Un precursore della cultural history nella Francia di Luigi Filippo:
Augustine Challamel, storico della rivoluzione

Sergio Luzzatto [*]

 

I.

1. Parigi, primavera del 1889: si inaugura al Louvre l'Exposition historique de la Révolution française, appuntamento culturale fra i più impegnativi ed attesi del Centenario. Tra i primi visitatori, un giovane dallo sguardo penetrante e dalla fisionomia vagamente ascetica: Romain Rolland. Di ritorno alla rue d'Ulm, questo timido normalien – che si ritiene promesso allo studio della storia – consegna al proprio diario, oltre che la descrizione minuziosa di quanto ha potuto vedere nella mostra, un guazzabuglio di impressioni contrastanti. Fra le cose viste, le grandi tele di David, i piccoli croquis che Vivant Denon aveva dedicato alle «hures» dei convenzionali, le maschere mortuarie di Marat e Robespierre, soprattutto l'oggettistica più varia: le posate di Danton, gli occhiali di Carnot, le calze di Lucile Desmoulins. Quanto alle impressioni ricevute, Rolland si trova a registrare, insieme, il proprio scetticismo e la propria ammirazione. Scetticismo:

Trop de mesquin. Un fouillis de papiers sales. La défroque de la Révolution, salie par cent ans d'oubli, sans parler des sales personnages qu'elle a commencé par vêtir. [...] Je ne crois pas que la Révolution gagne à ces exhibitions: ces fragments de ruines, que ne dore plus le soleil de la vie, semblent souvent caricaturesques. La Révolution fait rire et ses hommes font peur.

Ammirazione:

De très intéressants détails psychologiques et pittoresques. [...] Mieux que l'encre rageuse de Taine, mieux que la flamme fumeuse de Michelet, [les divers objets ayant appartenu aux conventionnels] me prouvent que ces hommes ont vécu; et, par éclairs, ma vie épouse la leur [1].

2. Se Rolland non riusciva a decidere il proprio giudizio sulla mostra, i responsabili del Comité directeur della Société de l'Histoire de la Révolution française – gli organizzatori dell'Exposition historique – si trovavano semmai a rimpiangere che l'intrapresa espositiva non corrispondesse se non per difetto al grande investimento museale da loro immaginato in vista del Centenario. Infatti, secondo il progetto iniziale dell'erudito Charles-Louis Chassin, dello specialista di autografi Étienne Charavay, degli altri responsabili della macchina celebrativa più o meno faticosamente approntata nel corso dei tardi anni ottanta, il Centenario della Rivoluzione francese avrebbe dovuto essere festeggiato non già con l'allestimento di un'esposizione temporanea, ma con l'apertura di un vero e proprio Musée de la Révolution. Quale occasione migliore dell'Esposizione universale parigina del 1889 per ritagliare alla storia e alla memoria della Rivoluzione uno spazio permanente nella capitale, magari entro la cornice fortemente simbolica del Campo di Marte? Tale il progetto originario, rispetto al quale l'Exposition historique del Louvre corrispondeva a poco più che un ripiego.

3. Chi ha ricostruito nel dettaglio la vicenda delle celebrazioni del Centenario ha ritenuto di sottolineare, comunque, la rilevanza culturale sia dell'Exposition historique de la Révolution française, sia di altre iniziative pubblicistiche e artistiche coeve: per esempio, il fortunato Album du Centenaire. 1789, una sorta di strenna illustrata dovuta alle penne di Augustin Challamel, conservatore alla Bibliothèque Sainte-Geneviève, e di Désiré Lacroix, funzionario del ministero della Pubblica Istruzione; ancora, il Musée historique du Centenaire de la Révolution française, un'ambiziosa personale costituita da 20 tele di argomento rivoluzionario, opera del pittore Émile Bin. Si tratta di altrettante testimonianze del mutato atteggiarsi dell'intellighenzia di Terza Repubblica a fronte della Rivoluzione francese, rispetto alle feroci polemiche ideologiche che avevano diviso gli oppositori democratici del Secondo Impero [2].

4. Non per caso, Challamel e Lacroix definivano il ricco apparato iconografico dell'Album du Centenaire come «un musée complet des hommes et des choses de la Révolution française» [3]: fin nella terminologia prescelta da questi 'commemoratori', che rimandava alla dimensione museale delle celebrazioni del Centenario, è da ravvedere il fermo proposito dell'élite repubblicana di riconoscere nella Rivoluzione francese l'Evento fondatore, concluso nel tempo della Storia e addirittura recluso nello spazio del Museo. Proposito fermo, a dispetto della contraddizione – che non sfuggiva ai critici più avvertiti – inerente alle nozioni medesime di Museo e di Rivoluzione. Ennesimo tentativo, da parte degli eredi del 1789, di risolvere l'aporia interna a una tradizione che si voleva rivoluzionaria. Vertiginosa acrobazia sul terreno che insidiosamente riuniva le logiche della celebrazione e della commemorazione, i generi dell'elogio e del necrologio.

5. Nell'Exposition historique del Louvre, l'accumulazione di reperti riguardanti la 'civiltà materiale' della Rivoluzione francese segnalava altresì l'intenzione di sottrarre la vicenda del decennio 1789-1799 alla dimensione irrimediabilmente rarefatta, seppur intensamente drammatica delle lotte politiche di vertice. Elevare alla dignità museale le posate di Danton, gli occhiali di Carnot, le calze di Lucile Desmoulins equivaleva – paradossalmente – a ricostruire la storia della Rivoluzione in corpore vili; significava riconoscerne la dimensione più profonda nello sconvolgimento di comuni orizzonti e di abitudini condivise, nella brusca intrusione della grande storia entro il ritmo prosaico delle vite individuali, nell'impatto dello straordinario sull'ordinario. Per riuscire autentico, il Musée de la Révolution doveva correre questo rischio: somigliare al Marché aux puces.

6. Il catalogo dell'Exposition historique attestava l'importanza del contributo offerto da Étienne Charavay – grande collezionista oltre che ineguagliato esperto di autografi – nel prestito del materiale esposto presso la Salle des États del Louvre: lettere autografe di Maria Antonietta, brevetti della Guardia nazionale, carte del governatore e del demolitore della Bastiglia, scritti vari di pugno di Mirabeau e di André Chénier, ordini di arresto per mano di Robespierre, l'ultima lettera del girondino Buzot, il verbale dell'autopsia di Marat, varia corrispondenza di Danton e dei dantonisti, ecc. [4]. Tale abbondanza di autografi rifletteva l'aprirsi dell'intellighenzia di Terza Repubblica al culto positivistico dell'inedito, e dunque alla ricerca d'archivio, dopo decenni di egemonia incontrastata, entro l'ambito della storiografia rivoluzionaria, delle fonti a stampa e delle fonti orali. Transitando dalle chemises del collezionista alle bacheche dell'Exposition historique, l'autografo rivoluzionario mutava di status: da cimelio che era, diventava reperto; da oggetto di passione antiquaria si trasformava in strumento di indagine storiografica. Tanto più istruttiva, quindi, la perplessità del giovane Rolland a fronte del «fouillis de papiers sales» esibito nei locali del Louvre, in quanto indizio a contrario del diffondersi di una nuova sensibilità: impossibile, ormai, fare storia della Rivoluzione senza sporcarsi le mani.

7. Charavay non era l'unico membro del Comité directeur della Société de l'histoire de la Révolution française che cumulasse la funzione di organizzatore dell'Exposition historique con quella di prestatore di pezzi tratti dalla propria raccolta privata. Si segnalava allora, per quantità e per qualità, anche il contributo di Jules Fleury-Husson, detto Champfleury. Dopo avere costruito la propria reputazione di connoisseur scrivendo la storia delle maioliche di epoca rivoluzionaria, l'antico bohémien – ormai pervenuto ai vertici della Manufacture Nationale de Sèvres – offriva all'ammirazione dei visitatori una ricca messe di piatti e vasi di Nevers e di Lione, i pezzi forti della sua collezione privata [5]; qualcosa come un lascito testamentario, dal momento che il vecchio amico di Courbet sarebbe passato a miglior vita nel corso stesso del 1889.

8. Le vetrine contenenti le maioliche di Champfleury non incantavano però un visitatore dell'Exposition historique fra i più esigenti in materia di connoisseurship, fra i meno indulgenti in materia di Rivoluzione francese. Nel proprio diario, ch'egli era costretto ormai da troppi anni a compilare senza l'aiuto del fratello, Edmond de Goncourt annotava un parere feroce:

S'il est pour un collectionneur un certificat de goût infect, c'est une collection d'assiettes de la Révolution, la collection faite par Champfleury. Je crois que dans la poterie de tous les peuples depuis le commencement du monde, il n'y a jamais eu un produit si laid, si bête, si démonstrateur de l'état anti-artistique d'une société réduite à manger dans ces assiettes la cuisine de la cuisinière républicaine, qui se réduit, en 1793, à l'art d'accomoder les pommes de terre[6].

II.

9. Nell'economia di un discorso programmaticamente votato all'analisi della produzione storiografica di Augustin Challamel sotto la monarchia di Luigi Filippo, il successo del suo Album du Centenaire, che mi è occorso di menzionare, non basterebbe da solo a spiegare un così lungo indugio d'esordio sopra uomini e circostanze del 1889. Se vale la pena di muovere dal contesto e dalle implicazioni del Centenario non è tanto per evocare la tarda attività storiografica di Challamel [7], quanto piuttosto per meglio situare le sue opere di mezzo secolo innanzi: soprattutto l'Histoire-Musée de la République depuis l'Assemblée des Notables jusqu'à l'Empire, i cui due volumi risalgono appunto al 1842, cioè al pieno della stagione orleanista. Io credo che soltanto un confronto con gli sforzi museologici del Centenario, e inoltre con il contributo storiografico venuto dai Goncourt negli anni cinquanta e da Champfleury negli anni sessanta dell'Ottocento, renda ragione della straordinaria originalità dell'approccio che aveva orientato, nei primi anni quaranta, uno Challamel poco più che ventenne. Prima di riprendere in mano i volumi giovanili di quest'ultimo, occorre quindi definire, sia pure sommariamente, il genere di storia della Rivoluzione praticato dai Goncourt e da Champfleury durante il Secondo Impero.

