cura di Felice Battaglia e I liberali italiani dopo il 1860, curatore Francesco Piccolo, entrambi nel 1934; le Pubblicazioni della Scuola di scienze corporative dell'Università di Pisa, nelle due serie di Studi (otto volumi, 1933-1940) e Documenti (tre volumi, 1934-1936).
[190] Nell'interesse simpatetico per il Plan di De Man, Cantimori si differenziava dai corporativisti pisani e da Critica fascista, che invece ne dettero un giudizio assai critico: oltre al saggio di Spirito che precedeva la traduzione cantimoriana, cfr. almeno G. De Luca, «Vero e falso corporativismo europeo», in Critica fascista, 12 (1934): 36 e, più moderato nella critica, A. Anselmi, «Il 'piano' di Enrico De Man», ibid., 127-129. L'interesse per il socialista belga doveva essere di lunga data e legato anche a motivi non esclusivamente politici: in una lettera a Capitini della fine del 1932, Cantimori scriveva: «A rifletterci penso di essere nettamente storicista, come dice Baglietto. Mi è difficile pensare, per es., ad un modo di pregare diverso dall'elevazione della mente alla considerazione della maestà del mondo - o della provvidenzialità della storia, o all'amore per gli umili e per i diversi da noi - o al senso delle nostre responsabilità di fronte al tutto dell'universo. Tu ricorderai che per un certo tempo [...] pregavo oralmente tutte le mattine e tutte le sere, con il Pater e l'Ave. Ti ricordi forse anche che a Perugia [...], riflettendo sui risultati dei miei pensieri e della lettura del De Man, abbandonai quella forma di religiosità. Ti confesso che la sentii sempre estranea al mio modo di essere e di pensare» (Ciliberto, «Cantimori e gli eretici», 179). Sembra, dunque, che la lettura di De Man (forse di Au-delà du marxisme del 1927) - molto probabilmente nel 1929, durante l'insegnamento perugino di Cantimori - lo abbia liberato da forme non autentiche di religiosità e lo abbia confermato in un atteggiamento immanentistico, non per questo meno venato di elementi religiosi: è dunque il primato dello spirituale, il valore attribuito dal socialista belga ai valori etici e religiosi che attira primamente Cantimori. Il 19 agosto 1930 egli trovava «bellissimo e importantissimo» il saggio di De Man, «Arbeiterbewegung und bürgerliche Kultur», in Europäische Revue, 6 (1930): 553-567, da cui traeva quella concezione del socialismo come prosecuzione e inveramento della 'civiltà borghese' (dai comuni in lotta contro il feudalesimo, dal Rinascimento, etc.) che poi fermentò in Cantimori fino alla polemica post-bellica con Della Volpe (il fascicolo della rivista è nella biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa). Nel settembre del 1933 recensiva Die sozialistische Idee, ribadendo il suo interesse per uno scrittore che si dichiarava pur sempre fiero avversario del fascismo: il recensore attribuisce questa avversione a «scarsa informazione» e a «pregiudizi di parte» e a un'assimilazione impropria del fascismo col razzismo, col nazismo e col nazionalismo francese. Per questi vale la critica di De Man, ma non per il fascismo italiano e per il suo stato etico corporativo, che non possono esser compresi negli schemi del nazionalismo reazionario. Cantimori vede invece molte affinità fra il «vero Fascismo» e le posizioni di De Man: pone una presso che completa identitità fra esse e il solidarismo mazziniano, quel solidarismo «che il Bottai ha riconosciuto come uno dei principali precedenti della sua opera di costruzione etico-corporativa»: «Nella interpretazione filosofica del Fascismo, e nella concezione dello Stato etico [De Man] avrebbe trovato la soluzione perentoria e chiara di quelle esigenze di libertà nella legge, di giustizia realizzantesi in un ordine superiore, di affermazione dell'intima eticità umana, che fanno la bellezza di certe sue pagine» (PSC, 161-162). Nella Nota del 1935, posta in calce alla traduzione del Plan du travail, la valutazione di Cantimori toccava altri temi: il Plan e gli altri scritti di de Man gli sembrano una proposta assai interessante, nei paesi lontani dall'ordinamento corporativo, perché «additano il punto principale da riformare nel predominio monopolistico del capitale finanziario: [...] non sconfinano nel campo teorico o in quello degli estremismi radicali e