10. Presentando, nel 1864, la nuova edizione dell'Histoire de la société francaise pendant la Révolution, pubblicata per la prima volta dieci anni prima, i fratelli Goncourt rivendicavano la novità del loro approccio alla vicenda storica della Rivoluzione francese: mentre «l'histoire politique de la Révolution est faite et se refait tous le jours» – precisavano gli autori – «l'histoire sociale de la Révolution a été tentée pour la première fois dans ces études» [8]. In effetti, la ricostruzione storica dei Goncourt aveva poco da spartire con le grandi storie della Rivoluzione di cui il pubblico francese si era dimostrato ghiotto fino a quel momento. A differenza di Thiers, di Mignet, di Buchez e Roux, di Michelet, di Lamartine, di Louis Blanc, di Esquiros, i Goncourt rinunciavano quasi del tutto a ripercorrere i tòpoi di tale storiografia; ridottissimo era lo spazio da loro riservato ai grandi momenti della vita parlamentare, alla dinamica delle 'giornate' popolari, alle battaglie e alle guerre che avevano scandito il ritmo serrato della Rivoluzione. Secondo i criteri di metà Ottocento quella dei Goncourt era davvero una storia sociale, nella misura in cui ricostruiva la vicenda dei caffè, dei salotti, delle mode, delle commedie, della vita di strada nella Parigi rivoluzionaria.

11. Nondimeno, vi era qualcosa di incongruo nell'orgoglio con cui i prefatori dell'edizione del 1864 vantavano l'eccezionalità del loro metodo storiografico: «Pour cette nouvelle histoire, il nous a fallu découvrir les nouvelles sources du Vrai, demander nos documents aux journaux, aux brochures, à tout ce monde de papier mort et méprisé jusqu'ici, aux autographes, aux gravures, aux dessins, aux tableaux, à tous les monuments intimes qu'une époque laisse derrière elle pour être sa confession et sa résurrection» [9]. È bensì vero che nelle Histoires dei Goncourt le note a piè di pagina pullulavano di rimandi ai giornali e alle brochures rivoluzionarie. In compenso, a dispetto delle dichiarazioni di metodo, i due fratelli erano estremamente parchi nell'identificazione e nell'analisi di materiali inediti; quel che più colpisce e stupisce, essi si mostravano relativamente distratti in materia di incisioni, di disegni, di quadri risalenti al decennio rivoluzionario.

12. La connoisseurship dei Goncourt, mirabilmente attestata nelle loro opere dedicate all'età di Luigi XV [10], si arrestava alle soglie del 1789; sull'acribia filologica, sull'acutezza visiva, prevaleva la nostalgia aristocratica per l'antico regime [11]. Nessuna parte dell'Histoire de la société francaise pendant la Révolution testimonia questa prevalenza più chiaramente del capitolo sulle Caricatures, che pure sarebbe stato suscettibile di un trattamento metodologicamente innovativo, del genere di quello vantato poi dagli autori nella prefazione del 1864. Le caricature rivoluzionarie? «Ce sont presque toutes de plats refrains de vaudeville, des pointes ramassées dans les rues, mises en scène par des dessinateurs moutonniers, qui se calquent, se copient et retournent de tous les côtés une ironie méprisable». I fratelli Goncourt non erano capaci se non di disprezzo per questi «barbouillages», «ces allégories béotiennes de la révolution» [12].

13. Facilmente si misura la distanza che separava dai Goncourt un loro avversario per gusto e per stile di vita, ancorché collega negli studi di storia: intendo Champfleury. Proprio quel che riempiva d'orrore i due aristocratici fratelli – la dimensione plebea, se non della produzione, certamente del consumo di caricature circolanti durante il decennio rivoluzionario – era quel che più appassionava l'antico bohémien [13]. Ma, di là dalle sensibilità estetiche e dai pregiudizi ideologici, contano i progressi e la consapevolezza di un metodo. Con l'Histoire de la caricature sous la République, l'Empire et la Restauration, il teorico del realismo si spingeva ben oltre i Goncourt nella direzione di un impiego massiccio delle fonti figurative a supporto dell'indagine storiografica. Notevole, in particolare, il capitolo che Champfleury dedicava a Camille Desmoulins «instigateur de caricatures» dalle colonne delle Révolutions de France et de Brabant. Qui più che altrove, infatti, l'amico di Courbet si mostrava capace di trattare la caricatura rivoluzionaria non già alla stregua di un riflesso immediato della cultura popolare, bensì – au second degré – in quanto strumento privilegiato di propaganda e luogo deputato all'acculturazione politica degli analfabeti [14].

14. Soprattutto con l'Histoire des faïences patriotiques sous la Révolution, comunque, Champfleury dava la misura delle potenzialità ermeneutiche proprie del suo approccio storiografico. Fabbricate principalmente nella regione di Nevers, le maioliche decorate con motti e simboli rivoluzionari avevano conosciuto eccezionale diffusione e fortuna durante gli anni successivi il 1789. Piatti, caraffe, insalatiere, scaldamani, vasi da notte: Champfleury aveva preso a collezionare maioliche rivoluzionarie quasi per caso, alla fine degli anni quaranta. Poco a poco, la sua curiosità si era trasformata in passione [15], la passione in febbre di conoscenza. Dopo avere sguinzagliato un commerciante di fiducia in giro per la Francia intera, con il preciso compito di scovare le maioliche sin nel fondo delle soffitte più polverose e dei più reconditi granai, dopo avere avuto tra le mani qualcosa come diecimila pezzi ed averne acquistati oltre cinquecento per la propria collezione personale, Champfleury si era sentito pronto a scrivere la storia delle faïences patriotiques di epoca rivoluzionaria: «Dans cet art je lis comme dans un livre, plus clairement encore» [16]. E fin da allora il collezionista si era trovato a sognare «un musée de 1789» che avrebbe raccolto, unitamente con le ceramiche smaltate, quadri, sculture, stampe e altre vestigia risalenti al periodo rivoluzionario [17].

15. L'opera di Champfleury sulle maioliche viene raramente evocata negli studi sopra la storia del ripensamento ottocentesco della Rivoluzione francese. Negligenza colpevole, se è vero – lo ha sottolineato recentemente Francis Haskell [18] – che Champfleury si dimostrava capace di porre alle sue fragili fonti le domande giuste, e di ricavare risposte illuminanti sia dai motti iscritti sopra le faïences, sia dalla simbologia delle immagini ivi riprodotte. Motti ed emblemi della Rivoluzione: sulla scia di Michel Vovelle e Lynn Hunt, la storiografia a noi contemporanea si è abituata a considerare gli uni e gli altri come segni rivelatori di valori condivisi dal popolo della Francia rivoluzionaria. Ma al tempo del Secondo Impero, la sensibilità degli storici per una simile documentazione era tutt'altro che ovvia. Àncora = speranza, bilancia = giustizia, quercia = valore, gallo = vigilanza, triangolo equilatero = unione e accordo perfetti: Champfleury si industriava a decifrare le allegorie delle maioliche rivoluzionarie non soltanto per rilevarne l'origine prerivoluzionaria, entro gli ambienti della franc-maçonnerie e del compagnonnage, ma anche per comprendere l'impatto di tali messaggi sul pubblico semianalfabeta al quale essi erano rivolti:

À partir de 1789, l'art ne vit plus de sa propre essence; il fait corps avec le mouvement politique, entre dans le domaine des institutions et en ressort avec une idée de civisme, d'enseignement direct. C'est comme un alphabet d'images pour des yeux d'enfants. Les législateurs répètent sans cesse: Liberté, Egalité, Fraternité, Concorde, Nation, Paix, République, Indivisibilité, Union, Force, Patrie, et l'art, élève soumis, épelle ces abstractions avec le pinceau, le burin, le ciseau, le crayon [19].

16. Non mancano davvero le ragioni per considerare fondata la reputazione di Champfleury – secondo la formulazione di Haskell – «as a true pioneer of taste and scholarship» [20]. Né avrebbe senso estrapolare dalla storiografia di argomento rivoluzionario dei fratelli Goncourt questo o quel capitolo, rilevarne questa o quella lacuna, per mettere in dubbio la connoisseurship degli autori o per contestare l'originalità del loro approccio alla vicenda storica della Rivoluzione francese. Se le opere giovanili di Augustin Challamel vanno liberate dalla spessa coltre di polvere che tuttora le ricopre, non è certamente allo scopo di ridimensionare i meriti dell'uno o dell'altro fra i maggiori interpreti ottocenteschi della Rivoluzione [21].

III.

17. Anche alle orecchie di quanti abbiano buona confidenza con la storia intellettuale dell'Ottocento francese, il nome di Challamel rischia di suonare poco familiare, se non sconosciuto del tutto. Pochi dubbi, quindi, sull'opportunità di ricostruire le coordinate essenziali della sua vicenda biografica; aiutati in questo, oltre che da scarne voci d'enciclopedia, dalle memorie di giovinezza – i Souvenirs d'un hugolâtre – che il bibliotecario di Sainte-Geneviève ha pubblicato alle soglie della propria vecchiaia.

18. Augustin Challamel era nato a Parigi nel 1818, da una famiglia di piccoli artigiani. Il padre, un fabbricante di carte da gioco. Lo zio, un reduce dai campi di battaglia della Repubblica e dell'Impero, il quale, confondendo l'una con l'altra, Hoche con Napoleone, la libertà con la gloria, «parlait comme une chanson de Béranger» [22] (sotto la scorta di questo caporal invalide Augustin avrebbe assistito, con la sbigottita impazienza di un dodicenne, al trionfo di Parigi nelle Giornate di Luglio). Fratello maggiore di qualche anno, un Pierre-Joseph che sarebbe stato, negli anni trenta, tra i discepoli di Ingres: risvolto biografico non privo di importanza – come sùbito vedremo – per rendere ragione della rapida entrata di Augustin nel demi-monde artistico-letterario della capitale, oltre che della sua precoce confidenza con la tecnica dell'incisione.

19. Nel 1833, a séguito della prematura scomparsa della madre, il figlio cadetto era stato spinto dal padre a prendere servizio come commesso nel negozio di un parente. La noia di quegli anni, Augustin l'aveva consegnata al suo diario di adolescente, ridondante di stati d'animo à la Werther e à la Chatterton. Ma di lì a poco, grazie all'aiuto finanziario di un amico di famiglia, il più giovane degli Challamel aveva potuto riprendere gli studi, di notte, con una convinzione tale da convincere il padre a ritirarlo dal commercio. Augustin si era ritrovato così avvocato, negli stessi anni in cui Pierre-Joseph aveva abbandonato la bottega di Ingres per assumere la responsabilità di una rivista romantica, La France littéraire. L'attività del fratello maggiore, editore fra l'altro di un Album du Salon, aveva spalancato ad Augustin Challamel le porte degli ateliers e delle riviste; mentre il diploma in diritto gli avrebbe consentito – nel 1844 – di ottenere un posto come bibliotecario a Sainte-Geneviève, dove egli avrebbe finito col conoscere gli idoli del suo apprendistato letterario: Augustin Thierry, Henri Martin, Jules Michelet.