inconcludenti, e non scambiano la necessaria profondità e strutturalità delle riforme con una astratta generalità o totalità di sovvertimento dell'ordinamento sociale-economico vigente nei paesi capitalistici; [...] rappresentano lo sforzo più serio per sintetizzare l'esigenza della libertà politica, civile, intellettuale con quella della giustizia sociale, distaccandosi nettamente dal socialismo e dal comunismo; e [...] di conseguenza si sono mostrati atti a riunire gli elementi più arditi del movimento sociale cattolico con quelli del socialismo così rinnovato», aspetto essenziale in un paese come il Belgio. Di tale interesse aveva dato testimonianza la «rivista Esprit, una delle riviste francesi di giovani più aperte alle nuove esigenze sociali e spirituali europeee» (D. Cantimori, «Nota», in U. Spirito, Il piano De Man e l'economia mista, [Firenze: Sansoni, 1935], 40-41): questo giudizio su Esprit è confermato da Cantimori nel 1940 (PSC, 778). Per le prime posizioni politiche della rivista di Mounier (anticapitalismo, antimaterialismo, antibolscevismo, il suo interesse per De Man e per il corporativismo italiano, la partecipazione al Convegno italo-francese di studi corporativi a villa Aldobrandini nel maggio 1935, etc.) cfr. Z. Sternhell, Né destra né sinistra. La nascita dell'ideologia fascista (Firenze: Akropolis, 1984), 205-209 che indica la precedente bibliografia, a cui si devono aggiungere M. Nacci, «Intellettuali francesi e corporativismo fascista», in Dimensioni, 40-41, 1986: 6-29, e la raccolta di documenti su Mounier in Italia, a cura di G. Campanini (Bari: Ecumenica Editrice, 1986), 9-16 e 41-78; al discusso volume di Sternhell si può utilmente ricorrere anche per la figura e l'opera di De Man negli anni Trenta (119-139). Il mutamento delle posizioni politiche di Cantimori e il senso di fastidio, di vera e propria avversione per il suo passato di intellettuale fascista che ne derivò (Vivanti, Politica, 797), oltre che naturalmente il comportamento di De Man durante l'occupazione nazista del Belgio spiegano i giudizi durissimi su di lui dati dallo storico nella lettera all'einaudiano U. Scassellati del 7 marzo 1951 (PSC, 797-800).
[191] Il volume fu inizialmente sequestrato dalle autorità governative, ma poi rimesso in circolazione: Pedullà cita una lettera del prefetto di Firenze a Mussolini del 23 luglio 1934 (Pedullà, Il mercato delle idee, 80 e nota 42). Sulla sua fortuna, una testimonianza ravvicinata in L. Lombardo Radice, Fascismo e anticomunismo. Appunti e ricordi 1935-1945 (Torino: Einaudi, 1946), 64.
[192] Minuta di lettera di U. Spirito a G. Bottai, 5 agosto 1940, cit. in Perfetti, «Ugo Spirito», 229 e in Parlato, «Ugo Spirito e il sindacalismo fascista», 113-114, con qualche piccola differenza nella trascrizione.
[193] Ricorro qui a un'espressione di C. L. Ragghianti, in una sua finissima descrizione della personalità di Cantimori, dove si accenna al «permanente contrasto anche psichico e sentimentale tra il bisogno di un sistema di verità anche terapeutiche contro il dissolvente istinto ipercritico e analitico e la paura della solitudine, e dall'altra parte l'esperienza anche morale che aveva compiuto risuscitando tante figure di eretici, nonconformisti, immanentisti sino al martirio per la ragione contro ogni proclamato 'senso della storia' che tuttavia sentiva oscuramente come un'accettazione inevitabile, residuo di un istinto di protezione religioso ed eteroindividuale» (C. L. Ragghianti, «Tempo su tempo», I, in Critica d'arte, n.s., 17 [1970], fasc. III: 3-18, 12). Questo brano non era sfuggito a Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 197, nota 1.
[194] Cit. in G. B. Guerri, Giuseppe Bottai un fascista critico, pref. di U. Alfassio Grimaldi (Milano: Feltrinelli, 1976), 127, ma cfr. ibid., 126-132, per la reazione di Bottai e del suo ambiente alla nuova legislazione corporativa: si veda soprattutto l'art. «Lo Stato nello Stato corporativo», pubblicato su Critica fascista del 15 marzo 1934 e qui ampiamente citato. Ma cfr. anche De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 288-291.
[195] R. De Felice, Mussolini il duce. II- Lo Stato totalitario 1936-1940, (Torino: Einaudi, 1981), 207 nota 96.
[196] Guerri, Giuseppe Bottai, 128.