20. Ma è di altro genere, più sorprendente, l'incontro destinato a modificare il corso della sua vita intellettuale. Càpita al giovane Challamel di entrare nelle grazie di un vicino di casa, un tal pensionato di nome Maurin, già luogotenente-colonnello del Genio. Con la complicità di tempi in cui il collezionismo non era ancora alla moda, così che la gente si sbarazzava per un niente dei vecchiumi di famiglia stipati nelle cantine o nei solai, questo oscurissimo ufficiale aveva avuto agio di radunare una massa enorme di libri, di brochures, di stampe, di statuette, di medaglie, di stendardi, di uniformi risalenti al periodo rivoluzionario. A partire dal 1840, Challamel ha il privilegio di accedere – lui solo – a questo ben di dio. Esperienza esaltante, che il bibliotecario di Sainte-Geneviève avrebbe più tardi rievocato con un'emozione pari a quella di Michelet al ricordo delle visite effettuate da bambino, con la madre, al Musée des Monuments français di Alexandre Lenoir [23]: «Il me sembla, quand je [...] visitai [la maison de Maurin pour la première fois], que les monuments se relevaient, que les hommes sortaient du tombeau et allaient parler, que les pamphlets recommencaient à circuler» [24].

21. Habent sua fata libelli. Il colonnello Maurin muore nel 1847, pochi anni dopo avere introdotto Challamel ai tesori della sua raccolta privata. Qualche lustro più tardi, il governo del Secondo Impero rinuncia ad acquisire la collezione Maurin nella sua interezza, nonostante le reiterate sollecitazioni degli eruditi e dei bibliofili: a partire dal 1862, essa conosce l'ingrato destino della dispersione [25]. Si fa chiara, a questo punto, la singolarità della situazione di Challamel. Durante il biennio 1840-42, egli può preparare l'Histoire-Musée de la République sopra una massa coerente di fonti che le circostanze sottraggono poi alla curiosità interessata degli specialisti. Non solo: i buoni uffici del colonnello Maurin permettono a Challamel di accedere allo studio diretto di altre collezioni private particolarmente ricche di reperti rivoluzionari, a cominciare da quella del numismatico Michel Hennin [26]. Tutto ciò in una stagione durante la quale la storia della Rivoluzione francese viene scritta quasi esclusivamente dalla biblioteche, poiché – fino a Secondo Impero inoltrato – le serie delle Archives Nationales relative al decennio 1789-1799 non sono riordinate con criteri tali da renderne agevole la consultazione.

22. Così, il semisconosciuto critico dei Salons si trova nelle condizioni ideali per immaginare una ricostruzione storica della Rivoluzione che non guardi unicamente alla vicenda politica o addirittura alla sola vicenda parlamentare delle Assemblee rivoluzionarie, secondo il cliché della storiografia più in voga durante la Restaurazione e la monarchia di Luglio. Un quarto di secolo prima di Champfleury, mezzo secolo prima di Charavay e di Chassin, Augustin Challamel può concepire di scrivere una storia culturale della Rivoluzione francese.

IV.

23. Histoire-Musée de la République depuis l'Assemblée des Notables jusqu'à l'Empire, avec les estampes, costumes, médailles, caricatures, portraits historiés et autographes les plus remarquables du temps: il titolo completo dell'opera di Challamel risulta sufficientemente parlante perché non occorra insistere a lungo sopra il metodo e la natura del suo progetto storiografico. Quanto al metodo, si tratta di allargare, rispetto alla storiografia corrente, lo spettro delle fonti suscettibili di fondare una ricostruzione storica della Rivoluzione francese. Come? Anzitutto comunicando al lettore il brivido dell'inedito, grazie a un'antologia di riproduzioni di testi manoscritti dovuti alla penna di questo o quel protagonista degli eventi rivoluzionari: «Nos fac- simile d'autographes servent à l'intelligence de l'histoire elle-même, et sont comme une émanation des personnages du temps» [27]. Inoltre, organizzando la narrazione storica intorno ad immagini rivelatrici dell'«esprit du temps»; dunque, di necessità, intorno a materiale iconografico coevo degli avvenimenti: «Ce livre est publié avec des illustrations; mais le lecteur n'oubliera pas que ces illustrations sont utiles, et non inspirées à l'artiste par le texte de l'historien» [28]. Quanto alla natura del progetto storiografico, Challamel intende sottrarre l'histoire della Rivoluzione alle interpretazioni partigiane [29], mettendola sotto gli occhi di tutti ed eternandola nella dimensione del musée:

Populariser ces matériaux était chose indispensable. La génération qui a fait la Révolution française est bien près de s'éteindre. Une autre génération lui succède, et doit, de toute façon, profiter de son oeuvre. Mais, lorsque les hommes d'aujourd'hui jettent leurs regards sur ce passé mémorable, ils épousent les erreurs, les haines ou les passions de leurs pères, aveuglément, fatalement. Notre but est de redonner à la Révolution – fantôme ou idole jusqu'ici – son corps et sa physionomie [30].

24. Se vi è un oggetto storiografico che Challamel si sforza di identificare e di qualificare nei due volumi della sua opera, questo è «l'opinion, le mot banal d'alors» [31]. Il che non significa, evidentemente, che l'Histoire-Musée de la République vada oggi riletta modernizzandola all'eccesso, sino a farne qualcosa come una storia dell'opinione pubblica durante la Rivoluzione francese. Ma è pur vero che sin dalle prime pagine del primo volume, Challamel persegue l'obiettivo di una narrazione storica che renda ragione non tanto degli eventi rivoluzionari, quanto del discorso e dell'immaginario sociale che la Rivoluzione produce intorno agli eventi stessi. Paradigmatica, in questo senso, la ricostruzione di un episodio risalente all'estate del 1788: la decisione di Luigi XVI di allontanare dai vertici del governo Loménie de Brienne interessa meno Challamel in quanto momento di crisi nei tentativi di riforma della monarchia che in quanto occasione prontamente raccolta dal popolo di Parigi per inscenare contro il prelato un clamoroso charivari. Il 25 agosto, sulla Place Dauphine, gli uomini del guet non riescono a impedire che il manichino di Brienne venga condannato al rogo, né riescono a contenere la furia dei giovani i quali, sulla Place de la Bastille, infrangono («à la manière anglaise») i vetri di quanti boicottano la luminaria. «Ici commencent, à vrai dire, l'émeute et la guerre des rues» [32].

25.Nelle polemiche fra i tre ordini che precedono l'apertura degli Stati Generali, Challamel riconosce un conflitto di rappresentazioni culturali prima ancora che di interessi politici: «Les mots ont été plus influents que les faits à l'époque que nous retraçons ici» [33]. Le parole, oppure le immagini, poiché il popolo di Francia – un popolo di analfabeti – tanto più si fa coinvolgere nella Rivoluzione quanto più viene raggiunto da slogans diretti e da raffigurazioni esplicite. Alla vigilia degli Stati Generali, quale immagine più chiara dell'insoddisfazione del terzo stato che l'incisione intitolata L'oeuf à la coque? Il Terzo sopporta da solo tutto il peso dell'uovo, mentre il clero e la nobiltà vi inzuppano tranquillamente il pane dei loro privilegi! E quale immagine più rappresentativa delle speranze di conciliazione seguite alla riunione dei tre ordini che la nuova versione della stessa caricatura, con l'uovo finalmente posato sopra un coquetier e i tre ordini che vi inzuppano il pane in perfetta armonia?

26. Queste sono soltanto due fra le decine e decine di caricature che vengono riprodotte e analizzate nell'Histoire-Musée de la République. Durante i primi anni della Rivoluzione predominano, almeno nella rassegna di Challamel, le caricature antinobiliari e anticlericali; poi scocca l'ora delle caricature antimonarchiche, infine quella delle caricature antigiacobine. Come poi Champfleury, e a differenza dei fratelli Goncourt, Challamel guarda a tale produzione sulla base non già di parametri estetici, bensì di criteri sociologici: «Les curieux qui assiégeaient les boutiques des marchands d'estampes, riaient d'abord de la chose; et puis, par une pente naturelle et insensible, la réflexion engendrait le mépris qui, chez le peuple, est le frère de la haine» [34]. Allo storico ed esegeta delle caricature interessa poco giudicare la qualità dello humour rivoluzionario; gli preme maggiormente illustrare l'impietoso lavorio esercitato dal sarcasmo sopra il corpo della Rivoluzione francese.

27. Per Challamel, un carattere originale del 1789 consiste nella velocità di circolazione dell'informazione politica. Nelle campagne, il contadino abbandona l'aratro per interrogare i corrieri di posta, i viandanti, i commessi viaggiatori; nei villaggi, il curato o il farmacista si incaricano di leggere ad alta voce le gazzette provenienti dalla capitale. «Le peuple semblait posséder un sens de plus que par le passé, la politique» [35]. I fatti parigini del 14 luglio accelerano la politicizzazione delle masse: quasi più che la presa della Bastiglia vera e propria, conta qui l'iniziativa dell'imprenditore Palloy di commercializzare frammenti della fortezza abbattuta, facendo delle bastigliette in miniatura uno status symbol [36]. Ma una svolta decisiva nei rapporti di forza interni alla Rivoluzione è intervenuta già due settimane prima: il 30 giugno, la Costituente si è piegata alle sollecitazioni di una deputazione popolare a proposito di una faccenda di guardie svizzere imprigionate all'Abbaye. È questa la prima di una lunga serie di circostanze in cui le assemblee rivoluzionarie si fanno trascinare «par des citoyens du dehors», obbedendo a uomini e donne «ayant un pied dans le sanctuaire légal, et l'autre pied encore sur le pavé de la place publique» [37]. Donne? L'intera avventura di Versailles, il 5 e 6 ottobre 1789, viene presentata da Challamel come un'Odissea femminile [38]. Dopodiché, nulla più nella Francia della Rivoluzione somiglia alla Francia di prima. Nemmeno le monete e le medaglie, sulle quali l'ordine di iscrizione delle parole appare tutt'altro che casuale: La nation, la loi, le roi [39].

28. 'Scoperta' nel 1789, la politica si diffonde capillarmente entro i tessuti del corpo sociale durante il biennio successivo: politica una e bina, che declina insieme il paradigma dell'amore e il paradigma dell'odio. Challamel ricerca dappertutto, tra le fonti iconografiche di epoca rivoluzionaria, i segni della diffusione di questa nuova cultura politica. E facilmente li trova. Li trova negli stendardi dei distretti parigini, la cui emblematica «quasi-religieuse» – cuori trafitti da frecce, croci, corone di spine – rimanda alle condizioni ambientali di apprendistato delle assemblee popolari, che solgono riunirsi nelle vecchie chiese della capitale [40]. Li trova nelle bellicose insegne delle giurande alla festa della Federazione, che pure ha da essere un trionfo delle buone intenzioni [41]. Li trova nelle caricature dei militari agli ordini del principe di Condé, soldatini di piombo destinati a cadere come birilli sotto la spinta degli eserciti rivoluzionari [42].

29. L'elenco potrebbe continuare, poiché non vi è reperto dell'epoca rivoluzionaria da cui Challamel non ricavi informazioni storiche: fogli ingialliti di carta intestata sui quali decifra ora emblemi leonini, ora la scritta La loi [43]; i cosiddetti anelli patriottici reclamizzati dal Moniteur nel capodanno del 1792, che portano motti del genere Vivre libre ou mourir [44]. Ancora, Challamel trova segni della diffusione di una nuova cultura politica nelle rappresentazioni relative alla pantheonizzazione delle ceneri di Voltaire, avvenuta l'11 luglio del 1791. In una pagina di storia ai limiti del virtuosismo, il giovane critico ricostruisce il significato dell'apoteosi postuma del patriarca di Ferney sulla base delle indicazioni che ricava da una «garniture de boutons» della collezione Maurin [45]. L'analisi dei quattordici bottoni consente a Challamel di interpretare la gerarchia cerimoniale del corteo, il significato delle tappe sulla strada verso il Panthéon, il valore simbolico dei diversi oggetti trascinati in processione – corone d'alloro, sedie curuli – [46]. «Le triomphe de Voltaire a été, comme on a pu le voir, une fête païenne» [47]: conclusione notevole, nella misura in cui anticipa la visione durkheimiana delle feste rivoluzionarie come momenti di transfert sacrale.

30. Dalla forma pagana alla forma profana della religione rivoluzionaria, il passo si rivela breve all'eccesso. Dopo avere trasformato il pulpito in tribuna, il sacramento in atto patriottico, la carità in filantropia, la Rivoluzione non fatica a trasformare la religione in parata: né Challamel fatica ad illustrare tale trasformazione, grazie all'apporto documentario che gli viene dagli innumerevoli Récits delle feste organizzate dai giacobini fra 1792 e 1793 [48]. Intanto, si fa onnipresente – non solo nelle scenografia di cartapesta delle feste, ma anche nei timbri dei tribunali, nei sigilli dei giudici di pace, nelle carte d'entrata al club dei cordiglieri – il simbolo dello spirito d'osservazione e di vigilanza, «l'oeil de la surveillance» [49]. E l'ossessione della sorveglianza alimenta la cultura del sospetto: neanche qui manca a Challamel la materia di racconto, dai massacri di settembre all'istituzione del tribunale rivoluzionario. Senza dire della nascita della Repubblica, del processo a Luigi XVI, e di altri episodi politicamente non cruciali ma culturalmente rivelatori: a cominciare dal culto di Marat, Chalier e Lepelletier martyrs de la liberté, cui Challamel dedica un paio di pagine degne della penna di Albert Soboul [50].

31. Quanto al conflitto tra Gironda e Montagna, lo storico si contenta di emettere un giudizio lapidario: «La Montagne seule a été logique; affreusement, mais véritablement» [51]. Impegnato a fugare qualunque sospetto di partigianeria, Challamel rinuncia a dilungarsi sopra la crisi federalista, così come spende poche parole per le crisi hebertista e dantonista. Piuttosto che il Terrore politico e giudiziario, gli preme di capire il Terrore culturale. Mettendo mano all'Almanach des rues de Paris dell'anno III, Challamel riconosce nei mutamenti della toponomastica parigina un segnale istruttivo dell'invadenza della Rivoluzione egualitaria. Né gli sfugge, su scala provinciale, l'ampiezza del fenomeno dei 'battesimi repubblicani' di questa o quella municipalità: Égalité- sur-Marne, Val-Libre, Mont-l'Unité, Franciade, Thermopyles, Rochers-de-la-Liberté, Brutus- Villiers [52]. «Il a bien fallu que la nation se sans-culottise, bon gré, mal gré» [53]; nella Francia dell'anno II, non si parla d'altro che di sanculottismo, non ci si fregia di altro titolo, non si rappresenta altro culto [54].

32. Challamel insiste sopra questo carattere pervasivo del Terrore culturale. Per lui, non si tratta soltanto di riprodurre il fac-simile di un certificat de civisme épuré, allo scopo di documentare visivamente la burocratizzazione del Terrore [55]. Né si tratta soltanto di confrontare i successivi gettoni d'entrata alla Convenzione nazionale, scoprendo come la tiepida allegoria riprodotta sulla carta del 1792 lasci spazio, nel 1793, a un'immagine altrimenti assertiva del potere di un représentant du peuple [56]. Secondo Challamel, basta aprire gli occhi sulla Francia dell'anno II per essere colpiti da un'impressione di rugiadosa uniformità, se non di pauroso conformismo. Basta guardare sopra le porte delle case, dove i buoni repubblicani fanno a gara nell'esibire cartelli del genere: ICI ON S'HONORE DU TITRE DE CITOYEN [57]. Basta guardare ai motti stampati sugli assegnati, basta prestare orecchio ai testi delle canzoni patriottiche, ai versi delle preghiere civiche, agli slogans gridati dagli attori sui palcoscenici dei teatri: tutto parla la langue de bois giacobina [58]. «La politique était le dieu du temps, dieu à double essence, ainsi que celui des Orientaux, dieu du bien et du mal» [59].

33. Meglio che i panni del vecchio moralista, comunque, si attagliano a Challamel quelli del giovane connoisseur. In effetti, egli si mostra particolarmente sensibile all'influenza della politica sul gusto dell'epoca rivoluzionaria. «Plus d'un tableau a été gratté et repeint dans certaines parties afin d'être mis à la mode du jour» [60]. Challamel concentra la propria attenzione sopra due incisioni (che riproduce), intitolate l'una Pèlerinage au Patron de la Liberté, l'altra Réception du décret de l'Être suprême dans les chaumières. Con l'occhio addestrato dall'esperienza di critico dei Salons, egli scopre come entrambe queste composizioni risalissero all'antico regime. La prima era la versione aggiornata di una notevole incisione prerivoluzionaria, il Pèlerinage à Saint-Nicolas: il santo era stato rimpiazzato con il patrono della libertà, senza scrupoli per il contrasto fra l'ambientazione gotica della scena originaria e l'aggiunta del berretto frigio e del fascio littorio [61]. Quanto alla seconda incisione, Challamel vi riconosce niente meno che la mano di Jean-Baptiste Greuze, piegata al servizio della retorica e del populismo repubblicani prima di conoscere un'estrema metamorfosi durante il periodo consolare [62].

34. Nei capitoli dedicati ai mesi forti del Terrore, Challamel ritaglia un ruolo da protagonista a Jacques- Louis David. Al David sodale di Marat, naturalmente, capace di nobilitare la figura dell'Ami du Peuple persino nella prosaica rappresentazione di un uomo pugnalato dentro la vasca da bagno [63]. Inoltre, al David 'costumista' della Repubblica, che progetta le uniformi delle diverse autorità costituite con la cura di chi crede ciecamente nel valore pedagogico dei simboli [64]. Ma soprattutto trova spazio il David coreografo per conto di Robespierre, segnatamente l'autore dell'immaginoso Plan relativo alla festa dell'Essere Supremo: un testo che Challamel si premura di citare parola per parola, poiché vi ravvede l'espressione più compiuta del progetto di restaurazione religiosa concepito dall'Incorruttibile nelle ultime settimane della sua vita [65]. Per il resto, la Francia dell'anno II presenta lo spettacolo stupefacente della Rivoluzione congelata. «La politesse et les relations d'homme à homme sont abolies en général»; specialmente istruttive le datazioni e le formule di saluto nelle lettere private, che attestano – se così si può dire – la paura di tutti contro tutti [66]. Finché i più impauriti deputati della Convenzione si associano tra loro, dando luogo alla singolare miscela di sincerità e di ipocrisia, di onestà e di corruzione, che esplode a Parigi il 9 termidoro [67].

35. Come si vede, l'Histoire-Musée de la République presenta poco in comune con le storie della Rivoluzione francese confezionate durante la prima metà del secolo XIX. Piuttosto che citazioni tratte dai discorsi d'assemblea, dagli articoli di giornale, dai volumi di Mémoires [68], si affollano nelle pagine di Challamel gli stralci di motti letti sulle banconote, di versi estrapolati dalle canzoni, di istruzioni coreografiche ricavate dai programmi delle feste. E ancora, si affollano a centinaia nelle sue pagine le riproduzioni di allegorie, di caricature, di emblemi, di stendardi trascelti per illustrare la cultura politica della Rivoluzione. È tale la ricchezza di spunti dell'Histoire-Musée de la République che la mia rilettura potrebbe facilmente continuare, muovendo dalla stagione del Termidoro a quelle del Direttorio, del Consolato e dell'Impero. Ma preferisco far punto, nella convinzione di avere argomentato abbastanza l'opportunità di 'riscoprire' l'opera prima di Augustin Challamel.

V.

36. Una ragione ulteriore per prestare interesse all'Histoire-Musée de la République risiede nel contesto ideologico di pubblicazione dell'opera. Gli anni quaranta dell'Ottocento non costituscono un momento qualsiasi nell'evoluzione della tradizione rivoluzionaria in Francia. Dopo il fallimento delle trame cospirative intrecciate durante gli anni trenta, il nuovo decennio segna un cambiamento di rotta nei metodi della propaganda repubblicana. Da un lato, si assiste negli anni quaranta, almeno a Parigi, a una nuova forma di insegnamento pubblico della Rivoluzione francese: quella che viene dai corsi, assai frequentati, che Edgar Quinet e Jules Michelet impartiscono al Collège de France [69]. Dall'altro lato, prendono piede sul mercato editoriale gli almanacchi di contenuto politico: un genere di pubblicistica che già i rivoluzionari del Settecento avevano ritenuto particolarmente adatto per sostenere la diffusione di massa degli ideali democratici [70]. Ancora, fiorisce durante il decennio una vasta gamma di messaggi politici non scritti – veicolati da canzoni, da stampe, da statue – che rimandano direttamente ai valori e agli uomini alla Prima Repubblica [71]. Infine, almeno a giudicare dalla fortuna del romanzo realista, il passaggio dagli anni trenta agli anni quaranta dell'Ottocento segna una svolta nel rapporto psicologico dei francesi con l'oggettistica risalente all'antico regime e alla Rivoluzione [72]. Il contesto del secondo decennio di regno di Luigi Filippo contribuisce dunque a spiegare il successo commerciale di un testo quale l'Histoire-Musée de la République [73].