[197] U. Spirito, Memorie di un incosciente, 84. A questo libro (174-186) si rinvia per gli episodi accennati nel testo, la cui portata viene, tuttavia, ampiamente ridimensionata in Parlato, «Ugo Spirito e il sindacalismo fascista», 106 nota 84, che pure non nega «l'isolamento del filosofo [dopo il 1935] in un ambito, quello politico ed economico, nel quale soltanto qualche anno prima era considerato un punto di riferimento insostituibile, anche se scomodo». Di notevole interesse è la lettera-relazione per Mussolini del 20 luglio 1940, firmata da Bottai, ma scritta quasi integralmente da Spirito, in cui si cerca di delineare i rapporti fra fascismo e cultura e la loro evoluzione: «il periodo più fecondo della collaborazione» è individuato nella fase corporativa («quella frazione della cultura italiana che vi ha partecipato è riuscita a porsi davvero su un piano rivoluzionario e a costringere la più grande frazione conservatrice a scendere sul terreno della polemica e a collaborare anch'essa indirettamente. Gli anni che vanno dal 1932 al 1935 sono da questo punto di vista i più ricchi di risultati e la nostra ideologia rivoluzionaria ha avuto allora un'influenza notevole anche all'estero, in primo luogo sul nazionalsocialismo, che, giunto al potere nel 1933, si rivolgeva al Fascismo per seguirne l'esempio. Ma, sopravvenuta la guerra d'Etiopia, la cultura italiana ha taciuto rinunciando a ogni ulteriore collaborazione.[...] Messa a tacere la minoranza rivoluzionaria, la vecchia cultura conservatrice si è trovata senza avversarî e si è rafforzata nelle sue posizioni, mascherandosi in gran parte con un ossequio estrinseco e adulatorio nei confronti del Regime [...]. Quattro anni di silenzio ostile della cultura non potevano non influire sulla coscienza della Nazione. Sempre più antirivoluzionaria, la classe intellettuale si ritirava nelle posizioni più tradizionali: liberalismo e cattolicismo. D'altra parte le esigenze della rivoluzione sul piano politico, non secondate dal movimento culturale, erano costrette a far leva sulle ideologie del nazionalsocialismo, che procedeva rapidamente nel suo cammino. Questa necessità di fatto accentuava a sua volta l'ostilità della cultura e alimentava un movimento di reazione che si estendeva fino alle classi popolari. Nulla di strano quindi, se, scoppiata la guerra, pressoché tutta l'Italia si è trovata anglofila e francofila, antitedesca e antirivoluzionaria». Questa lettera-relazione è parzialmente riportata in Bottai, Vent'anni e un giorno, 63-65; integralmente in De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario, 923-928 (il brano cit. è a 924) e qui attribuita a Bottai; la successiva attribuzione a Spirito è fatta in Id., «Gli storici italiani nel periodo fascista», in Federico Chabod e la «nuova storiografia» italiana dal primo al secondo dopoguerra (1919-1950), a cura di B. Vigezzi (Milano: Jaca Book, 1984), 559-607, 596 nota 102.
[198] Archivio della Fondazione «Biblioteca Benedetto Croce», Napoli, Carteggio di B. Croce. Il penultimo capoverso della lettera («I miei studi [...]») è citato in Prosperi, Introduzione, XXXVII, nota 54. Va segnalato che dopo questo scambio (epistolare e di polemiche pubbliche) del 1935-36, si dovette riaprire, fra i due, una fase di silenzio, se a Croce che probabilmente gli sollecitava, nel marzo 1939, l'invio della raccolta Per la storia degli eretici italiani del secolo XVI in Europa curata da Cantimori ed Elisabeth Feist e uscita nel 1937 in una collana dell'Accademia d'Italia, Cantimori rispondeva con una lettera piuttosto imbarazzata del 5 marzo 1939, in cui dichiarava di averne avute a sua disposizione poche copie, «mentre gli invii in omaggio sono ancora in corso, per colpa mia, a vero dire» (Archivio della Fondazione «Biblioteca di Benedetto Croce», Napoli, Carteggio di B. Croce).
[199] Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 45-49, 225-256 e passim.
[200] Ibid., 161 nota 14.
[201] Per Chabod, Sestan e Maturi di fronte alla proclamazione dell'Impero, cfr. la notissima testimonianaza di G. Volpe, Storici e maestri, nuova edizione accresciuta (Firenze: Sansoni, 1967), 471-473, ma anche la conferenza celebrativa di Chabod su Carlo Emanuele II del 7 ottobre 1935 cit. in M. Moretti, «La nozione di 'Stato moderno' nell'opera storiografica di Federico Chabod: note e osservazioni», in Società e storia, n. 22, 1983, 869-908, 895 nota 68.
[202] D. Cantimori, rec. a R. Quinton, Massime sulla guerra (Milano, s.a. ma 1935), in Leonardo, 6 (1935): 439-441. Poco più sotto alludo alla conferenza fiorentina di Gentile su La tradizione italiana (15 aprile 1936), in cui fu netta la polemica contro la vuota esaltazione retorica della romanità che aveva raggiunto il suo culmine in occasione della guerra d'Africa: cfr. Turi, Giovanni Gentile, 472.
[203] Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 160-161 e nota 14.
[204] Cfr. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario, 301-330.
[205] G. Manacorda, «Lo storico e la politica. Delio Cantimori e il partito comunista», in Storia e storiografia. Studi su Delio Cantimori, 61-109, 103.