37. La cronologia di redazione e di pubblicazione dell'opera di Challamel appare significativa anche in quanto il biennio 1840-42 si situa immediatamente a ridosso di una data che poco riguarda, in apparenza, la storia della tradizione rivoluzionaria, e molto più direttamente riguarda la preistoria della fotografia: penso al 1839, l'anno di brevetto del dagherrotipo. Beninteso, le riproduzioni contenute nell'Histoire- Musée de la République sono litografie, non dagherrotipi. Per giunta, la qualità di tali riproduzioni lascia spesso a desiderare. L'opera di Challamel è comunque fra le prime che consenta di studiare l'impatto esercitato sopra la tradizione rivoluzionaria dall'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica.

38. Nonostante la brillantezza degli studi pioneristici di Walter Benjamin [74], questo problema non ha ritenuto se non di recente l'attenzione degli storici della cultura ottocentesca [75]. Io mi accontenterò qui di ipotizzare che le nuove tecniche di riproduzione iconografica abbiano avuto una duplice influenza nella vicenda dell'Histoire-Musée de la République. Sul versante della genesi dell'opera, esse hanno probabilmente contribuito a rafforzare, nella mente di uno spirito artisticamente vigile qual era quello di Challamel, la convinzione nell'autorità in qualche modo oggettiva delle immagini stesse. Hanno quindi contribuito a spingere il critico dei Salons nella direzione di una storiografia fortemente dipendente dalle fonti figurative. Ma quanto al versante dell'impatto dell'opera sul pubblico, le nuove tecniche di riproduzione hanno forse privato l'iconografia rivoluzionaria della loro aura più propria (riprendo qui il gergo di Benjamin). La riproduzione seriale ha forse finito col banalizzare l'insieme dei reperti i quali – nella magica atmosfera di casa Maurin – avevano ispirato la venerazione di Challamel. Insomma, la dimensione stessa del Musée potrebbe avere conferito all'Histoire uno stigma di inautenticità.

39. Lasciamo il terreno delle ipotesi per quello delle certezze. Quantunque apprezzata dal pubblico anonimo delle librerie, l'Histoire-Musée de la République ha conosciuto un ingrato destino presso alcuni lettori più illustri, variamente legati alla tradizione rivoluzionaria. L'opera di Challamel ha suscitato addirittura il disgusto del più insigne tra i lettori di Francia: il re Luigi Filippo, nella vicenda biografica del quale la storia della Rivoluzione era iscritta con caratteri di sangue [76]. È successo che un ex professore di Challamel al liceo Henri-IV, tale Antoine de Latour, si sia fatto carico di presentare al monarca i volumi riccamente illustrati dell'Histoire- Musée de la République, con la speranza che Luigi Filippo ne ordinasse l'acquisto per le biblioteche dei castelli reali. Ma il caso ha voluto che il re abbia aperto il primo tomo dell'opera precisamente alla pagina nella quale era riprodotta una caricatura di suo padre, il duca d'Orléans, raffigurato come protagonista delle giornate popolari del 5 e 6 ottobre 1789 (circostanza tanto più sfortunata in quanto, da re dei Francesi, Luigi Filippo aveva a propria volta sofferto gli attacchi della satira, sino al punto di far vietare per legge la pubblicazione di caricature a sfondo politico [77]). Furibondo, il monarca ha restituito a Latour i volumi di Challamel, borbottando: «Reprenez. En vérité, vous n'y pensez pas. Me recommander un pareil ouvrage!» [78].

40. Pochi anni più tardi, l'avvento di un nuovo regime – repubblicano, questo – non ha consentito all'opera di Challamel di incontrare migliore fortuna a livello di sottoscrizioni statali. Nel gennaio del 1848, regnante ancora Luigi Filippo, il responsabile del dipartimento di scienze e lettere del ministero della Pubblica Istruzione ha ordinato all'editore l'acquisto di venticinque esemplari dell'Histoire- Musée de la République. Appena un mese più tardi, però, il neo- ministro della Seconda Repubblica, Hippolyte Carnot, ha pensato bene di rispedire i venticinque esemplari al mittente. «Trouvait-on que le livre était réactionnaire, ou manquait-on d'argent pour l'acquérir?»: scrivendo i propri ricordi, ormai in Terza Repubblica, Challamel sospenderà il proprio giudizio sulla decisione del ministro della Seconda [79]. Tale minuto episodio editoriale va comunque registrato almeno perché coinvolge, nella persona di Carnot, un altro figlio illustre di convenzionale; quello stesso Hippolyte il quale, dopo aver dato voce alla memoria rivoluzionaria pubblicando – fra anni trenta e anni quaranta – i Mémoires di Grégoire e di Barère, aveva inaugurato la propria attività di ministro della Pubblica Istruzione introducendo nei programmi dei licei lo studio della storia della Rivoluzione francese [80].

41 Dopo quanto si è detto intorno alla visione dell'anno II che emergeva dall'Histoire- Musée de la République, non è da escludere che un repubblicano intransigente quale Hippolyte Carnot abbia effettivamente trovato reazionario lo spirito della narrazione di Challamel. Ma occorre guardarsi da semplificazioni eccessive, poiché altri indizi suggeriscono impressioni contrastanti. Per esempio, sappiamo di certo che Challamel ha lavorato alla propria storia della Rivoluzione mantenendosi in stretto contatto con un personaggio non sospetto di vedute reazionarie: Alphonse Esquiros, fresco di prigione – nel 1840 – per la pubblicazione dell'Évangile du peuple. In quello stesso giro di mesi, è stato grazie a Challamel che Esquiros ha potuto consultare alcuni materiali della collezione Maurin di cui il futuro autore dell'Histoire des Montagnards [81] ha tenuto conto nella stesura del suo romanzo di soggetto rivoluzionario, Charlotte Corday [82].

42. La collaborazione tra due personaggi all'apparenza così diversi come il critico artistico dei Salons e l'adepto della 'religione populista' [83] rimanda alla particolare natura della storiografia ottocentesca sulla Rivoluzione francese. Non si dice nulla di nuovo quando si ricorda come durante la prima metà dell'Ottocento, la storia della Rivoluzione sia stata scritta da giornalisti intraprendenti, da poeti assetati di gloria, da avventurieri della bohème littéraire, da rancorosi pensionati della politica, da ardenti esuli repubblicani più spesso che da seriosi professori universitari [84]. Complici l'offerta sovrabbondante di memorie orali, la fortuna editoriale dei Mémoires a stampa, le difficoltà di accesso agli archivi, lo stesso talento letterario di alcuni storici romantici, la storiografia rivoluzionaria ha conosciuto una lunga età prescientifica. Fino agli esordi della Terza Repubblica, la memoria, la tradizione e la storia della Rivoluzione si sono intrecciate inestricabilmente; arduo si è rivelato distinguere le identità degli eredi diretti da quelle degli esecutori testamentari [85]. Deriva anche da questa confusione di generi e di ruoli la difficoltà di organizzare, in sede di ripensamento novecentesco, un discorso critico sopra l'insieme della storiografia sulla Rivoluzione nel XIX secolo [86].

43. Fra gli storici ottocenteschi della Rivoluzione francese, Jules Michelet e Hippolyte Taine sono stati i frequentatori più assidui del Cabinet des Estampes della Bibliothèque Nationale; entrambi hanno fatto del ricorso alle fonti figurative, in generale, un ingrediente privilegiato della loro ricetta storiografica [87]. Si pone allora il problema: perché, a distanza di circa un quarto di secolo l'uno dall'altro, Michelet e Taine hanno preferito confinare l'analisi delle stampe, dei disegni, dei quadri di epoca rivoluzionaria ai margini della loro argomentazione di storici della Rivoluzione? Io mi limito qui a sollevare la questione. D'altronde, è appena il caso di dire che il modesto impiego di fonti iconografiche nell'Histoire de la Révolution française nulla toglie alla profondità dell'interpretazione micheletiana della Rivoluzione [88]. Quanto alla titanica impresa storiografica di Taine, i limiti maggiori delle Origines de la France contemporaine non vanno sicuramente ricercati nella carenza del ricorso a fonti figurative [89].

44. Resta il fatto che alcuni maestri ottocenteschi di storia della Rivoluzione hanno guardato all'iconografia del decennio 1789-1799 con vista meno acuta che alcuni interpreti minori della storiografia rivoluzionaria. Nelle caricature, nelle monete, nelle maioliche della Rivoluzione francese, storici di razza come Michelet e Taine hanno letto meno cose non soltanto di raffinati connoisseurs quali i Goncourt o Champfleury, ma anche di un oscuro littérateur quale il nostro Challamel.

VI.

45. Agli sgoccioli del Settecento, Louis-Sébastien Mercier si era detto scettico in ordine alla possibilità che venisse scritta, durante i decenni a venire, una storia attendibile della Rivoluzione francese. Stando all'autore del Nouveau Paris (un ex deputato della Convenzione), gli eventi rivoluzionari sarebbero stati inevitabilmente riguardati nella personale prospettiva di chi li aveva vissuti sulla propria pelle: «Tout est optique; [...] tout est faux, menteur, exagéré hors de la ligne visuelle». Così, sarebbero maturate nel futuro prossimo altrettante interpretazioni del passato prossimo quanti erano i sopravvissuti del dramma rivoluzionario. Ad ogni storia avrebbe corrisposto una verità visiva, ma ogni verità sarebbe stata inficiata da un errore di parallasse. Per almeno mezzo secolo, anche l'osservatore più perspicace si sarebbe trovato perduto nel «labyrinthe» della Rivoluzione [90].

46. A dispetto dello scetticismo di Mercier, durante la prima metà dell'Ottocento non sono mancati gli gens de lettres pronti ad avventurarsi, con maggiore o minore senso d'orientamento e lucidità di sguardo, nel labirinto della storia rivoluzionaria; e Challamel è stato uno fra questi. Il nome di Mercier e la sua produzione di epoca direttoriale meritano tuttavia di essere evocati nella misura in cui proprio il Nouveau Paris costituiva, a suo modo, un saggio di storiografia immediata della Rivoluzione. Tale saggio apparteneva a un genere di storia peculiare, l'unico che fosse parso allora a Mercier come praticabile e sensato: non già il genere di una storia falsamente razionalizzata attraverso la ricostruzione del continuum cronologico della Rivoluzione, né quello di una storia surrettiziamente piegata alle ragioni di parte, bensì il genere di una storia sospesa fra la tentazione del bozzetto e l'ambizione della tipologia. Il risultato? La particolarissima miscela, nel Nouveau Paris, di una curiosità onnivora e gratuita, da flâneur ottocentesco avanti lettera, e di una volontà critica e sistematrice, attestata nella laboriosa articolazione dei titoli di paragrafo.