[206] Molte notizie sul Centro e la sua attività in Petracchi, «'Il colosso dai piedi d'argilla'», 154-160.
[207] De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario, 304 e nota 115.
[208] Gentile a Calogero, Forte dei Marmi , 20 settembre 1937, in G. Sasso, «Una 'Lettera aperta' di Guido Calogero a Ugo Spirito (1937)», in La Cultura, 33 (1995): 267-281, 270.
[209] Spirito accolse questa recensione con un fin de non-recevoir, e impegnò una discussione col solo Gentile e con la sua breve presentazione dell'articolo cantimoriano: in essa La vita come ricerca era giudicato «un libro fondamentalmente sbagliato; ma [...] altresì assai importante come documento schiettissimo e veramente significativo d'uno stato d'animo diffuso tra i più intelligenti studiosi italiani di filosofia, giovani e non più giovani» (Giornale critico della filosofia italiana, 18 [1937]: 356). Spirito rispose nel secondo fascicolo del 1938 («La vita come ricerca. Lettera a Giovanni Gentile», ibid., 19 [1938]: 147-148), e Gentile controbatté nel successivo (ibid., 240-243). Questi testi ora possono leggersi in Spirito, Giovanni Gentile, 299-307.
[210] Caccamo, «Il problema degli 'eretici' del Cinquecento», 118. «Noi vogliamo rendere omaggio alla sincerità, alla nobiltà, alla serietà morale del suo temperamento. - scriveva il bottaiano Agostino Nasti - Spirito è un caso tipico: la sua concezione della vita come ricerca, come pura ricerca intellettuale, è la fotografia della sua personalità, con tutto il sincero affanno e il nobile tormento che la posizione comporta. Ma abbiamo l'obbligo, di fronte a noi stessi, a lui - cui ci lega fraterna amicizia, - e a quei tre o quattro camerati che ci leggono, di precisare che già da qualche tempo è finito il tratto di cammino comune. Per noi, gli studi amati della prima giovinezza e certo naturale bisogno di sistemazioni teoriche ci spingevano a collegarci a concezioni che ci affiancavano a Spirito; per lui, il suo storicismo o forse una naturale disposizione a osservare la vita che si svolge intorno a lui, lo hanno portato a interessarsi dei problemi che ci affannano. Ma c'è una diversità incolmabile, che non poteva essere colmata: egli è, per insuperabile temperamento, uno studioso, un teorico, noi, per la stessa ragione, politici. Noi siamo appassionatamente aggrappati ai 'miti', a quei miti che egli con spietata logica cerca vanamente di isolare e polverizzare nello spirito umano, e ci siamo in un certo momento esplicitamente riferiti a una filosofia che eravamo sicuri di vivere e realizzare concretamente. Egli si è avvicinato al nostro mito perché gli è parso di poter così attuare storicamente la sua filosofia. Ma come era fatale, restiamo per sempre attaccati, noi al nostro mito, lui alle sue elaborazioni razionali. Per noi la verità incrollabile è questo 'mito' storico e politico, cui dedichiamo la nostra vita; e confessiamo che preferiamo lavorare storicamente per l'attuazione di quel mito (e del mondo morale che esso presuppone) piuttosto che attardarsi negli eterni dubbi e nelle eterne incertezze del freddo pensiero raziocinante» (A. Nasti, «La vita come ricerca», in Critica fascista, 15 [1936-37]: 236, nel numero del 1° maggio 1937, quindi assai prima della rec. cantimoriana). Per la rec. di L. Volpicelli, cfr. supra nota 142.
[211] Manacorda, «Lo storico e la politica», 62.
[212] S. Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI 1936-1948 (Milano: Rizzoli, 1980), 316.
[213] Miccoli, Delio Cantimori, 105.
[214] Su tale attività, cfr. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, III - I fronti popolari, 14 nota 2. La successiva politica della «Commissione intellettuali» guidata da Sereni fu - com'è noto - sottoposta a durissima critica da Giuseppe Berti, al termine d'un'inchiesta conclusasi nel settembre 1938, quindi nei mesi della permanenza parigina di Cantimori. L'allora implacabile stalinista metteva in luce che «salvo tre o quattro eccezioni, gli intellettuali con cui la commissione è collegata sono dei tipi che dànno scarso affidamento e tra essi vi sono molti tipi sospetti» (ibid., 285). Ciliberto informa (sulla base di una testimonianza di Sestan) che Sereni fu uno dei tramiti principali fra Cantimori e il Pci «in quel giro d'anni» (Intellettuali e fascismo, 210 e nota 19); dei suoi contatti con Emma Mezzomonti abbiamo già parlato.
[215] Per tutto questo, cfr. ancora Petracchi, «'Il colosso dai piedi d'argilla'», 156.