47. Per Mercier, la pratica di una storia 'tipologica' della Rivoluzione francese escludeva l'esercizio di una storia 'narratologica' della Rivoluzione stessa. Dopo mezzo secolo o quasi, la sfida di Augustin Challamel consiste invece nel ricusare ogni distinzione troppo netta fra i due generi storiografici. Entro il breve volgere di tre anni – dal 1840 al 1843 – egli si cimenta su entrambi i terreni, il narratologico e il tipologico. Prima, Challamel si addentra nel labirinto rivoluzionario attraverso l'arte della narrazione [91], fino a costruire sopra l'analisi di caricature, stampe, medaglie, vessilli, monete, autografi l'ampio racconto contenuto nelle quasi ottocento pagine dell'Histoire-Musée de la République. Poi, Challamel tenta di uscire dal labirinto della Rivoluzione attraverso l'arte della sistematica; con l'aiuto di un collega nella critica storico-artistica, Wilhelm Ténint [92], egli prepara e dà alle stampe una sorta di tipologia del popolo di Francia nel decennio rivoluzionario, cui dà il titolo: Les Français sous la Révolution [93].

48. Questo secondo contributo di Challamel [94] alla storiografia rivoluzionaria risulta oggi altrettanto dimenticato che il suo primo. A me sembra però che anche Les Français sous la Révolution sia opera meritevole di essere sottratta all'oblio, seppure per ragioni differenti da quelle che fanno dell'Histoire-Musée de la République una tappa importante nella vicenda del rapporto fra l'arte e l'interpretazione del passato. Il libro che Challamel firma con Ténint mi pare notevole per almeno due motivi. Da un lato, perché vi è qualcosa di precocemente positivistico nell'idea di poter ridurre la varia e multiforme umanità rivoluzionaria a una griglia di types (l'espressione ricorre nel libro innumerevoli volte). Dall'altro lato, perché l'obiettivo ultimo di Challamel sembra essere quello – sorprendentemente moderno – di scrivere una storia della mentalità rivoluzionaria.

49. Per la sua natura di opera ibrida, a mezza strada fra un dizionario tematico e un repertorio aneddotico della Rivoluzione francese, il secondo contributo storiografico di Challamel si presta malamente a un'analisi critica [95]. Io credo che il modo migliore per rendere conto della varietà di spunti presenti nel libro consista nel ritagliare da esso un florilegio di citazioni. Florilegio ragionato, naturalmente, tale da suggerire come il nucleo degli interessi di Challamel ne Les Français sous la Révolution sia riconducibile a quello dell'Histoire-Musée de la République: la storia dell''opinione' nel decennio rivoluzionario. Non esattamente la storia dell''opinione pubblica' o della 'sfera pubblica', divenuta oggi tanto di moda sulla scia degli studi di Jürgen Habermas. Piuttosto, la storia delle notizie e delle false notizie, dei pregiudizi e dei luoghi comuni, delle rappresentazioni collettive di sé e degli altri diffuse nella Francia della Rivoluzione; la storia, insomma, delle immaginazioni e delle reputazioni rivoluzionarie.

50. Vale la pena di prendere le mosse dalle pagine che Challamel dedica ai tipi dello strillone, dell'attacchino e del cantimbanco, i quali formano – nella sua tipologia – una stessa famiglia: «Ce sont les hommes-annonces», attraverso la mediazione dei quali l'informazione politica sui fatti della Rivoluzione raggiunge le masse, coinvolge il popolo semianalfabeta che vive la vita della strada. I giornali? Nella Francia rivoluzionaria, essere al corrente delle ultime notizie conta più che aver letto mille articoli. Quanto alle affiches, una volta incollate al muro non manca mai un cittadino che abbia la pazienza per leggerne il contenuto ad alta voce, a profitto dei passanti più distratti o dei meno alfabetizzati. Infine, le strofe intonate dai cantastorie sui banchi delle piazze abituano la folla ad orecchiare nuovi valori e nuovi incubi, a riconoscere nuovi eroi e nuovi nemici: «Le gouvernement voyait là un moyen politique à ne pas dédaigner, et les faiseurs de vers, même jouissant de quelque renommée, composaient des chansons de faubourgs» [96]. Challamel non ha dubbi; nella Francia della Rivoluzione, verba manent [97].

51. Requisito specialmente prezioso per una carriera rivoluzionaria, l'entusiasmo. Niente di più facile che distinguere il tipo del patriota entusiasta: è lui ad avere la coccarda più vistosa; è lui a sfoggiare abiti tricolori; è lui ad aprire le sottoscrizioni per i poveri; è lui il primo ad arrivare in piazza nei giorni di festa civica, l'ultimo a riporre le armi dopo le notti di ronda della Guardia Nazionale. «Il se pavane au regard de tous. Il dit à tous: Imitez-moi» [98]. Per Challamel, la Rivoluzione francese è anche questo: un trionfo dell'amor proprio, se non una fiera delle vanità. La Rivoluzione è l'esibizione del patriottismo elevata a stile di vita, la tentazione della surenchère trasformata in canone di comportamento. Con la Rivoluzione, la felicità è a portata di mano: l'individuo più mediocre si sente insostituibile, il più codardo si scopre invincibile. Per averne la prova, basta penetrare – a Parigi o in provincia – dentro la sala di riunione di una 'società popolare'; basta vedere all'opera i clubistes:

Ils se croyaient les apôtres suprêmes de la liberté. Conviction, enthousiasme, abnégation, ne leur manquaient pas; mais l'intolérance dominait leur caractère, et c'est ce qui les rendait effroyables aux yeux de bien des gens. Quelques-uns, pourtant doux et affectueux en famille, ou bien timides et concentrés, se métamorphosaient en franchissant le seuil du club. [...] Comme si l'air qu'ils respiraient alors fût d'autre nature que celui de leur maison, leurs poumons se dilataient avec plus de facilité. Sur leur figure s'épanouissait un gros sourire, dont leurs gestes vifs et saccadés achevaient de déterminer la cause: ils étaient plus heureux là que partout ailleurs [99].

52. Il tradimento della monarchia, lo scoppio della guerra contro i monarchi d'Europa, la cancrena della Vandea fanno alzare la soglia oltre la quale si mantiene salda una reputazione rivoluzionaria. Il buon repubblicano non può accontentarsi di una tessera di clubiste; per riuscire convincente agli occhi altrui, e prima ancora ai propri, deve far vita di sezione fino a mezzanotte passata, accontentandosi di un panino tra un comitato rivoluzionario e un'assemblea generale: la Rivoluzione diventa un mestiere. Inutile dire che il migliore repubblicano possibile è il sanculotto. Poco gli interessano una bella uniforme, e un fucile: incutono più rispetto un bel paio di baffoni, e una picca. «Ce n'est pas par misère seulement qu'il s'habille aussi négligemment: c'est par système, et pour montrer combien il aime l'égalité, pour prouver son mépris du luxe que les riches affectent. Il relève le prolétaire à ses propres yeux». Un brave sans-culotte non si perde una sommossa, né una festa, né un'esecuzione capitale. Potesse chiedere qualcosa all'Essere Supremo, gli domanderebbe il dono dell'ubiquità: «Il ne rougit jamais de se trouver dans les lieux misérables et mal famés, car sa présence seule semble les purifier. [...] La vanité est son faible; là où les sans-culottes n'ont pas paru, la sanction est imparfaite» [100].

53. Chi voglia capire davvero i rivoluzionari francesi del Settecento – ha scritto Richard Cobb – non può andare di fretta: deve frequentarli per decenni negli archivi di Parigi e dei dipartimenti [101]. Ove si tenga in mente il monito del grande storico gallese, appare tanto più stupefacente la familiarità che il giovane Challamel, a soli venticinque anni, mostrava di avere con i rivoluzionari dell'anno II. Vi era indubbiamente qualcosa di superficiale in una confidenza che prescindeva dall'archivio, così come vi era qualcosa di fastidioso nella sufficienza con la quale Challamel riduceva qualunque situazione rivoluzionaria alla dimensione del bozzetto, qualunque tipo allo stereotipo. Ciò non toglie che più d'una pagina de Les Français sous la Révolution si legga a tutt'oggi con meravigliata attenzione. Così la seguente, dedicata ancora ai sanculotti, alla misteriosa forma di autorità che fa la loro forza sullo scacchiere politico della capitale:

Une certaine auréole de gloire – nous disons cela sérieusement – environne cette classe d'hommes. On les a dispensés d'être polis, et ils font, pour ainsi dire, exception dans l'État. Ce sont des tyrans domestiques, mais, au club, ils sont les très-humbles esclaves du bonheur de la patrie. Les natures faibles se demandent, en les voyant, s'il faut les chérir ou en avoir peur; mais, dans tous les cas, soit par peur, soit par sympathie, chacun perd la volonté en leur présence. Il n'est pas jusqu'au gouvernement qui n'y regarde à deux fois avant de les braver [102].

54. La stella rivoluzionaria dei sanculotti è una stella collettiva: brilla per l'intera «classe d'hommes» fino al 9 termidoro dell'anno II, poi si eclissa per tutta la sanculotteria. Diversa è la situazione di altri tipi rivoluzionari, per i quali la nomea del singolo individuo conta più che l'identità di gruppo. Specialmente caratteristica, al riguardo, la vicenda dei personaggi che Challamel qualifica come gli héros d'une journée. Presa della Bastiglia, marcia su Versailles, festa della Federazione, notte di Varennes, assalto delle Tuileries, 'giornata' del 10 agosto, insurrezione del 31 maggio e 2 giugno: nel suo ritmo vertiginoso, la Rivoluzione parigina ha creato eroi a profusione, ma la loro celebrità si è rivelata particolarmente effimera: «On oublie vite lorsqu'il faut se rappeler beaucoup de choses!». Né si tratta soltanto del respiro corto della memoria collettiva. I meneurs delle folle rivoluzionarie ritornano spesso nella polvere dopo avere scalato gli altari della fama, perché la cultura politica della Rivoluzione annovera fra i propri ingredienti, con il principio dell'investitura popolare, il postulato del sospetto repubblicano: «La popularité était une royauté élective et temporaire, derrière laquelle les républicains croyaient toujours apercevoir l'ombre de la tyrannie» [103].