[216] Non erano dissimili le motivazioni che lo spingeranno a proporre, nel 1945-46, a Giulio Einaudi la traduzione del vol. del gesuita G. A. Wetter, Il materialismo dialettico sovietico (PSC, 787-788), nato da una serie di lezioni tenute al Russicum, uscito poi nei Saggi einaudiani nel 1948, da cui nacque la durissima reazione critica ancora di Berti. Sull'affaire Wetter cfr. Manacorda, «Lo storico e il partito», 78-81; Bertelli, Il gruppo, 334-336, 339-341.
[217] Giorgio Amendola (Storia del Partito comunista italiano 1921-1943 [Roma: Editori Riuniti, 1978], 434) ricorda Giusti come componente di quel gruppo di comunisti romani di cui facevano parte, intorno al 1936-37 Emma Cantimori e Paolo Milano, ma il 21 aprile del 1940 egli partecipa all'adunanza sulla costa laziale, verso Pratica di Mare, da cui venne fuori il primo manifesto del liberalsocialismo (G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo [Roma: Atlantica, 1945], 197) e poi è comunemente annoverato fra i militanti di quel movimento. Non son riuscito a sapere per quali motivi lasciò il partito comunista, ma non è improbabile che fosse proprio il patto russo-tedesco a precipitare la rottura. Paolo Bufalini ci ha parlato dell'aspra polemica che divise allora i giovani intellettuali romani che erano in contatto col partito comunista: Bufalini, per esempio, si schierò decisamente contro il patto (Bufalini, L'opera di Mario Alicata per la libertà dell'Italia per il rinnovamento della cultura e per il socialismo [Roma: Tipografia Salemi, 1976], 20) e lui pure troviamo poi alla riunione di Pratica di Mare dell'aprile successivo. Se così fosse, la recensione di Cantimori, nella sua polemica inevitabilmente rattenuta ma chiara, sarebbe un curioso documento della critica 'ortodossa' di un neofita a un ex-compagno già appartenente al suo gruppo. Per la cit. testimonianza di Varese, cfr. Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 213 nota 26.
[218] R. Conquest, Il grande terrore. Le 'purghe' di Stalin negli anni Trenta (trad. it., Milano: Mondadori, 1970), 516, 534-539. Che i processi di Mosca, più che insinuare dubbi, irrigidissero il comunismo di molti 'neofiti' sembra confermato, fra gli altri, da Lucio Lombardo Radice, che ricordava «gli articoli della stampa fascista [...] pieni di sacro sdegno liberale quando non esaltavano alla maniera trotzkista, le figure dei traditori e degli agenti dello straniero che venivano processati» (L. Lombardo Radice, «Il nostro incontro col Partito comunista», in Trenta anni di vita e lotte del C.I.. Quaderno di «Rinascita», s. d. [1952]: 134-136, 135).
[219] Manacorda, «Lo storico e il partito», 67, con la bibliografia precedente, ma si ricordino anche le riserve di Garin: «Chi abbia familiarità con lo stile di Cantimori avrà l'impressione che il testo del programma sopra citato non sia del tutto uscito dalla sua penna: ma alcuni orientamenti sono certamente suoi; questo senza dubbio» (Garin, «Delio Cantimori», 211 nota 69).
[220] Si vedano rispettivamente: Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 189 e nota 14 (per la testimonianza di Varese); Spriano, Storia [...] I fronti popolari, 196 (per Spano); Amendola, Storia del Partito comunista italiano, 434.
[221] F. Ferri, [Relazione] in Il contributo dell'università di Pisa, 221-229, 224-227. Ferri, fra i gesti di Cantimori che sottolineerebbero una compromissione politica antifascista aperta, ricorda: «non poche volte, nel corso della frequentazione a Roma di varie biblioteche, vidi Cantimori, come nell'atto di compiere una monelleria, depositare furtivamente nelle bacheche dell'Alessandrina e della Nazionale numeri di 'Stato operaio', la rivista del PCI pubblicata a Parigi [ dopo lo scoppio della guerra la redazione della rivista - in pratica Donini e Berti - si era spostata a New York, N.d.A.], o opuscoli in carta riso pure prodotti nell'emigrazione» (ibid., 226-227). Ferri si riferisce quindi a episodi svoltisi a Roma, verosimilmente nel 1942-43, ma non in Normale o a Pisa.
[222] A. Natta, «Da Imperia alla Normale di Pisa. Un percorso antifascista», testimonianza raccolta da M. Del Lungo e M. Doria a Imperia il 29 giugno 1995, in Storia e Memoria, rivista semestrale dell'Istituto Storico della Resistenza in Liguria, 4 (1995): 113-137, 131-132.
[223] De Felice, «Gli storici italiani nel periodo fascista», 605-606, 612-616.
[224] Longo, «La presidenza di Camillo Pellizzi all'Istituto nazionale di cultura fascista (1940-1943)» : 901-948, da cui si apprende che Cantimori (con Carlo Morandi) doveva collaborare fra l'altro a un Consiglio centrale per l'alta cultura, ideato da Ugo Spirito nel novembre 1940 (920 nota 52).
[225] **, «Civiltà fascista», in Critica fascista, 18 (1939-40): 382. Sviluppando un'intuizione di Ragionieri, Turi ha recentemente ribadito che anche in questi anni di incipiente crisi del fascismo si ebbe un coinvolgimento massiccio di intellettuali nelle strutture culturali del regime: G. Turi, «Intellettuali e istituzioni culturali nell'Italia in guerra 1940-1943», in L'Italia in guerra 1940-43, a cura di B. Micheletti e Poggio, Annali della Fondazione 'Luigi Micheletti', 5 (1990-91): 801-826.
[226] D. Cantimori, rec. a G. M. Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89 (trad. di C. Pavese, Torino: Einaudi, 1940), in Leonardo, 11 (1940): 321-323. Per il significato di questo volume einaudiano e della recensione di Cantimori, cfr. Turi, «Le origini della casa editrice Einaudi», 302-303; Belardelli, 403. Per l'art. di Della Volpe sopra ricordato, cfr. «L'azione e il pensiero» , in Primato, 15 (1 ottobre 1940), 6.
[227] D. Cantimori, Nota introduttiva a C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari (Torino: Einaudi, 1942), VII-XVII. Cantimori definiva subito la sua proposta interpretativa: non è possibile considerare «le manifestazioni programmatiche parlamentari esclusivamente come affermazioni d'idee etico-politiche» (la polemica, tacita ma evidente, è contro la lettura di Omodeo nell'Opera politica del conte di Cavour uscito nel 1940). I discorsi sono dunque azioni politiche, aventi «scopi ben determinati, a seconda delle situazioni nelle quali [...] venivano pronunciati: all'inizio o a conclusione di azioni, o durante di esse, per promuoverne, sostenerne o difenderne l'effettuazione». In linguaggio cantimoriano, ciò significa che essi appartengono alla sfera della pratica: sono i «programmi politici» di crociana memoria, 'propaganda' per Cantimori: per cui Cavour è un grande realista, un tattico spregiudicato, che gioca nel contempo reazionari e mazziniani. È mosso da «ottimismo liberistico», da quei «principî liberistici che allora si identificavano con il liberalismo»; agita abilmente il «pericolo del socialismo», la sua politica è «diretta a raggiungere l'egemonia [del Piemonte] in Italia e a convogliare sotto la sua guida il movimento per l'indipendenza dall'egemonia austriaca». In lui «l'uomo di parte e l'uomo di governo fanno tutt'uno in questo momento decisivo»: Cantimori pone in luce «la sua sostanziale avversione alla politica in base a principî generali» e porta come esempio (analogamente a quanto aveva fatto Gentile nel 1925) l'atteggiamento sulla limitazione della libertà di stampa. L'unico problema in cui gli riconosce un respiro ideale è quello dei rapporti fra Stato e Chiesa, perché «nello svolgimento di esso quel liberalismo fu più fedele ai suoi principi, e si poté mettere in posizione non di difesa, ma di attacco (non conservatrice, ma progressiva, come allora si diceva)». Lo scritto gentiliano cui faccio riferimento è l'introduzione alla raccolta di Scritti politici cavouriani curata dal filosofo nel 1925 (Roma: An. Soc. Editoriale), subito ristampata col titolo Il liberalismo di Cavour in Che cosa è il fascismo, 179-96. Non sfuggiva a Romano [Alatri], che il Cavour di Cantimori era soprattutto «l'amministratore, l'uomo di governo e l'uomo di partito» e parlava di «limitato angolo visuale», nonostante il quale «la personalità del Cavour appare intera nelle sue alte e insuperate qualità di uomo politico, di grande coscienza» (Leonardo, 14 [1943]: 248). Il 28 aprile 1943, Ragghianti, che conosceva Cantimori di vecchia data, protestava con l'editore per le sue analisi cavouriane «tendenziose, con un profumino di 'marxismo' aggiornato, che dà noia» (Turi, «Le origini», 318 nota 315): nel corso della guerra di Liberazione, Ragghianti avrebbe posto proprio il liberalismo cavouriano a fondamento del rinato 'azionismo' (A. Varni, «Il secondo Risorgimento», in Il Risorgimento, 47 [1995]: 535-543, 537-538).
[228] Spriano, Storia [...] , I fronti popolari, 309-335.
[229] U. Spirito, Guerra rivoluzionaria (Roma: Fondazione Ugo Spirito, 1989), scritto del 1941, rimasto per allora inedito; cfr. anche De Felice, «Il fascismo e gli storici», 596.
[230] Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 198.