55. Sorte ingrata quella del meneur di una 'giornata' parigina, cui la Rivoluzione sembra tributare gli onori del trionfo soltanto per addebitare più gravosi gli oneri della popolarità. Entro gli angusti orizzonti dell'arena politica locale, la sorte del rivoluzionario di provincia può riuscire – del resto – almeno altrettanto crudele. In una pagina splendida, Challamel descrive la nascita di una reputazione rivoluzionaria au village, e il rapido corrodersi di tale reputazione per opera di un principio attivo della Rivoluzione: lo spirito d'emulazione. La scena è quella della piazza del mercato di un borgo qualunque, ai primi tempi della Repubblica; l'intero paese, uomini donne vecchi bambini, sta festeggiando la piantatura di un albero della libertà. Allegre le ronde intorno all'albero, abbondanti le libagioni durante il successivo banchetto civico. Da un brindisi all'altro, le attenzioni degli astanti si concentrano intorno a un membro del consiglio municipale, colui che ha preso la meritoria iniziativa di offrire il vino della propria cantina e si è persino impegnato a destinare una bella cifra all'educazione repubblicana di dieci enfants de la patrie. Evviva il cittadino tal dei tali! È nato un eroe, venerato da tutti nelle settimane seguenti la festa. Ma la gloria rivoluzionaria si rivela bene tra i più fragili: «Les amis et les admirateurs du héros aspiraient à devenir héros eux- mêmes. Ils suivaient son exemple et faisaient plus encore». Così, l'eroe del mese prima, o dell'anno prima, viene impietosamente scavalcato dagli eroi dell'ultima ora:

Son vin était bu et oublié; l'arbre de la liberté peut-être mort et arraché; quant à sa fondation pour les enfants, elle était au nombre de ces bienfaits que le temps fait considérer comme choses dues. Alors le pauvre homme se dégoûtait; il redevenait bon père, époux fidèle et ami dévoué, mais tiède politique. Peu à peu, ceux qui à son égard avaient été successivement enthousiastes, puis indifférents, voulaient lui retirer l'écharpe municipale. Il avait des ennemis, et se voyait un jour accuser de modérantisme, de fédéralisme, d'indulgentisme, ou de tout autre incivisme semblable. Son nom, écrit sur des procès-verbaux, ne pouvait être oublié; et l'ancien héros s'estimait heureux de mourir dans son lit. Son successeur arrivait de même à une déchéance, et ainsi de suite jusqu'à ce qu'un héros dans la force du terme, Napoléon, eût défendu ces petites comédies à dénouements tragiques parfois [104].

56. Io non credo che molti scrittori dell'età di Luigi Filippo abbiano saputo descrivere con altrettanta verità di accenti certe ricadute provinciali della Rivoluzione francese. Uno sì, certamente; ma un autentico fuoriclasse, che sarebbe insensato paragonare con Challamel: Honoré de Balzac.

[*]Sergio Luzzatto (Genova, 1963) è Ricercatore presso il Dipartimento di Storia dell'Università di Genova. È autore di: Il Terrore ricordato (Genova, 1988), La «Marsigliese» stonata (Bari, 1992) e di L'autunno della Rivoluzione. Lotta e cultura politica nella Francia del Termidoro (Torino, 1994) [B]

[1] R. Rolland, Le cloître de la rue d'Ulm. Journal à l'École Normale (Paris, 1952), 293-295 (in data 21 aprile 1889).[B]

[2] Vedi P. Ory, Une nation pour mémoire. 1889, 1939, 1989: trois jubilés révolutionnaires (Paris, 1992), 84 sgg. [B]

[3] A. Challamel, D. Lacroix, Révolution française. Album du Centenaire, 1789, ouvrage illustré de 436 gravures sur bois, d'après les dessins de E. Bayard, H. Clerget, Yan'Dargent, Darjou, Férat, Ferdinandus, Lix Philippoteaux, Raffet, H. Rousseau, Thorigny, Valnay (Paris, 1889), 6. [B]

[4] Vedi Notice sur l'Exposition historique de la Révolution française (Paris, 1889); Célébration historique du Centenaire de 1789. Catalogue des objets formant l'Exposition historique de la Révolution française, Salle des États aux Tuileries, Place du Carrousel (Paris, 1889). [B]

[5] Notice sur l'Exposition, pp. 19 e 22. [B]

[6] E. e J. de Goncourt, Journal. Mémoires de la vie littéraire (Paris, 1989), III, 1887-1896, 288 (in data 30 giugno 1889). [B]

[7] Appartengono all'ultimo periodo di attività di Challamel, fra l'altro, le opere: E. Boursin, A. Challamel, Dictionnaire de la Révolution française. Institutions, hommes et faits (Paris, 1893); e A. Challamel, Les clubs contre-révolutionnaires. Cercles, comités, sociétés, salons, réunions, cafés, restaurants et libraries (Paris, 1905). [B]

[8] E. e J. de Goncourt, Histoire de la société française pendant la Révolution (Paris, 1864), V. Alla ristampa di questo volume si accompagnava quella dell'Histoire de la société française pendant le Directoire (Paris, 1864), la cui prima edizione risaliva al 1855. [B]

[9] Goncourt, Histoire de la société française pendant la Révolution, V-VI. [B]

[10] Vedi E. e J. de Goncourt, Portraits intimes du XVIIIe siècle (Paris, 1857-58); L'art du XVIIIe siècle (Paris, 1859-1865); Les Maîtresses de Louis XV (Paris, 1860); La femme au XVIIIe siècle (Paris, 1862). [B]

[11] Vedi D. Silverman, Art Nouveau in Fin-de-siècle France. Politics, Psychology, and Style (Berkeley, 1989), 17 sgg. [B]

[12] Goncourt, Histoire de la société française pendant la Révolution, 253, 262. [B]

[13] Almeno fin quando gli eccessi della Comune parigina del 1871 non intervengono a temperarne gli entusiasmi: così nella seconda edizione (la prima risalendo al 1864) di Champfleury, Histoire de la caricature sous la République, l'Empire et la Restauration (Paris, 1877), 137, 211. [B]

[14] Ibidem, 81. [B]

[15] Una passione tanto forte da spingere Champfleury a rifiutare recisamente le avances del barone Haussmann, il giorno in cui il prefetto di Parigi gli offrì un'ingente somma di denaro per rilevare la collezione di maioliche rivoluzionarie: vedi G. Scaraffia, Torri d'avorio. Interni di scrittori francesi del XIX secolo (Palermo, 1994), 174. [B]

[16] Champfleury, Histoire des faïences patriotiques sous la Révolution (Paris, 1875) [terza ediz.; prima ediz., 1867], XII. [B]

[17] Ibidem, 50. [B]

[18] F. Haskell, History and its Images. Art and the Interpretation of the Past (New Haven, 1993), 371 sgg. [B]

[19] Champfleury, Histoire des faïences patriotiques, 30. [B]

[20] Haskell, History and its Images, 373. [B]

[21] In quanto attiene alla storia delle arti rivoluzionarie intesa nell'accezione più stretta, uno speciale marchio di consapevolezza metodologica e di autorevolezza critica va riconosciuto – con il conforto del giudizio di Champfleury stesso (Histoire des faïences patriotiques, 30-53) – al gran libro postumo di Jules Renouvier, Histoire de l'art pendant la Révolution, considérée principalement dans les estampes (Paris, 1863). [B]

[22] A. Challamel, Souvenirs d'un hugolâtre. La génération de 1830 (Paris, 1885), 11. [B]

[23] J. Michelet, Histoire de la Révolution française [1847-53] (Paris, 1952), II, 538n-539n. [B]

[24] Challamel, Souvenirs d'un hugolâtre, 148. [B]

[25] Vedi P. Caron, Manuel pratique pour l'étude de la Révolution française (Paris, 1947), 178. [B]

[26] Vedi M. Hennin, Histoire numismatique de la Révolution française, ou Description raisonnée des médailles, monnaies, et autres monuments numismatiques relatifs aux affaires de la France, depuis l'ouverture des États généraux jusqu'à l'établissement du gouvernement consulaire (Paris, 1826, 2 voll.). [B]

[27] A. Challamel, Histoire-Musée de la République depuis l'Assemblée des Notables jusqu'à l'Empire, avec les estampes, costumes, médailles, caricatures, portraits historiés et autographes les plus remarquables du temps [da ora in poi: HM], I, V. [B]

[28] HM, I, VI. [B]

[29] «Notre but n'est pas, en faisant cet ouvrage, de ravaler la France à ses propres yeux, par le récit des infamies de quelques hommes, mais plutôt de lui montrer simultanément le bien et le mal de son passé. Nous ne faisons ni une diatribe, ni une apologie; nous présentons au lecteur, un miroir à deux facettes» (HM, I, 265). [B]

[30] HM, I, V. [B]

[31] HM, I, 21. [B]

[32] HM, I, 10. [B]

[33] HM, I, 19. [B]

[34] HM, I, 28. [B]

[35] HM, I, 29. [B]

[36] HM, I, 35-36. [B]

[37] HM, I, 29. [B]

[38] HM, I, 66. [B]

[39] HM, I, 79. [B]

[40] HM, I, 88. [B]

[41] Sulla bandiera dei calzolai, Challamel legge: Le dernier soupir des aristocrates; sulla bandiera dei macellai, riconosce un coltello con la scritta: Tremblez, aristocrates, voici les garçons Bouchers (HM, I, 110). [B]

[42] HM, I, 145. [B]

[43] Vedi HM, I, 184. [B]

[44] Vedi HM, I, 188. [B]

[45] Vedi HM, I, 149-153. [B]

[46] È sorprendente che la più acuta studiosa moderna della questione, Mona Ozouf, abbia rinunciato a considerare Challamel nella propria rassegna della storiografia ottocentesca sulle feste rivoluzionarie: vedi M. Ozouf, La fête révolutionnaire, 1789-1799 (Paris, 1976), 21 sgg. [B]

[47] HM, I, 154. [B]

[48] HM, I, 180 sgg. [B]

[49] HM, I, 188. [B]

[50] Vedi HM, I, 324 sgg.; e vedi A. Soboul, «Sentiments religieux et cultes populaires pendant la Révolution: saints, patriotes et martyrs de la liberté«, Annales historiques de la Révolution française, 1957, pp. 193-213. [B]

[51] HM, I, 344. [B]

[52] HM, I, 255-257. [B]

[53] HM, I, 353. [B]

[54] HM, I, 254. [B]

[55] HM, I, 308. [B]

[56] HM, I, 266, 309. [B]

[57] HM, I, 361. [B]

[58] HM, I, 358-360. [B]

[59] HM, I, 254. [B]

[60] HM, I, 362. [B]

[61] HM, I, 362. [B]

[62] HM, I, 372. [B]

[63] HM, I, 324. [B]

[64] HM, II, 3. [B]

[65] HM, I, 372-375. [B]

[66] «Les lettres des hommes de l'époque montrent combien ils ont peur de ne pas paraître assez patriotes. Nous avons sous les yeux un billet de Lacépède au citoyen Chabroud. Le ci-devant noble signe: dit Lacépède» (HM, I, 363). [B]