[231] C. L. Ragghianti,«Tempo su tempo», 12.
[232] Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 106-107.
[233] «Notevole che il Korsch è stato per un momento vicino all'ala estrema del partito nazionalsocialista, quella del 'Gegner', ispirata allo Strasser, antico capo del nazionalismo prussiano» (Cantimori, rec. a Rosenberg, Storia del bolscevismo, 355). Sul rapporto Cantimori-Korsch cfr. le pagine un po' datate di Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 96-105. Buone osservazioni anche in Bongiovanni, Cantimori, 41-42. Su Der Gegner, il suo ambiente (e la collaborazione di Korsch) molte notizie in Dupeux, «National-bolchevisme», 480-492. Cantimori ancora ricordava questa rivista nel 1960 (Storici, 381).
[234] Cordiè, «L'alunno perfezionando» ,III, 76; A. Garosci, «Correlazione» [sul tema Il fascismo e gli storici], in Federico Chabod e la «nuova storiografia», 619-628, 625.
[235] D. Cantimori, rec. a G. Santonastaso, Proudhon (Bari, 1935), in Nuovi studi di diritto, economia e politica, 8 (1935): 305-306.
[236] Fra le molte notevoli osservazioni, il saggio di Firpo è interessante per il confronto che vi viene tracciato fra le indagini rinascimentale ed ereticali di Cantimori e quelle di Chabod e fra le personalità dei due storici (749-754), un confronto non di maniera come quelli che si sono letti in molti dei saggi su Cantimori degli ultimi tre decenni.
[237] G. Santomassimo, «Gli storici italiani negli anni della guerra. Il caso Morandi e 'Primato'», in L'Italia in guerra 1940-43, 827-844, 829; Turi, «Intellettuali e istituzioni culturali nell'Italia in guerra», 815.
[238] (18) cf. SAITTA, La Storia del pensiero come storia nazionale in Filosofia italiana e umanesimo. Venezia 1928 31 sgg.
[239] (19)SAITTA, Lo spirito etc. [come eticità, Bologna, 1921] 80.
[240] (20) SAITTA o.c. 66.
[241] (21) VICO La Scienza nuova. Dello stabilimento dei principi. Libro I. Degnità II, III.
[242] (22) G. GENTILE, Il torto e il diritto delle traduzioni, in Frammenti di estetica e di letteratura. Lanciano 1920 XI 367.
[243] (23) cfr. qui, 97 sgg. Certo, bisogna star molto attenti nell'indagine, e s'incorre nel pericolo di travedere, o veder troppo: son concetti ancora molto poco determinati (le indagini giuridiche partono da altri punti di vista). Ma non si vede altra via che queste ricerche per determinarli.
[244] (24) Riprova di questo son per esempio le critiche e le difese di CROCE per il Berchet. Cfr. Poesia e non Poesia.
[245] (25) La teoria gentiliana dello stato pare uccidere in realtà la libertà, la individuale, la personale (ch'egli chiama empirica, atomistica, e anarchica) libertà; uccide il diritto per il dovere: per considerazione unilaterale derivante dalla generale tradizione filosofica della vita etica, dalla quale ogni elemento di originalità (di spontaneità piena) è sbandito come anarchico, atomistico e via dicendo: onde, identificati morale e diritto la vera libertà si trova solo nella legge, in modo che dunque il diritto ha mangiato la morale, e di questa ha distrutto il principio fondamentale, senza assimilarne molto.
[246] «Anno nuovo», in Pattuglia, I, 33 (28 dicembre 1929): 1.
[247] «A cura di questo stesso Ufficio [Culturale del GUF] è stato istituito un corso di lingue inglese-tedesco, affidandone l'insegnamento al camerata prof. Delio Cantimori, il quale inizierà al più presto tale corso» («Notiziario del G.U.F.», ibid., I, 27, 16 novembre 1929, 2); «Presso il Nucleo Cagliaritano per la S.D.N. (G.U.F.) sono aperte le iscrizioni al corso pratico di lingua tedesca [...] Detto corso sarà tenuto dal dott. D. Cantimori, incaricato del Nucleo, già incaricato di lingua italiana per la Sezione tedesca presso la R. Università di Perugia» (ibid., I, 32, 21 dicembre 1929, 2): nel 1929, Cantimori aveva in effetti tenuto il corso medio di lingua, letteratura, storia civile e storia dell'arte d'Italia per gli iscritti di parlata tedesca presso l'Università per stranieri di Perugia (cfr. Regia Università per stranieri. Annuario, a. a. 1929-VII-VIII E.F., s. n. t., 34).
[248] a.v. [A. Valori], «Un gioco pericoloso», in Corriere della sera, 21 settembre 1929.
[249] A. Lumbroso, Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, dal trattato di Francoforte a quello di Versailles, vol. I, La vittoria dell'imperialismo anglo-sassone, vol. II, L'imperialismo britannico dagli albori dell'Ottocento allo scoppio della guerra (Milano: Mondadori, 1926-1928), nella collana «Collezione italiana di diari, memorie, studi e documenti per servire alla storia della guerra nel mondo».
[250] La rivista «Antieuropa» era stata fondata da Asvero Gravelli nell'aprile del 1929: il titolo alludeva alla contrapposizione della nuova Europa fascista a quella vecchia, liberale e democratica. Cornelio Di Marzio e Roberto Suster ne erano collaboratori.
[251] Nel testo: non.
[252] Malaparte andò in Russia come direttore della Stampa: cercò di dimostrare che il bolscevismo non era un «enigma asiatico», ma un fenomeno pienamente europeo e occidentale. Gli articoli furono poi raccolti nel vol. Intelligenza di Lenin (Milano: Treves, 1930). Cfr. Petracchi, «'Il colosso'», 151 nota 3.
[253] C. Angioni, «Europa-Antieuropa», in Pattuglia, I, 23 (12 ottobre 1929): 1.
[254] A. De Marinis, «Apparenze e realtà della Società delle Nazioni», in Corriere della sera, 1° ottobre 1929.
[255] Vittorio Scialoja fu delegato italiano alla Società delle Nazioni dal 1921 al 1932.
[256] I Nuclei per la Società delle Nazioni, attivi all'interno dei G.U.F., in cui sembra che Cantimori allora s'impegnasse.
[257] Nel testo sono cadute alcune parole.
[258] Nel testo: fanno.
[259] Cfr. supra nota 91.
[260] Nell'Opera omnia di Mussolini non s'è trovato tale articolo.
[261] R. Suster, «Stampa italiana all'estero», in Educazione fascista, 7 (1929): 417-422, in realtà nel fascicolo di giugno.
[262] Il 17 ottobre 1929 Vladimir Gortan, un irredentista slavo riconosciuto colpevole dal Tribunale speciale di aver condotto il giorno del plebiscito (24 marzo 1929) due aggressioni contro gruppi di slavi che partecipavano alle votazioni, è fucilato nelle vicinanze di Pola. I suoi compagni furono condannati a trent'anni.
[263] Italo Balbo aveva guidato nel 1929 due crociere aviatorie nel Mediterraneo orientale.
[264] Nel testo: istruzioni.
[265] Pattuglia, I, 24 (19 ottobre 1929): 3, riportata in gran parte supra, nota 25.
[266] S. Valitutti, «Introduzione» a B. Mussolini, La dottrina del fascismo (Firenze: Sansoni, 1936), XII-XVII.
[267] Ora la si può leggere anche in «Primato»1940-1943, antologia a cura di L. Mangoni (Bari: De Donato, 1977), 178-179.
[268] G. Nencioni, «Agnizioni di lettura», in Id., Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello (Torino: Einaudi, 1983), 132-140.
[269] A. Rimbaud, Oeuvres/Opere, a cura di I. Margoni (Milano: Feltrinelli, 19785), 240.
[270] B. Croce, L'Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra (Bari: Laterza, 19654), 205.
[271] R. Bacchelli, Mal d'Africa. Romanzo storico, introduzione di L. Goglia (Milano: Rizzoli, 19903), 10, il corsivo è nostro: il luogo è indicato s.v. Rugoso, 6, nel Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia (vol. XVII, 230). Il romanzo apparve per la prima volta a puntate sulla Nuova Antologia nel 1934 e in volume l'anno successivo presso l'editore Treves: ne è protagonista l'esploratore italiano Gaetano Casati (1834-1902). A quanto ebbe a dichiarare l'autore a Luigi Goglia l'11 ottobre 1979 (ibid., XXXIII-XXXIV), nonostante la coincidenza di date, non esiste nessun rapporto fra la pubblicazione del libro e la guerra d'Etiopia.
[272] Id., Il fiore della mirabilis (Milano: Rizzoli, 19563), 283: anche qui il corsivo è nostro. Il luogo non è segnalato dal Grande Dizionario del Battaglia. Anche questo romanzo fu anticipato sulla Nuova Antologia nel 1942. Com'è noto, esso delinea la Bildung di un artista, Ruben Brederus, che da un intellettualismo sterile e tetro approda appunto alla «rugosa» realtà.
[273] Cfr. supra nota 182.
[274] Il discorso Al popolo di Torino, pronunciato in Piazza Castello il 22 ottobre 1932 (Opera omnia, XXV, 141-144): «Ci siamo già sganciati aveva affermato tra l'altro Mussolini dal concetto troppo limitato di filantropia, per arrivare al concetto più vasto e più profondo di assistenza. Dobbiamo fare ancora un passo innanzi: dall'assistenza dobbiamo arrivare all'attuazione piena della solidarietà nazionale» (144).