[67] HM, II, 25 sgg. [B]

[68] Citazioni che non mancano, peraltro, nell'opera di Challamel: fra i periodici più citati, il Journal de Paris, il Cabinet des modes, il Moniteur universel, la Feuille du marchand, il Courrier de Paris, le Révolutions de Paris, il Courrier de Paris et de Versailles; fra i Mémoires, quelli di Léonard parrucchiere di Maria Antonietta, di Fleury, di Bailly, di Lafayette, di Dumouriez, di Ferrières, di Barbaroux; fra le opere a carattere storiografico, rimandi ricorrenti all'Essai sur la Révolution di Beaulieu, all'Histoire numismatique di Hennin, all'Histoire de la Révolution par deux amis de la liberté, alle Esquisses historiques di Dulaure, al Nouveau Paris di Mercier. [B]

[69] Vedi P. Gerbod, «L'enseignement supérieur découvre la Révolution française au XIXe siècle,« in La légende de la Révolution, 1770- 1914, eds. Ch. Croisille e J. Ehrard (Clermont-Ferrand, 1988), 597-604. [B]

[70] Vedi R. Gosselin, Les almanachs républicains. Traditions révolutionnaires et culture politique des masses populaires de Paris, 1840-1851 (Paris, 1993), 70 sgg. [B]

[71] Vedi M. Agulhon, «Politique, images et symboles dans la France post- révolutionnaire,« in Id., Histoire vagabonde, I, Ethnologie et politique dans la France contemporaine (Paris, 1988), 283-318. [B]

[72] Vedi F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti (Torino, 1993), 38, 69, 98, 309-311. [B]

[73] L'Histoire-Musée de la République è stata ristampata una prima volta durante la monarchia di Luglio, e ha conosciuto una terza edizione durante il Secondo Impero, nel 1857. [B]

[74] In particolare, W. Benjamin, «L'oeuvre d'art à l'époque de sa reproduction mécanisée« [1936], in Id., Écrits français (Paris, 1991), 140- 192. [B]

[75] Spunti vari in R. Debray, Vie et mort de l'image: une histoire du regard en occident (Paris, 1992); Id., L'État séducteur: les révolutions médiologiques du pouvoir (Paris, 1993); vedi anche M. Jay, Downcast Eyes. The Denigration of Vision in Twentieth- Century French Thought (Berkeley, 1993), 124 sgg. [B]

[76] È quasi inutile ricordare come suo padre, il duca Philippe d'Orléans (detto poi Philippe-Égalité), fosse stato convenzionale regicida prima di cadere a propria volta sotto la lama della ghigliottina. [B]

[77] Vedi J. Blum, In the Beginnings. The Advent of the Modern Age: Europe in the 1840s (New York, 1994), 215-16. [B]

[78] L'aneddoto in Challamel, Souvenirs, 149. [B]

[79] Ibidem, 150. [B]

[80] Vedi R. Pozzi, Scuola e società nel dibattito sull'istruzione pubblica in Francia (1830-1850) (Firenze, 1969), 149 sgg.; Id., Gli intellettuali e il potere. Aspetti della cultura francese dell'Ottocento (Bari, 1979), 174; S. Luzzatto, Il Terrore ricordato. Memoria e tradizione dell'esperienza rivoluzionaria (Genova, 1988), 129 sgg. [B]

[81] Sopra Esquiros storico dei montagnardi, vedi F. Brunel, «Images et approches des Montagnards. Une histoire de la Montagne est-elle possible?«, in L'image de la Révolution française, ed. M. Vovelle (Oxford, 1989), I, 504-11. Vedi inoltre l'informatissimo lavoro di C. Vetter, Il dispotismo della libertà. Dittatura e rivoluzione dall'Illuminismo al 1848 (Milano,1993), 151n, 216n (ma Vetter mostra di non sospettare che proprio le carte Maurin, e dunque la mediazione di Challamel, siano all'origine della lettura filo-maratista di Esquiros: la collezione Maurin comprendeva infatti – come attesta Caron, Manuel pratique, 147 – anche una ricca messe di carte Marat, pervenute al colonnello attraverso la mediazione della sorella dell'Ami du Peuple, Albertine). [B]

[82] Vedi E. L. Eisenstein, The Evolution of the Jacobin Tradition in France: The Survival and Revival of the Ethos of 1793 under the Bourbon and Orleanist Regimes, Ph. D. dissertation, Radcliffe College, 1952, 158. Vedi anche HM, I, 280n. [B]

[83] Vedi E. Berenson, Populist Religion and Left-Wing Politics in France, 1830-1852 (Princeton, 1984), 111 sgg. [B]

[84] Vedi F. Furet, «Transformations in the Historiography of the French Revolution«, in The French Revolution and the Birth of Modernity, ed. F. Fehér (Berkeley, 1990), 264-277; Id., «The Tyranny of Revolutionary Memory«, in Fictions of the French Revolution, ed. B. Fort (Evanston, 1991), 151-160; Id., «L'ancien régime et la Révolution«, in Les lieux de mémoire, III, Les France, t. 1, Conflits et partages, ed. P. Nora (Paris, 1993), 107-139; Id., «L'idée de la République et l'histoire de France au XIXe siècle«, Le siècle de l'avènement républicain, eds. F. Furet e M. Ozouf (Paris, 1993), 287- 312. [B]

[85] Vedi S. Luzzatto, «European Visions of the French Revolution«, in Revolution and the Meanings of Freedom in the Nineteenth Century, ed. I. Woloch (in corso di stampa: Stanford, 1996). [B]

[86] A me sembra che alcune recenti interpretazioni storiografiche – variamente debitrici della lezione di Hayden White – abbiano finito col pagare pedaggio, precisamente, alla sottovalutazione di una simile difficoltà: vedi L. Orr, Headless History. Nineteenth-Century French Historiography of the Revolution (Ithaca, 1990); A. Rigney, The Rhetoric of Historical Representation: Three Narrative Histories of the French Revolution (Cambridge, 1991). [B]

[87] Vedi J. Lethève, «Le public du Cabinet des Estampes au dix-neuvième siècle«, in Humanisme actif. Mélanges d'art et de littérature offerts à Jules Cain (Paris, 1968), II, 101-111. [B]

[88] Una fine contestualizzazione dell'opus magnum di Michelet entro la cornice della sua vicenda biografica è venuta recentemente da A. Mitzman, Michelet, Historian. Rebirth and Romanticism in 19th-Century France (New Haven, 1990). [B]

[89] Sopra Taine storico, l'opera di riferimento è ormai quella di R. Pozzi, Hippolyte Taine. Scienze umane e politica nell'Ottocento (Venezia, 1993). [B]

[90] L. S. Mercier, Le Nouveau Paris (Paris, 1798), VI, 160-162. [B]

[91] «Nous avons pensé qu'au milieu des débats qui s'agitent encore aujourd'hui parmi les historiens de la Révolution, il importait [...] de narrer simplement, lorsque tant d'autres ont plaidé pour ou contre la cause révolutionnaire» (HM, I, V: corsivo mio). [B]

[92] Del quale vedi W. Ténint, Album du salon de 1841 [-1842-1843]. Collection des principaux ouvrages exposés au Louvre (Paris, 1841-43), 3 voll. [B]

[93] A. Challamel, W. Ténint, Les Français sous la Révolution avec 40 scènes et types dessinés par H. Baron, gravés sur acier par L. Massard (Paris, 1843) [da ora in poi: FsR]. [B]

[94] La divisione del lavoro fra Challamel e Ténint è tale che difficilmente si può considerare il contributo di quest'ultimo alla medesima stregua di quello di Challamel. In effetti, Challamel tratta ben 29, Ténint soltanto 10 dei 39 types rivoluzionari identificati nell'opera; e le «voci« firmate da Challamel appaiono altrimenti perspicue che quelle firmate da Ténint. Tutte le citazioni che seguono sono ricavate, per l'appunto, da testi siglati A. C., cioè Augustin Challamel. [B]

[95] Ad uso del lettore curioso di conoscere il ventaglio completo dei «tipi« rivoluzionari analizzati nell'opera di Challamel e Ténint, e inoltre il dettaglio della divisione del lavoro fra i due autori, riporto qui di séguito l'indice del volume con le relative sigle: Les Déesses [A. C.]; Les Incroyables et les Merveilleuses [W. T.]; Le Chouan [W. T.]; Les Furies de guillotine et les Tricoteuses [A. C.]; Le Sauveur [A. C.]; Monsieur de Paris, ou l'exécuteur des hautes oeuvres [W. T.]; Le Clubiste [A. C.]; Le héros d'une journée ou l'homme populaire [A. C.]; Le Prêtre réfractaire et le Prêtre assermenté [A. C.]; Les Théophilanthropes [W. T.]; Le Soldat de la République [A. C.]; Le Soldat citoyen (garde national et fédéré) [A. C.]; Le Dénonciateur et le Suspect [A. C.]; L'Enfant [A. C.]; L'Alarmiste [A. C.]; Prisonniers [W. T.]; Les Prophétesses [A. C.]; Les Artistes [A. C.]; L'Accaparreur et l'Affameur [A. C.]; L'Enthousiaste [A. C.]; Les Victimes [A. C.]; Les Conspirateurs [A. C.]; Le Briseur d'images [A. C.]; Le Journaliste [A. C.]; Le Chanteur des rues et le Crieur public [A. C.]; L'Accusateur public et le Défenseur [A. C.]; Les Utopistes [W. T.]; L'Orateur [A. C.]; Les Grandes Dames [A. C.]; Les Émigrés [W. T.]; La Dame de la Halle [W. T.]; Les Chauffeurs [W. T.]; Le Représentant du peuple [A. C.]; Les Acteurs [A. C.]; L'Homme à pique ou le Sans-culotte [A. C.]; Les Réacteurs [W. T.]; L'Agent de l'Étranger [A. C.]; L'Officier municipal [A. C.]; L'Homme aux assignats et l'Homme au numéraire [A. C.]; Types divers [non siglato]. [B]

[96] FsR, 193 sgg. [B]

[97] Un'analisi approfondita del ruolo rivoluzionario dell'orateur in FsR, 218 sgg. [B]

[98] FsR, 158-159. [B]

[99] FsR, 52. [B]

[100] FsR, 274-278. [B]

[101] Vedi R. Cobb, Polizia e popolo. La protesta popolare in Francia (1780-1820) (Bologna, 1976; prima ediz. inglese, 1970), 104. [B]

[102] FsR, 278. [B]

[103] FsR, 57-59. [B]

[104] FsR, 60-63. [B]